Serie TV > Il Trono di Spade/Game of Thrones
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Autore: Rossini    03/12/2018    0 recensioni
Prosegue la saga de "Le cronache dei draghi e dei re", cominciata con "L'apprendista di fuoco". Il sistema è ormai sovvertito: la pace che per secoli era perdurata, adesso è stata interrotta da una serie di trame, guerre e rivolgimenti che hanno persino portato al ritorno di un'antichissima dinastia. Ma i fratelli del re appena deposto sono ancora tutti in circolazione, per quanto sparsi su tre continenti. Spetta dunque al nuovo sovrano Targaryen gestire questa complessa situazione, che diviene ancora più ingarbugliata pensando alle misteriose e oscure energie che all'est e all'ovest risorgono sotto forma di vita e fiamme. Esiste forse qualcosa che i Sette maghi del passato più ancestrale, col tempo decaduti e divenuti schiavi, nascondono a tutti i partecipanti - nessuno escluso - di questo ennesimo e disastroso gioco del trono?
Genere: Avventura, Fantasy, Guerra | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Slash, FemSlash | Personaggi: Altri
Note: Lime, Otherverse | Avvertimenti: Non-con, Spoiler!, Tematiche delicate
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Capitolo 20

IL VELENO DEL SERPENTE

 

 

 

Era passata la notte, poi un altro giorno e poi un'altra notte. E Garhel era ancora vivo. I sicari di Panecha non lo avevano raggiunto perché si era dato alla macchia, e quando uno come lui decideva di sparire, spariva. Non aveva avuto la forza di suicidarsi: ci aveva pensato, ma poi si era reso conto che una scelta di quel genere – anche con la tragedia che lui aveva sulle spalle – era molto meno semplice di quanto si potesse pensare. Non aveva mangiato, né bevuto e aveva dormito poco. Forse questo alla lunga avrebbe potuto ucciderlo meno clamorosamente, ma ancora non era questo il caso. E poi l'ex Tribuno Popolare aveva trovato una nuova momentanea ragione: un motivo per prolungare ancora per poco la sua misera esistenza. Uccidere Justus Panecha.

Si trattava naturalmente di un'operazione altamente complessa. Da una parte Sawela era anche uno dei più grandi guerrieri della storia recente, uno che sapeva come uccidere qualcuno. Ma dall'altra Panecha era probabilmente l'uomo meglio protetto dell'intero continente orientale. Non solo il suo palazzo orizzontale era un labirinto nel quale poteva anche capitare di entrare senza poi riuscire ad uscire. E non solo quell'edificio era più pieno di guardie armate di affilate lance e sciabole piuttosto che di qualsiasi altro genere di impiegato. Ma Panecha stesso notoriamente era più agile col fioretto di quanto a una prima occhiata la sua stazza non avesse lasciato immaginare. Sawela non l'aveva mai visto duellare, ragion per cui era orientato a pensare che quelle voci non fossero altro che il genere di dicerie cui di norma viene ammantata una figura “mitica” come il re-mercante era serenamente definibile. Alcune voci nascevano spontaneamente, altre venivano messe in moto dalla corte stessa. Per esempio una volta Garhel aveva sentito dire che Lord Justus parlasse più di mille lingue, e chi diceva quella scempiaggine la diceva con convinzione: ma un uomo di mondo come lui sapeva che per quanto entrambi i continenti fossero luoghi pieni di popoli dalle mille culture e i mille segni, le lingue del mondo a mille di sicuro non ci arrivavano. Rasentavano forse il centinaio. Da un altro punto di vista però bisognava ammettere che era prassi piuttosto comune per un grande nobile addestrarsi in tutta una serie di arti militari tra cui principalmente la scherma; ecco questo era altrettanto incredibile: pensare che mai Panecha, siccome era grasso, avesse impugnato una spada nella sua vita doveva necessariamente essere una panzana almeno grande quanto quella che parlasse mille lingue. Quindi ciò che preoccupava Garhel davvero era: trovare un modo per entrare a palazzo, orientarsi sterminando guardie fino a trovare un modo per trovare il Lord e poi, una volta fatto ciò, stanco, debilitato, affamato e assonnato avrebbe dovuto usare la sua sciabola contro quella sì di un grasso elefante, ma un grasso elefante fresco, profumato e forse ben addestrato. Era un'impresa pressoché impossibile, a meno che...

Banfred! Il giovane, grasso, rampollo poteva benissimo essere la chiave per risolvere tutto quel dilemma. Certo, anche lui era protettissimo, ma meno di Justus. Forse anche lui nella vita aveva preso in mano una spada, anche più di una volta, ma sempre meno di Lord Justus. E lui era più facilmente manipolabile, e dunque avvicinabile. Garhel non l'avrebbe ucciso, se le circostanze non lo avessero richiesto. Ma avrebbe potuto ferirlo, fargli versare qualche goccia di sangue, comunque spaventarlo seriamente. Questo avrebbe fatto di lui quell'aguzzino di innocenti cui nella vita non era mai stato, anche se una certa propaganda a lui avversa aveva tentato di descriverlo a questo modo.

Non fu affatto un'impresa semplice. Più di una volta Garhel fu sul punto di ripensarci: usare un giovane innocente e mettere a rischio la sua vita per cosa? Uccidere Justus e poi? Risolvere cosa? Costruire che cosa? Quale speranza poteva ormai avere il suo avvenire senza sua moglie e i suoi figli? Quale futuro, quali ambizioni? A nessuna di queste domande si poteva rispondere con la morte di Justus Panecha. Eppure certamente avrebbe potuto considerarsi un segno il fatto che proprio la volta in cui si era deciso, la volta in cui aveva ringuainato la sciabola e stava per dirigersi al di fuori del palazzo-labirinto, esattamente in quell'istante Banfred venne fuori. Un gruppo di sei uomini lo stava scortando al di fuori dei cancelli. Garhel si ritrovò perplesso. Ci pensò e ripensò mille volte in pochissimi secondi. Dopodiché decise di lasciarsi guidare dallo stomaco anziché dalla testa e, precipitando dall'alto, piazzò un pugnale in ciascuna delle schiene dei due malcapitati guardiani su cui era finito per abbattersi. Altri due, sguainarono le loro di spade e si scaraventarono sul Lord Tribuno, mentre gli altri due ancora spingevano Banfred via da quella situazione. Ma Garhel non ci mise molto a raggiungerli: lasciò entrambi i suoi avversari per terra, anche se uno dei due non morto al cento percento, e raggiunse l'ultima avanguardia a difesa del principino. Turbinò, svolazzò, danzando nell'aria e nella sabbia come solo lui sapeva fare, e infine rimase da solo con Banfred. Lasciò un altro dei gaglioffi in piedi, anche se disarmato, e lo intimò di raccogliere l'altro ferito e insieme di avvertire Lord Justus che lui era lì: Garhel Sawela, con una lama posata sul collo flaccido del principino.

Panecha venne e con lui praticamente un esercito di sicari. Era chiaramente infervorato: in un modo tale che Garhel non lo aveva mai visto. Lord Justus infatti era il campione della calma e del controllo, con quella sua voce felpata e quel tono pacato anche quando si stesse parlando di tragedie. Solo che questa volta la tragedia lo riguardava personalmente. Per la seconda volta in poco tempo un atteggiamento del Lord mercante sorprese il vecchio Tribuno Popolare del re. L'ultima che l'aveva visto, l'aveva visto sconvolto per la questione della guerra con la dea-drago. Lui, che aveva sempre un'idea, stavolta non ne aveva avute. E adesso era perfino incazzato!

«Voglio essere molto chiaro, Garhel» disse l'elefante al suo vecchio nemico «Ci sono una cinquantina di dardieri armati contro di te. Una ventina di loro sono tra i meglio addestrati di questo continente. Sono più che sicuro che almeno dieci di loro sarebbero in grado di colpirti alla fronte a un mio cenno, molto prima che tu possa spingere la lama verso il collo di Banfred. È già finita, prima di cominciare. Mi spiace»

«È un rischio che sono disposto a correre, mylord... e tu?» bluffò Sawela, facendo sgorgare un po' di sangue dal primo grasso strato della pelle del ragazzo, «Lo sei?»

«Che cosa vuoi?»

«Voglio te! Disarmato, al suo posto». Ogni volta, con Justus, era come giocare una partita a qualche gioco mentale complicato. Garhel in realtà non ne conosceva, ma pensava che era in quel modo che ci si doveva sentire, ed era in quel modo che bisognava guardare l'avversario. Costantemente come se avessi il controllo della situazione. Da agitato che era all'inizio, il Lord elefante era di nuovo tornato serafico. Disse: «Molto bene. Mi serve del tempo per pensare». Pensare? Ma pensare a cosa? Per quanto tempo? La potenziale risposta preoccupò Sawela non poco, quando Lord Justus tirò le redini del suo cammello e fece marcia indietro, mettendoci pure un pacato «Con permesso». Che voleva fare? Stancarlo? Garhel Sawela era un uomo che aveva appena perso moglie e figli: non si sarebbe stancato. Magari la sua minaccia nei confronti del suo storico nemico aveva avuto una qualche presa... anzi, doveva esser proprio così se Lord Justus era passato in pochi secondi da: “ti ammazzo lo stesso anche se fai il minaccioso”, a “Ok, come vuoi, ci penso e magari mi presto al tuo desiderio”, cosa che – detta in questi termini – appariva piuttosto assurda. Anche se era un diplomatico, Panecha di norma martellava fin quando non otteneva ciò cui il suo cuore maggiormente anelava. E in quel momento il suo cuore anelava Banfred, vivo, in salute e quanto più possibile lontano da lì.

«L-Lord... Lord Garhel» a un certo punto sussurrò il principino al suo potenziale aguzzino «Ma perché stai facendo questo? I-io pensavo che i rapporti tra te e mio padre fossero migliorati! P-pensavo c-che...»

«Tu pensi troppo, figliolo, è questo il tuo problema» rispose Garhel sbrigativamente, che in quel momento a tutto stava pensando meno che alla più appropriata risposta da dare alla sua vittima. Povero Banfred: era una vittima di un gioco sporco e schifoso. Un vecchio gioco che Garhel e Lord Panecha giocavano da anni e che aveva già seminato altri caduti: la bellissima moglie e i piccoli figli di Sawela tra questi. Il tempo trascorse senza che Banfred ebbe ottenuto soddisfazione delle proprie domande. Alla fine ritornò Lord Justus, per un tempo che sì a Garhel Sawela parve infinito, ma che non si prolungò oltre il quarto di giornata. Panecha accettò di piegarsi al ricatto del Lord Tribuno Popolare; ma a questo punto Banfred tornò ad esclamare, con maggiore veemenza, quasi gridando: «Non farlo Lord Garhel! Che ti è preso? Perché stai facendo tutto questo?!»

«Perché NON HA PIÙ SENSO!» gridò a sua volta Garhel, forse per la prima volta sfogandosi davvero dalla perdita. Proseguì: «Nulla ha più senso da quando quel maiale di tuo padre ha fatto quello che ha fatto. Non ha senso la guerra, non ha senso il popolo. Non abbiamo senso né te, giovane Banfred, né io, né tuo padre, né nessun altro. E allora facciamola finita e basta. Io e te, Lord Justus: finiamola, come l'abbiamo cominciata». Nella sua testa, tutto quello che aveva detto aveva un significato. Ma si rese conto che alla fin fine non aveva poi nulla di chiaro, se il grassoccio Banfred, sempre più disperato e confuso, tornò a fare domande, questa volta a suo padre: «Q-quello che ha fatto? Padre? C-che cosa avete fatto?»

«Era necessario» fece Panecha serissimo, cattivissimo, «Talvolta in guerra siamo costretti a commettere atti di cui... non ci si può che vergognare. Ma è per il bene comune...»

«Oh, finiscila con questo alibi del bene comune, Justus!» gridò ancora Garhel, la mano ben salda sul pugnale che premeva sulla gola del piccolo Banfred, «È una scusa vecchia e logora! Hai ucciso centinaia di persone! Hai ucciso donne e bambini! Tu... hai ucciso LA MIA FAMIGLIA!» gridò Garhel, e pianse. Anche Banfred piangeva. In lacrime, domandò a suo padre: «P-padre... è... è v-vero?»

«Ho già detto che provo profonda vergogna...» rispose il re-mercante «Ma più di così non posso fare. Forza, Garhel. Lascia mio figlio e prendi me... è me che vuoi». Per un istante, un solo brevissimo istante, Garhel ci pensò davvero. Non ci aveva pensato per tutto quel tempo, l'idea non lo aveva neanche sfiorato, ma ora che l'elefante aveva barrito quelle parole, forse... forse la tentazione di ammazzare proprio Banfred non era poi in lui così lieve. Forse era questo che Lord Justus meritava: non la morte. Meritava la vita. La vita senza il suo unico figlioletto. Pressò la lama del proprio pugnale sulla gola del principino, il sangue sgorgò, Banfred urlò di dolore, Justus gridò: «No!» e corse verso suo figlio con tutta la rapidità che la sua mole potesse permettergli. Dopodiché Garhel gettò in terra il principino, vivo, e afferrò il padre. Lui non era un mostro come Lord Justus. Avrebbe voluto esserlo, ma non lo era. E forse per questo, alla fine, non avrebbe potuto che perderla quella loro vecchia guerra.

«Adesso racconta!» ringhiò il vecchio Lord Tribuno «Dillo a tuo figlio, dillo a tutti»; e infine urlando ancora: «DIGLI DI COME HAI UCCISO LA MIA FAMIGLIA! Digli che è vero! DIGLI CHE È VERO!»

«Ehm... è... è vero». Ormai anche Banfred piangeva a dirotto. Tanto che Lord Justus decise anche di aggiungere: «Ma, Banfred, vedi... con una parte dei ribelli ridotta di numero e un Lord Sawela come nostro alleato a Braavos, avremmo forse potuto eliminare per sempre tutta la pressione che loro esercitavano su di noi. Per quante notti abbiamo parlato dicendoci che la principale minaccia per la nostra famiglia era la plebe agitata che da quando Sawela soffia sul fuoco della rivoluzione s'è via via ingrossata sempre di più, sempre di più»

«M-ma quella è la nostra gente» balbettò Banfred, per una volta dieci, cento, mille volte più saggio del proprio stesso padre, «Noi dovremmo accoglierla, comprenderla... non sterminarla»

«Ora è tardi» chiuse Garhel, piangendo anche lui, «Addio Banfred. Sarai un Lord molto migliore di tuo padre. Saluta anche lui». Era tutto pronto. Anche sul collo del grasso Lord degli elefanti il pugnale di Garhel Sawela cominciò a pressare, e ancora sangue venne versato. Ma di meno: molto meno. Sawela fu costretto a mollare la presa. Un pizzico, come un morso di qualche ridicolo insetto, lo prese all'incirca verso l'anca destra. Poi a poco a poco Sawela sentì perdere i sensi. La vista gli si annebbiò. Sentì prima afflosciarsi il braccio del pugnale, poi l'altro e poi le gambe. Cadde a terra. L'ultima cosa che vide fu qualcosa di piccolo, lungo e verde smeraldo attraversare per meno di un secondo il suolo nel quale aveva appena battuto la testa.

 

 

 

L'atmosfera e il clima delle dune di Dorne stavano inebriando il Lord Protettore dell'Altopiano. Gino neanche sapeva più quanto tempo fosse passato dalla sua partenza: mesi sicuramente. Ma... addirittura un anno, forse? La buona notizia era che da Altogiardino non arrivavano cattive notizie: Gino era ancora formalmente il Lord, quelle serpi dei parenti della sua promessa – Shanty Tyrell – se avevano allungato gli artigli sullo scranno più alto, lo avevano fatto senza troppo rumore. D'altro canto, non c'erano maschi di quella famiglia in grado di reclamarlo, lo scranno più alto: erano tutti o dei poppanti o dei vecchiacci prossimi al trapasso. Shanty era la loro carta migliore, e Gino con lei. Però avrebbero potuto insospettirsi...e il fatto che non giungevano neanche voci troppo roboanti sul fatto che il Lord dell'Altopiano fosse sparito lasciava intendere che per quel momento ancora il piano di Gino aveva funzionato: Shanty stava temporeggiando bene; il Lord dell'Altopiano c'era, anche se non si vedeva. Tuttavia giorno dopo giorno quella strategia si affievoliva e l'ansia del giovane Barron il Guercio cresceva: più tempo rimaneva a Dorne, più aumentavano i rischi per la sua posizione di Lord.

Questa del Guercio era nuova. Gino l'aveva sentita pochi giorni prima, mentre uno dei suoi compagni lì a Dorne parlava con Jon Barthalo. Lo faceva sentire strano avere un nomignolo, un modo con cui i suoi sottoposti si riferivano a lui quando pensavano che non ascoltasse. Da una parte gli faceva ancora male guardarsi allo specchio e trovare un'orbita vuota al posto del suo bellissimo occhio destro color castagno. Dall'altra però, “Guercio” era un epiteto da duri. Che unito alla discreta barba nera che ormai gli cresceva e si stava lasciando crescere, e unito a quel suo modo di combattere tutto strano ma letale che gli veniva dalle sue vecchie lezioni con Kellan e gli altri guerrieri-ombra, gli facevano credere che ormai il suo ruolo di Lord fosse piuttosto assodato. Non c'era più suo padre, e Constant Lannister doveva ancora pagare per questo. Non c'era più sua madre, fin da quando era ragazzino. C'erano solo i Tyrell, i Barthalo, Braff e altre serpi simili... e lui era lì in mezzo a loro. Avrebbero potuto chiamarlo “Gino il prono” o “Gino l'asservito”. E invece lo chiamavano “Gino il Guercio”.

C'era tuttavia una seconda non proprio buonissima cosa che conseguiva a tutto questo ragionamento sul suo rapporto con i suoi sottoposti. Quando aveva pianificato la missione a Dorne, scegliendo accuratamente tra uomini di cui potersi fidare (Barthalo escluso), Gino era convinto di poter instaurare con loro un rapporto di amicizia. E questo significava che se volevano chiamarlo Guercio avrebbero dovuto farglielo anche in faccia, invece lo dicevano di sottecchi, come cercando di evitare una sua reazione rabbiosa. Era il clima che di solito Jon Barthalo riusciva a creare, fin da quando erano piccoli: era stato un errore portarselo appresso, di questo Gino “il Guercio” Barron ne era ormai convinto da diverse settimane. E d'altro canto, cercare di farseli amici sì, ma insistere... Gino non era Braff, tutta quella cosa della diplomazia decisamente non era il suo mestiere. Se quelli con lui non volevano diventare amici, se preferivano rimanere nel loro ruolo da sottoposti cospiranti con Jon Barthalo, beh... che ci rimanessero pure. Tanto lì a Dorne erano tutti stranieri: alla fine dei conti, sarebbero comunque stati costretti a fidarsi l'un l'altro quando l'occasione lo avrebbe richiesto.

Certo, se si considerava anche tutta quella storia del giovane Willys o Willas, anche quest'ultima conclusione poteva non essere vera. Stando a Darkhon Dayne, il giovanotto cantava degli spostamenti di Gino fin da quasi la loro partenza, a metà delle famiglie nobili di Dorne, amiche, nemiche o neutrali. Questo significava che altro che chiamarlo “Guercio” di nascosto: il Lord di Altogiardino, lì a Dorne, potenzialmente non poteva fidarsi di nessuno. Questa “Spada dell'Alba” poi era anch'essa a sua volta non poco misteriosa. Prima di tutto, Gino non aveva mai sentito parlare di una Spada dell'Alba nel tempo presente, di un cavaliere vivente quindi che portasse tale nome. Le Spade dell'Alba erano guerrieri leggendari cui raramente nella storia veniva affidata la possibilità di brandire quella strana spada forgiata di quello strano metallo biancastro. Dovevano essere particolarmente valorosi nelle loro imprese e nascere in momenti ben precisi della storia. Perché le Spade dell'Alba non erano cavalieri che spuntavano uno ad ogni generazione, anzi: per intere generazioni quella spada leggendaria era rimasta rinchiusa gelosamente dentro a una teca. Si trattava dunque di una cosa troppo “grande” per non esser mai giunta alle orecchie di Gino. Che poi questo Darkhon Dayne era pure relativamente giovane: non dell'età di Gino, ma manco di quella di uno che veniva narrato nelle ballate. E per inciso: tutte le Spade dell'Alba venivano raccontate nelle ballate. Peraltro, Dayne aveva confinato Gino in un posto che quest'ultimo non aveva ben capito. Davvero: in quel momento, il signore assoluto di quei territori non sapeva bene dove si trovasse. Se Darkhon avesse voluto ucciderlo e autoproclamarsi Lord dell'Altopiano, anche ammettendo che Darkhon non fosse poi chissà quale Spada dell'Alba e Gino invece ricordasse ogni trucchetto appreso dai guerrieri-ombra, Darkhon era a casa sua ed era circondato – lui sì – da uomini davvero fedeli. Gino invece su questo terreno era chiaramente in difficoltà. Mai e poi mai avrebbe voluto ammetterlo – e lo avrebbe ammesso – ma quella era la tipica situazione che gli faceva rimpiangere Lord Braff. Braff che da sempre faceva sentire Gino un pupazzo animato per le sue imperscrutabili ragioni politiche. Braff che ancora gli doveva spiegare come mai Gino mai e poi mai avrebbe potuto ricevere un allenamento completo da soldato-ombra che gli potesse permettere di divenire un sicario abbastanza abile da raggiungere Constant Lannister da solo e da solo ucciderlo; quel Constant Lannister che a sua volta aveva ucciso suo padre.

Insomma la confusione nel cuore e soprattutto nella testa di Gino ormai regnava sovrana. C'era bisogno di un qualche tipo di svolta importante. L'ideale sarebbe stato l'arresto di Saestrya Martell ma col cavolo che quella era rimasta nello stesso nascondiglio dove Gino l'aveva beccata la prima volta, il che riportava tutti i progressi di nuovo a zero. Poi c'era la solita alternativa: una lettera a Braff, ma Gino non intendeva tornare a dare soddisfazione a quell'individuo che l'ultima volta neanche si era degnato di renderlo partecipe su come aveva risolto il problema: il famoso caso del demonio di fuoco magicamente convinto semplicemente a lasciare la zona. Gli restava di tornarsene a casa con la coda tra le gambe. Una dichiarazione di sconfitta quindi, ma la dichiarazione di sconfitta di un Lord orgoglioso che non poteva più lasciare che i fatti del mondo lo dominassero a quel modo. Fu così che Gino decise: per il momento avrebbe accantonato l'affare Saestrya Martell e sarebbe ritornato a casa a pensare. Questo significava due cose bruttissime: uno, sposare Shanty, che sicuramente lo aspettava già se non con l'abito bianco, quasi. Due: rischiare che Saestrya accrescesse ancor di più la propria influenza su una Dorne già abbastanza traballante. I Dayne, se Darkhon Dayne ne era davvero un rappresentante, avrebbero potuto essere un buon baluardo, un vessillo da portare in giro per il deserto a far vedere che Barron aveva amicizie anche lì. Ma... bisognava convincere Darkhon.

Fu così che il giovane Lord richiese d'incontrarsi col suo ospite: subito. Gli avrebbe riferito della sua decisione di tornarsene ad Altogiardino e lo avrebbe gentilmente, ma autorevolmente, invitato a venire con lui. Rimase un po' stranito quando gli assistenti di palazzo gli domandarono se voleva cordialmente raggiungere Sir Dayne presso le terme di quello strano castello sperduto nel deserto. Gino non era mai stato a delle terme: alla Dodecapoli non ce n'erano. A Roccia del Re ne aveva sentito parlare, ma figurati se aveva avuto il tempo, il permesso o perfino il pensiero finché era stato il tirapiedi dell'ormai deceduto Lorthan della Casa Tyrell. Decise quindi di assecondare la un po' bizzarra richiesta di Dayne.

Certo: forse si sarebbe aspettato un'accoglienza un po' più istituzionale una volta sceso in quel posto. Erano sempre delle terme, quindi chiaramente ci si metteva nudi a fare un bagno caldo, ma... siccome Gino era di questioni politiche che voleva ragionare, aveva sperato che almeno lui e Darkhon fossero da soli. Invece la stanza era piena e dentro quella immensa pozza calda, oltre che Darkhon – che all'inizio Lord Barron fece fatica a scorgere – c'erano anche praticamente tutti i suoi cavalieri, e anche qualcuno della compagnia di Gino (ma non Jon Barthalo). C'erano poi alcune donne, tutte giovani naturalmente e poppute e... praticamente non ancora esattamente occupate in atti carnali, ma sostanzialmente già addosso ai cavalieri al servizio di Dayne. Situazione ambigua a dir poco. Già quello non gli piaceva, e poi non gli piaceva l'idea di immergersi in acqua calda in quella dannata Dorne che era già calda di suo. Tutto quel caldo lo avrebbe fatto impazzire! Tuttavia pensò che era da buon Lord e uomo di mondo accettare qualsiasi usanza di un'altra terra, specie se gli uomini e le donne di quella terra dovevano in realtà finire per essere suoi sudditi e alleati. Non appena quindi, tutto rumoroso e sorridente, Darkhon allungò il braccio verso la sua direzione invitandolo ad entrare, Gino si mise nudo ed entrò, cercando di non mostrare esitazioni. Esitazioni poi che sicuramente non gli venivano dal fatto di mettersi nudo, visto che in tutta franchezza non pensava di avere tra le gambe nulla di vergognevole, ma per il fatto che lì dentro c'era troppa gente e lui se ne aspettava nessuna, e poi per il fatto che già, per via del calore, stava cominciando a sudare fin dalla punta del più lungo dei suoi neri capelli.

Purtroppo tamponando qualche natica e qualche gamba pelosa, alla fine il Lord dell'Altopiano raggiunse il padrone di casa. Era davvero una situazione disturbante. «Mio Lord» fece Darkhon e il gran sorriso pareva sincero «Non sai che onore è averti qui nelle nostre vasche. Tieni: prendi una...» e Darkhon fece letteralmente per passargli una delle tre baldracche che aveva dintorno; peraltro quella rossa: Gino aveva un debole per le rosse. Imbarazzato, il Guercio provò a balbettare: «Ehm... n-no io...»; ma davvero doveva intrattenere una conversazione di geopolitica mentre era in erezione? Era questo che Dayne pretendeva da lui? Per un attimo la sua testa andò a Daessenya, e si ritrovò ad insistere: «No, Sir Darkhon, d-davvero, i-io»... ma Daessenya non faceva più parte della sua vita: Gino doveva rassegnarsi a questo. I suoi pensieri andarono dunque a Shanty, e all'esercito di parenti-serpenti che la sua promessa aveva alle spalle. Allungò dunque la mano sul culo della baldracca, e cominciò la discussione come se nulla fosse.

«Dunque, cavaliere...»

«Chiamami solo Darkhon, mylord, per favore»

«Bene: Darkhon. Io ho preso una decisione»

«Ah, sì?»

«Torno ad Altogiardino. Ho bisogno di risistemare le mie carte sul caso di Saestrya e... fare un po' di mente locale. Sento che la situazione mi sia sfuggita di mano e non voglio perdere altro tempo. Ti chiedo di venire con me quale mio... speciale rappresentante presso la terra di Dorne». Improvvisamente, l'espressione sul viso di Dayne cambiò. Adesso c'era di nuovo quella intelligenza un po' maligna che Gino gli aveva visto la prima volta e che non si era ancora manifestata quella sera, ma che meglio si confaceva a un tizio che aveva organizzato un'orgia d'alta classe presso le terme di un palazzo nobiliare, per quanto dorniano. «Mylord» rispose Dayne «Io sono in imbarazzo perché... non so bene come declinare un'offerta tanto onorevole nei miei confronti»

«Non declinarla» rispose Gino da Lord risoluto.

«Sì, ma...» riprese Darkhon «Io non sono buono a queste cose. Quindi, ecco... sarebbe per il tuo bene ed interesse e per la stessa Casa che rappresenti, se non accettassi un simile lavoro. Se insisti, lo farò: dovrò farlo, sono tuo servo come le regole prescrivono ma... ecco, mi sento di suggerirti qualcosa di diverso...»

«Qualcosa di diverso... t-tipo?» chiese ancora Gino, non riuscendo a non lasciarsi scappare un tremito dovuto al fatto che la rossa gli aveva appena acchiappato il membro. «Io comprendo» fece ancora Dayne «che il tipo di piano che hai scelto sembrerebbe essere più dispersivo e confusionario, ma per il territorio e l'ambiente di Dorne, è la strategia giusta. Hai scelto, mylord, di avviare una corretta azione e adesso sarebbe un po' un peccato abbandonarla, visto che hai me, che sono stato per volere della mia famiglia a contatto con Saestrya per tutto questo tempo»

«E quindi?»

«E quindi quello che ti suggerisco è...» Darkhon si avvicinò, cercò di allungare la propria bocca verso l'orecchio di Gino, «Di fidarti di me. Io so quali altri sono i covi di Saestrya, e dubito che abbia fatto in tempo a tessere nuove alleanze in così poco tempo. Non mollare: io posso aiutarti»

«Ah» concluse Gino, e con un affrettato «Molto bene», scaricò di nuovo la puttana addosso al suo legittimo “proprietario”, prese sudore, erezione e nudità e lasciò quel luogo. A un certo momento, aveva avuto come la sensazione che quel qualcosa, sicuramente appartenente a Darkhon, che lo aveva sfiorato sotto all'acqua un po' torbida, non fosse stato una gamba, né un piede o un ginocchio. E visto che aveva già pure adocchiato più di un soldato maschio baciare un altro, un po' come le puttane facevano tra di loro, decise che il rispetto per la tradizione era doveroso e opportuno. Ma che non fosse neanche sbagliato difendere un po' i propri di costumi, e alla Dodecapoli, così come sull'Altopiano, di norma le orgie tra aristocratici non andavano poi così di moda. Non che, alla sua giovane età, a lui questo risultasse.

 

 

 

Una secchiata d'acqua gelida svegliò di soprassalto l'ex Lord Garhel Sawela. Nonostante tutto, era ancora vivo. E nonostante tutto, erano ancora vivi sia Lord Justus che suo figlio Banfred. Sawela in effetti non sapeva se l'acqua che lo aveva appena svegliato da un sonno senza sogni simile alla morte fosse davvero gelida. La sua temperatura corporea non era quella di una persona sana chiaramente: stava tremando dal freddo. Era sudato, sporco e puzzava. Ci vedeva, ma sempre con una certa difficoltà, come se una nebbia di un grigio chiaro accompagnasse il suo sguardo tutto attorno a ciò che lui osservava. E poi non sentiva completamente la parte inferiore del suo corpo; quella superiore la sentiva a stento. Era legato come un salame con le braccia disposte a croce sul petto. Infine era appeso al soffitto, e la testa gli scoppiava.

Da quello che riuscì a distinguere, non c'erano solo Lord Panecha e il suo rampollo con lui in quella stanza. C'erano degli altri ma... erano sullo sfondo e lui non li distingueva. Tuttavia fu Banfred a parlare per primo: «Lord Garhel come sono dispiaciuto... io... io ti chiedo scusa in ginocchio per quello che è successo». E lo fece davvero: si mise piegato a terra, come se avesse lui una qualche colpa in tutta quella storia. Uno spettacolo inutile e umiliante, che Garhel non voleva vedere. In quel momento, voleva solo una coperta. O morire: una delle due.

«Su, figliolo» con un sussurro il Lord degli elefanti incoraggiò la propria creatura, che rialzandosi fece: «I-io lo so che la tua perdita non potrà mai essere ripagata e... neanche quello che adesso stai subendo può essere ripagato, m-ma... oh, lord Sawela, tu hai tutte le ragioni del mondo: dico sul serio. Ma ti scongiuro: non morire. Resta e combatti. Pensi davvero che tua moglie e i tuoi figli vorrebbero questo? Che tu li raggiunga subito o... che prima di farlo uccida qualcuno o... che muoia nel tentativo di farlo? Sono davvero queste le uniche alternative che abbiamo? Ti-ti chiedo di provare a considerare qualcos'altro. No: ti supplico di farlo. Ho parlato con mio padre. L'offerta è ancora valida. Lasciamoci il passato alle spalle: tu avrai ancora tutte le ragioni di odiarlo ma è con me che verrai a Braavos, per me non per mio padre. E così... in qualche modo continueresti a rappresentare gli interessi del popolo, no? Se davvero una guerra contro gli dèi ci si prepara... allora non trovi sia il caso che uno come te sia presente al tavolo delle decisioni degli uomini?». Garhel provò a rispondere. Voleva dire di sì, o almeno accennarlo con la testa, ma non ci riuscì. E poi chiaramente non sarebbe stato un sì sincero o ragionato. Sarebbe stato un sì giusto per assecondarlo. Per qualche ragione, Banfred invece si convinse che il cenno assertivo fosse arrivato. Gli altri presenti, e suo padre per primo, lo incoraggiarono su questa strada, anche se Garhel dubitava della loro sincerità. Dunque il principino si congedò e rimase il diabolico grasso Lord degli elefanti.

«Scommetto» fece Lord Panecha con tono mellifluo «Che ti senti intorpidito non è così? Non solo perché incatenato e appeso al soffitto. Quando finirò di dirti ciò che devo, i miei uomini ti metteranno giù e forse ti slegheranno. Ma tu continuerai a sentirti intorpidito. Se ne andrà, certo che se ne andrà... ma mai definitivamente. Delle volte, mentre sei al caldo nel tuo letto, o in compagnia di una bella donna di cui dal trapasso di tua moglie hai una chiara necessità. O mentre stai pisciando o defecando o parlando o... combattendo. Ebbene, alcune volte tale stato d'intorpidimento ritornerà, così come anche un accecamento temporaneo. Tutto quando meno te lo aspetti. È uno degli effetti sconvenienti se si sopravvive al veleno del crotalo di Juxia. Questo e talvolta la morte per febbre, quando il mal capitato che ne viene morso non venga subito curato con i dovuti unguenti e messo a testa in giù, come te adesso. Dicono che ha un morso... che nemmeno te ne accorgi. Un pizzico, mi hanno detto. Io non lo so, perché naturalmente non l'ho mai provato. Mi perdonerai se ho scelto uno dei più pericolosi della mia riserva, ma mi serviva di metterti al tappeto subito e senza esitazioni, capisci? Ne andava della vita di mio figlio o... della mia. Così ho fatto in modo che il piccolo s'insinuasse nelle tue vesti. Non ha morso me perché mi conosce, di rado le bestie attaccano chi conoscono, anche le più letali. Ma tu... eri tu che dovevi subire quel morso e ora... ne pagherai le conseguenze per tutta la vita, purtroppo». Nel corso di tutto questo monologo, il Lord si era anche avvicinato con passi soffici e si era permesso pure di carezzargli la testa e la guancia. «Non doveva finire così: giuro che non era nelle mie intenzioni, questo. La morte della tua famiglia, e di alcuni altri morti di fame del Formicaio, loro sì dovevano decedere, era una cosa che ormai avevo metabolizzato. Ma dover ridurre in questo modo una figura della tua importanza, e della tua capacità! Delle tue abilità! No, questo non l'avrei mai voluto. Mio figlio potrà anche prenderti come sua guarda personale, ma diamine... tu non ti muoverai mai più come prima, e neanche parlerai bene come prima. Mi preme tuttavia dirti questo, Lord Sawela: tu vivrai, e verrai con noi a Braavos, perché questo è il volere di mio figlio, questo è quello che lui mi ha chiesto. Ma sarai costantemente osservato. Per tutta la vita. E se mai dovessi farmi qualche altro scherzetto, sappi che sarà un vero piacere per me tornare ad avvelenarti con una dose doppia di liquido dello Juxia. Doppia, o anche tripla. Fino a renderti cieco e sordo. Fino a renderti un vegetale immobile, se necessario. Ma mai ad ucciderti. Mai» si concesse un'ultima carezza a Sawela, questa volta con il dorso della mano. Poi chiuse: «Questa è una promessa che ti faccio, Lord Garhel». Detto ciò, Justus Panecha presumibilmente lasciò la cella. I suoi uomini poi liberarono Garhel dalle catene e lo lasciarono alla sua solitudine. E al suo freddo e dolore. Alla sua condanna.

   
 
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