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Autore: _Frame_    02/12/2018    3 recensioni
1 settembre 1939 – 2 settembre 1945
Tutta la Seconda Guerra Mondiale dal punto di vista di Hetalia.
Niente dittatori, capi di governo o ideologie politiche. I protagonisti sono le nazioni.
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[On going: dicembre 1941]
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[AVVISO all'interno!]
Genere: Drammatico, Guerra, Storico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Violenza
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Miele&Bicchiere'
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183. Nebbia rossa e Contare fino a dieci

 

 

Russia appiattì il sorriso con cui aveva accolto Germania. Lo sguardo si fece gelido, l’ombra crebbe sotto le ciocche di capelli che cadevano sulla fronte, gli occhi si caricarono di buio e di una densa tensione elettrica, come il cielo violaceo che li sovrastava. “Tempo fa ti avevo fatto una promessa, Germania.” Lui compì un passo in avanti, separandosi dal fianco di Ucraina, e calpestò un ricciolo di fumo soffiato dalla frenata improvvisa del panzer davanti a lui. “E intendo mantenerla.” Il vento gli vorticò attorno, gonfiò una spirale di polvere e fumo, e innalzò un’aura di minaccia fredda come un vento della Steppa. L’aria ruvida e ghiacciata incavernò la sua voce, “Ti porterò via tutto”, condensò le sue parole in una nuvoletta bianca. Dagli occhi di Russia volò uno sguardo che trafisse Germania come un proiettile, senza bisogno di usare il fucile che reggeva fra le mani.

Germania sostenne quello sguardo, aggrottò la fronte, e rispose con la freddezza dei suoi occhi di ghiaccio. Distese il braccio attorno a Italia e Romano, li tenne protetti dietro la sua schiena, ma non arretrò di un passo, non si sottrasse a quell’artiglio d’aria fredda ed elettrica.

Dalla cima del panzer, Prussia strinse le mani sull’orlo della torretta. Si guardò alle spalle, oltre il profilo di Spagna che gli era spremuto sul fianco, e squadrò le nazioni che li avevano rincorsi a piedi.

Bielorussia contrasse le dita sul suo fucile, aggrottò la fronte, torse la bocca in un mezzo ringhio che vibrò fra i denti, e chinò leggermente le spalle per sostenere il peso di Moldavia aggrappato allo zaino. Dietro di lei, Lituania compì un passo avanti, si separò da Estonia e Lettonia, e anche lui serrò la presa sulla sua arma. Lo sguardo alto, il corpo teso e immobile, e gli occhi taglienti di un mastino che punta la preda.

Nessuna via di fuga possibile.

Prussia fece schioccare la lingua in un moto di frustrazione. Merda. Siamo in pieno stallo. Spinse una spallata contro Spagna, flesse il capo di lato e indicò i quattro che li stavano bloccando da dietro.

Spagna annuì. Scivolò attorno al fianco di Prussia, schiacciò la schiena alla sua, raccolse il fucile che teneva fra le gambe dopo essere emerso dalla torretta del panzer, e anche lui puntò la mira verso il basso, alzando la guardia.

Prussia staccò una mano dall’orlo del portello, la accostò alla cinta e sfiorò la pistola nel fodero. Tastò l’aura elettrica e pungente emanata dall’arma, ma serrò il pugno senza sfilarla. La prima arma che sparerà scatenerà il finimondo, ma non dobbiamo essere noi quelli a cedere per primi. Dobbiamo mantenere il sangue freddo. Inspirò a fondo, raffreddò i bollori che pompavano dal cuore, che correvano nel sangue, e che gli battevano in testa. Mise a tacere quella vocina che gli ordinava di far grandinare piombo addosso al nemico, e posò lo sguardo su Germania. Una riga di sudore attraversò il viso contratto in un’espressione tesa e arrossata dalla fatica. Spero si stia rendendo conto anche lui che dobbiamo inventarci qualcosa, o qua finisce male.

Germania indurì il muscolo sotto la mano di Italia aggrappata al suo avambraccio. Quella pressione, unita al gelo degli occhi di Russia puntati su di lui, lo catapultò mesi addietro, in un ricordo che gli era rimasto incollato alla pelle come un’ustione, come un’impronta di ghiaccio che non era mai riuscito a sciogliere. La sua ultima riunione al Cremlino. La stanza buia in cui lui e Russia avevano parlato, l’odore di cuoio vecchio, di vodka, della carta dei documenti timbrati e inchiostrati dalle loro firme. La presa di Russia sul braccio, la sua presenza accostata alla schiena, il suo fiato dietro l’orecchio, le parole che lo avevano fulminato come il sibilo di una saetta. “Ma tu fai solo una mossa falsa contro di me. Muovi anche solo un’unghia in maniera sbagliata nei miei confronti, e giuro che te ne pentirai per tutta la vita.” Una scia di brividi gli attraversò la nuca. Germania rivisse il prurito di quel sorriso accostato all’orecchio, delle labbra che s’inarcavano verso l’alto. “Fallo, Germania, e io ti porterò via tutto quanto, tutto ciò che ami e per il quale ti stai battendo.”

Una vampata di sudori freddi lo aggredì, rendendo il cielo ancora più scuro e l’aria ancora più fredda. Germania inspirò a fondo e ricacciò indietro il battito del cuore che era balzato in gola. Fece scivolare lo sguardo su Italia, sul braccio incatenato al suo, sulla mano ancora aggrappata alla pistola lancia razzi, sui suoi occhi lucidi di paura che non riuscivano a scollarsi dalla stazza di Russia, sulle labbra ancora scosse dal fiatone della corsa, e sul suo corpicino premuto fra lui e Romano. Lo colse una fitta al cuore. Italia...

Germania guardò dietro di sé, verso il panzer, verso la presenza di Prussia e di Spagna che vegliavano su di loro dall’alto. Siamo in trappola, realizzò. Anche se noi abbiamo la possibilità di sfruttare un mezzo corazzato, non ci servirà a nulla se loro ci impediranno di salire a bordo e di proteggerci al suo interno. Socchiuse gli occhi. Nella penombra, visualizzò se stesso girarsi, caricare Italia e Romano sulle spalle, arrampicarsi con una falcata sul panzer, e finire trafitto dagli spari di Russia.

Germania accostò la mano sul fucile allacciato al fianco, esitò, e riabbassò il braccio. Tornò a pugni stretti. Una maschera di conflitto a corrugargli la fronte. No. È inutile che io provi ad attaccare Russia frontalmente. Spostò lo sguardo da Russia e Ucraina a Bielorussia e ai tre Baltici alle sue spalle. Non in queste condizioni, non con la protezione che gli stanno dando sia Ucraina che... Storse un sopracciglio e arrestò quel pensiero, catturato da una sagoma più piccola appesa alla spalla di Bielorussia, allo zaino militare allacciato alla sua schiena. Cos... Germania socchiuse le labbra in un moto di stupore. Un tic di perplessità gli fece traballare la palpebra. Moldavia?

Moldavia strinse le manine sulla spalla di Bielorussia, sbatacchiò le palpebre, inclinò il capo di lato facendo oscillare i codini, e lo guardò anche lui con quegli occhioni da cucciolo smarrito.

Germania scosse il capo. Lasciò correre. Com’è possibile che siano tutti qua? continuò a domandarsi. Abbiamo già cominciato a invadere anche le loro nazioni, nella zona del Baltico sono in corso stragi e combattimenti fin dal primo giorno dell’operazione, abbiamo appena conquistato l’intera Bielorussia, stiamo liquidando una sacca dopo l’altra anche in Ucraina, la conquista di Kiev è prossima, esattamente come quella di Minsk, e loro hanno accettato di rimanere affianco a Russia invece che andare a difendere le nazioni a cui appartengono? Fece scivolare un’altra gelida occhiata sbieca su Russia, sciogliendo ogni perplessità dal suo viso. Che sia stato lui a obbligarli? Oppure lo avranno deciso da soli? Posò lo sguardo su Ucraina, su quella sua triste espressione addolorata, sulla tiepida aura materna e protettiva che scaldava l’ambiente attorno a lei, sul fucile stretto fra le sue mani, e su quegli occhi inaspettatamente combattivi che bruciavano solo per il fratello da proteggere. Germania contenne uno sbuffo. È chiaro che le nazioni che gli appartengono sono l’arma più potente di cui Russia dispone, ed è per questo che non se ne separa. Se voglio arrivare a lui, devo sconfiggere prima loro, devo privare Russia di ogni difesa, di ogni barriera. Oppure, il vero motivo per il quale Russia non se ne separa è perché si sente già messo alle strette dal nostro attacco e teme di dovermi affrontare da solo? Ma a prescindere da come stiano le cose, per me loro continuano a costituire un ostacolo nei confronti di Russia. Distolse gli occhi da Ucraina. Quanto sarebbero disposti a spingersi pur di difenderlo? Si lasciò di nuovo fulminare dalla presenza feroce e minacciosa di Bielorussia. Fino a che punto potrebbe arrivare il loro spirito di sacrificio? Devo cercare di capirlo. Solo così potrò aprire una breccia nella sua difesa. Devo far sì che il loro legame diventi la debolezza di Russia invece che la sua forza.

Romano lo colpì con una spallata, “Ohi, crucco”, facendo scoppiare quella sua bolla meditativa. “Ci decidiamo a fare qualcosa o no?” Strinse i denti, parlò con un sibilo di fiato arrochito dal fumo e dalla fatica della corsa. “Intendi farci stare fermi fino a che non ci riempiranno di piombo?”

Italia si strinse più forte a Germania e rabbrividì. “Ma ormai Russia ci tiene in trappola.”

Romano gli lanciò un’occhiataccia storta. “Be’, potresti sempre tornargli addosso come hai fatto prima.”

Germania inarcò un sopracciglio. “Tornargli addosso?” Squadrò Italia con scetticismo. “Cosa...”

“N-niente.” Italia si strinse di nuovo a lui e abbassò il viso, gli premette la fronte sulla spalla per non farsi guardare negli occhi. “Non è successo niente.”

Quelle parole però continuarono a ronzare nella testa di Germania. Andargli addosso? Un lampo d’idea gli attraversò la testa. Potrebbe essere la soluzione più semplice, dopotutto. Rozza e impulsiva, ma considerando la situazione, non abbiamo molte alternative. Compì un passo all’indietro, spinse Italia e Romano nell’ombra del panzer, e tornò immobile. Guardò il mezzo corazzato solo con la coda dell’occhio. Noi abbiamo il vantaggio di poter salire a bordo di un panzer, al contrario di Russia. Se fossimo protetti al suo interno, allora nemmeno le loro armi potrebbero ferirci.

“Salite sul panzer.”

Italia e Romano compirono un sobbalzo di sorpresa.

La bocca di Italia cadde in un gemito. “C-cosa?” Gli occhi sgranati e il viso sbiancato.

Anche Romano scosse il capo, incredulo. “Io e lui da soli?” esclamò. “Ma basta che facciamo un passo e questi ci bucano la pancia. Come...”

“Vi copro io, ora muovetevi!”

Italia si riaggrappò a Germania. “Ma è troppo pericoloso.” Piantò le unghie nella sua manica, e la pistola spara razzi scivolò verso il palmo. “Non voglio che ci separiamo di nuovo.”

Germania si girò a fulminarlo. “Italia, non discutere e...” Lo sguardo gli cadde sulla pistola inclinata ma ancora impugnata dalla sua mano. Germania trasse un sospiro e realizzò, alleggerendo il peso della tensione attorno al suo cuore. “La pistola segnaletica.”

Italia sbatté le palpebre. Sollevò la mano che reggeva la pistola con cui prima aveva già sparato, e tornò anche lui a bocca aperta, sfiorato da quell’improvviso soffio di sollievo, dalla stessa idea che era balenata in testa a Germania. Puntò gli occhi al cielo, dove la colonna di fumo rosso si stava dissolvendo. Ma sì, ovvio, realizzò anche lui. Possiamo usarla come un fumogeno! Tornò a impugnarla con entrambe le mani. Dentro di lui, divampò una seconda volta quella fiamma rovente che lo aveva travolto e inghiottito nel suo calore davanti alla minaccia di Russia. Non c’è un momento da perdere. Italia tese le braccia, restrinse gli occhi, e puntò la mira contro Russia.

Ucraina compì uno scatto, scivolò davanti al fratello e spalancò le braccia per coprirlo.

Da dietro il panzer, anche Bielorussia scorse quello scatto improvviso di Italia. Spezzò la tensione con un grido. “No!”

Italia sparò il razzo.

Una scia rossa schizzò dalla volata della pistola, si tese con un fischio, curvò verso il suolo, e si schiantò davanti a Russia e Ucraina. Il colpo esplose, si dilatò in una nube rossa, e s’innalzò fino ai tetti degli edifici, tappando la luce del cielo.

Germania avvolse un braccio attorno a Italia, lo sollevò con un colpo solo e se lo caricò in spalla. “Bravo.”

Il cuore di Italia compì una capriola di gioia e le sue guance s’imporporarono di emozione. Italia lasciò cadere la pistola e si aggrappò alla spalla di Germania, premette il viso nella sua giacca, nel suo profumo, e sollevò un genuino sorriso di contentezza che spanse un piacevole calore attraverso lo stomaco. Il primo vero sorriso da quando era cominciata la campagna.

Germania usò l’altro braccio per raccogliere Romano e caricò anche lui contro il fianco. “Reggetevi a me!” Pestò due falcate di corsa, calpestò i primi bozzoli di fumo rosso che stavano brulicando alle sue spalle, saltò sul paraurti del panzer, e tese i muscoli delle braccia per spingere verso l’alto i corpi di Italia e di Romano.

Prussia si tese per primo, afferrò Romano per la giacca, lo tirò dentro la torretta del panzer, e usò l’altra mano per agguantare la spalla di Germania e trascinare dentro anche lui assieme a Italia.

Spagna sparò un colpo, ritirò il fucile facendo saltare il bossolo vuoto, e si lasciò ricadere nell’abitacolo del carro. Richiusero lo sportello. La nebbia rossa si dilatò e inghiottì il panzer nella sua densa foschia.

 

.

 

Bielorussia scorse lo scatto improvviso di Italia – il suo braccio che si staccava da quello di Germania, le mani che si univano sul corpo di un’arma, e la tensione delle dita che si contraevano sull’impugnatura. Ebbe un sussulto, un sobbalzo di spavento. Una pistola? Nella sua testa schizzò un frammento di immagine che le gelò il sangue. Il proiettile che esplodeva dall’arma di Italia, che fischiava attraverso l’aria, e che trafiggeva Russia.

Bielorussia staccò una mano dalla culatta del fucile e protese il braccio. “No!” Spalancò la mano afferrando l’immagine di Italia, come per strappargli l’arma di dosso.

Lo sparo scoppiò, l’eco tuonò fino al cielo e rimbalzò lungo la strada sommersa da macerie.

Un razzo rosso schizzò dalla pistola di Italia e volò contro Ucraina che era scivolata davanti a Russia a braccia spalancate. Il razzo centrò l’asfalto e s’impennò in una colonna di fumo, spalancando il getto rosso come il rigurgito di una fontana.

Bielorussia ritirò il braccio e lo portò davanti al viso per ripararsi dalla luce, arretrò di un passo sbattendo su Lituania. Un fumogeno? Tossì, strizzò gli occhi già lacrimanti, e quel lampo improvviso nel buio rievocò la colonna di fumogeno rosso che Italia aveva già sparato dopo essere scappato assieme a Romano dalla casa incendiata. Hanno usato di nuovo la pistola segnaletica! Riaprì le palpebre.

Germania uscì dalla nebbia rossa, saltò sul panzer reggendo Italia e Romano fra le braccia, e spinse i loro corpi verso Prussia che si era già chinato per afferrarli e trascinarli dentro l’abitacolo del carro.

Bielorussia diede un altro colpo di tosse contro la spalla, rimpugnò il fucile con entrambe le mani, e affondò anche lui una falcata di corsa nella nebbia rossa sempre più alta. “Stanno scappando!” Diede un colpo di reni allo zaino, si sbarazzò del peso di Moldavia, staccandoselo dalla spalla, e puntò il paraurti del panzer ancora in moto.

Lituania diede una sventolata al fumo rosso che gli era entrato negli occhi e nelle narici, sbatacchiò le palpebre, intercettò quel suo scatto, l’immagine di Bielorussia davanti alla stazza del carro, e sobbalzò di paura. “No, aspetta!” Le corse dietro e tese il braccio. “È troppo pericoloso!”

Spagna, ancora appiccicato a Prussia di schiena, calò la mira del fucile, lo puntò su Bielorussia e contrasse l’indice sul grilletto. “Non ci provare.” Sparò un colpo.

Bielorussia torse la spalla di lato. Il proiettile le sfrecciò accanto all’orecchio, le bruciacchiò una ciocca di capelli, e cadde sulla strada, piantando un foro nell’asfalto. Il panzer ruggì e ripartì. Il mezzo compì uno scatto e la corazza scivolò sotto il piede già premuto sul paraurti. Bielorussia finì sbalzata all’indietro, il peso dello zaino la trascinò verso terra, e lei si aggrappò all’aria artigliando la nebbia a vuoto, già vedendo la sua testa sbattere sull’asfalto.

Lituania spalancò le braccia e la acchiappò al volo. Strinse la presa, compì un passetto all’indietro per riprendere equilibrio e per farle riappoggiare i piedi a terra, e le fece raddrizzare la schiena. “Stai bene?” La voce arrochita dal fumo le vibrò dietro l’orecchio. “Ti ha ferita?”

Bielorussia strinse i denti e contenne un ringhio di frustrazione davanti alla sagoma scura del panzer inghiottita dalla nebbia. Abbassò lo sguardo sul foro aperto dal proiettile che le aveva sfiorato la spalla, rigirò la ciocca di capelli bruciacchiati, e lisciò la manica della giacca. La stoffa intera, niente sangue. Non l’avevano colpita. Bielorussia sbuffò. “Sto bene.” Si strappò dalle braccia di Lituania. “E toglimi le mani di dosso.” Sistemò lo zaino che le stava cadendo dalla schiena e aggiustò i capelli dietro l’orecchio per coprire quelli carbonizzati dallo sparo.

Estonia e Lettonia corsero fuori dalla nebbia rossa, si strinsero a Lituania, e anche loro si guardarono attorno, perdendo di vista l’ombra del panzer inghiottito dal fumo. Estonia dissolse uno sbuffo scarlatto che gli era soffiato in faccia, si coprì la bocca e il naso, e tossì due volte. “Hanno...” Tossì di nuovo. “Sparato il razzo segnaletico come se fosse un fumogeno.”

Si strinsero tutti e quattro, schiena contro schiena, le spalle schiacciate, i piedi a urtarsi, e la massa di fumo crebbe attorno a loro in un abbraccio, superò le loro teste e si addensò fino a tappare i profili delle case e a nascondere i confini della strada su cui si ammassavano le macerie.

Bielorussia torse la punta del naso, assottigliò le ciglia in un aguzzo sguardo felino. Ma dove... Si soffermò sul punto dove il panzer era sparito dopo esserle scivolato da sotto il piede, e il suo cuore si strinse in una morsa di panico. Era sfrecciato verso Russia. “Fratellone!” Bielorussia si staccò dagli altri e corse in mezzo al fumo.

Compì quattro ampie falcate e sbatté il naso su qualcosa di soffice, su una stoffa tiepida. La inondò un profumo dolce e familiare.

Il corpo su cui aveva sbattuto sobbalzò a sua volta, si girò in mezzo alla foschia rossa, la toccò con una mano e parlò con la voce di Ucraina. “Bielorussia!” Ucraina la strinse fra le braccia. “Oh, sei tu, grazie al cielo.” Le passò la mano fra i capelli, sulle spalle, e lungo il fianco. “Stai bene?” Un tono apprensivo le intristì la voce. “Non ti hanno ferita, vero? Dimmi qualcosa.”

Bielorussia gonfiò un broncio contro il suo petto, soffocò un ringhio nella stoffa della giacca. “Sto bene.” Le spinse le mani sulle spalle e si strappò da quell’abbraccio soffocante. “E piantala di strapazzarmi.” Si diede una scrollata, una sistemata alla giacca, e continuò a guardarsi attorno, a scavare con lo sguardo in mezzo alla nebbia rossa. Il cuore di nuovo gonfio d’ansia. “Dov’è...”

“Sono qui.” Russia emerse dalla nebbia, il viso buio e la posa statuaria a dividere la foschia. Spostò gli occhi sulle sue sorelle, sui tre Baltici che li avevano raggiunti, e inarcò un sopracciglio. “Dov’è Moldavia?”

“Qui, qui!” Moldavia passò fra le gambe di Bielorussia e di Ucraina e si aggrappò ai pantaloni di Russia. Compì due saltelli. “Sono qui, fratellone.”

Ucraina si chinò a prenderlo in braccio, lo estrasse dalla foschia, e gli spazzolò i capelli sporchi delle polveri rigettate dal fumogeno rosso.

Estonia schiacciò la schiena fra Lituania e Russia e tenne Lettonia per mano, portandolo al centro del gruppo. “Sono fuggiti? Ma...” Tese l’orecchio. Un rombo gli solleticò l’udito, si spostò attorno a loro, in mezzo alla nebbia, e compì un cerchio completo attorno a loro sette. Estonia sussultò. “Sento ancora il motore del panzer.”

Russia annuì. “Non sono fuggiti.” Anche lui seguì quel rombo che vibrava fino al suo orecchio e che continuava ad avanzare nella nebbia, compiendo una traiettoria circolare. “Sono ancora qua attorno, ci stanno accerchiando.” E stanno cercando di disorientarci, considerò ancora. Prima con il razzo segnaletico sparato a terra per creare la foschia e ora l’accerchiamento, rimanendo celati nella nebbia.

Russia distese un braccio davanti a Bielorussia e Ucraina. “Stringiamoci, presto.” Aprì l’altra mano sul petto di Lituania, tirandolo più vicino a sé. “Non facciamoci dividere di nuovo.”

Tutti si schiacciarono, le spalle spremute l’una sull’altra, i talloni a urtarsi, le gambe a sbattere, e i loro respiri a vibrare di tensione. Bielorussia spinse via Lituania, spostandolo contro Estonia e Lettonia, e si avvinghiò al braccio di Russia.

Lettonia rabbrividì. Gli occhioni lucidi di paura e il viso pallido e sudato su cui si specchiava il fumo rosso. Sprofondò fra Estonia e Lituania e portò le mani alla bocca, rosicchiandosi le unghie. “Vogliono prenderci a cannonate?”

Estonia tremò a sua volta, soffocato dal fumo sempre più denso che era come un artiglio alla gola. “Oppure ci vogliono schiacciare sotto il panzer.”

Lettonia deglutì. “Oppure...”

Un primo lampo esplose attraverso la nebbia rossa. La cannonata si schiantò a terra, la strada sobbalzò sotto i loro piedi, e un rigetto di fumo e asfalto sbriciolato s’impennò fin sopra la foschia.

Lettonia cacciò un gridolino e strinse le mani fra i capelli. “Ci sparano!”

Un’altra cannonata esplose dal Panzer IV che li stava accerchiando. La granata dirompente volò sopra le loro teste, precipitò con un fischio, e si schiantò al suolo. La tuonata spalancò un cratere rovente. Una pioggia di lapilli incandescenti scrosciò loro addosso, briciole di terra e di asfalto grandinarono sulle loro spalle, e la risacca di fumo alimentò la nebbia nera nata dal primo sparo.

Ucraina strinse le braccia attorno a Moldavia, gli coprì la testolina, e si girò verso Russia. “Russia...”

Russia compì un passo in avanti, tenne tutti dietro la sua schiena, li allontanò dagli echi ruggenti delle esplosioni, e girò lo sguardo da sopra la spalla, puntando una delle buche ancora fumanti che si erano spalancate sotto le cannonate. Era abbastanza profonda da contenerli tutti. “Dentro i crateri, svelti.”

Corsero tutti e sette, seguirono Russia che li guidò verso il cratere più vicino e profondo, e si lasciarono scivolare al suo interno. Schiene contro la parete franata, braccia incrociate dietro la nuca, le teste basse, e le gambe rannicchiate al petto.

Altre cannonate sputate dalla bocca del panzer scoppiarono all’esterno del cratere, impennarono altre fontane di terra e fumo, e scossero le pareti della buca contro le loro schiene.

Russia tenne lo sguardo girato, l’orecchio teso verso il brontolio cigolante del panzer che avanzava attorno a loro, e la vista aguzza puntata in quella nebbia lattea e sanguinea sempre più alta e spessa. Lo stesso rosso del fumo si specchiò nelle sue iridi, in quell’espressione carica di rabbia e frustrazione. Non stanno fuggendo, perché sanno che siamo noi quelli in svantaggio. Stanno solo aspettando che la nebbia cali per poter uscire di nuovo allo scoperto e braccarci come conigli. Sollevò la punta nel naso. Il fumo rosso tappava le facciate e i tetti degli edifici diroccati. Non era più visibile nemmeno uno spicchio di cielo. Germania non si è fermato a Smolensk per nulla, lui vuole combattere, e sapeva di trovarmi qui, anche se la città ormai è caduta. E sa anche che solo uno di noi due uscirà vivo e vincitore. Strinse i pugni, corrugò la fronte, e quel bruciore di rabbia crebbe dentro di lui, infiammandogli il petto. Ma come posso colpirli mentre loro sono protetti dal panzer?

“Lituania.”

Lituania scattò al richiamo, come un cane che impenna le orecchie al fischio del padrone. Strisciò più vicino a Russia e tenne le spalle basse per non sporgere la testa fuori dal cratere. Il corpo ancora scosso dalla corsa e il fiato ancora corto per l’odore di fumogeno ed esplosivo che gli schiacciava i polmoni. “Signore?”

Russia tenne gli occhi nella nebbia da cui provenivano il brontolio del panzer e lo scroscio dei crateri fumanti appena aperti. “Ci sono carri armati ancora funzionanti in città?”

Lituania corrugò le punte delle sopracciglia in un’espressione pensosa. Spostò i capelli che gli erano scivolati sulla faccia, e strofinò la nuca che aveva sbattuto sulla parete del cratere durante la discesa. “Al cantiere,” ragionò. “Prima, quando abbiamo inseguito Prussia, c’erano...” Riprese ancora fiato, e guardò Russia negli occhi. Gli trasmise una luce speranzosa, di nuovo viva e accesa come quando combatteva. “Potrebbe esserci ancora qualche KW, di quelli abbandonati prima dell’evacuazione. Non sono sicuro che siano operativi, ma...”

“Procuratevene uno.” Russia spinse le spalle all’indietro sistemando il fucile allacciato al suo fianco, fece strusciare i piedi sulla terra fumante e richiamò le ginocchia al petto. “Raggiungete di nuovo il cantiere, procuratevi un carro, e tornate qui, chiudendo la strada al panzer di Germania mentre noi li bloccheremo frontalmente.”

Estonia inarcò un sopracciglio, lo sguardo scettico ancora annebbiato dai gas delle esplosioni. Allentò il bavero della giacca, e anche lui riprese fiato dopo il ruzzolone. “M-ma signore, sarà impossibile uscire dal fumo.” Si guardò alle spalle, e la nebbia rossa si specchiò sulle lenti degli occhiali. Rivolse l’indice alla presenza del panzer e agli echi delle cannonate che gli ruggivano attorno. “Non con il panzer che ci circonda in questa maniera, impedendoci di aprire una breccia. Dobbiamo trovare un diversivo per distrarli mentre noi fuggiamo e...”

“Utilizziamo Moldavia come esca.”

Tutti gli sguardi volarono su Bielorussia. Lituania sgranò le palpebre e divenne pallido come un lenzuolo, le labbra di Estonia rimasero socchiuse, congelate nella frase che non aveva terminato, e Ucraina si portò una mano al cuore e una davanti alla bocca, tramortita come gli altri. Ma il viso di Bielorussia era mortalmente serio.

Bielorussia scivolò accanto a Russia e si spremette al suo fianco tenendo le ginocchia piegate al petto. “Prima di arrivare qui,” gli disse, “quando ci hanno inseguiti con il panzer, mi avevano quasi intrappolata. Poi però Prussia ha visto Moldavia e non mi ha sparato. Avrebbe potuto uccidermi ma non l’ha fatto.”

Russia sbatté due volte le palpebre, piacevolmente stupito. Abbassò gli occhi sul corpicino di Moldavia ancora avvolto e protetto dalle braccia di Ucraina, e il suo sguardo si ammorbidì. “Prussia si è fermato davanti a Moldavia?”

Bielorussia flesse un mezzo sorriso da faina che splendette nel rosso delle sue labbra. “Forse non sono così spietati come ci vogliono far credere.” Inclinò il capo e indicò il piccino con un cenno. “Potremmo sfruttarlo per far presa sul loro lato umano, su quella parte di loro che non colpirebbe mai un bambino, anche se si tratta di una nazione.”

Fra le braccia di Ucraina, Moldavia sbatté gli occhioni, spostò lo sguardo da Russia a Bielorussia, ancora confuso, ma unì comunque le manine in uno schiocco. “Combatto anch’io, combatto anch’io?”

Ucraina gli posò una mano sulla testolina e lo protesse, restia. I tre Baltici incrociarono fra loro delle occhiate scettiche. Solo Russia accolse quella furba scintilla emanata dagli occhi di Bielorussia e ne rimase stregato a sua volta, dimenticandosi delle cannonate che si stavano consumando sopra la sua testa.

Moldavia come esca...

Russia si sporse a raccogliere il corpicino di Moldavia dalle braccia di Ucraina. Gli rivolse un sorriso ancora più dolce di quelli della sorella, e gli parlò con tono caldo e amorevole. “Dimmi, Moldavia...” Lo fece sedere sulle ginocchia e gli posò una mano sulla testolina, fa i codini. Lo scrutò con gli stessi fini occhi ipnotici che gli aveva mostrato prima di entrare a Smolensk. “Ti piacerebbe tornare assieme a Romania, vero? Ti piacerebbe poter vivere di nuovo con tuo fratello?”

Come succedeva sempre quando Romania veniva nominato, il visetto di Moldavia s’intristì e il suo sorriso aguzzo si capovolse, trasformandosi in un’espressione grigia come una nuvoletta di pioggia. Moldavia chinò lo sguardo. Gli occhi s’inumidirono, i codini si ammosciarono. Intrecciò le piccole dita sotto le maniche troppo larghe e annuì, timido e restio, “Sì”, quasi avesse provato vergogna e paura nel rivelarlo.

Russia rinnovò quel sorriso comprensivo. Indicò la presenza del panzer che ruggiva fuori dal cratere. “Sai che loro sono quelle persone cattive che hanno fatto del male a tuo fratello e che vi hanno divisi?”

Moldavia sgranò gli occhietti. Le labbra si schiusero traendo un sospiro di stupore e spavento. “Sul serio?”

“Sul serissimo.”

Moldavia si aggrappò al braccio di Russia e sollevò di più lo sguardo, avvicinandosi con quegli occhioni da cucciolo che ha perso la mamma. “Loro tengono il fratellone prigioniero?”

“E lo costringono anche a combattere,” confermò Russia. “A farsi del male, a rischiare la vita. Lo costringeranno anche a fare del male a me che invece voglio solo proteggerti e farti tornare assieme a lui.”

Moldavia sospirò di nuovo, e il cuoricino si strinse in un crampo di paura. “Oh, no, non voglio.”

“Lo so che non lo vuoi,” gli disse Russia. “E nemmeno io lo voglio.” Sollevò un indice inguantato e glielo posò sulla punta del nasino. “Ed è per questo che mi serve il tuo aiuto.”

“Davvero?” Moldavia sbatté di nuovo gli occhi e s’indicò anche lui la punta del nasino. “Mio?”

“Proprio il tuo.” Russia strinse le braccia attorno al suo fragile corpicino da bimbo e gli sfiorò la fronte con la sua. Si avvicinò con quegli occhi bui e ipnotici nei quali era condensato tutto il fumo esplosivo che scoppiettava attorno a loro. “Combatti per me, Moldavia,” mormorò. “Aiutami a distruggerli, aiutami a uccidere quelle nazioni cattive.” Distese il sorriso da guancia a guancia. “E io ti prometto che ti farò tornare assieme a Romania.”

I codini di Moldavia guizzarono una seconda volta. Il piccolo tolse la punta dell’indice dal nasino e se la posò fra le labbra, reclinò il capo e flesse le sopracciglia in un’espressione dubbiosa. “Devo combattere anche contro Germania?”

“Certo.”

“Oh.” Moldavia guardò in alto, anche lui catturato dall’ombra minacciosa del panzer che pattugliava la zona sommersa dalla nebbia rossa. Quella brutta sensazione d’indecisione rimase a ronzare attorno alla testolina e a soffocare il battito del suo cuoricino. “Anche lui è una nazione cattiva, allora?” Gli tornò in mente l’ultima visita di Germania al Cremlino. Moldavia era corso a ripararsi dietro le gambe di Germania, sfuggendo a Ucraina che si era messa a cercarlo lungo i corridoi. Era stato lui ad accompagnarlo all’uscita, dopo la riunione con Russia. Gli aveva offerto uno dei biscotti canditi che aveva preparato assieme a Ucraina, Germania gli aveva detto che Romania stava bene, che lo avrebbe salutato da parte sua e che avrebbe portato a lui il biscotto da parte di Moldavia. Ricordò i suoi occhi azzurri, freddi ma gentili, quel suo viso austero ma non intimidatorio, e la sua voce profonda ma pacata.

Moldavia stropicciò le piccole dita intrecciate sotto le maniche, si graffiò le nocche, e tenne la fronte bassa. Mormorò sotto il bavero della giacca. “Però quella volta era stato buono con me.”

“È ovvio,” disse Russia. “Lo è stato solo per ingannarti.” Gli carezzò più volte la testolina. “Germania ha sempre fatto finta di essere gentile con te. Lo ha fatto anche con me, lo sai, ed è questo il suo modo di imbrogliare gli altri.” Anche lui chinò la fronte per tornare a incrociare gli occhi del piccolo, per incatenarlo in quello sguardo che ti teneva incollato come ghiaccio. “Germania però vuole solo ingannarti, vuole farti credere di essere una nazione buona, ma in realtà vuole fare prigioniero anche te. Ti vuole maltrattare proprio come adesso sta maltrattando e tenendo prigioniero Romania.”

Moldavia rabbrividì fino alle punte dei codini. “Da... davvero?”

Russia annuì. “Ma tu non vuoi lasciarglielo fare, vero?” Le carezze sulla sua testolina si fecero più ruvide e profonde. “Tu sei un bambino così intelligente, dopotutto. Non permetteresti mai di farti imbrogliare.”

“No, no.” Moldavia scosse il capo. “Non voglio finire imbrogliato.”

“Allora fidati di me.” Un’ombra calò sul viso di Russia, e i suoi occhi si fecero ancora più luminosi. “E io ti prometto che tornerai presto assieme a Romania.”

Moldavia trasse un sospiro che gli strinse il cuoricino in un abbraccio di gioia e speranza. Tornare assieme al fratellone. Abbassò le palpebre, respirò a fondo, e lasciò che quel brivido di desiderio accendesse una fiammella di speranza e combattività dentro di lui. Riaprì gli occhi. Iridi buie e cariche di una tempesta elettrica come quelle di Russia si affacciarono al panorama intossicato dal fumo, si abbandonò a quella magia. “Va bene, fratellone.” Le perlacee punte dei canini scintillarono fra le labbra schiuse in un dolce sorriso di assenso. “Ucciderò Germania.”

L’aria impolverata si condensò in un’atmosfera di ghiaccio. Lettonia rabbrividì, schiacciato fra Estonia e Lituania, e gli occhi di Ucraina s’inumidirono, riflessero tutto il peso di sconforto che le gravava sul cuore. Bielorussia fu l’unica a ridacchiare di soddisfazione, pregustandosi la scena. “Bravo marmocchio.”

Ucraina scosse il capo. Tenne la mano sul cuore e fece scivolare le ginocchia accanto a Russia. “Russia.” Gli posò la mano sul braccio. Lo guardò con occhi imploranti. “Russia, ti prego, ripensaci. È solo un bambino, dopotutto.” Strinse le dita sulla manica. La sua presa vacillò. “Come potrebbe mai combattere?”

Bielorussia scosse le spalle e rispose per lui. “Facendoci da scudo come prima, ovvio, no?”

Lituania inarcò un sopracciglio, socchiuse le labbra, fece per intervenire, ma sobbalzò sotto l’eco di un’altra cannonata schiantata alle sue spalle. Si abbassò per evitare la risacca di fumo e scivolò anche lui più vicino a Russia. “Signore, la prego di rifletterci,” disse con lo stesso tono di Ucraina. “Anche utilizzando Moldavia come...” Guardò il piccino – i suoi scintillanti dentini da vampiro, gli occhioni che ora erano colmi della stessa luce assetata di sangue che regnava in quelli di Russia, i codini che rimbalzavano come un secondo paio di orecchie, quelle manine piccine nascoste dalle maniche della giacca troppo larga – e il suo scetticismo aumentò.  “Anche utilizzandolo come scudo, comunque non sarebbe una strategia sfruttabile incondizionatamente. Potrebbe non funzionare bene come lei crede. Senza contare il fatto che...” Anche lui si fece cupo in volto. “Germania potrebbe non essere clemente come lo è stato prima Prussia. Potrebbe decidere lo stesso di attaccarlo, e allora gli faremmo solo correre un rischio inutile.”

Bielorussia si mise a braccia conserte, accasciò le spalle schiacciando lo zaino fra la sua schiena e la parete, e sbuffò per togliersi dalla fronte la ciocca bruciacchiata dallo sparo. “Allora cosa proponi per farlo diventare un’arma anziché uno scudo, eh?”

Estonia tese l’orecchio verso i loro discorsi, si strozzò con un ansito scandalizzato, e per poco non gli caddero gli occhiali dal naso. “Mo... Moldavia un’arma?” Si rimise la montatura a posto e passò una mano fra i capelli impolverati. “E in che maniera un bambino potrebbe essere un’arma? Non può neanche tenerne in mano una. Lui stesso è grande quanto una bomba anticarro.”

Russia assorbì quell’ultima frase, e nella sua testa si spalancò l’immagine di una bomba anticarro dal manico lungo stretta fra le piccole braccia di Moldavia. La punta del manico a toccargli le gambette e la volata a cilindro alta fino alla sua testolina. Una bomba anticarro? Russia tornò a voltarsi verso la barriera di nebbia rossa che brulicava fuori dal cratere aperto dalla cannonata. La presenza ruggente e minacciosa del panzer tedesco era sempre viva nell’ambiente, pronta a balzare fuori dal fumo come una belva che spalanca le fauci e ti pianta i denti alla gola. Russia increspò la fronte. Ora che si sono rinchiusi nel panzer, sarà impossibile far sì che ne escano, quindi sarà anche impossibile colpirli, non prima di procurarci anche noi un carro armato. Loro hanno a disposizione un cannone, una mitragliatrice pesante. Non ci permetteranno mai di avvicinarci, e sarebbe comunque impossibile anche solo scalfire la corazza utilizzando i nostri fucili, anche se dovessimo circondarlo e attaccarlo tutti assieme. Tornò a posare gli occhi su Moldavia, sulle sue gambe rapide e scattanti come quelle di un leprotto, su quel corpicino capace di tenersi basso e nascosto, dove la nebbia era più fitta. Ma Moldavia è piccolo, è agile, e sarebbe un bersaglio molto più difficile da colpire. Distese un nuovo crudele sorriso sotto le pieghe della sciarpa. Potrebbe proprio...

“Bielorussia.” Russia si girò a porgerle la mano aperta. “Sii gentile, passami una bomba anticarro.”

Bielorussia non fece domande. Si sfilò lo zaino dalle spalle, scavò fra le cartucce del suo Mosin-Nagant, scartò l’ottica di riserva, le piastrine di caricamento, e raggiunse le bombe che teneva sempre in caso di assalto. Ne passò una a Russia.

Russia la raccolse per il manico di legno. La soppesò. Spero solo che riesca a maneggiarla. “Moldavia...” Abbassò la bomba e rivolse quel sorriso ammaliante a Moldavia. “Ti va di imparare un gioco?”

Moldavia tornò a portarsi la punta dell’indice fra le labbra. Slargò le palpebre, e i suoi occhioni luccicarono d’entusiasmo. “Un gioco bello?”

“Un gioco divertentissimo.”

Moldavia distese un sorriso smagliante e batté le manine. “Sììì!”

Russia gli porse la bomba anticarro. “Fammi vedere se sei capace di innescarla.” Inclinò la bomba e gli mostrò l’anello d’accensione accanto alla leva di sicurezza sotto la volata a cilindro. “Devi tirare qui.”

Moldavia raccolse la bomba fra le braccia, la rigirò, e arricciò il nasino sopra la volata da dove arrivava il pungente odore di esplosivo. “E cosa succede quando lo tiro?”

“Lo scoprirai.” Russia gli rivolse un sorriso incoraggiante e indicò la bomba con un cenno del mento. “Coraggio, prova.”

Lituania, Estonia e Lettonia si tirarono indietro.

Ucraina si strinse al braccio di Russia, per proteggerlo, e tornò a battergli la mano sulla spalla. “Russia...” Gli occhi più ansiosi che mai.

Russia scosse il capo e posò la mano sulla sua. “Va tutto bene.”

Moldavia infilò due dita dentro l’anello di accensione. Piegò il gomito, gonfiò i muscoli del braccio, e diede due strattoni. L’anello cigolò ma non si mosse. Sgranchì le piccole dita, tornò a flettere le falangi nell’anello, diede uno strappo più lungo, senza mollare la presa, e continuò a tirare fino a che il visetto non divenne rosso. Schiacciò la bomba contro il petto, tirò di nuovo, cadde all’indietro, spinse i piedini sulla volata, graffiò il punto dove l’anello d’accensione affondava nel manico di legno, ma non riuscì a estrarre l’ago nemmeno di un millimetro.

Moldavia soffiò uno sbuffo di frustrazione, gonfiò un piccolo broncio, e fece sventolare la bomba con entrambe le manine. “Non riesco.”

Russia tornò a raccogliere la bomba. Schiacciò la leva della sicura, infilò l’indice inguantato nell’anello, e anche lui flesse la falange. “State tutti giù.” Staccò l’ago d’innesco dalla bomba.

Ucraina raccolse Moldavia fra le braccia e lo protesse contro il suo petto. Tutti gli altri abbassarono la testa e intrecciarono le mani sulla nuca.

Russia rilasciò la leva di sicurezza, sollevò il braccio sopra la testa, e lanciò la bomba in mezzo alla nebbia rossa. Un tonfo metallico, un rotolio sull’asfalto sbriciolato, e il silenzio. Russia abbassò le palpebre e contò a fior di labbra. “Uno, due, tre...” Andò avanti fino a dieci.

La bomba esplose. Sollevò una fiammata rossa, rigurgitò una colonna di fumo nero come catrame, fece tremare la strada scavata dai crateri, e incendiò l’aria, soffiando fino a loro quella ventata rovente che odorava di esplosivo.

Russia sorrise, compiaciuto. Dieci secondi. “Sai contare fino a dieci, vero?” domandò a Moldavia.

Moldavia annuì e batté un piccolo saluto militare nascosto dalla manica della giacca. “Sì.”

“Bene. Allora...” Russia tese la mano a Bielorussia per farsi passare un’altra bomba. “Quando io ti darò in mano la bomba, tu devi correre più veloce che puoi verso il carro armato cattivo.” Passò l’oggetto fra le braccia di Moldavia. “Il gioco è che devi lanciarla prima di arrivare a dieci, altrimenti c’è la punizione.”

Moldavia flesse il capo di lato, sbatté le palpebre, di nuovo confuso. “Davvero? Quale punizione?”

Basse occhiate di mutua comprensione scivolarono fra tutti i presenti, tornando a ghiacciare l’atmosfera dopo la vampata di calore nata dallo scoppio della bomba.

Bielorussia si morse il labbro inferiore e sogghignò una risata maligna che formicolò attraverso le guance. “La vera punizione sarebbe ripulire tutto il macello che ne uscirebbe.”

Lituania compì un sobbalzo, incassò quella frase come un pugno allo stomaco. “Bielorussia!”

Estonia sospirò, sconfortato, e abbandonò le spalle contro la parete del cratere.

Ucraina tornò a stringere la mano sul braccio di Russia e non cedette, non abbandonò quell’espressione di supplica. “Russia, ti prego,” mormorò. “È solo un bambino, non puoi fargli questo. Lui non ha nessuna colpa in questa guerra, non merita di essere coinvolto, anche se è una nazione come noi. Se si facesse male sarebbe troppo pericoloso, le sue capacità di resistenza non sono minimamente paragonabili alle nostre.” Si strinse una mano al petto schiacciato dal timore. Le sue guance impallidirono. “Potrebbe anche rischiare di...” Si morse l’interno del labbro e non riuscì a terminare la frase.

Russia fronteggiò quei suoi occhi lucidi di apprensione, quello sguardo materno che aveva affrontato tante volte, ma indurì il cuore, riducendolo a un pezzo di pietra, e respinse la sua supplica. Si rivolse agli altri, brusco. “La pensate tutti così?”

Bielorussia arricciò una smorfia, strinse le braccia conserte al petto, e tenne il mento alto, imitando l’espressione intransigente del fratello. “Ovvio che no.”

Lituania distolse lo sguardo, si scostò una ciocca dal viso e giochicchiò con le punte dei capelli intrecciate alle dita. Anche Estonia e Lettonia allontanarono gli occhi, evitarono sia quelli glaciali di Russia che quelli di Moldavia, ancora luccicanti di entusiasmo.

Russia sorrise. Indossò di nuovo la sua maschera di dolcezza. “Possiamo sempre mandare Lettonia a lanciare le bombe contro il panzer, che ne dite?” Scoccò a Lettonia una furba occhiata d’intesa. “Dopo Moldavia, è lui il più piccolo e agile fra noi. Potrebbe prendere il suo posto.”

Lettonia si strozzò con un gemito. Divenne bianco, poi verde, e scosse il capo per allontanare l’immagine di se stesso davanti alla stazza del panzer, sommerso dalla sua ombra, a respirare il suo bruciante alito esplosivo. Si aggrappò al braccio di Estonia e si nascose dietro il suo fianco.

Russia socchiuse le palpebre e lo guardò con sufficienza, senza però abbandonare quel sorriso dolce e crudele allo stesso tempo. “Scherzavo.” Aggiustò la sciarpa attorno al collo. “Non temere, non affiderei mai a te un compito così importante. Mi fido molto di più del coraggio di Moldavia che del tuo.”

Lettonia strizzò le dita sulla manica di Estonia a cui era aggrappato e ansimò. Una saetta di dolore sfrecciò attraverso il suo cuore e lacerò una ferita nell’orgoglio, lasciandovi un profondo squarcio sanguinante. Un’ondata di frustrazione bruciò attraverso il petto, infiammò le guance, e risalì le palpebre, raccogliendosi in un velo di pianto davanti agli occhi annacquati e traballanti. Lettonia si morsicò la bocca diventata amara come se avesse ingollato un cucchiaio d’aceto e premette la fronte sulla spalla di Estonia, risucchiò indietro le lacrime con un sospiro profondo e tenne le dita strizzate sulla stoffa della giacca, assalito solo dal desiderio di rimanere sepolto in quel cratere per tutto il resto della battaglia. Estonia gli posò la mano sulla testa e batté due soffici carezze di consolazione.

Lo sguardo di Russia tornò buio e freddo. “Moldavia combatterà,” ribadì con tono di chi non ammette opposizione. “Non voglio più sentire discussioni a riguardo. Non c’è motivo di escluderlo dal conflitto, ed è suo diritto battersi proprio come noi.”

Sopra di loro, al di fuori del cratere, la nebbia rossa si diradò. Ricomparvero i profili degli edifici diroccati, le ombre degli ammassi di macerie, ma il cielo rimase tappato, soffocato dalla foschia che tingeva le strade di rosso.

Russia tese una mano davanti alla fronte, scavò con lo sguardo attraverso il fumo. “La nebbia si sta diradando.” Si tolse la mano dal viso e scoccò un’occhiata a Lituania e agli altri. “Lituania, Estonia e Lettonia andranno a recuperare uno dei KW al cantiere.” Fece lo stesso con Bielorussia e Ucraina. “Noi invece resteremo qui e distrarremo Germania assieme a Moldavia. Andate.”

Lituania annuì. Salì sulle ginocchia con una spinta, raccolse una manica di Estonia, gli diede un piccolo strattone per farsi seguire, e tutti e tre sgattaiolarono fuori dal cratere. S’immersero nella nebbia rossa, si ripararono bocca e naso per poter respirare attraverso, e corsero lontano dal cratere, lontano dalla presenza del panzer che gli ruggiva attorno.

Lettonia compì un paio di passi più incerti, si girò un’ultima volta verso Russia, verso quelle parole che lo avevano ferito come una pugnalata al cuore – “Mi fido molto di più del coraggio di Moldavia che del tuo” – e ingoiò quell’amara fitta di dolore che però gli rimase piantata nell’animo come un chiodo. Scosse il capo, riprese a correre, e raggiunse i suoi compagni.

 

.

 

Prussia si aggrappò al corpo di Romano che Germania aveva sospinto verso il portellone spalancato del panzer. Serrò la presa delle dita sulla sua giacca, gli diede uno strappo, e lo trascinò di peso all’interno dell’abitacolo, lontano dalla nebbia rossa che era esplosa attorno a loro, dopo lo sparo del fumogeno. Gli diede due pacche d’incoraggiamento sulla nuca. “Fiuu, per poco non vi riducevano a carne trita.” E tenne la mano aperta attorno al suo capo per proteggerlo dai piedi di Italia che stavano scendendo attraverso la struttura superiore del carro.

Spagna raccolse Italia dal braccio di Germania che lo stava facendo scivolare dentro la pancia del panzer e lo aiutò a sistemarsi su uno dei sedili.

Germania entrò per ultimo e sigillò il portellone con uno schiocco secco. Scosse una mano, dissolse il poco fumo rosso che era riuscito a penetrare l’abitacolo, si lasciò cadere al posto del capo carro, e si abbandonò a un rauco sospiro di sollievo. Massaggiò le spalle ancora doloranti dopo aver sollevato assieme sia Italia che Romano.

Romano scavalcò lo schienale di un sedile, inciampò, e ricadde fra le braccia di Spagna.

Spagna lo tenne stretto per non farlo scivolare sul pavimento. “State bene?”

Romano tossì due volte, sputò una nuvoletta di fumo rosso che aveva inalato durante la fuga, e si picchiò il pugno sullo sterno. “Siamo,” altro tossito, “interi.” Scivolò lontano dalle braccia di Spagna e sbuffò. “Per lo meno.” Diede una spolverata alla spallina sgualcita e scrollò il piede a cui erano rimaste incastrate le macerie più sottili.

Prussia si girò a dare una strofinata fra i capelli di Italia. “Bella mossa il fumo, Ita. Non sapevo nemmeno io come avremmo potuto sgarbugliarci da quella situazione.”

Germania fece scivolare la presa dalla spalla indolenzita. “Il fumo li ha distratti e li terrà impegnati solo per un po’.” Passò la mano sul viso sudato e tirò all’indietro i capelli che si erano scompigliati durante la fuga. Corrugò uno sguardo amareggiato. “Ma siamo comunque in un brutto stallo.”

Italia intrecciò le gambe sul suo sedile e si asciugò il viso rosso e sudato, tenendo le dita intrecciate fra i capelli. “Ma almeno siamo protetti dal panzer, no?” Riguadagnò una boccata di fiato più profonda. “Siamo al sicuro, qua dentro non possono più farci alcun male.”

“Non per molto.” Germania si appese con una mano allo schienale del suo sedile e si girò a rivolgere l’indice a Spagna. Inviò l’ordine. “Accerchia la zona rivestita dal fumo. Non uscirne, e soprattutto non fermarti. Non diamo loro occasione di capire dove ci troviamo.”

Spagna annuì, l’espressione di nuovo grave e concentrata. “Sissignore.” Fece schioccare le dita, rimpugnò il volante e diede un’accelerata. Si rimise in moto trasmettendo una forte vibrazione al resto dell’equipaggio.

Germania inviò la stessa occhiata autoritaria anche a Prussia. “Spariamo qualche granata. Facciamogli capire che non gli permetteremo di uscire da qui.”

Prussia annuì, gli occhi infiammati dalla sua stessa determinazione. “Agli ordini.” Raccolse il braccio di Romano, se lo portò dietro, e sistemò entrambi davanti al boccaporto del cannone, fra le casse di munizioni. Raccolsero assieme una prima granata perforante e la accostarono all’otturatore, pronti a far fuoco.

Italia si rosicchiò la punta del mignolo – i denti ancora battevano per la paura e lo sforzo della corsa – e inviò uno sguardo dubbioso in direzione di Germania. “Sono davvero ancora qui?”

“Sì.” Germania raddrizzò la schiena, indurì la tensione delle spalle, e inspirò l’aria fitta e stagnante che regnava all’interno del panzer. Sulla sua pelle sudata bruciava ancora quell’aura assassina e distruttiva trasmessa dagli occhi di Russia che lo avevano fulminato attraverso il fumo. Strinse i pugni, schiacciò quell’energia. “Non se ne sono andati, lo sento.”

La voce di Prussia riecheggiò nell’abitacolo. “Innescata!”

La granata finì di scivolare con un ting!, i gas di scarico soffiarono dal meccanismo dell’otturatore, e il colpo esplose con un tonfo. La granata fischiò attraverso la nebbia rossa, penetrò il suolo, schizzò una fontana di asfalto e terra, e rigettò una gonfia e brontolante colonna di fumo nero.

Prussia si chinò a estrarre un’altra granata dalla cassa di munizioni. “Ancora una, forza.” Romano lo aiutò, ed entrambi innescarono un secondo colpo.

Un’altra esplosione scosse il panzer e partì dalla bocca del cannone. La granata centrò la strada, sbriciolò un altro cratere, e il fumo incandescente sfrigolò assieme alla pioggia di detriti.

Italia si sporse ad accostare lo sguardo allo spioncino della sua postazione. La nebbia rossa riempì la vista, attraversata solo dalle colonne di fumo nero innalzate dalle esplosioni. “Vuoi farlo scappare?”

Germania rivolse a Italia un’occhiata interrogativa, non capendo.

Italia puntò l’indice all’esterno. “Con i colpi di cannone,” specificò. “Vuoi far scappare Russia?”

Germania capì e scosse la testa. “No, al contrario.” Anche lui tornò a guardare fuori dal suo periscopio. “Voglio che esca allo scoperto.”

“Ma perché dovrebbe farlo?” Un altro colpo di cannone tuonò dalla torretta. Italia si aggrappò a una rientranza della parete per rimanere in equilibrio anche sotto gli scossoni. “So che Russia non ha paura di niente, ma come potrebbe sconfiggerci ora che noi siamo dentro...”

Uno scoppio più acuto colpì la corazza esterna, innalzando uno schiaffo di luce e calore. Il tuono rimbombò come lo schianto di un martello su una lastra di ferro, l’esplosione si ritirò in un ruggito gorgogliante, e una ventata di fumo grigio oscurò la vista del periscopio e degli spioncini.

Spagna diede una frenata. Schiacciò le mani sul volante e tirò le spalle all’indietro per non finire sbalzato con la testa sul pannello dei comandi. Si guardò attorno. Gli occhi sgranati e i nervi a fior di pelle. “E questa da dove è arrivata?”

Italia si arrampicò sul suo sedile – l’esplosione lo aveva sbalzato a terra –, si strofinò la testa nel punto dove aveva sbattuto sulla parete, e rivolse a Prussia e Romano un’occhiata perplessa. “Non...” Tentennò. “Non l’avete sparata voi?”

Romano si aggrappò a una cassa, scivolò con le spalle in avanti, rimettendosi in piedi, e si massaggiò la schiena. “No, merda,” grugnì. “Questa veniva da fuori.”

Italia tremò fino alla punta del ciuffo arricciato. Si fece più piccolo contro lo schienale del sedile e accostò una mano alla bocca. “Oh, no,” esclamò. “Allora stanno già cominciando a spararci addosso.”

Germania strinse i denti, tornò anche lui al periscopio e si affacciò all’ala di fumo grigio che tappava la vista. Era una bomba anticarro, realizzò. In mezzo al fumo e alla nebbia rossa che continuava a regnare sulla superficie della strada, rivisse l’ultima occhiata glaciale e carica di sfida lanciata da Russia prima di finire inghiottito dalla massa brulicante di nebbia scarlatta. Sapevo che Russia non avrebbe ceduto facilmente.

Romano si spostò, urtò una delle casse di munizioni, e si tenne appeso a una sporgenza. “E se assalissero il panzer in gruppo, con i fucili e i grappoli di bombe come abbiamo fatto noi con il T-34 in battaglia?”

“Non riusciranno mai ad avvicinarsi,” ribatté Prussia. “Li colpiremmo prima.”

Romano fece schioccare la lingua fra i denti. “E se ci accerchiassero sapendo che comunque non avremmo a disposizione bocche di fuoco per tutti?”

Germania restrinse le palpebre attraverso il fumo che si stava diradando, in cerca di qualsiasi ombra, di qualsiasi altra presenza che avrebbe tentato di avvicinarsi al panzer e di assalirli. “In tal caso...”

Qualcosa sfrecciò in mezzo al banco di fumo rosso. Una nube s’ingrossò, alimentata da una risacca d’aria, e tornò a scivolare via, scoprendo nuovamente la sagoma nera che avanzava fra la nebbia, sempre più vicina e sempre più nitida.

Germania inarcò un sopracciglio, pizzicato dal dubbio che gli fece dimenticare dello scossone appena ricevuto dalla bomba anticarro. Si spinse più vicino al periscopio. “Cos’è quello?”

Dietro di lui, Prussia rizzò le orecchie, colto dalla stessa scossa di tensione. “Cos’è cosa?”

Anche gli altri si appiccicarono a guardare dagli spioncini.

La piccola ombra avanzava ancora verso di loro, spostando sbuffi di fumo simili ad ali e rendendo più sottile la nebbia rossa attorno a lui.

Italia spalancò le palpebre, socchiuse la bocca e trasse un sospiro sconvolto. “Ma è...” Inquadrò il viso del piccino, gli occhioni ambrati, i familiari codini che rimbalzavano a ogni salto di corsa, e l’uniforme troppo larga che oscillava dal corpicino. Non seppe se sentirsi sollevato o ancora più preoccupato. “È Moldavia.”

Romano si spremette al fianco di Italia. “Che cosa?” Sporse anche lui lo sguardo dallo spioncino e inquadrò la stessa scena, la stessa piccola sagoma che correva verso di loro come un leprotto. Rimase a bocca aperta, allibito. “Ci sta correndo addosso.” Si strofinò i capelli dietro l’orecchio, dove la botta presa dopo l’esplosione esterna pulsava ancora di dolore. “Perché diavolo ci sta correndo addosso?”

Spagna si strinse nelle spalle. “Forse è stato Russia a dirgli di farlo.”

Prussia sollevò un sopracciglio. “O forse sta cercando una breccia per poter uscire e scappare assieme agli altri?”

“Da solo?” rispose Germania. “Ne dubito. Ma se...” I suoi occhi si soffermarono sulle braccia del piccolo. Sull’oggetto attorno al quale erano strette, su quell’ombra che rimbalzava fra le ginocchia di Moldavia a ogni sua falcata di corsa e che gli arrivava fin sopra la testa. “Ha qualcosa in mano.” Germania restrinse le palpebre e mise a fuoco l’immagine offuscata dalla nebbia rossa. “Sta...” La bocca di Moldavia si muoveva, le labbra si aprivano e si chiudevano ritmicamente, in un borbottio cadenzato. Germania ci capiva sempre di meno. Cosa sta dicendo? Se solo... La sagoma fra le braccia di Moldavia assunse consistenza. I contorni si delinearono, componendo la forma cilindrica di una bomba anticarro dal manico di legno. Germania sudò freddo, una botta di nausea gli centrò la bocca dello stomaco. Ma quella... “Ha una bomba.”

Un silenzio glaciale si solidificò nell’ambiente dell’abitacolo.

Italia spalancò la bocca, strabuzzò gli occhi, e si girò di scatto verso Germania. “Una co-cosa?”

“Una bomba anticarro,” ripeté Germania. Staccò gli occhi dal periscopio, contrasse la fronte, irrigidendo il viso in quella buia e granitica maschera di tensione, e alzò la voce. “Ci sta correndo incontro con una bomba anticarro!”

Romano compì un rimbalzo che lo portò a sbattere le spalle alla parete. Il suo cuore schizzò in gola. “V-vuole farsi esplodere contro di noi?”

“Ma non può!” esclamò Italia. “È solo un bambino. Come potrebbe...”

Germania non gli diede tempo di finire la frase e picchiettò la punta del piede sulla spalla di Spagna. “Arretra, arretra! Allontanati da lui!”

Spagna scosse la testa, si riprese da quella visione che gli aveva annebbiato la mente, e arretrò senza però staccare lo sguardo dalla strada. “Ma sta davvero per...”

Moldavia impennò le piccole braccia sopra la testa, strinse le dita sul manico di legno fino a far sbiancare le nocche, mormorò ancora qualcosa a fior di labbra, e scagliò la bomba addosso al panzer.

La bomba cadde a terra, rimbalzò due volte sollevando due sbuffi rossi dalla nebbia, rotolò fino a sbattere sulla leva della sicura, e si fermò contro una scaglia d’asfalto sbriciolata da uno dei crateri.

Esplose.

Una risacca di luce si dilatò, divorò il manto di nebbia rossa, e divampò contro il panzer.

Il tuono li travolse, scosse l’abitacolo, e il rigetto di fumo ingoiò la sagoma del carro.

Italia cadde all’indietro e sbatté ancora sulla parete, Germania si riparò inconsciamente il viso, Spagna e Prussia chinarono la testa fra le spalle, e Romano si nascose dietro il braccio.

Lo scroscio si ritirò in un brontolio basso e cavernoso, la terra smise di tremare, e il rigetto di fumo e calore si abbassò, tornando a fondersi con il tappeto rosso.

Romano abbassò il braccio, le spalle ancora rigide e in tensione, il fiato sospeso, e sbatté più volte le palpebre. “Ci ha presi?”

Spagna risollevò la testa, tenendo le mani dietro la nuca, e si guardò attorno. Tutti presenti, tutti interi, niente fumo nell’abitacolo, il panzer era ancora in moto e non c’era nessun incendio in vista. Soffiò un sospiro di sollievo. “No, solo di striscio.” Rigirò il volante, schiacciò il piede sull’acceleratore, e riassestò la posizione. Corrugò la fronte. “Ma c’è mancato poco.”

Prussia attraversò la struttura inferiore del panzer e si riattaccò anche lui allo spioncino. “Dov’è finito lo scricciolo?”

Anche Italia fece lo stesso, affacciandosi alla fumata ancora rovente. Nonostante la botta di spavento, gli spasmi di paura e il cuore in gola, non riuscì a fare a meno di preoccuparsi. “Si sarà fatto male?”

Romano lo trafisse con un’occhiataccia di fuoco. “Ma che sei scemo?” sbraitò. “Quello stava per farci saltare in aria!”

“Ma è solo un bambino,” ribatté Italia per la seconda volta. “Forse non sapeva nemmeno quello che...”

“Eccolo!” L’esclamazione di Prussia congelò un altro velo di silenzio su di loro.

Fuori dal panzer, la foschia grigia nata dall’esplosione della bomba si abbassò, svelando la piccola sagoma di Moldavia che aveva ripreso a correre verso di loro. Un’altra bomba stretta fra le braccia, gli occhietti ambrati che fiammeggiavano come quelli di un vero guerriero, e le labbra toccate dai dentini aguzzi che mormoravano quelle parole incomprensibili.

Un nodo di paura ed eccitazione arse nel cuore di Prussia. La sua bocca sollevò un sorriso aguzzo e tremolante. “Ne arriva un’altra.”

Romano si appese al sedile di Spagna e gli strinse le spalle, tirandogli più volte la manica. “Filiamo via da qui prima di finire spappolati!”

“No, fermo,” lo bloccò Germania. “Non possiamo andarcene.”

Romano impennò lo sguardo verso di lui. “Cosa?” Corrugò un’espressione indignata. “E perc...”

“Perché Russia è ancora qui!” Negli occhi di Germania balenò quella luce combattiva che gli faceva battere il cuore, che guidava il suo respiro, che brillava sulla sua croce di ferro, e che aveva portato lui e la sua nazione fino lì. “È ancora qui e io non me ne andrò se prima non lo avrò affrontato. È chiaro che si sente in svantaggio, ed è per questo che ci sta spingendo ad arretrare, altrimenti...”

“Testa bassa!” Prussia si riparò la nuca e riabbassò la testa.

Spagna aprì un palmo sulla testa di Romano e gliela fece chinare, Italia si coprì con entrambe le braccia, e tutti trattennero il fiato, aspettando l’ennesimo botto.

La seconda bomba esplose, più vicina, e lo schianto fu come una frustata d’acciaio scaricata sulla corazza del panzer.

Italia si tenne aggrappato al sedile e cacciò un gemito di spavento, “Ah!”, inalando i vapori brucianti penetrati dallo spioncino.

Prussia fu il primo a guardare fuori, dopo che l’eco cessò.

Sulla strada, la piccola ombra emerse dalla nebbia rossa e dal fumo sollevato dall’esplosione. Moldavia aprì le manine a terra, dopo essere inciampato per aver lanciato la bomba, raddrizzò le braccia, scrollò la testolina scuotendo i codini impolverati, e rialzò il visetto. Spirali di fumo rosso gli aleggiavano attorno. Le sue guance sudate ne riflessero le sfumature, i respiri affrettati soffiarono piccoli sbuffi di condensa fra la nebbia, gli occhi d’ambra si accesero e gettarono una luce affilata e minacciosa come quella che splendeva sulle punte dei suoi canini.

Prussia ghignò, tornando a provare quel brivido d’entusiasmo che lo coglieva sempre davanti a un nemico. “Piccolo demonio.” Sangue slavo non mente, dopotutto. C’era da aspettarselo.

Moldavia diede una spinta con le ginocchia, sbatacchiò le manine da sotto le maniche per liberarsi della polvere, si girò con una piccola piroetta, e corse lontano dal panzer.

Spagna distese i tatti del viso, riprese fiato anche lui dopo lo scossone, ma un’espressione amareggiata gli attraversò lo sguardo. “Che vigliacchi,” commentò. “Mandare un bambino a...”

“Vigliacchi?” Prussia trattenne a stento una risata. “Stai scherzando? È geniale.” Davanti a lui corsero le immagini dell’inseguimento che li aveva riuniti tutti e cinque. Bielorussia intrappolata alla parete, il suo fucile calato sul fianco, e il braccio teso. Il corpicino di Moldavia a ciondolare dalla sua mano, quel musetto dolce e innocente che gli aveva impedito di premere l’indice sul grilletto della mitragliatrice e di scaricare la grandine di proiettili addosso ai due. “Persino io ci sono quasi cascato, prima.”

“E non dovrà più riaccadere.” Germania scivolò giù dal sedile del capo carro, scese nella struttura inferiore del panzer, e s’infilò fra le casse delle munizioni, dove tenevano anche il corpo della mitragliatrice. “Moldavia è sicuramente un diversivo.” Raccolse anche un nastro caricatore pieno. “Non so cos’abbia in mente Russia, ma non ho intenzione di starmene fermo ad abboccare alla sua trappola. Se ha mandato Moldavia contro di noi è perché sapeva che avremmo esitato. Quindi noi faremo ciò che Russia stesso non si aspetta.” Si gettò il nastro caricatore sulla spalla, imbracciò l’arma assieme al sostegno. “Combatterlo.”

Spagna lo guardò storto, restio. “Vorresti...” Posò gli occhi sulla mitragliatrice. Rabbrividì, sfiorato dall’alito rovente dell’arma. “Sparare addosso a Moldavia?”

“Non ho scelta.”

Spagna rimase a bocca aperta, imbambolato. Le sue labbra vibrarono ma non riuscirono ad assemblare nemmeno una sillaba. Si girò verso Prussia. Gli occhi imploranti e in cerca di appoggio. Non puoi permettergli di fare una cosa del genere.

Prussia si strinse nelle spalle, abbassò le palpebre e sospirò. “West ha ragione,” disse. Il tono intransigente come quello di Germania. “Non possiamo esitare, anche se è piccolo, anche se è un bambino. Lui rimane comunque una nazione come noi. E poi, se lo trattassimo diversamente, faremmo in ogni caso il gioco di Russia.”

Italia tremolò. Sul suo viso si stampò la stessa espressione di Spagna. “M-ma allora...”

“Lo tratteremo esattamente come un qualsiasi nemico,” concluse Germania. “Come se fosse pericoloso tanto quanto Russia.” Si riarrampicò alla sua postazione, sganciò la chiusura del portellone, e spalancò l’entrata della torretta. Un fascio di luce polverosa e dall’odore graffiante di esplosivo penetrò l’abitacolo. Germania posizionò la mitragliatrice in cima al panzer. “Se è questo che vogliono...” Infilò l’indice nel grilletto e prese la mira sul corpicino di Moldavia. “Allora è ciò che gli daremo.”

 

.

 

Il fumo acre e scottante della seconda esplosione evaporò dal piccolo cratere scavato dalla bomba anticarro che non era riuscita a raggiungere il panzer, s’inclinò sotto un alito di vento scivolato lungo la strada rivestita di nebbia rossa, e soffiò in faccia a Moldavia.

Moldavia strinse i pugnetti a terra, raccogliendo briciole d’asfalto sotto le unghie. Stropicciò il visetto ancora rosso per la corsa, annaspò piccole nuvolette di fumo contro la strada a cui aveva appoggiato la fronte, e tossì due volte. “D-dieci.” Sputò un ultimo grumo di fumo rosso. Si diede la spinta con le braccia, ricadde a sedere, e arricciò la punta del nasino irritato dal fumo e dall’odore di esplosivo. Strinse di nuovo i pugnetti sotto le maniche, si stropicciò gli occhi brucianti, sbatacchiò le palpebre, e rimise a fuoco il panorama stagliato davanti a lui.

La sagoma del panzer si ergeva ancora, nera e piatta dietro la nebbia rossa che separava Moldavia dal mezzo corazzato. Il motore ruggì, vivo e pulsante, trasmettendo forti vibrazioni elettriche alla strada macinata dai suoi cingoli. Secondo tentativo mancato. Non aveva lanciato la bomba abbastanza vicino da colpirlo.

Moldavia gonfiò le guance impolverate in un broncio da bimbo offeso, e strinse i pugnetti graffiati dalla caduta. “Uffi, non l’ho colpito di nuovo, non è giusto.” Si rialzò da terra, ripulì i pantaloni e scrollò la testolina. Si girò nella direzione da dov’era partito, sollevò le piccole braccia, facendo sventolare le maniche come ali, e corse da Russia. “Un’altra, un’altra,” ripeté a se stesso. “Devo correre e prendere un’altra scatola di fuoco.” Calpestò un lembo ciondolante dell’uniforme troppo larga. Inciampò. “Wha!” Cadde sbattendo sulle mani, si sbucciò di nuovo i palmi, diede un’altra spinta con le gambette, e riprese a correre. Il broncio di frustrazione di nuovo a ombreggiargli il visetto. “Uffi, inciampo!” Accelerò la corsa attraverso la nebbia rossa che si schiudeva sotto il picchiettare dei suoi piedini, e si preparò a raccogliere un’altra bomba sganciata da Russia e a tornare indietro per lanciarla di nuovo addosso al panzer.

Uno scroscio di spari piovve alle sue spalle. Le sfrecciate di calore trafissero la strada, schizzarono i detriti addosso alla sua schiena, e la spinta d’aria lo fece inciampare di nuovo. “Ah!” Moldavia cadde, sbatté le mani e il mento. Strinse una smorfia di dolore, strizzò gli occhietti, sopprimendo quel lampo che lo aveva abbagliato, e mugugnò un lamento. “Ahu, male alle mani.” Si tirò su e soffiò sulle manine insanguinate. “Brucia, brucia.” Soffiò ancora sui palmi sporchi di rosso, sventolò le dita, e piccole gocce di sangue piovvero a terra. “Male alle mani.”

Un ruggito rombò dietro di lui. L’avanzata del panzer accelerò, gli scossoni lungo la strada aumentarono, e l’ombra del mezzo si dilatò, seppellendolo nella gelida oscurità che odorava di carburante bruciato e di esplosivo.

Moldavia girò la testolina.

I cingoli del Panzer IV frantumarono i detriti d’asfalto e di cemento che scoppiarono sotto i suoi denti d’acciaio. Il panzer attraversò la foschia, accompagnato dal ruggito del motore, e il cannone della torretta forò la barriera di fumo rosso. La sua larga e nera bocca di fuoco puntò Moldavia. Sopra di essa, sbucò quella più piccola della mitragliatrice da cui evaporava un velo di fumo rovente.

Moldavia rimbalzò per la paura e i codini guizzarono assieme a lui. “Oh, no, il carro grande sputa fuoco!” Ricadde sulle manine aperte, diede due spinte con i piedini, e riprese a correre a quattro zampe. Un leprotto in fuga dal fucile del cacciatore.

Il panzer lo inseguì.

Altre mitragliate scoppiarono e precipitarono dietro di lui. Una scia di proiettili gli sfiorò i piedini, scintille brucianti gli piovvero addosso, schegge incandescenti volarono oltre la nebbia, e altri spari sfrecciarono sopra le sue spalle, facendo cadere una serie di lampi davanti al suo visetto.

Moldavia spinse su mani e piedini e scartò di lato. Cadde di spalle in avanti, sbatté una guancia grattando le labbra sul sapore amaro e caldo della strada, scrollò la testa, e riprese a correre come un coniglietto verso il cratere riemerso dalla foschia. Annaspò – il cuoricino galoppante e i polmoni brucianti –, e divorò gli ultimi due rimbalzi a quattro zampe. Spalancò le manine, tese le braccia, e si tuffò al riparo.

Le braccia di Ucraina lo presero al volo. “Ti tengo.” Ucraina lo strinse a sé, sospirò anche lei e gli strofinò una carezza sulla schiena. “Sei al sicuro, va tutto bene.”

Moldavia tremò fra le sue braccia, soffocò nella sua giacca un piccolo gemito terrorizzato. “Mi sputa fuoco.”

“Sputa fuoco?”

Moldavia annuì. Sollevò la fronte dal petto di Ucraina, strofinò le maniche sul visetto impolverato, sugli occhi brucianti, e sgranchì le dita insanguinate. “Il carro mi sputa fuoco.” Indicò la strada. “Sono inciampato. E lui voleva mordermi.”

“Ooh, tesoro.” Ucraina tornò ad abbracciarlo, aprì una mano sulla sua nuca, posò le labbra sulla sua fronte e lo cullò avanti e indietro. “Sei al sicuro, adesso non ti farà più male.”

Bielorussia scivolò loro affianco, si arrampicò con i gomiti lungo la parete del cratere, mettendosi di nuovo affianco a Russia, e seguì l’ombra del panzer che scorreva attraverso la nebbia rossa. Cercò ancora, a destra e a sinistra, e sbuffò. “Ma quanto ci impiegano gli altri tre idioti a tornare?”

Anche Russia si sporse a guardare dal cratere.

L’ombra del KW recuperato dai Baltici sgusciò fra le case ancora sommerse dalla nebbia rossa, scivolò in strada, ancora piccolo e lontano rispetto al panzer, e si mosse in mezzo alla foschia.

Russia provò un moto di sollievo e impazienza allo stesso tempo. “Stanno arrivando.”

Bielorussia si staccò dalla parete, riafferrò il suo zaino aperto, e vi tuffò le braccia dentro, in cerca delle ultime bombe. “Un’altra, un’altra.” Ne estrasse una tenendola per il manico e si girò verso Ucraina e Moldavia. “Deve correre a lanciargliene un’altra.”

Ucraina si allontanò e tenne Moldavia più stretto a lei, nascondendogli la testolina sotto il suo braccio. “No, è troppo pericoloso. E poi è tutto inutile. Anche provandoci, non riuscirà mai ad arrivare abbastanza vicino da fare qualche danno al panzer. Non ne vale la pena.”

Quello stesso pensiero attraversò anche la mente di Russia, gli rabbuiò lo sguardo. È vero. Anche Moldavia ha i suoi limiti, dopotutto. Nelle sue orecchie riecheggiarono gli scrosci metallici delle mitragliate, i lampi di luce sputati addosso al piccolo, e i proiettili rimbalzati fra le sue gambette in corsa. E Germania non sembra fermarsi nemmeno davanti a lui, non si è fatto scrupoli quando si è trattato di sparargli addosso. Fece scivolare lo sguardo sul KW in avvicinamento, ancora solo un’ombra piccola e distante in mezzo alla foschia rossa. Ma se nemmeno lui è servito a distrarre Germania, allora come posso fare per farci arrivare tutti al carro senza essere colpiti?

Bielorussia strinse i pugni sull’orlo del cratere e masticò un ringhio che le rese il viso nero. “Siamo nella merda.” Il ruggito del panzer tornò a passare loro davanti. “Questi ci fracassano prima che gli altri riescano a bloccarli.”

Una scossa di paura fece salire la pelle d’oca a Ucraina. Le sue braccia strinsero ancora più forte attorno al corpicino di Moldavia. “E allora cosa facciamo?”

Bielorussia soffiò uno sbuffo, levandosi una ciocca dal viso, strizzò i pugni che bruciavano di nervosismo fino a piantarsi le unghie nei palmi, e si rosicchiò il labbro fino a succhiare il ferroso sapore del sangue. Cosa facciamo? Cosa diavolo dobbiamo fare? Non possiamo rimetterci a lanciare le bombe a mano perché ne abbiamo poche e rischierebbero di rotolare via, mancando il panzer com’è successo prima. Moldavia può essere preciso ma non è abbastanza veloce. Se solo fosse rapido quanto una bomba lanciata al volo, allora... La soluzione la fulminò come una frustata elettrica scagliata sulla nuca. Rimase senza fiato. “Dammi lo sgorbio.”

Ucraina sbatté le palpebre, non capì. “Cosa...”

Bielorussia serrò la presa sul manico di legno della bomba che aveva appena tirato fuori dallo zaino. Fece da sola.

Acchiappò Moldavia per il colletto della giacca, lo sfilò dalle braccia di Ucraina, e risalì il cratere con un balzo solo. Strinse i denti sull’anello d’accensione della bomba, strappò l’ago dell’innesco e lo sputò a terra. “Conta!” Ficcò la bomba fra le braccia di Moldavia e corse verso il panzer tedesco.

Moldavia strinse la presa sul manico che gli era scivolato fra le braccia e sobbalzò, reagendo al contatto freddo del metallo e all’odore pungente dell’esplosivo. Capì al volo. Prese a contare. “Uno, due...”

La voce di Ucraina li inseguì. “Bielorussia, no!” Ma cadde inascoltata come un eco nel vento.

Moldavia proseguì la conta. “Tre, quattro...”

Bielorussia strinse la presa su di lui, saltò oltre un detrito, schivò uno dei crateri che foravano l’asfalto, e puntò la sagoma del panzer dietro la nebbia. “Più forte!”

Moldavia inspirò forte e strizzò gli occhietti. “Cinque!”

Bielorussia afferrò Moldavia anche con l’altra mano, pinzandolo per la giacca troppo larga. Tese i muscoli delle braccia, gli diede uno slancio all’indietro, e lo scagliò addosso al panzer.

Moldavia volò attraverso il banco di nebbia rossa. “Seeei!” Attraversò una risacca di vento fischiante e atterrò con un tonfo sulla torretta del panzer. Tossì due volte per la botta improvvisa al fianco. Rotolò e si aggrappò con una manina per non scivolare giù, tenendo l’altro braccio allacciato alla bomba ancora schiacciata al petto. Riprese fiato, tastò il ferro del panzer – Arrivato! – e sollevò un sorriso soddisfatto. Riprese a contare. “Sette.” Guadagnò un’altra boccata d’aria, raccolse le gambe per non scivolare dalla corazza, e strinse la bomba fra entrambe le braccia. “Otto, nove...”

 

.

 

Italia premette le mani alla parete e accostò il viso allo spioncino posteriore. Sbatté le palpebre, aspettò che la nebbia rossa si abbassasse e che Spagna rallentasse, e si soffermò sull’ombra appena comparsa fra gli edifici diroccati, sul rombo di motore che si era unito a quello del loro panzer, e sullo sbriciolare di cingoli estranei sul terreno ribaltato dalle esplosioni. Sollevò un sopracciglio, mimò un’espressione perplessa, e un ennesimo brivido gli percorse la schiena. “Ci stanno bloccando anche da dietro.” L’aria s’infittì, difficile da respirare come se gli avessero allacciato un cappio al collo.

Romano si girò nella sua direzione. “Che carro è?”

“Un KW.”

“Be’, per lo meno non è un T-34.”

Spagna si girò a sua volta e sollevò il piede dall’acceleratore, fermandosi. Lo sguardo crucciato come quello di Italia e la stessa sensazione di essere sfiorati da un alito famelico che batte sul collo, in attesa di spalancare le fauci e di azzannare la gola. “Devono averlo preso dal cantiere abbandonato.”

“Ma quando sono arrivati?” chiese ancora Italia. “Li abbiamo attaccati ed erano tutti assieme.”

“Devono essersi divisi mentre noi non guardavamo,” rispose Spagna. “Dopo il primo attimo di confusione con il fumogeno.”

Romano sbuffò, acido. “Allora Moldavia era davvero solo un diversivo per metterci nel sacco e non farci guardare indietro.”

Germania scartò il nastro caricatore svuotato appena estratto dalla mitragliatrice – era rientrato per cambiarlo –, e tese l’orecchio verso la loro conversazione.

Prussia gli si avvicinò, gli scivolò affianco, e anche lui distolse gli occhi dall’ombra del KW che li braccava dalla nebbia. “Che facciamo, West?” Lo guardò di striscio, socchiuse un occhio e flesse un sopracciglio. Tenne la voce bassa. “Li affrontiamo da dietro o continuiamo ad avanzare?”

Germania tenne la mitragliatrice fra le ginocchia, corrugò lo sguardo nascosto nella penombra, e si isolò dal rombare del panzer e da quello esterno del carro che si era appena immerso nel campo di battaglia. Qualcosa non gli tornava. Un fastidioso ronzio che non riusciva a scacciare dalla sua testa. Perché ci stanno bloccando la strada da dietro? Forse perché sperano che il carro stesso si riveli un’altra esca per noi? Vogliono spingerci ad attaccarlo? “Non abbocchiamo di nuovo,” rispose. “Dobbiamo avanzare e...”

Un’ombra corse incontro al panzer, più alta e minacciosa rispetto a quella di Moldavia. La nebbia si schiuse, rivelò la figura alta e slanciata di Bielorussia. I capelli biondi al vento, i passi aggressivi nella nebbia, e quel ringhio costante a incresparle la fronte. Reggeva Moldavia al fianco.

Italia impallidì di colpo e si prese il capo fra le mani. “Bielorussia!”

Bielorussia serrò le dita sulla giacca di Moldavia, gli diede uno slancio all’indietro, e lo gettò in mezzo al fumo.

Romano spalancò la bocca. “Ma cosa sta...”

Il corpicino di Moldavia spiccò il volo, sorvolò la nebbia rossa, e scomparve dal campo visivo. Tunf! Atterrò con un botto sulla torretta del panzer.

Tutti si guardarono. Davanti ai loro occhi sgranati e ancora lucidi di sconcerto si materializzò la stessa immagine. Moldavia appeso all’esterno del panzer con una bomba pronta a esplodere stretta fra le piccole braccia.

Un gemito corale rimbombò fra le pareti. “Aah!

Spagna si prese le guance e sbiancò. “È sulla torretta!”

Romano sgattaiolò all’indietro, lontano dal portellone, e anche lui sudò freddo, finì soffocato dal battito del cuore salito in gola. “Merda, questo ci fa esplodere tutti!”

Germania gettò lo sguardo verso il punto dove era atterrato il tonfo. Visualizzò l’esplosione rintronare attraverso la corazza, la torretta del panzer che saltava in aria come un tappo dalla bottiglia, la struttura sfasciata e incendiata come un barattolo di latta, il carro fuori uso, e Russia pronto a balzare fuori dalla nebbia e a fucilarli tutti e cinque mentre erano ancora intrappolati fra le fiamme.

Una scintilla rovente schioccò nella testa di Germania, gli trafisse il cranio come una scheggia di ghiaccio e riaccese in lui quello stesso sguardo spietato che lo aveva animato durante l’attraversamento del ponte a Borissov, quando aveva lasciato indietro Romano e aveva seguito solo l’odore di sangue e la voce che gli bisbigliava di pestare i piedi sulla sua vittoria, senza preoccuparsi delle conseguenze.

Nessuna pietà.

La sua mano volò sulla cinta, s’infilò nel fodero ed estrasse la pistola. Germania risalì la struttura superiore del panzer e si appese alla chiusura del portellone.

Italia scattò e tese un braccio verso di lui. “Germania!” Romano gli agguantò il polso prima che potesse seguirlo e lo tirò indietro, coprendolo fra le sue braccia e facendogli abbassare il capo.

Germania diede uno strappo, fece scattare la chiusura. “State tutti giù!” Riaprì la torretta facendo entrare una vampata di aria e fumo rosso, uscì dall’abitacolo, sollevò il braccio, e puntò la pistola su Moldavia.

Moldavia alzò la testolina. I suoi larghi e dolci occhi ambrati fronteggiarono quelli sottili e azzurri di Germania.

Moldavia sorrise, flettendo la sua boccuccia da diavoletto, e sollevò la bomba controcarro davanti al viso. “Dieci!”

Germania schiacciò il grilletto e impennò l’altro braccio per ripararsi.

Il proiettile scoppiò dalla canna della pistola, stridette sul cilindro della bomba, e finì inghiottito dalla bolla di luce e calore dell’esplosione.

Uno schiaffo di dolore bianco sbatté in faccia a Germania, azzannò il braccio che aveva sollevato davanti al viso, gli sbuffò addosso un alito di fuoco che scottò sulle guance e fra i capelli, e affondò nella sua pelle come un artiglio d’acciaio.

La bolla dell’esplosione si sgonfiò, la luce si abbassò assieme al boato che era ruggito su tutta la strada, e l’aria risucchiò la risacca di fumo, rigettando una colonna nera fin sopra la nebbia.

Germania mollò la pistola e si accasciò con un tonfo sordo sull’orlo della torretta. Strinse i denti, soppresse un gemito di dolore, e tutto il corpo si tese in uno spasmo che lo paralizzò, come se gli avessero sparato addosso una cannonata di chiodi. Una sensazione calda e viscida colò attraverso il viso, gli bagnò le palpebre serrate, attraversò le guance ferite e gli toccò le labbra, diffondendo il sapore familiare e nauseabondo del sangue. Altre scure chiazze di sangue si dilatarono attraverso la giacca, si sciolsero dal braccio azzannato dall’esplosione, e gocciolarono sulla superficie del panzer su cui era accasciato, laccandone la corazza. Un fischio ovattato gli riempì la testa. Dietro gli occhi strizzati regnava uno spazio bianco e accecante. Quella sensazione di dolore e stordimento gli ronzò attorno alla testa, formicolò attraverso i muscoli sanguinanti e indeboliti, discese fino alle gambe, facendogli ballare le ginocchia, e gli succhiò le energie dal corpo, lasciandolo a galleggiare in uno spazio caldo e leggero. Stava per svenire.

Voci affannate superarono il fischio che gli perforava le orecchie e gli si avvicinarono. “Tiriamolo dentro, svelti!” Qualcosa – una serie di braccia – si aggrappò a lui e lo trascinò di nuovo all’interno dell’abitacolo.

“Germania, stai bene?” La voce di Italia, scossa e inconfondibile, squillò accanto al suo orecchio. “Dimmi qualcosa!”

Si sovrappose quella di Prussia. “Richiudete la torretta!”

Lo schiocco del portellone sigillato gli diede una scossa alla testa, interrompendo il ronzio e lo sciamare di stelle davanti agli occhi. Germania sbatté le palpebre, sciolse il sangue colato fino agli occhi, lasciando che sgorgasse come un pianto scarlatto attraverso il viso ferito, e si aggrappò al braccio che non sentiva più. Una scossa di dolore schioccò fino all’osso. Le dita affondarono nella stoffa lacerata, zuppa del suo sangue che continuava a trasudare, e nelle ustioni che gli avevano divorato la carne. Attraverso il velo rosso e umido che gli tingeva la vista, scorse di nuovo uno sciame di stelle stordenti.

Sagome offuscate attorno a lui si rimisero a fuoco nell’ombra che regnava all’interno del carro.

“Porca troia!” esclamò la voce di Romano alla sua sinistra. “Ti sei preso in faccia una bomba anticarro!”

“West.” Prussia gli strinse la mano sulla spalla, gli diede una piccola scossa. “Sei intero?” Uno spasmo di timore aveva reso i suoi occhi rossi e traballanti come fiammelle.

Germania strinse un’altra volta il viso, bagnato dal sangue che continuava a zampillare e a finirgli negli occhi e fra le labbra. Il cuore accelerò. Una scarica di adrenalina pulsò dal petto, bruciò attraverso i muscoli e divorò il dolore, piovendogli addosso in una sferzata di energia rovente.

Germania si passò la mano sul viso, imbrattò le dita di sangue, e raschiò via la patina rossa dagli occhi. “Sto bene.” Un’ennesima fitta al braccio lo frustò attraverso le ustioni. Germania strinse il muscolo su cui si era fusa la stoffa carbonizzata della manica e storse solo una breve smorfia. “Solo qualche graffio.”

Spagna si tolse la giacca, gli premette un lembo sulla fronte, assorbì il sangue che continuava a sgorgare dalle ferite alla testa, e gli avvolse la stoffa attorno al braccio massacrato. “Tieni premuto.”

Prussia si precipitò a spiare per primo dal periscopio. Di nuovo il fumo otturava il panorama. “Moldavia dov’è?”

“Sarà esploso anche lui?” propose Romano.

Tutti tornarono a guardare attraverso il fumo, fra i vapori dell’esplosione che stavano calando, tranne Italia che rimase affianco a Germania, a tamponare le ferite e ad asciugargli il sangue dal viso.

I vapori delle esplosioni e quel che rimaneva della nebbia rossa si distesero, la fumata si schiuse e denudò la superficie della strada forata dalle esplosioni. Il corpicino di Moldavia giaceva immobile fra i detriti. Le gambette stese e il viso raccolto fra le braccia accasciate. Non si muoveva.

Spagna schiuse le labbra in un sospiro di tensione. Una dolorante fitta al petto gli soffocò la voce. “È...” Non ebbe il coraggio di dirlo.

Moldavia spostò una gamba e il suo piedino urtò la scaglia di una maceria. Le sue spalle tremarono e la schiena si gonfiò, come se avesse tratto un respiro.

Anche Spagna riprese a respirare. Le guance ghiacciate dalla paura tornarono a intiepidirsi. “Si è mosso.”

Moldavia tirò a sé un braccio, aprì la manina a terra, sollevò le spalle, il suo corpicino si tese e tornò a cadere. Tremò di nuovo.

Italia sospirò, ancora con le mani premute sulla stoffa che tappava le ferite di Germania. “Allora è vivo, per fortuna.”

“Già,” commentò Spagna, di nuovo scettico. “Ma non mi sembra in grado di alzarsi e di scappare.”

Romano si strinse nelle spalle. “Forse Russia ha intenzione di venire a salvarlo?”

“Ma noi cosa dovremmo fare, allora?” chiese Italia. “Dovremmo...”

“Non vi muovete.” Germania strinse la mano su quella di Italia, anch’essa sporca di rosso dopo aver premuto sul lembo di stoffa imbevuto del suo sangue. Guadagnò fiato, sciolse il formicolio che pizzicava attraverso il viso, e sciolse lo sciame di stordimento che gli accecava la vista. “Aspettiamo che Russia esca a recuperarlo.” Guardò dietro di sé, attraverso il velo di sangue che continuava a sgorgare lungo il suo viso e a imbrattargli le ciocche di capelli ricadute sulla fronte, e raggiunse la presenza del KW fermo, in agguato nella nebbia, in attesa di ordini. Germania gli inviò un’occhiata ostile. “Russia uscirà, o manderà qualcuno a recuperarlo. Non lo abbandonerebbe mai in quelle condizioni, sapendo che noi potremmo attaccarlo nuovamente e ucciderlo, ora che non è in grado di scappare da solo. Appena qualcuno di loro uscirà, noi lo colpiremo. Chiunque si farà avanti per recuperare Moldavia.”

Spagna sbarrò gli occhi, cominciò a capire. “Do...” Le sue labbra tremarono, un’ombra calò attraverso gli occhi. “Dovremmo usare Moldavia come esca?”

“Loro sono stati i primi a farlo,” si giustificò Germania. “E se Russia crede che mi farò fermare da questo...” Si rimise in piedi, calpestò le chiazze gocciolate dalle sue stesse ferite e trasudate attraverso l’uniforme, si riaggrappò alle sporgenze delle pareti, e si diede una spinta per risalire la sovrastruttura del carro. “Si sbaglia di grosso.” Si rimise a combattere.

   
 
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