Ero stufo di quella vita così ordinaria. Mi guardavo allo specchio e vedevo tutto ciò che avevo sempre disprezzato in gioventù: un uomo in giacca e cravatta con la spocchia di sentirsi arrivato. Avevo compiuto da poco 39 anni. Quanto pesava quel numero. Mi sembrava di averne il doppio, ma con la metà delle soddisfazioni. La routine, la quotidianità, il ripetersi costante di certe situazioni, dinamiche, azioni ed addirittura pensieri. Non ce la facevo più, ero saturo. Mia moglie mi chiedeva quale fosse il problema, lo percepiva. Sicuramente non l’è mai interessato in concreto. Era più la contingenza e le convenzioni da compagna che la portavano a porsi in quel modo. Facevo il vago; davo la colpa al lavoro, al mio capo, all’universo intero. La verità era un’altra. Vedevo lei nella penombra della luce proveniente dalla finestra della cucina e mi chiedevo perché. Perché non ero come gli altri mariti. Perché lei si era rassegnata ed accontentata di me. Più la guardavo e meno capivo come fossi riuscito a finire lì, in quella vita che non mi apparteneva. Sorridevo, spesso. Cercavo di pensare che in fondo era giusto così. Ma il peso che portavo dentro modificava la mia essenza. Un giorno, vagheggiando nella mia mente tra ipotesi, pensieri e probabili soluzioni trovai l’idea. Non so se fosse quella giusta, ma sicuramente la più conveniente in quel momento. E così lo feci.