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Autore: honeysuckle    03/12/2018    0 recensioni
«Allora, te lo spiego in breve. La Cava è come un'arena da combattimento. In questo posto, come puoi vedere, ci vengono davvero tante persone. Ogni giorno. Alcuni sono interessati solamente a fumare, bere, ascoltare qualche stronzo che legge le sue poesie e a procurarsi qualche copia gratuita di un lavoro decente. Ma il vero pericolo della Cava sono gli altri scrittori [...] Nella Cava non ci sono regole. Non è una libreria abusiva né un teatro. La Cava è un trampolino di lancio, un ambiente letterario che può essere sia molto piacevole che molto spiacevole. Qua nessuno ti da soldi per niente, se vuoi qualcosa devi mettere tutto di tasca tua. La cosa bella della Cava è proprio questa: coloro che sono più motivati a spendere soldi per mettere in circolazione copie dei loro lavori sono i più bravi e vengono sempre apprezzati. Gli sfigati che non sono capaci di scrivere due parole di fila non durano niente qui [...]»
Genere: Angst, Introspettivo, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Ore 7:05

 

 

 

Fu la sensazione di gelida mancanza a strapparlo via dal torpore del sonno.

La soffocante consapevolezza della propria solitudine l’aveva svegliato nella stessa dolorosa maniera di tutte le altre volte, inconfondibile e debilitante. La delusione lo colpiva ogni volta subdolamente, insinuandosi dentro il suo stomaco e scacciando bruscamente il confortevole abbandono del sonno, costringendolo a cercare, a sperare che il calore che sentiva rapidamente svanire dalle lenzuola, dalle sue braccia e dal suo stesso corpo, fosse ancora lì, solo qualche centimetro più avanti, in un punto che ancora non poteva raggiungere.

Il letto era freddo.

Si sentiva quel freddo addosso, appiccicato alla pelle, e aveva paura di muoversi, perché tutto ciò che toccava era solo insopportabile vuoto. Tutto ciò che lo copriva, tutto ciò su cui giaceva, era fatto di ghiaccio.

Ma fu solo nel momento in cui il suo cervello tradusse l’assenza del familiare corpo tiepido che prima c’era e ora non c’è più in un disperato e maldestro impulso neuronale – poteva quasi sentirlo arrancare saltellando lungo i suoi assoni – che riuscì ad aprire gli occhi.

Una striscia di sole tagliava perfettamente a metà il soffitto, fastidiosamente bianca contro il grigio della penombra. Filtrava attraverso un sottile spiraglio che, schiacciato fra le tende scure della sua finestra, era stato sicuramente il frutto di una svista da parte sua la notte precedente.

Fu la prima cosa che vide.

Sentì una fitta acuta pulsargli nelle tempie. Si accorse che stava stringendo i denti.

Poi udì un fruscio.

Attese ancora un altro secondo. Aveva freddo. Il pensiero di abbandonare le lenzuola per tuffarsi repentinamente nell’aria ostile del mattino lo atterriva, ma sapeva di avere poco tempo. E il gelo era attaccato a lui, nauseante e insopportabile, fuori e dentro.

Così con uno sforzo che gli parve immenso sollevò la schiena dal materasso e si puntellò con i polsi, raddrizzandosi fino a mettersi seduto. L’unica cosa che ancora lo copriva scivolò via e si ammucchiò mollemente sul suo inguine, lasciandolo completamente esposto.

Sentì un brivido corrergli lungo le spalle, come un macabro abbraccio, e istintivamente incrociò le braccia sulla pancia.

«Non volevo svegliarti»

No, certo che no.

«Mi sarei dovuto svegliare comunque»

Non c’era nessuno dall’altra parte del letto. Jay era in piedi, a metà strada  tra lui e la porta, e si stava allacciando con la solita snervante fretta i pantaloni, che avvolgevano le sue gambe magre in una stretta soffocante.

«Che ore sono?» mormorò, mentre il gelo lo investiva come un’onda, mozzandogli il respiro, infilandosi tra le sue meningi e bloccando qualsiasi pensiero.

La fonte del gelo era lì, ad appena due metri di distanza.

Si portò le ginocchia al petto, circondandole con le braccia, in un vano tentativo di riscaldarsi.

«Le sette» rispose l’altro, senza guardarlo. Si inchinò per prendere qualcosa da terra, e il suo busto bianco scomparve per qualche secondo dalla sua vista.

Lane lo stava fissando, e non gli importava del fatto che Jay se ne accorgesse, o che si sentisse a disagio. Osservava ogni suo movimento, la stessa sequenza con la quale cercava gli indumenti che aveva perduto in qualche angolo della stanza e li indossava, compiendo gli stessi rapidi gesti nervosi che aveva avuto modo di vedere e di analizzare così tante volte.

Sentì la nausea crescere nello stomaco e arrampicarsi su per la sua gola.

«Avremo dormito sì e no quattro ore» borbottò, senza la reale intenzione di farsi udire dall’amico. Tuttavia lo vide scrollare le spalle. Il suo viso non tradiva nessuna emozione.

«Mio padre mi vuole a casa, lo sai» disse, infilandosi rapidamente la maglietta. Le sue braccia sgusciarono fuori dai buchi come pallide anguille.

Lane non rispose. Benché il suo intero corpo gli stesse urlando di alzarsi e prendere qualcosa – qualsiasi cosa – per porre finalmente fine a quel crudele quanto inutile assideramento, non aveva intenzione di muoversi di un centimetro.

Così rimase là, seduto, completamente nudo sotto il lenzuolo, ad aspettare il momento in cui il gelo avesse lasciato la stanza, attraversato il corridoio e sceso le scale, per poi chiudersi la porta d’ingresso alle spalle e abbandonare definitivamente la casa.

Lo osservava, lo osservava costantemente.

Jay era una persona strana.

Quell’affermazione suonava incredibilmente banale perfino dentro la sua stessa testa, Lane ne era consapevole, ma in quegli anni di conoscenza non era stato capace, benché avesse tentato quasi ogni giorno, di impedire a quella parola di frullargli nel cervello ogni volta che si soffermava, suo malgrado, a cercare di comprendere ciò che aveva davanti agli occhi.

Jay, nella sua apparenza, nei suoi modi, nei suoi gusti, nel suo comportamento e, benché Lane fosse convinto di non possedere ancora la presunzione per trarre la sua conclusione definitiva, nel suo animo, incarnava perfettamente la persona che, per quanto ci si sforzi di decifrarla e di avvicinarla a sé, cercando allo stesso tempo di avvicinarsi a lei, non cessa mai la sua costante, inesorabile fuga dall’empatia umana. Questo la porta ad essere irrimediabilmente etichettata come creatura di difficile comprensione e dunque, per usare un termine riassuntivo di un certo spessore, strana.

Quindi Jay, per la maggior parte della gente, era una persona strana.

 Lane scosse la testa. Si sentiva in imbarazzo. L’uso di quella parola lo faceva sentire in imbarazzo.

Così sillabò un “lo so” spicciolo e distratto, per assecondare il suo impellente desiderio di fuga. Odiava giustificarlo, e odiava il fatto che Jay riuscisse a sentirsi giustificato ogni santa volta.

Ma lui stava ancora morendo di freddo, e quel giorno più che mai si sentiva in colpa per aver pensato che ‘strano’ fosse un attributo sufficiente per descrivere la globalità dell’essenza di un essere umano.

Jay era difficile da capire.

Rimase a fissare il suo profilo magro per diversi secondi, in silenzio. La sua maglietta era scandalosamente larga, e lui non finiva mai di notarlo, così come non finiva mai di preoccuparsi, ma andava bene così.

I loro taciti accordi erano ormai saldamente ancorati al terreno del loro rapporto. C’erano confini precisi, c’era un equilibro che non doveva essere alterato, c’erano delle volte in cui era lecito chiedere aiuto ed altre in cui ognuno pensava a se stesso.

Va bene così, pensava Lane, continuando a restare aggrappato alle sue ginocchia, tentando di rubare calore al suo stesso corpo, mentre sotto i suoi occhi quella contraddizione umana continuava a vestirsi, ostentando noncuranza. Stavano entrambi aspettando la stessa cosa.

Sapeva che Jay non vedeva l’ora di ristabilire l’equilibrio. Probabilmente Jay nemmeno sapeva il motivo del suo doloroso bisogno di andare via, di sentirsi di nuovo da solo con se stesso e di liberarsi del contatto umano che aveva ricevuto in dosi così massicce nelle ore passate.

Lane sapeva che c’era un equilibrio, Lane osservava Jay da anni e lo conosceva.

Capiva perché gli altri lo consideravano una persona strana, e lui stesso condivideva la visione di corrispondenza quasi perfetta tra quell’aggettivo e il modo in cui Jay si relazionava col mondo, l’aveva accettato.

Ma lui non era il mondo, e c’erano delle regole, c’erano dei confini e c’erano degli istinti che andavano rispettati, perché se gli altri non si erano sforzati di capirlo, lui l’aveva fatto, e riteneva di esserci riuscito.

Perciò, benché ormai fosse sicuro di essere diventato un ammasso di brividi e pensieri sconnessi, lo guardò mentre andava via, senza battere ciglio, ed ascoltò il suo ‘ci vediamo’ con un mattone di disperazione nella pancia, lottando contro il desiderio di lasciarsi andare alla rabbia sorda e costringendosi a restare immobile, inerme nel freddo della mattina, per riuscire ad essere freddo anche lui.

Chiuse gli occhi. Si concesse di respirare.

Non era accaduto nulla che non avesse previsto, niente che non rientrasse nei loro normali comportamenti.

Va bene così, pensò di nuovo, strappandosi un’unghia con i denti. Un fastidioso dolore familiare pulsò nella carne viva appena esposta, facendolo pentire immediatamente della sua azione.

Sbuffò senza preoccuparsi di rompere il silenzio spettrale della stanza e finalmente si alzò dal letto, cercando con una certa fretta la maglietta sul pavimento.

Non riusciva, per quanto avesse tentato, a trasformare questi risvegli in un’abitudine.

La mancanza, suo malgrado, gli lasciava sempre la stessa sensazione sulla pelle, e ogni volta lui l’assorbiva con diligenza, come se fosse la prima, e vi si abbandonava mollemente, senza uno sforzo per contrastarla, senza la speranza di poterla combattere.

Si passò una mano fra i capelli e si infilò rapidamente i pochi indumenti che era riuscito a raccattare. Godé per un attimo del sollievo provocato dal conforto del tessuto sul suo corpo intirizzito, per dirigersi poi alla ricerca del suo cellulare, abbandonato in qualche angolo della camera nella fretta della notte precedente.

Sbuffò di nuovo, quando lo trovò coperto dai propri jeans, arrotolati di malagrazia sulla moquette.

Premette il tasto di accensione, e lo schermo si illuminò, provocandogli una fitta agli occhi. Si accorse di aver dormito con le lenti a contatto.

Non c’erano messaggi da sua madre, né da suo padre. Sentì una piacevole quanto fuori luogo sensazione di sollievo espandersi nel suo petto ed evaporare un attimo dopo.

La notifica era ancora lì.

Zoey Kingsley ti ha inviato una richiesta di amicizia.

Smise di respirare. Tratteneva sempre il respiro per cercare di bloccare l’avanzata dell’ansia, ma il vortice di paralizzante angoscia che aveva nello stomaco gli faceva martellare il sangue nel cervello, impedendogli di pensare.

Sentiva le mani gelide, le dita che stringevano il telefono stavano diventando insensibili.

Si appoggiò al bordo del letto. Aveva decisamente dimenticato quel dettaglio della serata – santo dio, come aveva fatto a dimenticare quel dettaglio? – e la realtà era piombata su di lui come una cascata di sassi.

Sblocca il telefono, idiota, si disse. Le sue dita rimasero immobili.

Improvvisamente, sotto il suo sguardo pietrificato, apparve un’altra notifica.

Un messaggio da Jay, che recitava semplicemente: hai dimenticato il fascicolo nel motorino.

Fece scorrere l’indice sullo schermo, cancellandolo immediatamente con un gesto nervoso.

Poi sospirò e, consapevole di non essere fisicamente in grado di reggere ancora l’attesa, sbloccò il telefono.

 

*

 

Non riusciva a tenere gli occhi aperti.

Adesso li chiudo, si ripeteva, appoggiando tutto il peso della propria testa al polso piegato, ad intervalli di trenta secondi.

Non si era mai addormentato in classe in tutta la sua vita, ma questa volta sentiva di esserci fatalmente vicino. Teneva la matita incastrata fra l’indice e il medio, e muoveva piano le dita per farla sbattere sulla superficie del banco: il rumore era sufficientemente molesto da riuscire a tenerlo sveglio e distrarlo dalla triste prospettiva del lento scorrere dei minuti, e allo stesso tempo abbastanza flebile da non disturbare la solida e inarrestabile monotonia della voce della professoressa.

Si passò la mano libera fra i capelli, tirandoli leggermente. Tentare di procurarsi dolore per non scivolare nel sonno come un cretino era la sua ultima spiaggia.

Spostò lo sguardo sulla ragazza seduta nel banco accanto al suo e la osservò per un attimo, mentre la punta della sua penna scorreva morbidamente sul foglio che aveva davanti, e l’altra estremità volteggiava in aria ad un centimetro dal suo naso. Tutti gli altri sembravano incredibilmente concentrati e tutti incredibilmente uguali.

Era ammirevole il modo in cui compivano tutti lo stesso gesto, ognuno per sé, ognuno nel proprio isolato microcosmo, con una coordinazione spaventosa e quasi innaturale. Ognuna di quelle giovani schiene era diligentemente china sul proprio quaderno, mentre il suo proprietario si dedicava a ciò che anni di pubblica istruzione e di fardelli di obblighi e aspettative gli avevano imposto come una necessità imprescindibile.

Lane riteneva che l’ascolto prolungato di una lezione che consisteva prettamente nell’analisi – troppo superficiale per risultare remotamente interessante alle sue orecchie ma troppo complessa per essere seguita senza inclinazioni suicide o generico desiderio di morte – di fenomeni fisici assolutamente non rilevanti, rappresentati da banali quanto poco impressionanti formule matematiche, fosse esattamente la materializzazione del suo inferno personale.

Era in grado di capire che non fosse necessariamente una cosa brutta. Era consapevole che quella stessa aspettativa che schiacciava i suoi compagni contro i propri banchi come un collettivo, perpetuo macigno, al quale apparentemente non vi era scampo, fosse in qualche modo anche parte della sua vita. Ma la propria aspettativa, quella che lo spingeva come un impulso sconosciuto a dedicarsi a ciò in cui riteneva fosse lecito impiegare le proprie energie, si riversava, immensa e mostruosa, in altro.

Perciò, ogni santa volta che si trovava in quella classe, con quelle persone talmente interessate alle parole della professoressa da concedersi a malapena di respirare, gli veniva una nausea della vita morbosa e paralizzante che raramente provava in altre occasioni.

Ma, nonostante il sonno, era ancora capace di impedirsi di fare qualcosa di orribilmente sconsiderato, come addormentarsi in classe.

Perciò sospirò e si appoggiò al muro con una spalla, cercando di sparire completamente dietro la testa della ragazza seduta proprio davanti alla cattedra.

«Sei in questa classe da due anni e non ti ho mai visto interessato a niente»

Lane si voltò di scatto, ringraziando mentalmente il proprietario di quella voce per averlo strappato via dalla sua miserabile condizione.

«Non sopporto la sua voce» sussurrò in risposta, alzando brevemente le spalle e lanciando un’occhiata al viso corrucciato del ragazzo.

«E allora perché continui a iscriverti a questo corso?» gli domandò, con un breve sospiro di biasimo.

Lane non rispose subito. Fece vagare timidamente lo sguardo sulla sua faccia larga e bianca, sulle sopracciglia quasi trasparenti e le lentiggini rade ma incredibilmente scure contro la sua pelle. Erano concentrate tutte sul naso, come se fossero state gettate tutte insieme come coriandoli da una mano particolarmente maldestra.

Su di lui stonavano tanto quanto a Jay stavano bene.

Ma a Lane non dispiaceva Jeff, e perdonava le sue domande scomode perché sapeva che lui non le considerava tali.

Sospirò, senza più preoccuparsi delle conseguenze del suo inevitabile auto sabotaggio, e si passò una mano fra i capelli, cercando di dilatare il più possibile i secondi che lo separavano dal limite universale entro il quale era socialmente accettabile fornire una risposta.

«Per una questione di praticità, credo» mormorò infine, girando di nuovo la testa per fare finta di controllare la professoressa. Il ronzio spiacevole e ininterrotto che le usciva dalla bocca dimostrava il suo totale disinteresse nei confronti del loro scambio di battute.

Jeff si accigliò ancora di più, ma dalla sua espressione non trapelava ostilità, solo un lieve, lievissimo inquadramento preimpostato che lo portava automaticamente a desumere che Lane stava dalla parte sbagliata della ragione umana.

«Sinceramente non ho capito» asserì, cominciando a mordicchiare il tappo della penna.

Alla vista di quel gesto Lane si portò automaticamente una mano alla bocca.

«È che» mugugnò, staccando di netto un’unghia con i denti «voglio tenermi aperte diverse porte»

Era consapevole di quanto fosse carente la sua spiegazione, eppure lo vide alzare le spalle in un gesto di velata disapprovazione.

«Per me non ha senso» disse, in un tono talmente sincero da sembrare quasi scortese «tu non vuoi stare qui»

«Però devo starci» borbottò Lane, sentendosi scivolare via rapidamente dalla bolla di agio che si era costruita fra loro nel corso degli anni.

Non avevano mai parlato molto, non avevano mai varcato il ben delineato confine che separa una situazione di conoscenza e superficiale apprezzamento reciproco da una vera e propria condizione di empatia e confidenza. Sapevano di essere alleati, non avevano bisogno l’uno dell’altro al di fuori del corso. Ma in quel momento, un momento che Lane giudicava davvero poco opportuno per fare una mossa del genere, Jeff stava deliberatamente alterando quell’equilibrio, consolidato e confortevole, che lui credeva fosse frutto della volontà di entrambi.

Le domande scomode andavano bene, finché Jeff si accontentava delle sue risposte vaghe.

Sorprendentemente, le spalle del ragazzo si rilassarono, e si esibì in un sospiro che assomigliava ad una manifestazione di pura solidarietà.

«Mi dispiace per te» disse semplicemente, guardandolo dritto in faccia.

«Si, beh» mugugnò, abbassando lo sguardo sul quaderno fitto di appunti del ragazzo «non importa, va bene così»

Si stampò in faccia un impacciato sorriso, il desiderio di terminare la conversazione che spingeva disperatamente contro le pareti della sua scatola cranica.

Lo vide scrollare leggermente le spalle.

Lane riteneva di aver carpito una quantità considerevole di informazioni su Jeff nel corso di quegli anni di blanda e cordiale conoscenza. Conoscenza, per non dire osservazione. E fino al momento in cui si trovava a vivere quell’imbarazzante dialogo, aveva sempre custodito, dentro di sé, la rassegnazione alle scarse manifestazioni d’intelletto e di sensibilità dell’unica persona con la quale fosse riuscito a stabilire un contatto in quella classe aliena.

Eppure.

Eppure Jeff disse, nel tono più pacato che avesse mai sentito uscire dalla sua bocca:

«Forse dovresti cominciare a chiedere ai tuoi genitori di lasciare che ti iscriva a corsi che ti piacciono»

Rimase spiazzato. Assolutamente pietrificato.

«Come?» sussurrò, mentre il nervosismo cominciava a traboccare dal vaso di Pandora che aveva al posto del cervello, invadendo, fluido e inarrestabile, ogni centimetro del suo corpo.

Ed eccoli.

I tonfi del suo cuore erano fuori controllo. Si impose di non accelerare il respiro.

«Mi hai sentito» rispose Jeff, e un secondo dopo il suono peggiore che avesse mai sentito invase l’aula.

Era sicuro che quella campana gli avesse bucato i timpani.

«Ci vediamo» aggiunse atono il largo ragazzo, che nel frattempo aveva raccolto e buttato dentro lo zaino tutta la sua roba. Si alzò rapidamente e fece per andarsene.

«Aspetta» quasi gridò Lane, senza effettivamente preoccuparsi dell’ansia che trapelava dalla sua voce.

Ma Jeff era già sgusciato tra le impazienti e rumorose figure dei loro compagni, con la borsa che gli sbatacchiava sulle spalle massicce ad ogni passo.

 

Deve essere così che ci si sente, quando si rompe la quarta parete.

Questo pensò, quando l’angoscia lo riempì completamente, chiudendogli la gola e bussandogli freneticamente nel petto.

Lo stesso sentimento che precedentemente gli stringeva la testa come un anello di ferro, facendogli desiderare di chiudere tutto, in quel momento lo stava scuotendo come una scarica, e gli stava dicendo di corrergli dietro.

Così, quando oltrepassò la porta, sfregandosi contro braccia e schiene e capelli, con il fiato corto e l’imbarazzo che martellava nelle orecchie, e la sua mano raggiunse il braccio di Jeff, capì che per sfondare la sua maledetta porta il ragazzo vi aveva semplicemente appoggiato una mano.

Si piazzò davanti a lui, illudendosi di potergli impedire di passare oltre il suo esile corpo.

«Io frequento corsi che mi piacciono» si ritrovò a dire, stupidamente. Si sentì straordinariamente ridicolo.

Jeff scosse la testa. Stava lentamente perdendo quell’aria da tappezzeria, da pezzo d’arredamento, che gli aveva sempre attribuito e improvvisamente una genuina voglia di lasciar perdere qualsiasi tentativo di richiudere la porta gli balenò nella testa, calda e invitante.

«Non è quello che ho detto. Ho detto che potresti evitarti questa tortura»

Fece una smorfia, tirando la bocca in un’espressione di disgusto.

«Per me è una tortura il corso di letteratura, ma devo andarci perché è obbligatorio»

Gli stava già volgendo le spalle un’altra volta.

«Siamo all’ultimo anno, Lane»

A malapena udibile, sopra il frastuono denso di adolescenza e indisciplina che regnava nel corridoio, ma fu come ricevere un mattone sulla pancia.

Un bel calcio fra lo sterno e lo stomaco.

Trattenne il respiro, mentre sentiva il dolore ramificarsi e germogliare, come un parassita velenoso, dentro il suo debole groviglio di emozioni.

Jeff gli voltò le spalle e se ne andò per la sua strada, con un’ultima occhiata intrisa di compassione.

E poi accadde.

Vide prima i suoi capelli.

Ci mise meno di un battito di ciglia a realizzare che esattamente due cose assolutamente improbabili erano avvenute ad una distanza ridicolmente breve l’una dall’altra, e credette davvero che le gambe l’avrebbero abbandonato, cedendo come burro sotto la pressione.

Assolutamente improbabile.

Talmente improbabile che non aveva nemmeno ritenuto opportuno prendere in considerazione una simile eventualità. Scandalosamente imprevedibile, ai limiti del tradimento.

Stava avanzando. Stava avanzando, circondata da una ondeggiante coltre di angeli custodi, sui quali lei spiccava senza sforzo, forse senza nemmeno una reale intenzione, e si stava avvicinando sempre di più.

Pareva che sfavillasse.

Tutto di lei sembrava essere stato posto lì, sulla sua persona, per brillare e farla brillare in ogni istante.

Il modo in cui si voltava verso uno degli infiniti satelliti che la circondavano – saranno stati quattro o cinque, ma non aveva alcun senso rivolgere lo sguardo verso di loro per contarli – il modo in cui sorrideva, perfino il modo in cui camminava era impossibile da ignorare.

Era impossibile non notarla. Era impossibile guardarla e non apprezzarla.

E lui era là fermo come un emerito idiota, in mezzo al fiume di gente che scemava rapidamente, sferzato dal richiamo insistente della campana, e si sentiva come se i barlumi di essenza che lei lasciava trapelare da ogni gesto, in ogni secondo, oscurassero completamente tutto ciò che lui aveva mai avuto la pretesa di essere, in tutta la sua mera esistenza.

Si sentiva come se poterla osservare fosse una ragione sufficiente per continuare a stare al mondo, come se la contemplazione assoluta e adorante fosse il premio che gli era stato assegnato, la fortuna di una vita intera.

Si riscosse solamente quando si accorse che rischiava seriamente di essere visto.

La folla si era divisa. Era giunto quell’affascinante momento in cui la massa cessa di essere tale, mentre si sgretola contro le pareti e si trasforma, e ognuno diventa nuovamente un individuo, ognuno raggiunge il suo armadietto e si ritaglia un breve, brevissimo pezzetto di pacifica solitudine prima di essere trascinato ancora, inesorabilmente, nella maledizione della collettività, impetuosa e anonima.

Così si mosse nella direzione opposta alla sua, cercando di scivolare discretamente vicino al muro.

Gli restava davvero poco tempo. Dieci metri, solo dieci metri più avanti c’era il suo armadietto.

Era sul lato giusto, doveva solo usare sapientemente i corpi delle poche persone rimaste, ma era semplice, l’aveva fatto così tante volte, era semplice e lui aveva bisogno di nascondersi, un bisogno disperato, perché Jay non c’era, nessuno poteva aiutarlo, e lo uccideva il pensiero di incontrarla là da solo mentre lei era con tutta quella gente - oh mio dio - tutta quella gente che non conosceva e sembravano tutti ben vestiti e bellissimi e si muovevano nel modo giusto e ridevano nel modo giusto e oh mio dio le svolazzavano intorno come tante belle farfalle intorno a una lanterna e lei in tutto questo continuava a brillare e ad attrarli a sé, perché se loro erano bellissimi e felici e giusti, lei era un’altra cosa, lei li superava tutti, lei era impossibile.

Da concepire, da non guardare.

Il segreto è distogliere lo sguardo, fai finta di fare altro, ti prego non fissarla non fissarla non fissarla.

Mancavano cinque metri.

Non pensava nemmeno più all’armadietto.

Una fitta acuta di consapevolezza lo colpì alla nuca.

Il telefono.

Si ficcò una mano in tasca, cercando disperatamente di lottare contro il tessuto appiccicoso della giacca.

Sbloccò lo schermo con una velocità imbarazzante, aggrappandosi all’oggetto con le dita gelide e scivolose, costringendo tutta la sua traballante attenzione a concentrarsi su di esso.

Ma nell’attimo in cui la sua figura curva e goffa incrociò lo sciame volteggiante di esseri impeccabili – sembravano davvero tanti, perché erano così tanti? –e la soggezione era giunta al suo massimo, non riuscì a impedirsi di far scattare lo sguardo, un’ultima volta, sull’ape regina.

E nell’attimo esatto in cui la sua occhiata si era conclusa, nel momento in cui i suoi occhi erano scivolati via da lei, in cui il suo unico ponte era stato tagliato e l’adorazione moriva nel suo ultimo spasmo, nel momento – il rassicurante, doloroso momento – in cui aveva creduto di essere al sicuro, lo sentì.

Il suo sguardo aveva un peso, e lui se n’era accorto la prima volta.

La prima volta che l’aveva guardato si era reso conto di essere solamente una piccola, mediocre carica sonda. Che ogni sua azione, ogni cosa che lei faceva pesava su di lui e osservare non era mai troppo perché tutto era straordinariamente importante, tutto doveva essere osservato, perdersi in quel campo magnetico era come affogare nel miele.

Ma poi lui aveva sentito su di sé il colpo, come uno schiaffo, del movimento dei suoi occhi, e aveva capito che forse il suo campo magnetico non era poi così insignificante, che poteva alterare oltre ad essere alterato.

Ma gli esseri umani non sono calamite, tutti gli sguardi hanno un peso e questo sguardo è troppo pesante.

«Lane!»

Troppo vicina per essere ignorata.

Lo sguardo schiacciava, la voce inchiodava. Obblighi, costrizioni, prigioni astratte. L’imbarazzo di sgusciare via contro l’imbarazzo di rimanere.

Uno sguardo andava bene, era spaventoso ma non paralizzante. Era un gesto sufficientemente intimo da poter passare inosservato, l’unico che poteva sentirne il peso era lui. Lo sguardo non era un problema.

Ma la voce, che diceva il suo nome, era un taglio netto ad ogni via di fuga.

Rimase sospeso nell’aria come una macabra piuma per un secondo, uno soltanto. Si concesse un ultimo attimo di libero respiro, prima di voltarsi nel modo più fluido che gli riuscì e portare di nuovo lo sguardo su di lei, in modo così timido che sentì il fastidio verso se stesso artigliargli lo stomaco.

Ti prego smettila di fissarmi.

«Ciao»

La sua voce era piatta, arrocchita dall’ansia, la gola secca. Voleva cercare di inumidirla in qualche modo ma non poteva permettersi di fare rumori superflui, non poteva dare motivo a quella gente – tutta quella fottuta gente – di credere che fosse solo un ragazzino maldestro e disgustoso.

E si, sapeva che il suo corteo lo stava esaminando attraverso un velo di noia e sarcasmo ma il suo sguardo da solo pesava come quello di tutta la scuola. Non riusciva a capire come fosse possibile.

Perciò fece l’unica cosa che il suo difettoso istinto di sopravvivenza gli stava disperatamente suggerendo di fare, l’unica cosa che potesse ancora permettergli di evitare la discesa nell’abisso di frenetica angoscia intorno al quale stava sconsideratamente ballando.

Abbassò gli occhi. Poi li fece correre fino agli armadietti in fondo al corridoio, violentemente rossi contro la parete bianca, per tornare, in una taratura di tempo perfetta, quasi nella stessa posizione di prima, indirizzati esattamente per incollarsi ai capelli corti e straordinariamente poco interessanti di un giovane di belle speranze proprio dietro di lei.

Che non smetteva di fissarlo.

«Allora, stasera ti trovo?»

Si ripeteva che era impossibile, assolutamente impossibile aggiungere altra soggezione a quella che già sentiva, eppure la consapevolezza di essere passato da carica sonda a puntaspilli si stava rapidamente facendo strada nel suo cervello. Era solamente una palla di stoffa e gommapiuma che lei stava ripetutamente infilzando con una subdola e crudele serie di affondi, mentre pescava dalla sua immensa faretra  infinite armi, e lui non aveva alcuna difesa contro nessuna di queste.

E la parte peggiore, pensò in un delirio di nausea e impotenza, è che non se ne accorge.

«Dove?»

Guadagnare tempo era l’opzione di emergenza.

Davanti ad un avversario che ha tutte le carte in regola per batterti, perché tu nemmeno hai tirato fuori il tuo mazzo – o forse effettivamente non ne possiedi uno, davanti a qualcuno che non ti permette di giocare pulito, che ha già scelto le tue mosse e ti ha incastrato fra due fuochi, hai due possibilità.

Stare muto come una tomba o strappare il copione e fare la figura dell’idiota.

Infatti lei alzò un sopracciglio. La luce di candida curiosità che le danzava negli occhi era scivolata via, lasciando solo un po’ di scura impazienza.

«Alla Cava» disse semplicemente, affondando le mani nelle tasche della camicia.

Notò che era una strana camicia. A strisce bianche e nere, molto cupa.

Registrò a malapena la sua risposta. Ormai stava prendendo l’abitudine di cercare di spingersi il più vicino possibile al limite del silenzio concesso dopo l’ultima battuta di una conversazione.

«Oh» la sua voce suonava roca perfino nelle esclamazioni santo dio «non credo, devo studiare»

Si azzardò a dare un colpetto di tosse, solo perché aveva paura di strozzarsi con la frase successiva.

Il suo sguardo guizzò sulle facce del piccolo esercito. Parevano davvero annoiate.

Un moto di disagio lo scosse come un conato.

Poi lei rise. Lei rise di lui, in modo breve e leggero, senza rimprovero ma con un pizzico di riconoscibilissima disapprovazione, e si rese conto di essere davvero fottuto.

«Oh ma dai, è venerdì» la risata non era ancora fuggita dalle sue labbra mentre pronunciava quelle parole «e poi sono curiosa di sapere che cosa ne pensi del fascicolo che ti ho dato»

Era al centro di un cerchio di fuoco. Un agnello sacrificale, niente di meno.

Sapeva che ci sarebbe riuscita, si era messo in guardia sin dall’inizio ma la strada di emergenza era sempre quella verso cui correva, come una stupida preda spaventata, ogni volta che vedeva la sconfitta avanzare con la sua falce ben alzata, pronta a tagliargli le gambe.

E adesso non c’erano due fuochi, non c’era una scelta meno terrificante dell’altra. C’era solo un bell’anello fiammeggiante che ardeva e ardeva e aspettava solamente che lui ci si buttasse a capofitto, in un maestoso e spontaneo annullamento di arbitrio.

Sapeva di aver perso nel momento stesso in cui aveva notato i suoi capelli in mezzo alla fauna scolastica del cambio dell’ora. Sapeva che avrebbe perso ogni santa volta, perché il suo mazzo non valeva assolutamente niente in confronto al suo.

Perciò quando finalmente mormorò un “d’accordo, verrò” e fece in modo di imprimere per sempre nella sua mente il breve e autentico sorriso che la ragazza gli aveva dedicato, tutto quello che sentì fu un impasto di dolciastra rassegnazione – che scacciava di malo modo il pressante disagio per andare a riempirne il posto ormai vuoto – e di vago autodisprezzo.

Osservò silenziosamente lei e la sua carovana – erano solamente cinque persone in effetti – proseguire il proprio cammino nella stessa direzione di poco prima.

Raggiunse il suo armadietto in pochi passi. Percepiva i residui della tensione evaporare dal suo corpo, un senso di pesantezza e di tranquillità tanto rara da sembrare innaturale posarsi sulle proprie spalle e schiacciarlo a terra, ma era una pressione piacevole, quasi liberatoria, era la pressione calda e rassicurante che arriva dopo l’affanno della fuga.

Un’urgenza premeva, lieve ma insistente, contro un lato della sua testa esausta. Era un tamburellare senza contenuto, per una cosa che prima aveva un nome e ora non più.

Con un sospiro tirò fuori il telefono dalla tasca e sbloccò lo schermo.

C’era un messaggio da Jay. Diceva semplicemente:

Hai da fare stasera?

Il tamburellare divenne un allarme, l’urgenza un ricordo.

Sono curiosa di sapere cosa ne pensi del fascicolo che ti ho dato.

Il fascicolo era ancora da Jay.

Con le dita ancora deboli e scivolose, soffocando il principio di ansia che minacciava di divampare nuovamente, digitò una breve risposta per l’amico.

Poi si strofinò gli occhi con i palmi delle mani, inspirò profondamente un’ultima volta e cominciò a camminare in direzione della sua classe.

 

   
 
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