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Autore: Kat Logan    04/12/2018    2 recensioni
Makoto ripulì il banco del bar dalla sabbia e dall’ appiccicume di qualche Margarita finito lì sopra per colpa di qualche bevitore distratto. Ne aveva piene le orecchie di storie e confessioni che la gente le faceva con i piedi affondati nella sabbia fine di Malibù. Chi credeva che fare la barista fosse un lavoro semplice, si sbagliava. Lei era il confessore dei peccati più bollenti di tutta la costa e nel suo tempio sacro ogni peccato veniva perdonato con un cocktail.
«Adesso ve la racconto io una storia davvero stramba».
Avrebbe dovuto starsene zitta, ma qualcosa in lei era scattato come una molla e da confidente silenzioso, Makoto, divenne oracolo senza peli sulla lingua.
«C’è un pompiere che rischia di bruciarsi per amore e convive con un’aspirante star della musica. Un artificiere incosciente, arrogante e pieno di sé. E poi c’è lei, con lo sguardo che nasconde una ferita profonda perché per la seconda volta nella vita ha fallito in qualcosa…».
«E poi?». Usagi la interruppe presa dell’entusiasmo. «Gli altri personaggi di quest’avventura chi sono?».
Makoto sospirò, portandosi lo strofinaccio sulla spalla.
«Un timido genio, una baby sitter fuori controllo e una stupida barista…»
Genere: Azione, Commedia, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Shoujo-ai | Personaggi: Haruka/Heles, Michiru/Milena, Minako/Marta, Un po' tutti, Yaten | Coppie: Haruka/Michiru, Mamoru/Usagi
Note: AU, OOC | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Nessuna serie
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Alcuni l’avevano definita una disgrazia, altri, un dono.
Makoto ci aveva messo un po’ ad interpretare ciò che le era accaduto nel secondo modo, anziché arrabbiarsi e maledire il destino.
In realtà le prime settimane era stato così. Era circondata da sconosciuti e le poche parole che sputava erano tanto colme di rabbia da essere irripetibili oltre che cozzare con la sua personalità.
Poi erano arrivati loro. Una marmaglia di nomi e facce mai viste prima che l’avevano accolta nel proprio cerchio. Un circolo segreto nel quale la storia di ogni singolo era quella di tutti gli altri e sentirsi soli non era un’opzione.
Makoto era nata due volte. Makoto aveva avuto il dono di avere due vite e della prima portava con sé solo un ricordo fuggevole; qualcosa di quasi inesistente.
«Grazie a tutti per essere venuti oggi e aver condiviso le vostre storie con noi, ora sono di tutti. Al prossimo mercoledì».
La voce della coordinatrice del gruppo di sostegno risvegliò dal trans in cui era caduta Makoto forse troppo velocemente. Lei era ancora lì, attaccata alla propria sedia come si fa quando non si vuole scivolare in un abisso.
«Ti senti bene?».
La ragazza castana sollevò d’istinto il mento riuscendo finalmente a scorgere i tratti della donna più grande che le si era avvicinata con una cartellina blu stretta al petto.
«Sì, tutto ok. Ho solo…» Makoto tentennò un momento, poi portò la mano in alto sulla gamba sinistra ed espirò profondamente. «Ho solo male alla cicatrice» la rassicurò con un sorriso.
«Posso lasciarti seduta ancora un pò se non te la sent-».
«Non occorre!» scattò in piedi come un fuso. «Sto bene» sottolineò ancora una volta agguantando la sua tracolla.
«Ci vediamo mercoledì».
Eleonor, la matriarca del gruppo la salutò con un cenno della mano.
 
Makoto uscì in strada, salutando con sorrisi di circostanza e cenni disseminati i partecipanti dell’incontro.
Doveva andare ad aprire il bar ed era in ritardo, ma non poteva saltare quell’impegno. Era l’unica cosa che le ricordava di non aver subito un’ingiustizia ma una seconda possibilità.
Lei era forte ed era nata due volte. Come una dea.
 
 
§§§
 
 
Il sole si distendeva sull’orizzonte e Rei era arrivata perfettamente in orario a Malibu Beach.
Amava quel momento della giornata. Lo scrosciare delle onde sulla battigia e i riflessi lucenti sul pelo dell’acqua rendevano magico quella perla incastonata nell’oceano.
Nessun sms da parte di Minako e non una parola da  parte di Haruka, nonostante fosse stata “l’organizzatrice” della serata. Me se il secondo caso non la sorprendeva, il primo invece la metteva in allarme. Rei inspirò ed espirò a fondo. Erano soltanto dieci minuti di ritardo ma arrivata a venti avrebbe allertato la guardia costiera oltre che la polizia, poiché Minako Aino non taceva nemmeno via smartphone così a lungo.
Una manciata di ragazzi le passò chiassosa alle spalle. Ridevano e si spintonavano come fosse il loro modo naturale di passeggiare per strada.
Rei chiuse gli occhi e per un momento ritrovò la sua terra. L’odore acre dei sigari, il profumo della piña colada e quello delle distillerie artigianali di Rum. I colori sgargianti, l’umidità e il riso bruciato. Gli occhi splendenti di sua madre e le canzoni ritmate ballate per strada.
Riaprì gli occhi d’improvviso come se istantaneamente dovesse riemergere da una lunga apnea e nel suo campo visivo entrò una figura alta dai capelli castani rilegati dietro alla nuca.
L’uomo si avvicinava al chiosco di Makoto e lei non lo aveva mai visto prima. Fece per muovere un passo in direzione dello sconosciuto, presa dal suo senso di responsabilità quando una risata cristallina riecheggiò dal molo.
La coda dell’occhio catturò l’istantanea di Minako presa a scendere da una barca. Il ragazzo dai capelli argentei che aveva visto di sfuggita al falò le tendeva la mano per aiutarla come un prode cavaliere. Sembravano usciti da una di quelle commedie romaniche che fanno tanto battere i cuori e piangere le ragazze davanti ad uno schermo.
 
«Sicuro di non voler venire?» domandò Minako una volta poggiati entrambi i piedi sulla terra ferma. Avrebbe voluto prolungare quel contatto di dita in eterno, sebbene si rese conto che Yaten le aveva teso la mano perché l’aveva già immaginata con la testa sott’acqua a far le bolle in mezzo ai pesci e non sana e salva sulle assi fradice del molo.
Yaten tentennò rimanendo così in silenzio. Ritrasse il palmo dal suo per allungarle la custodia contenente la chitarra.
«Alle mie amiche non dispiacerà, puoi star tranquillo».
«Magari un’altra volta» borbottò con un filo di voce, preoccupandosi di ormeggiare a dovere la propria barca.
«Allora ci vediamo domani?».
«Stesso posto, stessa ora».
Minako lo salutò con un cenno della mano, si sistemò lo strumento sulla spalla e vedendo lo sguardo di Rei vegliare su di lei come un falco le riservò un sorriso.
Yaten rimase in piedi a guardarla allontanarsi, in balia dell’ondeggiare causato dalla marea in porto. Non era mai stato un animale da compagnia e spesso vi aveva trovato conforto nel silenzio, ma qualcosa, qualcosa che lui non avrebbe saputo esprimere ancora nemmeno su uno spartito musicale, aveva preso a scavare come il più ostinato dei tarli dentro di lui.
Sentì il fantasma delle dita di Minako tra le sue e avvertì una singolare stretta al cuore. Come quella della nostalgia di casa nel momento in cui vide sparire nel buio le coste Hawaiane durante la sua fuga da un posto che riusciva solo a farlo sentire più piccolo e mai gli avrebbe permesso di crescere a dovere.
«MINAKO» urlò tanto forte da sentire la sua voce riecheggiare e per un attimo ebbe l’impressione che tutti gli sguardi dei passanti puntassero dritto su di lui.
L’azzurro delle iridi della ragazza lo investì in pieno. Un colpo di pallottola sparato dritto all’altezza del petto. E alla strana sensazione di poco prima si aggiunse quella di vertigine. Forse era stato troppo a lungo in barca e ne stava risentendo. Ma qualunque fosse la ragione non ci spese troppo tempo sopra e senza rendersene conto abbatté il primo mattone di quel muro invalicabile che aveva costruito tutto attorno a sé. Con un balzo i piedi abbandonarono la sua casa sull’acqua per trovare sicurezza sul legno scivoloso del porto.
«Aspettami» disse solo mentre la raggiungeva.
La ragazza ubbidì. Non esalò un suono come se la cosa detta in modo sbagliato potesse farlo ritrarre e scappare.
Attese solo che i passi dell’altro potessero unirsi a suoi.
 
 
§§§
 
 
Le infradito di Makoto affondarono nella sabbia senza far rumore. Fu lei ad arrivargli alle spalle e sebbene lo avesse visto una sola volta era certa di chi si trattasse.
Strano. Pensò tra sé e sé. Lei non aveva una particolare memoria visiva eppure quell’immagine era come se facesse a lungo parte della sua routine. Come succede quando hai vissuto per tanto tempo con un’altra persona e la riconosci senza aver bisogno di vederla. Magari ne conosci il peso dei passi o sai a memoria i gesti che compie. Ed esattamente in quel modo la linea delle sue spalle forti era disegnata in modo limpido nei pensieri di Makoto.
La ragazza fu sorpresa di ritrovarlo lì. Aveva davvero ascoltato quando lei aveva straparlato su dove lavorasse.
Devo preoccuparmi? Si guardò attorno, senza trovare la sua compagna di “marachella” Usagi.
Inspirò a fondo, guardò ancora una volta la figura seduta sulla sabbia e decise di aprire il bar facendo finta di nulla.
Lui lasciò passare qualche minuto per poi alzarsi. Si scrollò i granelli di sabbia dai pantaloni di lino leggero per poi stagliarsi con tutta la sua altezza verso il bancone del localino.
Makoto rimase con un braccio a mezz’aria per accendere le lucine appese al tetto ricoperto in paglia, ma completò lui quell’operazione.
«Faccio io».
Lei rimase pietrificata. Incapace di muovere un solo muscolo come in presenza di un orso bruno sul sentiero nel bel mezzo della foresta.
«Non pensavo apristi così tardi» dichiarò lui accomodandosi sullo sgabello sistemato dinnanzi alla postazione del barista.
«Non lo faccio di solito. Oggi è stato un…caso» era imbarazzata. Tesa come una corda di violino. Era indecisa se il centauro, più che un nuovo vicino fosse in realtà uno stalker come aveva predetto Usagi.
«È carino qui».
«Grazie».
«Qualcosa non va?» domandò lui.
Makoto ebbe di nuovo quella sensazione. Quella di non essere un mistero ma la pagina di un libro che si conosce a memoria.
«Stavo pensando che…» il cervello dovette realmente elaborare qualcosa di sensato da dire. «Non so il tuo nome. Io mi sono presentata ma tu no».
Lui sorrise e qualcosa in quell’istante si sbloccò in Makoto. In cuor suo sapeva che quell’incurvatura era come un fiore nel deserto, troppo rara per essere avvistata normalmente su quei tratti squadrati.
«Puoi chiamarmi Nev».
Il nome, come la chiave per un lucchetto di guardia a qualche segreto dentro di lei, sbloccò un eco lontano.
Le labbra di Makoto avevano pronunciato quel nomignolo un’eternità di volte. Ma non se lo ricordava, non sapeva nulla di più. Aveva solo quella sensazione sbiadita che possedeva le sembianze di un ricordo.
«Tutto ok?» indagò preoccupato lui.
Quello sguardo freddo e tagliente che si ammorbidiva le faceva girare la testa come se si trovasse in alto mare.
«Si». Makoto riprese il controllo di sé stessa. «Oggi è stata solo una giornata un po’ stancante» lo ragguagliò prendendo ad occuparsi dei bicchieri da asciugare.
«Allora, pasticcere…la mia torta ha superato la prova?».
«Sì, è stata una buona prova. Ma vorrei assaggiassi una delle mie».
«Vuoi forse umiliarmi?».
«No, voglio un parere sincero e spassionato su un dolce che ho studiato per notti intere».
L’espressione di Makoto si fece sorpresa. Si trovava a metà tra la diffidenza e l’essere totalmente spiazzata ma in maniera positiva.
«Come sai che sarò sincera sul mio giudizio?».
Lui si morse la lingua. Bloccò sul nascere qualcosa che sapeva di non poter dire. Non aveva mai coltivato la pazienza, ma sapeva essere necessario in quel frangente.
«Hai l’aria di esserlo» tagliò corto senza troppi giri di parole.
«Ti aspetto in pasticceria domani, ci stai?».
Makoto fece un timido cenno di assenso col capo. Aveva come l’impressione di starsi per cacciare in un grosso guaio eppure non riusciva a fermarsi. Qualcosa in cuor suo la spingeva a dar corda a quello sconosciuto.
«Tieni» le passò qualcosa strisciandolo sul bancone.
«Cos’è?».
«L’indirizzo».
Makoto abbandonò lo strofinaccio per guardare il biglietto da visita.
Nevius. Era il suo nome completo e qualcosa esplose nella sua testa come una bomba.
Una serie d’immagini, frammenti di quella vita precedente di cui aveva perso ogni traccia.
New York. La neve. E quel nome scritto con la penna stilografica.
Indietreggiò, barcollando appena per poi fermarsi contro la lavastoviglie alle sue spalle.
Lui era svanito come un fantasma, non era più seduto dinnanzi a lei. Fu solo il rombo di una moto in partenza che le diede la certezza di non essere impazzita.
 
§§§
 
 
«Dove cavolo si è cacciata Haruka?» Rei era visibilmente scocciata. Continuava a guardare ossessivamente la strada e a battere le dita sulla superfice del tavolino.
Minako scossò la testa guardando Yaten con lo sguardo di una che lo ragguaglia sul fatto di non fare caso alla situazione.
«Adesso arriverà, lo sai che ha un lavoro imprevedibile». Tentò di calmarla la bionda.
«Beh, anche il mio lo è» ribatté la mora per poi aggiungere «però io sono sempre puntuale».
Yaten non aveva idea di come comportarsi, così optò per nascondere la faccia nella carta del menù alla ricerca di qualcosa da ordinare.
Perché mi sono cacciato in questa cosa?. Il suo pensiero non trovò risposta ma venne interrotto ancora una volta dalle voci delle due amiche.
«Eccola!» esultò Minako puntando un dito verso il lato opposto della strada.
Rei si voltò per seguire la scia invisibile disegnata dalla falange dell’altra e quasi cadde dallo sgabello quando intravide l’amica.
Non seppe mordersi la lingua e sputò veleno senza pensare al nuovo arrivato.
«Perché c’è quella con lei?».
Haruka sembrava divertita e con le mani in tasca aveva tutta l’aria di essere rapita da quello che la sua bellissima accompagnatrice le stava dicendo. Pendeva dalle sue labbra e Rei non poteva sopportarlo.
«Quella, è mia cognata» sbottò Yaten.
Rei non seppe se sotterrarsi per la figura appena fatta o fare i salti di gioia perché la parola cognata presupponeva che la ragazza fosse sposata o quanto meno accompagnata.
 
«Mi dici come fai?». Per la prima volta nella sua vita Haruka era sinceramente colpita e smaniosa di tirar fuori i conigli dal cilindro.
«A fare cosa?» ridacchiò Michiru rispondendo con un'altra domanda.
«A risolvere questo tipo di situazioni. Come fai a sapere cosa devi dire?».
Michiru fece spallucce, faticava a dare una spiegazione con le parole ad una cosa che per lei era naturalissima.
«In fondo siamo tutti uguali, Ten’ō».
«Tu dici?» lo sguardo di Haruka si fece d’improvviso scettico fino a che fermò la sua camminata per avere una spiegazione più esauriente dalla sua accompagnatrice.
«Vogliamo tutti le stesse identiche cose».
«Non credo di voler le stesse cose di un criminale».
Michiru le fece segno con la mano di lasciarle il tempo di spiegare, zittendola d’imperio.
«Il punto non è essere un nuotatore, un poliziotto, una casalinga o un rapinatore» sospirò interrompendo per un secondo la sua riflessione. Gli occhi cerulei di Haruka puntati su di lei le mettevano i brividi. «Il punto è che tutte queste categorie, noi comprese, siamo esseri umani. E gli esseri umani, in qualunque modo tu voglia catalogarli, alla fine dei giochi vogliono le stesse identiche cose».
«E io Hollywood? Io, cosa voglio?» inquisì la bionda.
«Le stesse identiche cose dei malviventi che erano chiusi là dentro» disse con tono sicuro di sé Michiru.
«Libertà».
Haruka era la prima ad averla desiderata, lasciandosi alle spalle una vita piena di costrizioni.
«Amore».
C’era sempre un piccolo pensiero riservato a Sarah e poi la volontà di ritrovare la sua vera madre che l’aveva spinta sino a lì e le innumerevoli compagne di una notte che sopperivano alla mancanza di una figura fissa nella propria vita da amare.
«Speranza…e potrei ancora continuare».
Haruka doveva ammetterlo, Michiru ci sapeva fare.
«Perciò se mi chiedono un elicottero, una moto, un camion o quant’altro vogliono fuggire verso la loro libertà, se rilasciano degli ostaggi hanno compassione e probabilmente qualcuno che a casa li aspetta e li ama…».
«E la speranza?» la interruppe Haruka ancora una volta.
«Quella è la scintilla che li tiene in vita anche quando il loro piano si sta frantumando sotto ai loro piedi. Sono io che gliela do…».
«Perciò hai il mondo in mano!» ironizzò Haruka.
«Si più o meno!» rise di gusto Michiru.
 
Fu solo nel momento in cui fermarono la loro conversazione che Haruka si rese conto di essere osservata piuttosto insistentemente. Le labbra si schiusero in una smorfia di presa di coscienza. L’aveva fatta grossa, con tutto quel trambusto e soprattutto troppo presa da Michiru Kaiō si era completamente dimenticata dell’appuntamento.
Minako sventolò una mano in segno di saluto.
Troppo tardi, ci hanno viste.
Haruka tirò un sorriso di circostanza in viso, ma sapeva che Rei non gliel’avrebbe perdonata.
«Ehmm…».
«Una ragazza ti sta salutando» la ragguagliò Michiru. «In modo quasi forsennato…» osservò divertita.
«Ecco, io…».
«Ma quello è Yaten!» proseguì strizzando appena gli occhi per vederci meglio.
«Cavoloooo» mugolò Haruka. «Io me ne ero completamente dimenticata. Dovevo uscire con le mie amiche sta sera ma…».
«Ten’ō». Michiru si stava sforzando di non cedere ad una fragorosa risata. Non l’aveva mai vista così. Per la prima volta quella corazza di sfrontatezza e sicurezza si era sgretolata per un millesimo di secondo dinnanzi a lei. Sembrava che l’Haruka con gli stivali neri e il sorriso smagliante pronto a chiederle il numero di telefono se ne fosse fuggita a gambe levate per lasciarle lì una zazzera bionda in preda al panico per una figura barbina.
«Mi spieghi quale sarebbe il problema?».
«Avevo promesso di esaudire il tuo desiderio di negoziatore. Vino e mare».
«E di grazia…non lo si può prendere in compagnia?».
Haruka sbuffò. Aveva architettato una cosa ben diversa nella sua testa. Ma se questa manche l’avrebbero vinta le amiche, alla prossima non avrebbe certo fallito.
 
«Hey, RUUUUUUUUKAAAAAA!! Siamo qui!!» Minako si sbracciò ancora una volta rischiando per l’ennesima volta di capitombolare, mentre Yaten cercò di farsi piccolo a fianco a lei per evitare gli sguardi curiosi attirati da tutto quel baccano.
«Chi è Yaten?» domandò Haruka avanzando verso il tavolo.
«Il fratello di Seya».
 
Buon Dio, ci mancava solo questa.
 
«Ti sei fatta proprio  attendere sta sera…» commentò Rei facendole segno di sedersi nello sgabello vuoto.
«E la tua amica è…».
«Michiru Kaiō» rispose la giovane allungando la mano da stringere in segno di saluto.
Rei si rese conto di odiare ogni cosa di lei. Persino la voce e quel modo di fare così dolce da risultare quasi stucchevole. Che cosa ci trovava Haruka in lei?
«Io prendo una coca cola» esordì Yaten tentando di porre fine a quella tensione palpabile nell’aria. Rei aveva fatto diventare l’atmosfera elettrica, tanto che a lui parve di sentire il tipico sfrigolio nelle zone sottoposte ai cavi dell’alta tensione.
«Ehm…Michiru questa è Taylor Swift invece» si apprestò a presentare l’amica Haruka.
«In realtà è Minako il mio nome! Tanto piacere!». La bionda si beccò un calcio sotto al tavolo da Rei che la fulminò con un occhiataccia.
«Sei amica di Yaten vero? Ci siamo intraviste oggi» chiese Michiru visibilmente incuriosita.
«Beh noi…suoniamo insieme. Stiamo partecipando a una specie di concorso».
«Dobbiamo scrivere una canzone» intervenne il ragazzo.
«Sul serio!?».
Rei mimò con le labbra l’entusiasmo di Michiru a quella scoperta inaspettata.
«Si può sapere che hai che non va?!» era stata Haruka a sbottare. Si era morsa la lingua da quando era arrivata, ma non essendo una grande detentrice di pazienza era bastato poco per farla esplodere.
La mora rimase di sasso. Da quando si erano conosciute non avevano mai discusso una singola volta o quanto meno, per quanto Haruka fosse indelicata, non si era mai rivolta a lei con una rabbia tale.
«Tutto okay, Haruka?». Michiru le posò una mano sulla spalla come a sedare il suo animo.
«Mi sono stufata. Ce ne andiamo» rispose decisa l’artificiere spostando la mano di Michiru dalla propria spalla per stringerla nella sua.
Un battito forte e inaspettato rimbombò nella cassa toracica di Michiru a quel gesto. La presa dell’altra aveva tanto l’idea di un porto sicuro, in qualche modo di casa.
«Certo, ti stufi sempre presto di tutto tu. Donne e amiche comprese» fu la risposta lapidaria di Rei che con stizza prese il proprio giacchino facendo per andarsene.
Minako era in mezzo a un fuoco incrociato. Era amica di entrambe ma scegliere una fazione era talmente pericoloso che seppe solo imitare Yaten e fissare in silenzio la carta dei drink.
«Oh ma che dici…sei proprio una bambina, Rei». Haruka le voltò le spalle trascinando con sé Michiru incapace di proferire parola.
«No tu lo sei. Hai mollato pure Sarah, l’unica che forse poteva sopportarti…». Rei sapeva di stare esagerando, ma aveva le fiamme dell’inferno dentro. L’amica di sempre, per cui aveva preso una di quelle sbandate che non ti fanno dormire la notte, quella per cui si era buttata senza indugio tra il fuoco di una bomba, stringeva la mano a qualcun altro. Stava difendendo a spada tratta una sconosciuta piuttosto che indagare su come si sentiva lei, la sua spalla. «Probabilmente hai preso dalla tua madre biologica…».
«Rei…». Minako dovette alzarsi, aveva appena previsto una catastrofe.
«Cos’hai detto?». Haruka era pietra.
«Rei, no. Basta così. Andiamo» insistette la convivente in preda al panico.
Ma la mora non demorse. Se poteva ferire un decimo di quanto stava facendo col suo atteggiamento chi aveva davanti lo avrebbe fatto. «Doveva essere una che si stufava facilmente pure lei. E ti ha mollata Haruka. Esattamente come fai sempre tu».
Michiru la sentì tremare. Vide la mascella serrarsi tanto prepotentemente da aver paura si potesse rompere da sola.
«Andiamo, ti porto in un posto» soffiò a bassa voce.
Non sapeva niente di loro. Non sapeva nulla sulle loro storie, ma Michiru era una persona che ricambiava i favori. L’eroe che aveva salvato sua figlia era in difficoltà e doveva sdebitarsi. Portare Haruka via di era in suo potere perciò lo avrebbe fatto.
«Non azzardarti a parlarmi mai più». Furono le ultime parole della bionda rivolte a Rei prima di sparire in fondo alla strada assieme a Michiru.





Note dell'autrice:

Carissime, premetto che il capitolo non mi piace e lo trovo un pò scialbo ma DOVEVO pubblicare perché ormai avevo l'ansia. Ho avuto un blocco nel mezzo ed è successo tutto quello che non doveva succedere ma ehi...è andata così! XD E voi direte "Kat sei fuori di testa, sei tu che scrivi. Cosa vuol dire che è successo quello che non doveva succedere?". Significa che ogni tanto parte la mano matta e i personaggi fanno di testa loro. D'altronde non avevo programmato niente quindi l'improvvisazione fa parte di questa storia! Bando alle ciance e al mio ciarlare...spero di potervi pubblicare un capitolo al più presto. Una piccola anticipazione è che penso ci sarà l'incontro tra Mamoru e Usagi. Ohi ohi...prevedo delle figuracce.
   
 
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