Ore 7:05
Fu la sensazione di gelida mancanza a
strapparlo via dal
torpore del sonno.
La soffocante consapevolezza della
propria solitudine
l’aveva svegliato nella stessa dolorosa maniera di tutte le
altre volte, inconfondibile
e debilitante. La delusione lo colpiva ogni volta subdolamente,
insinuandosi
dentro il suo stomaco e scacciando bruscamente il confortevole
abbandono del
sonno, costringendolo a cercare, a sperare che il calore che sentiva
rapidamente svanire dalle lenzuola, dalle sue braccia e dal suo stesso
corpo,
fosse ancora lì, solo qualche centimetro più
avanti, in un punto che ancora non
poteva raggiungere.
Il letto era freddo.
Si sentiva quel freddo addosso,
appiccicato alla pelle, e
aveva paura di muoversi, perché tutto ciò che
toccava era solo insopportabile
vuoto. Tutto ciò che lo copriva, tutto ciò su cui
giaceva, era fatto di
ghiaccio.
Ma fu solo nel momento in cui il suo
cervello tradusse
l’assenza del familiare corpo tiepido che prima
c’era e ora non c’è più in
un disperato e maldestro impulso neuronale –
poteva quasi sentirlo arrancare saltellando lungo i suoi assoni
– che riuscì ad
aprire gli occhi.
Una striscia di sole tagliava
perfettamente a metà il
soffitto, fastidiosamente bianca contro il grigio della penombra.
Filtrava attraverso
un sottile spiraglio che, schiacciato fra le tende scure della sua
finestra,
era stato sicuramente il frutto di una svista da parte sua la notte
precedente.
Fu la prima cosa che vide.
Sentì una fitta acuta
pulsargli nelle tempie. Si accorse che
stava stringendo i denti.
Poi udì un fruscio.
Attese ancora un altro secondo. Aveva
freddo. Il pensiero di
abbandonare le lenzuola per tuffarsi repentinamente nell’aria
ostile del
mattino lo atterriva, ma sapeva di avere poco tempo. E il gelo era
attaccato a
lui, nauseante e insopportabile, fuori e dentro.
Così con uno sforzo che
gli parve immenso sollevò la schiena
dal materasso e si puntellò con i polsi, raddrizzandosi fino
a mettersi seduto.
L’unica cosa che ancora lo copriva scivolò via e
si ammucchiò mollemente sul
suo inguine, lasciandolo completamente esposto.
Sentì un brivido corrergli
lungo le spalle, come un macabro
abbraccio, e istintivamente incrociò le braccia sulla pancia.
«Non volevo
svegliarti»
No, certo
che no.
«Mi sarei dovuto svegliare
comunque»
Non c’era nessuno
dall’altra parte del letto. Jay era in
piedi, a metà strada tra
lui e la porta,
e si stava allacciando con la solita snervante fretta i pantaloni, che
avvolgevano le sue gambe magre in una stretta soffocante.
«Che ore sono?»
mormorò, mentre il gelo lo investiva come
un’onda, mozzandogli il respiro, infilandosi tra le sue
meningi e bloccando
qualsiasi pensiero.
La fonte del gelo era lì,
ad appena due metri di distanza.
Si portò le ginocchia al
petto, circondandole con le
braccia, in un vano tentativo di riscaldarsi.
«Le sette»
rispose l’altro, senza guardarlo. Si inchinò per
prendere qualcosa da terra, e il suo busto bianco scomparve per qualche
secondo
dalla sua vista.
Lane lo stava fissando, e non gli
importava del fatto che
Jay se ne accorgesse, o che si sentisse a disagio. Osservava ogni suo
movimento,
la stessa sequenza con la quale cercava gli indumenti che aveva perduto
in
qualche angolo della stanza e li indossava, compiendo gli stessi rapidi
gesti
nervosi che aveva avuto modo di vedere e di analizzare così
tante volte.
Sentì la nausea crescere
nello stomaco e arrampicarsi su per
la sua gola.
«Avremo dormito
sì e no quattro ore» borbottò, senza la
reale intenzione di farsi udire dall’amico. Tuttavia lo vide
scrollare le spalle.
Il suo viso non tradiva nessuna emozione.
«Mio padre mi vuole a casa,
lo sai» disse, infilandosi
rapidamente la maglietta. Le sue braccia sgusciarono fuori dai buchi
come
pallide anguille.
Lane non rispose. Benché
il suo intero corpo gli stesse
urlando di alzarsi e prendere qualcosa – qualsiasi
cosa – per porre finalmente fine a quel crudele
quanto inutile
assideramento, non aveva intenzione di muoversi di un centimetro.
Così rimase là,
seduto, completamente nudo sotto il
lenzuolo, ad aspettare il momento in cui il gelo avesse lasciato la
stanza,
attraversato il corridoio e sceso le scale, per poi chiudersi la porta
d’ingresso alle spalle e abbandonare definitivamente la casa.
Lo osservava, lo osservava
costantemente.
Jay era una persona strana.
Quell’affermazione suonava
incredibilmente banale perfino
dentro la sua stessa testa, Lane ne era consapevole, ma in quegli anni
di
conoscenza non era stato capace, benché avesse tentato quasi
ogni giorno, di impedire
a quella parola di frullargli nel cervello ogni volta che si
soffermava, suo
malgrado, a cercare di comprendere ciò che aveva davanti
agli occhi.
Jay, nella sua apparenza, nei suoi
modi, nei suoi gusti, nel
suo comportamento e, benché Lane fosse convinto di non
possedere ancora la
presunzione per trarre la sua conclusione definitiva, nel suo animo,
incarnava
perfettamente la persona che, per quanto ci si sforzi di decifrarla e
di
avvicinarla a sé, cercando allo stesso tempo di avvicinarsi
a lei, non cessa
mai la sua costante, inesorabile fuga dall’empatia umana.
Questo la porta ad
essere irrimediabilmente etichettata come creatura di difficile
comprensione e
dunque, per usare un termine riassuntivo di un certo spessore, strana.
Quindi Jay, per la maggior parte
della gente, era una
persona strana.
Lane
scosse la testa.
Si sentiva in imbarazzo. L’uso di quella parola lo faceva
sentire in imbarazzo.
Così sillabò un
“lo so” spicciolo e distratto, per
assecondare il suo impellente desiderio di fuga. Odiava giustificarlo,
e odiava
il fatto che Jay riuscisse a sentirsi giustificato ogni santa volta.
Ma lui stava ancora morendo di
freddo, e quel giorno più che
mai si sentiva in colpa per aver pensato che
‘strano’ fosse un attributo
sufficiente per descrivere la globalità
dell’essenza di un essere umano.
Jay era difficile da capire.
Rimase a fissare il suo profilo magro
per diversi secondi,
in silenzio. La sua maglietta era scandalosamente larga, e lui non
finiva mai
di notarlo, così come non finiva mai di preoccuparsi, ma
andava bene così.
I loro taciti accordi erano ormai
saldamente ancorati al
terreno del loro rapporto. C’erano confini precisi,
c’era un equilibro che non
doveva essere alterato, c’erano delle volte in cui era lecito
chiedere aiuto ed
altre in cui ognuno pensava a se stesso.
Va bene
così, pensava
Lane, continuando a restare aggrappato alle sue ginocchia, tentando di
rubare
calore al suo stesso corpo, mentre sotto i suoi occhi quella
contraddizione
umana continuava a vestirsi, ostentando noncuranza. Stavano entrambi
aspettando
la stessa cosa.
Sapeva che Jay non vedeva
l’ora di ristabilire l’equilibrio.
Probabilmente Jay nemmeno sapeva il motivo del suo doloroso bisogno di andare via, di sentirsi di nuovo da solo
con se stesso e di liberarsi del contatto umano che aveva ricevuto in
dosi così
massicce nelle ore passate.
Lane sapeva che c’era un
equilibrio, Lane osservava Jay da
anni e lo conosceva.
Capiva perché gli altri lo
consideravano una persona strana,
e lui stesso condivideva la visione di corrispondenza quasi perfetta
tra quell’aggettivo
e il modo in cui Jay si relazionava col mondo, l’aveva
accettato.
Ma lui non era il mondo, e
c’erano delle regole, c’erano dei
confini e c’erano degli istinti che andavano rispettati,
perché se gli altri non
si erano sforzati di capirlo, lui l’aveva fatto, e riteneva
di esserci
riuscito.
Perciò, benché
ormai fosse sicuro di essere diventato un
ammasso di brividi e pensieri sconnessi, lo guardò mentre
andava via, senza
battere ciglio, ed ascoltò il suo ‘ci
vediamo’ con un mattone di disperazione
nella pancia, lottando contro il desiderio di lasciarsi andare alla
rabbia
sorda e costringendosi a restare immobile, inerme nel freddo della
mattina, per
riuscire ad essere freddo anche lui.
Chiuse gli occhi. Si concesse di
respirare.
Non era accaduto nulla che non avesse
previsto, niente che
non rientrasse nei loro normali comportamenti.
Va bene
così,
pensò di nuovo, strappandosi un’unghia con i
denti. Un fastidioso dolore
familiare pulsò nella carne viva appena esposta, facendolo
pentire
immediatamente della sua azione.
Sbuffò senza preoccuparsi
di rompere il silenzio spettrale della
stanza e finalmente si alzò dal letto, cercando con una
certa fretta la
maglietta sul pavimento.
Non riusciva, per quanto avesse
tentato, a trasformare
questi risvegli in un’abitudine.
La mancanza, suo malgrado, gli
lasciava sempre la stessa
sensazione sulla pelle, e ogni volta lui l’assorbiva con
diligenza, come se
fosse la prima, e vi si abbandonava mollemente, senza uno sforzo per
contrastarla, senza la speranza di poterla combattere.
Si passò una mano fra i
capelli e si infilò rapidamente i
pochi indumenti che era riuscito a raccattare. Godé per un
attimo del sollievo
provocato dal conforto del tessuto sul suo corpo intirizzito, per
dirigersi poi
alla ricerca del suo cellulare, abbandonato in qualche angolo della
camera
nella fretta della notte precedente.
Sbuffò di nuovo, quando lo
trovò coperto dai propri jeans,
arrotolati di malagrazia sulla moquette.
Premette il tasto di accensione, e lo
schermo si illuminò,
provocandogli una fitta agli occhi. Si accorse di aver dormito con le
lenti a
contatto.
Non c’erano messaggi da sua
madre, né da suo padre. Sentì
una piacevole quanto fuori luogo sensazione di sollievo espandersi nel
suo
petto ed evaporare un attimo dopo.
La notifica era ancora lì.
Zoey
Kingsley ti ha
inviato una richiesta di amicizia.
Smise di respirare. Tratteneva sempre
il respiro per cercare
di bloccare l’avanzata dell’ansia, ma il vortice di
paralizzante angoscia che
aveva nello stomaco gli faceva martellare il sangue nel cervello,
impedendogli
di pensare.
Sentiva le mani gelide, le dita che
stringevano il telefono
stavano diventando insensibili.
Si appoggiò al bordo del
letto. Aveva decisamente dimenticato
quel dettaglio della serata – santo
dio,
come aveva fatto a dimenticare quel dettaglio? – e
la realtà era piombata
su di lui come una cascata di sassi.
Sblocca il
telefono,
idiota, si disse. Le sue dita rimasero immobili.
Improvvisamente, sotto il suo sguardo
pietrificato, apparve
un’altra notifica.
Un messaggio da Jay, che recitava
semplicemente: hai dimenticato il fascicolo
nel motorino.
Fece scorrere l’indice
sullo schermo, cancellandolo immediatamente
con un gesto nervoso.
Poi sospirò e, consapevole
di non essere fisicamente in
grado di reggere ancora l’attesa, sbloccò il
telefono.
*
Non riusciva a tenere gli occhi
aperti.
Adesso li
chiudo,
si ripeteva, appoggiando tutto il peso della propria testa al polso
piegato, ad
intervalli di trenta secondi.
Non si era mai addormentato in classe
in tutta la sua vita,
ma questa volta sentiva di esserci fatalmente vicino. Teneva la matita
incastrata
fra l’indice e il medio, e muoveva piano le dita per farla
sbattere sulla
superficie del banco: il rumore era sufficientemente molesto da
riuscire a
tenerlo sveglio e distrarlo dalla triste prospettiva del lento scorrere
dei
minuti, e allo stesso tempo abbastanza flebile da non disturbare la
solida e inarrestabile
monotonia della voce della professoressa.
Si passò la mano libera
fra i capelli, tirandoli
leggermente. Tentare di procurarsi dolore per non scivolare nel sonno
come un cretino
era la sua ultima spiaggia.
Spostò lo sguardo sulla
ragazza seduta nel banco accanto al
suo e la osservò per un attimo, mentre la punta della sua
penna scorreva
morbidamente sul foglio che aveva davanti, e l’altra
estremità volteggiava in
aria ad un centimetro dal suo naso. Tutti gli altri sembravano
incredibilmente concentrati
e tutti incredibilmente uguali.
Era ammirevole il modo in cui
compivano tutti lo stesso
gesto, ognuno per sé, ognuno nel proprio isolato microcosmo,
con una
coordinazione spaventosa e quasi innaturale. Ognuna di quelle giovani
schiene
era diligentemente china sul proprio quaderno, mentre il suo
proprietario si
dedicava a ciò che anni di pubblica istruzione e di fardelli
di obblighi e
aspettative gli avevano imposto come una necessità
imprescindibile.
Lane riteneva che l’ascolto
prolungato di una lezione che
consisteva prettamente nell’analisi – troppo
superficiale per risultare
remotamente interessante alle sue orecchie ma troppo complessa per
essere
seguita senza inclinazioni suicide o generico desiderio di morte
– di fenomeni
fisici assolutamente non rilevanti, rappresentati da banali quanto poco
impressionanti formule matematiche, fosse esattamente la
materializzazione del suo
inferno personale.
Era in grado di capire che non fosse
necessariamente una
cosa brutta. Era consapevole che quella stessa aspettativa che
schiacciava i
suoi compagni contro i propri banchi come un collettivo, perpetuo
macigno, al
quale apparentemente non vi era scampo, fosse in qualche modo anche
parte della
sua vita. Ma la propria aspettativa, quella che lo spingeva come un
impulso
sconosciuto a dedicarsi a ciò in cui riteneva fosse lecito
impiegare le proprie
energie, si riversava, immensa e mostruosa, in altro.
Perciò, ogni santa volta
che si trovava in quella classe,
con quelle persone talmente interessate alle parole della professoressa
da
concedersi a malapena di respirare, gli veniva una nausea della vita
morbosa e
paralizzante che raramente provava in altre occasioni.
Ma, nonostante il sonno, era ancora
capace di impedirsi di
fare qualcosa di orribilmente sconsiderato, come addormentarsi in
classe.
Perciò sospirò
e si appoggiò al muro con una spalla,
cercando di sparire completamente dietro la testa della ragazza seduta
proprio
davanti alla cattedra.
«Sei in questa classe da
due anni e non ti ho mai visto
interessato a niente»
Lane si voltò di scatto,
ringraziando mentalmente il
proprietario di quella voce per averlo strappato via dalla sua
miserabile condizione.
«Non sopporto la sua
voce» sussurrò in risposta, alzando
brevemente le spalle e lanciando un’occhiata al viso
corrucciato del ragazzo.
«E allora perché
continui a iscriverti a questo corso?» gli
domandò, con un breve sospiro di biasimo.
Lane non rispose subito. Fece vagare
timidamente lo sguardo
sulla sua faccia larga e bianca, sulle sopracciglia quasi trasparenti e
le
lentiggini rade ma incredibilmente scure contro la sua pelle. Erano
concentrate
tutte sul naso, come se fossero state gettate tutte insieme come
coriandoli da
una mano particolarmente maldestra.
Su di lui stonavano tanto quanto a
Jay stavano bene.
Ma a Lane non dispiaceva Jeff, e
perdonava le sue domande
scomode perché sapeva che lui non le considerava tali.
Sospirò, senza
più preoccuparsi delle conseguenze del suo inevitabile
auto sabotaggio, e si passò una mano fra i capelli, cercando
di dilatare il più
possibile i secondi che lo separavano dal limite universale entro il
quale era
socialmente accettabile fornire una risposta.
«Per una questione di
praticità, credo» mormorò infine,
girando di nuovo la testa per fare finta di controllare la
professoressa. Il
ronzio spiacevole e ininterrotto che le usciva dalla bocca dimostrava
il suo
totale disinteresse nei confronti del loro scambio di battute.
Jeff si accigliò ancora di
più, ma dalla sua espressione non
trapelava ostilità, solo un lieve, lievissimo inquadramento
preimpostato che lo
portava automaticamente a desumere che Lane stava dalla parte sbagliata
della
ragione umana.
«Sinceramente non ho
capito» asserì, cominciando a
mordicchiare il tappo della penna.
Alla vista di quel gesto Lane si
portò automaticamente una
mano alla bocca.
«È
che» mugugnò, staccando di netto
un’unghia con i denti «voglio
tenermi aperte diverse porte»
Era consapevole di quanto fosse
carente la sua spiegazione,
eppure lo vide alzare le spalle in un gesto di velata disapprovazione.
«Per me non ha
senso» disse, in un tono talmente sincero da
sembrare quasi scortese «tu non vuoi stare qui»
«Però devo
starci» borbottò Lane, sentendosi scivolare via
rapidamente dalla bolla di agio che si era costruita fra loro nel corso
degli
anni.
Non avevano mai parlato molto, non
avevano mai varcato il
ben delineato confine che separa una situazione di conoscenza e
superficiale
apprezzamento reciproco da una vera e propria condizione di empatia e
confidenza. Sapevano di essere alleati, non avevano bisogno
l’uno dell’altro al
di fuori del corso. Ma in quel momento, un momento che Lane giudicava
davvero
poco opportuno per fare una mossa del genere, Jeff stava
deliberatamente
alterando quell’equilibrio, consolidato e confortevole, che
lui credeva fosse
frutto della volontà di entrambi.
Le domande scomode andavano bene,
finché Jeff si
accontentava delle sue risposte vaghe.
Sorprendentemente, le spalle del
ragazzo si rilassarono, e
si esibì in un sospiro che assomigliava ad una
manifestazione di pura
solidarietà.
«Mi dispiace per
te» disse semplicemente, guardandolo dritto
in faccia.
«Si, beh»
mugugnò, abbassando lo sguardo sul quaderno fitto
di appunti del ragazzo «non importa, va bene
così»
Si stampò in faccia un
impacciato sorriso, il desiderio di
terminare la conversazione che spingeva disperatamente contro le pareti
della
sua scatola cranica.
Lo vide scrollare leggermente le
spalle.
Lane riteneva di aver carpito una
quantità considerevole di informazioni
su Jeff nel corso di quegli anni di blanda e cordiale conoscenza.
Conoscenza,
per non dire osservazione. E fino al momento in cui si trovava a vivere
quell’imbarazzante dialogo, aveva sempre custodito, dentro di
sé, la
rassegnazione alle scarse manifestazioni d’intelletto e di
sensibilità
dell’unica persona con la quale fosse riuscito a stabilire un
contatto in
quella classe aliena.
Eppure.
Eppure Jeff disse, nel tono
più pacato che avesse mai
sentito uscire dalla sua bocca:
«Forse dovresti cominciare
a chiedere ai tuoi genitori di
lasciare che ti iscriva a corsi che ti piacciono»
Rimase spiazzato. Assolutamente
pietrificato.
«Come?»
sussurrò, mentre il nervosismo cominciava a
traboccare dal vaso di Pandora che aveva al posto del cervello,
invadendo,
fluido e inarrestabile, ogni centimetro del suo corpo.
Ed eccoli.
I tonfi del suo cuore erano fuori
controllo. Si impose di
non accelerare il respiro.
«Mi hai sentito»
rispose Jeff, e un secondo dopo il suono
peggiore che avesse mai sentito invase l’aula.
Era sicuro che quella campana gli
avesse bucato i timpani.
«Ci vediamo»
aggiunse atono il largo ragazzo, che nel
frattempo aveva raccolto e buttato dentro lo zaino tutta la sua roba.
Si alzò
rapidamente e fece per andarsene.
«Aspetta» quasi
gridò Lane, senza effettivamente
preoccuparsi dell’ansia che trapelava dalla sua voce.
Ma Jeff era già sgusciato
tra le impazienti e rumorose
figure dei loro compagni, con la borsa che gli sbatacchiava sulle
spalle
massicce ad ogni passo.
Deve essere così che ci si
sente, quando si rompe la quarta
parete.
Questo pensò, quando
l’angoscia lo riempì completamente,
chiudendogli la gola e bussandogli freneticamente nel petto.
Lo stesso sentimento che
precedentemente gli stringeva la
testa come un anello di ferro, facendogli desiderare di chiudere tutto,
in quel
momento lo stava scuotendo come una scarica, e gli stava dicendo di
corrergli
dietro.
Così, quando
oltrepassò la porta, sfregandosi contro braccia
e schiene e capelli, con il fiato corto e l’imbarazzo che
martellava nelle
orecchie, e la sua mano raggiunse il braccio di Jeff, capì
che per sfondare la
sua maledetta porta il ragazzo vi aveva semplicemente appoggiato una
mano.
Si piazzò davanti a lui,
illudendosi di potergli impedire di
passare oltre il suo esile corpo.
«Io frequento corsi che mi
piacciono» si ritrovò a dire,
stupidamente. Si sentì straordinariamente ridicolo.
Jeff scosse la testa. Stava
lentamente perdendo quell’aria
da tappezzeria, da pezzo d’arredamento, che gli aveva sempre
attribuito e
improvvisamente una genuina voglia di lasciar perdere qualsiasi
tentativo di
richiudere la porta gli balenò nella testa, calda e
invitante.
«Non è quello
che ho detto. Ho detto che potresti evitarti
questa tortura»
Fece una smorfia, tirando la bocca in
un’espressione di
disgusto.
«Per me è una
tortura il corso di letteratura, ma devo
andarci perché è obbligatorio»
Gli stava già volgendo le
spalle un’altra volta.
«Siamo all’ultimo
anno, Lane»
A malapena udibile, sopra il
frastuono denso di adolescenza
e indisciplina che regnava nel corridoio, ma fu come ricevere un
mattone sulla
pancia.
Un bel calcio fra lo sterno e lo
stomaco.
Trattenne il respiro, mentre sentiva
il dolore ramificarsi e
germogliare, come un parassita velenoso, dentro il suo debole groviglio
di
emozioni.
Jeff gli voltò le spalle e
se ne andò per la sua strada, con
un’ultima occhiata intrisa di compassione.
E poi accadde.
Vide prima i suoi capelli.
Ci mise meno di un battito di ciglia
a realizzare che
esattamente due cose assolutamente improbabili erano avvenute ad una
distanza
ridicolmente breve l’una dall’altra, e credette
davvero che le gambe l’avrebbero
abbandonato, cedendo come burro sotto la pressione.
Assolutamente
improbabile.
Talmente improbabile che non aveva
nemmeno ritenuto
opportuno prendere in considerazione una simile eventualità.
Scandalosamente
imprevedibile, ai limiti del tradimento.
Stava avanzando. Stava avanzando,
circondata da una
ondeggiante coltre di angeli custodi, sui quali lei spiccava senza
sforzo,
forse senza nemmeno una reale intenzione, e si stava avvicinando sempre
di più.
Pareva che sfavillasse.
Tutto di lei sembrava essere stato
posto lì, sulla sua
persona, per brillare e farla brillare in ogni istante.
Il modo in cui si voltava verso uno
degli infiniti satelliti
che la circondavano – saranno stati quattro o cinque, ma non
aveva alcun senso rivolgere
lo sguardo verso di loro per contarli – il modo in cui
sorrideva, perfino il
modo in cui camminava era impossibile da ignorare.
Era impossibile non notarla. Era
impossibile guardarla e non
apprezzarla.
E lui era là fermo come un
emerito idiota, in mezzo al fiume
di gente che scemava rapidamente, sferzato dal richiamo insistente
della
campana, e si sentiva come se i barlumi di essenza che lei lasciava
trapelare
da ogni gesto, in ogni secondo, oscurassero completamente tutto
ciò che lui
aveva mai avuto la pretesa di essere, in tutta la sua mera esistenza.
Si sentiva come se poterla osservare
fosse una ragione
sufficiente per continuare a stare al mondo, come se la contemplazione
assoluta
e adorante fosse il premio che gli era stato assegnato, la fortuna di
una vita
intera.
Si riscosse solamente quando si
accorse che rischiava
seriamente di essere visto.
La folla si era divisa. Era giunto
quell’affascinante
momento in cui la massa cessa di essere tale, mentre si sgretola contro
le
pareti e si trasforma, e ognuno diventa nuovamente un individuo, ognuno
raggiunge il suo armadietto e si ritaglia un breve, brevissimo pezzetto
di pacifica
solitudine prima di essere trascinato ancora, inesorabilmente, nella
maledizione
della collettività, impetuosa e anonima.
Così si mosse nella
direzione opposta alla sua, cercando di scivolare
discretamente vicino al muro.
Gli restava davvero poco tempo. Dieci
metri, solo dieci
metri più avanti c’era il suo armadietto.
Era sul lato giusto, doveva solo
usare sapientemente i corpi
delle poche persone rimaste, ma era semplice, l’aveva fatto
così tante volte,
era semplice e lui aveva bisogno di nascondersi, un bisogno disperato,
perché Jay
non c’era, nessuno poteva aiutarlo, e lo uccideva il pensiero
di incontrarla là
da solo mentre lei era con tutta quella
gente - oh mio dio - tutta quella gente che non conosceva e
sembravano
tutti ben vestiti e bellissimi e si muovevano nel modo giusto e
ridevano nel
modo giusto e oh mio dio le
svolazzavano intorno come tante belle farfalle intorno a una lanterna e
lei in
tutto questo continuava a brillare e ad attrarli a sé,
perché se loro erano
bellissimi e felici e giusti, lei era un’altra cosa, lei li
superava tutti, lei
era impossibile.
Da concepire, da non guardare.
Il segreto
è
distogliere lo sguardo, fai finta di
fare
altro, ti prego non fissarla non fissarla non fissarla.
Mancavano cinque metri.
Non pensava nemmeno più
all’armadietto.
Una fitta acuta di consapevolezza lo
colpì alla nuca.
Il telefono.
Si ficcò una mano in
tasca, cercando disperatamente di
lottare contro il tessuto appiccicoso della giacca.
Sbloccò lo schermo con una
velocità imbarazzante,
aggrappandosi all’oggetto con le dita gelide e scivolose,
costringendo tutta la
sua traballante attenzione a concentrarsi su di esso.
Ma nell’attimo in cui la
sua figura curva e goffa incrociò
lo sciame volteggiante di esseri impeccabili – sembravano
davvero tanti, perché erano così tanti?
–e la soggezione
era giunta al suo massimo, non riuscì a impedirsi di far
scattare lo sguardo,
un’ultima volta, sull’ape regina.
E nell’attimo esatto in cui
la sua occhiata si era conclusa,
nel momento in cui i suoi occhi erano scivolati via da lei, in cui il
suo unico
ponte era stato tagliato e l’adorazione moriva nel suo ultimo
spasmo, nel
momento – il rassicurante, doloroso momento – in
cui aveva creduto di essere al
sicuro, lo sentì.
Il suo sguardo aveva un peso, e lui
se n’era accorto la
prima volta.
La prima volta che l’aveva
guardato si era reso conto di
essere solamente una piccola, mediocre carica sonda. Che ogni sua
azione, ogni cosa che lei faceva
pesava su di lui e
osservare non era mai troppo perché tutto era
straordinariamente importante,
tutto doveva essere osservato, perdersi in quel campo magnetico era
come
affogare nel miele.
Ma poi lui aveva sentito su di
sé il colpo, come uno
schiaffo, del movimento dei suoi occhi, e aveva capito che forse il suo
campo
magnetico non era poi così insignificante, che poteva
alterare oltre ad essere
alterato.
Ma gli
esseri umani
non sono calamite, tutti gli sguardi hanno un peso e questo sguardo
è troppo
pesante.
«Lane!»
Troppo vicina per essere ignorata.
Lo sguardo schiacciava, la voce
inchiodava. Obblighi, costrizioni,
prigioni astratte. L’imbarazzo di sgusciare via contro
l’imbarazzo di rimanere.
Uno sguardo andava bene, era
spaventoso ma non paralizzante.
Era un gesto sufficientemente intimo da poter passare inosservato,
l’unico che
poteva sentirne il peso era lui. Lo sguardo non era un problema.
Ma la voce, che diceva il
suo nome, era un taglio netto ad ogni via di fuga.
Rimase sospeso nell’aria
come una macabra piuma per un secondo,
uno soltanto. Si concesse un ultimo attimo di libero respiro, prima di
voltarsi
nel modo più fluido che gli riuscì e portare di
nuovo lo sguardo su di lei, in
modo così timido che sentì il fastidio verso se
stesso artigliargli lo stomaco.
Ti prego
smettila di
fissarmi.
«Ciao»
La sua voce era piatta, arrocchita
dall’ansia, la gola
secca. Voleva cercare di inumidirla in qualche modo ma non poteva
permettersi
di fare rumori superflui, non poteva dare motivo a quella gente
– tutta quella
fottuta gente – di credere che fosse solo un ragazzino
maldestro e disgustoso.
E si, sapeva che il suo corteo lo
stava esaminando
attraverso un velo di noia e sarcasmo ma il suo
sguardo da solo pesava come quello di tutta la scuola. Non riusciva a
capire
come fosse possibile.
Perciò fece
l’unica cosa che il suo difettoso istinto di
sopravvivenza gli stava disperatamente suggerendo di fare,
l’unica cosa che
potesse ancora permettergli di evitare la discesa nell’abisso
di frenetica
angoscia intorno al quale stava sconsideratamente ballando.
Abbassò gli occhi. Poi li
fece correre fino agli armadietti
in fondo al corridoio, violentemente rossi contro la parete bianca, per
tornare, in una taratura di tempo perfetta, quasi nella stessa
posizione di
prima, indirizzati esattamente per incollarsi ai capelli corti e
straordinariamente poco interessanti di un giovane di belle speranze
proprio
dietro di lei.
Che non smetteva di fissarlo.
«Allora, stasera ti
trovo?»
Si ripeteva che era impossibile,
assolutamente impossibile
aggiungere altra soggezione a quella che già sentiva, eppure
la consapevolezza
di essere passato da carica sonda a puntaspilli si stava rapidamente
facendo
strada nel suo cervello. Era solamente una palla di stoffa e gommapiuma
che lei stava ripetutamente
infilzando con
una subdola e crudele serie di affondi, mentre pescava dalla sua
immensa
faretra infinite
armi, e lui non aveva
alcuna difesa contro nessuna di queste.
E la parte
peggiore,
pensò in un delirio di nausea e impotenza, è
che non se ne accorge.
«Dove?»
Guadagnare tempo era
l’opzione di emergenza.
Davanti ad un avversario che ha tutte
le carte in regola per
batterti, perché tu nemmeno hai tirato fuori il tuo mazzo
– o forse
effettivamente non ne possiedi uno, davanti a qualcuno che non ti
permette di giocare
pulito, che ha già scelto le tue mosse e ti ha incastrato
fra due fuochi, hai
due possibilità.
Stare muto come una tomba o strappare
il copione e fare la
figura dell’idiota.
Infatti lei alzò un
sopracciglio. La luce di candida
curiosità che le danzava negli occhi era scivolata via,
lasciando solo un po’
di scura impazienza.
«Alla Cava» disse
semplicemente, affondando le mani nelle
tasche della camicia.
Notò che era una strana
camicia. A strisce bianche e nere,
molto cupa.
Registrò a malapena la sua
risposta. Ormai stava prendendo
l’abitudine di cercare di spingersi il più vicino
possibile al limite del
silenzio concesso dopo l’ultima battuta di una conversazione.
«Oh» la sua voce
suonava roca perfino nelle esclamazioni santo
dio «non credo, devo studiare»
Si azzardò a dare un
colpetto di tosse, solo perché aveva
paura di strozzarsi con la frase successiva.
Il suo sguardo guizzò
sulle facce del piccolo esercito. Parevano
davvero annoiate.
Un moto di disagio lo scosse come un
conato.
Poi lei rise. Lei rise di lui, in
modo breve e leggero,
senza rimprovero ma con un pizzico di riconoscibilissima
disapprovazione, e si
rese conto di essere davvero fottuto.
«Oh ma dai, è
venerdì» la risata non era ancora fuggita
dalle sue labbra mentre pronunciava quelle parole «e poi sono
curiosa di sapere
che cosa ne pensi del fascicolo che ti ho dato»
Era al centro di un cerchio di fuoco.
Un agnello
sacrificale, niente di meno.
Sapeva che ci sarebbe riuscita, si
era messo in guardia sin
dall’inizio ma la strada di emergenza era sempre quella verso
cui correva, come
una stupida preda spaventata, ogni volta che vedeva la sconfitta
avanzare con
la sua falce ben alzata, pronta a tagliargli le gambe.
E adesso non c’erano due
fuochi, non c’era una scelta meno
terrificante dell’altra. C’era solo un
bell’anello fiammeggiante che ardeva e
ardeva e aspettava solamente che lui ci si buttasse a capofitto, in un
maestoso
e spontaneo annullamento di arbitrio.
Sapeva di aver perso nel momento
stesso in cui aveva notato
i suoi capelli in mezzo alla fauna scolastica del cambio
dell’ora. Sapeva che
avrebbe perso ogni santa volta, perché il suo mazzo non
valeva assolutamente
niente in confronto al suo.
Perciò quando finalmente
mormorò un “d’accordo,
verrò” e
fece in modo di imprimere per sempre nella sua mente il breve e
autentico
sorriso che la ragazza gli aveva dedicato, tutto quello che
sentì fu un impasto
di dolciastra rassegnazione – che scacciava di malo modo il
pressante disagio
per andare a riempirne il posto ormai vuoto – e di vago
autodisprezzo.
Osservò silenziosamente
lei e la sua carovana – erano
solamente cinque persone in effetti – proseguire il proprio
cammino nella
stessa direzione di poco prima.
Raggiunse il suo armadietto in pochi
passi. Percepiva i
residui della tensione evaporare dal suo corpo, un senso di pesantezza
e di tranquillità
tanto rara da sembrare innaturale posarsi sulle proprie spalle e
schiacciarlo a
terra, ma era una pressione piacevole, quasi liberatoria, era la
pressione
calda e rassicurante che arriva dopo l’affanno della fuga.
Un’urgenza premeva, lieve
ma insistente, contro un lato
della sua testa esausta. Era un tamburellare senza contenuto, per una
cosa che
prima aveva un nome e ora non più.
Con un sospiro tirò fuori
il telefono dalla tasca e sbloccò lo
schermo.
C’era un messaggio da Jay.
Diceva semplicemente:
Hai da fare
stasera?
Il tamburellare divenne un allarme,
l’urgenza un ricordo.
Sono curiosa
di sapere
cosa ne pensi del fascicolo che ti ho dato.
Il fascicolo era ancora da Jay.
Con le dita ancora deboli e
scivolose, soffocando il
principio di ansia che minacciava di divampare nuovamente,
digitò una breve
risposta per l’amico.
Poi si strofinò gli occhi
con i palmi delle mani, inspirò
profondamente un’ultima volta e cominciò a
camminare in direzione della sua
classe.