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Autore: Sognatrice_2000    04/12/2018    2 recensioni
Storia sospesa
AU-Tutti umani-
Hope Marshall, diciannove anni, adolescente dal carattere ribelle, cresciuta senza padre,
rifugge costantemente qualsiasi tipo di emozione, evitando di impegnarsi in relazioni troppo serie per timore di essere nuovamente abbandonata.
Prima del diploma parte per Parigi, la città natale di suo padre, convinta che lì potrà trovare le risposte che cerca.
Klaus Mikaelson è un pittore che dipinge i volti dei passanti lungo le rive della Senna, ha il doppio dei suoi anni e gli occhi più azzurri che abbia mai visto, così azzurri da fare invidia al cielo d’estate, dietro cui si cela un’anima oscura e tormentata, segnata dagli spettri di un passato che lo ha spezzato dentro.
Hope ha paura dell’amore.
Klaus si ritiene incapace di amare.
Quando le loro strade si incrociano, è inevitabile: si incontrano, si scontrano, si attraggono e si respingono, trascinati in un vortice di sentimenti che metterà in crisi tutte le loro convinzioni.
Finché la scoperta di una sconvolgente verità metterà tragicamente fine al loro rapporto.
“Cosa succede quando la persona che ami di più al mondo è l’unica di cui non avresti mai dovuto innamorarti?”
Genere: Angst, Drammatico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Camille, Caroline Forbes, Hayley, Hope Mikaelson, Klaus
Note: AU | Avvertimenti: Incest, Tematiche delicate
Capitoli:
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“Allora che fai, vieni alla festa stasera?”

La voce squillante di Caroline risuonò attraverso il cellulare che avevo incastrato tra la spalla e l’orecchio.

Mi lasciai sfuggire un sospiro, intenta a dare un’altra pennellata sul foglio che avevo di fronte.

Anche quel giorno mi ero trattenuta due ore in più nell’aula di Arte, bellamente incurante del tempo che passava e del cielo che si scuriva oltre la piccola finestra senza tende della stanza.

La mia migliore amica, Caroline Forbes, stava tentando di convincermi come al solito a partecipare all’ennesima festa in discoteca piena di scalmanati dove qualche idiota avrebbe finito per rovesciarmi un drink addosso, nella speranza di rimorchiare qualche affascinante sconosciuto di cui la mattina dopo non mi sarei neanche ricordata il nome.

La sola idea mi fece contrarre lo stomaco per la nausea.

Preferivo di gran lunga passare il tempo a finire il mio disegno in pace.

Aggrottai le sopracciglia, cercando di pensare rapidamente ad una scusa credibile che potesse giustificare il mio rifiuto. “Stasera non posso, Care.” Finsi un tono dispiaciuto. “Io e Matt pensavamo di andare al cinema.”

Non potevo certo dirle che io e Matt ci eravamo lasciati due settimane prima, quando avevo beccato il bastardo in questione nel letto di Elena Gilbert, che guarda caso era anche una delle più care amiche di Caroline.

In realtà non me l’ero presa poi così tanto.

La cosa triste era che ci ero abituata.

Non era certo il primo uomo della mia vita a piantarmi in asso.

Mi costrinsi a fare un respiro profondo, mentre ricacciavo indietro le lacrime che improvvisamente mi avevano appannato la sguardo, maledicendomi per la mia stupida debolezza.

Cercai di mantenere ferma la voce per non insospettire Caroline.

“Sai, oggi sono esattamente due mesi che stiamo insieme. Pensavamo di andare a cena fuori, e di festeggiare più tardi, se capisci che intendo.”

Wow, le mie doti di attrice erano migliorate notevolmente negli ultimi tempi.

Mi congratulai mentalmente con me stessa, mentre Caroline lanciò un gridolino eccitato che per poco non mi perforò il timpano.

“Ma è fantastico, tesoro! Auguri per la serata allora!”

Cinguettò Caroline in tono pimpante, schioccandomi un bacio.

Mi lasciai sfuggire un piccolo sorriso.

Mi piaceva Caroline; nonostante l’apparenza un po’ superficiale, era veramente una brava ragazza, sempre allegra, frizzante e spontanea, una di quelle persone con cui è impossibile sentirsi tristi.

A volte il suo ottimismo era quasi fastidioso, ma era impossibile non affezionarsi a lei.

“Grazie. Ci vediamo a scuola.” Riattaccai tirando un sospiro di sollievo, scagliando il cellulare il più lontano possibile.

Ora potevo tornare a concentrarmi sulla mia opera.

Scostai un ricciolo ribelle dagli occhi, contemplando il foglio poggiato sul cavalletto di fronte a me.

Ritraeva un paesaggio marittimo in cui le onde lievemente increspate dalla brezza si confondevano con il cielo notturno; l’intero quadro era dipinto con colori molto scuri, e se non fosse stato per lo spicchio di luna che brillava ad un lato del foglio, illuminando le onde con sfumature chiaroscure, avrebbe evocato un’atmosfera cupa e spettrale, quasi disturbante nella sua spettralità.

La mia insegnante continuava a ripetere che ogni artista mette un pezzo della sua anima nei propri lavori; quindi, stando a sentire quello che diceva lei, ciò che disegnavo rappresentava le parti più profonde di me stessa, quelle che nemmeno io sapevo di avere.

Caroline mi prendeva sempre in giro quando le dicevo queste cose, chiamandole stronzate di psicologia spicciola, e aggiungendo che fosse stato vero, allora avevo un lato dark nascosto nelle profondità del suo inconscio, perché disegnavo soltanto con colori scuri e incredibilmente deprimenti.

Ha sempre detto che avevo la capacità di rendere triste persino un paesaggio da cartolina, mii ritrovai a pensare con un sorrisetto sarcastico.

Caroline non poteva capire. Nessuno poteva capire.

Al contrario di Caroline, io non ero mai stata una di quelle ragazze spumeggianti ed estroverse che emanano un carisma naturale, caratterizzate dal gusto per la vita, circondate da una marea di amici e di ragazzi, anzi.

Ero sempre stata solitaria e poco incline a socializzare con i miei coetanei, sempre persa in un mondo immaginario di cui soltanto io avevo la chiave; fin da piccola, preferivo la compagnia di un foglio da disegno a quella degli altri bambini.

E così, durante l’intervallo, quando le mie compagne giocavano alla corda in cortile, io rimanevo chiusa in aula a pasticciare con i pennarelli, dando libero sfogo alla mia fantasia, mettendo su carta qualsiasi cosa mi passasse per la testa.

Era come se una parte di me fosse costantemente intrappolata, e riuscisse ad esprimersi soltanto attraverso i miei disegni.

Soltanto quando disegnavo, infatti, mi sentivo veramente libera.

Mi sentivo felice.

Da che ne avevo memoria, avevo sempre amato disegnare, e a detta dei miei insegnanti ero anche piuttosto brava.

Mi chiedevo spesso da chi avessi ereditato quella passione.

Mia madre non si era mai interessata d’arte; non sapeva nemmeno disegnare un omino stilizzato.

Ricordo ancora che quando ero piccola, invece di chiederle di giocare con le bambole, le proponevo una gara di disegno.

Sul volto di mia madre si dipingeva una smorfia di puro orrore che ricordo ancora con un sorriso, e si affrettava a borbottare qualcosa riguardo alla spesa da fare, uscendo dalla stanza in tutta fretta, anche se il frigorifero era così zeppo di cibo da poter sfamare l’intero vicinato.

Ero così assorta nel rievocare quei lontani ricordi da non accorgermi di essere rimasta immobile, con il pennello fermo a mezz’aria di fronte al foglio.

Sospirai.

Mi capitava spesso di distrarmi, perdendomi a ricordare un passato di cui mio malgrado avevo un’immensa nostalgia, sebbene il mio orgoglio mi avrebbe sempre impedito di ammetterlo.

Mi mancava essere bambina. Quelli erano tempi più semplici, innocenti.

Erano tempi in cui i miei disegni erano pieni di arcobaleni colorati, in cui il mio piccolo cuoricino ingenuo risplendeva di mille sfumature variopinte.

Quando ancora credevo che mio padre sarebbe tornato da un lungo viaggio di lavoro, e poi avrebbe varcato il nostro piccolo portico con un sorriso sulle labbra e mi avrebbe stretta a sé senza lasciarmi andare mai più.

Non mi ero mai accorta, o forse non volevo accorgermi, di come cambiava l’espressione della mamma quando le chiedevo di lui.

Ogni volta che le domandavo quando avrei potuto rivederlo, sul volto di mia madre nasceva un sorriso infinitamente triste.

“Presto.” Rispondeva, la voce che tremava di singhiozzi trattenuti e gli occhi grandi e smarriti che luccicavano in modo strano.

E così avevo continuato ad aspettare, fiduciosa.

Ma il tempo passava, e mio padre non arrivava.

In un battito di ciglia avevo dieci anni, ed ero irrequieta, arrabbiata con il mondo intero mentre si domandavo perché non avevo quello che avevano gli altri bambini.

Ero stanca di aspettare.

Ero stanca di vivere in quella che sapevo essere un’enorme menzogna.

Quando mia madre mi aveva ritenuta abbastanza grande da poter capire, aveva smesso di mentire: papà non era partito per un viaggio di lavoro all’estero.

Non sarebbe tornato a casa sollevandomi fra le braccia e posandomi baci tra i capelli; non mi avrebbe fatto gli auguri di compleanno, né mi avrebbe aiutata a spegnere le candeline sulla torta; non mi avrebbe accompagnata al parco a giocare con i miei amici; non mi avrebbe mai insegnato ad andare in bicicletta.

Non mi avrebbe consolata quando mi sarei sentita triste, non mi avrebbe accolta nel porto sicuro del suo abbraccio quando il mondo mi sarebbe apparso infinitamente vasto e crudele; non mi avrebbe vista innamorarmi e poi farmi spezzare il cuore, non mi avrebbe vista crescere tra mille dubbi e insicurezze, non mi avrebbe vista ridere, piangere, sognare, perdermi e poi ritrovarmi, non mi avrebbe aiutata a rialzarmi ogni volta che sarei caduta.

Non ci sarebbe stato per me, mai più.

Mi aveva abbandonata.

E all’improvviso, ovunque guardavo, non vedevo più i colori.

Al loro posto c’era solo un’infinita oscurità, una tenebra che mi artigliava le membra e che mi aveva infettato il cuore, ricoprendo di veleno ogni sua terminazione nervosa, pulsando dentro di me, in ogni respiro, in ogni battito.

Da quel giorno di nove anni fa in cui mia madre mi aveva detto che papà non sarebbe più tornato, avevo visto il mondo perdere i suoi colori, e così avevo cominciato a dipingerlo per come lo vedevo: nero, tetro, maligno, soffocante e disturbante nella sua crudeltà.

Soffocai un risolino amaro.

Non potevo biasimare Matt per essersi cercato un’altra.

Chi mai avrebbe voluto stare con una come me?

Ero proprio un casino, ma non uno di quelli interessanti.

No, io ero un casino patetico, un oggetto rotto che nessuno sarebbe mai stato capace di aggiustare.

Ero patetica, triste e sola, infinitamente sola.

Certi giorni mi sentivo così vuota, il mio corpo era ridotto ad un misero involucro vuoto che vagava sperduto per il mondo, alla ricerca di risposte che forse non avrei mai trovato.

Chi ero? Dove ero diretta? Da dove venivo?

Ci sarebbe stato sicuramente molto tempo per rispondere alle prime due domande, ma era l’ultima che mi preoccupava maggiormente, quella che mi ripetevo ogni giorno ossessivamente senza mai trovare una risposta.

Tante, troppe domande si affollavano nella mia mente.

Chi era mio padre? Che aspetto aveva? Qual era il suono della sua risata?

Perché mi aveva lasciata?

Avevo quasi implorato mia madre di dirmi qualcosa di lui, più e più volte, ma lei, dall’alto della sua saggezza, aveva sorriso intenerita e aveva scosso la testa, dicendomi che le persone non sono risposte, soltanto domande in più.

Tutto quello che ero riuscita a sapere era che si erano incontrati a Parigi quando lei aveva vent’anni.

Avevano avuto una breve storia, del tipo avventura estiva, senza impegno, durata solo per una stagione.

Erano entrambi troppo giovani, con un sacco di ambizioni e di sogni da realizzare, e un bambino non rientrava nei loro progetti.

E così mia madre era tornata a casa senza di lui, e con tutto il suo incosciente coraggio aveva preso una decisione assolutamente folle, portando avanti la gravidanza da sola.

Mia madre non mi aveva mai fatto mancare nulla; pur con i suoi modi spicci e la lingua tagliente, era stata gentile, affettuosa, in un suo modo ruvido persino premurosa.

Mi aveva protetta dalla verità per tanto tempo, perché la verità era semplicemente troppo dolorosa da affrontare.

E una volta cresciuta, ero quasi riconoscente a mia madre per le bugie che mi aveva detto. Finché aveva potuto, aveva protetto la mia innocenza.

Ma poi ero cresciuta, e il tempo delle favole era finito.

Non c’era stata nessuna grande storia d’amore tra i miei genitori, e quel che era peggio, nessuno dei due mi aveva voluta.

Ero un errore frutto del caso e di qualche drink di troppo.

Forse sarebbe stato davvero meglio se non fossi mai esistita.

No, basta, basta.

Mi imposi di scacciare dalla mia mente quei macabri pensieri.

Tornai a concentrarmi sull’unica cosa che sembrava allontanare i brutti pensieri.

Intinsi il pennello nella tavolozza, ricoprendolo più volte prima di applicarlo nuovamente sulla tela.

Per disegnare le onde avevo scelto una tonalità blu scuro, minacciosa eppure calda, che conferiva al disegno un’atmosfera cupa eppure in qualche modo anche rassicurante.

Per un motivo che non so spiegare, ho sempre amato il blu.

Era un colore che brillava nei miei sogni di notte e che si affacciava nella mia mente di giorno, portando con sé l’eco di una dolce, antica malinconia.

Era una cosa ridicola, perché non avevo mai visto mio padre, neanche una volta, ma se chiudevo gli occhi e provavo ad immaginare il suo viso, tutto quello che vedevo era uno sguardo blu come una notte senza stelle, profondo e infinito, tenero e crudele, bellissimo e spaventoso.

Un ossimoro vivente, che mi ispirava pericolo e protezione.

Un uomo capace di spezzarmi il cuore e poi ricomporre in un disegno perfetto ogni suo più piccolo frammento.

Qualcuno che mi avrebbe fatta sentire al sicuro, qualcuno che mi avrebbe amata sempre, senza chiedere niente in cambio.

Ma in fondo, che potevo saperne io dell’amore?

Non sapevo in base a quale logica contorta un uomo avrebbe potuto abbandonare la propria figlia; non sapevo cosa volesse dire sentirmi protetta nel buio minaccioso della mia cameretta perché l’affetto di un padre è più potente di qualsiasi mostro della notte; non sapevo come ci si sentisse ad essere amata da qualcuno, avere la sensazione di essere la cosa più importante per quella persona, sapere che questa lotterebbe per te a qualsiasi costo, essere certa che prenderebbe tutto di te, il dolore e la felicità, l’orrore e la bellezza, e l’amerebbe incondizionatamente, senza scuse, senza riserve.

Non sapevo cosa fosse l’amore.

Ma ero certa che fosse blu, come gli occhi di un padre che non ricordavo, e che in qualche modo non mi aveva mai davvero abbandonata.

 

 

**

 

“Hope…” 

Qualcuno stava chiamando il mio nome. 

Era un’eco indistinto che giungeva da molto lontano, ma riuscii comunque a sentirlo. 

Mi guardai intorno, ma tutto quello che i miei occhi riuscivano a vedere era la nebbia. 

Fitta e soffice come una nuvola di zucchero filato, era ovunque, impedendomi di vedere ad un metro di distanza. 

“Hope…” 

Ancora quella voce. Questa volta era più vicina. 

Non sapevo a chi appartenesse, ma mi sembrava in qualche modo familiare, come se l’avessi udita centinaia di volte. 

Era maschile, bassa e profonda eppure morbida, quasi dolce. 

“Chi sei?” Urlai, ma non ricevetti risposta. 

Provai a fare qualche passo, ma era inutile: la nebbia sembrava sempre più fitta, mi sembrava di esserne inghiottita. 

“Fatti vedere!” Adesso ero angosciata. 

Dov’ero? Di chi era quella voce che continuava a chiamarmi? 

All’improvviso, un raggio di luce bucò la nebbia, e una mano si fece strada fino a raggiungere la mia. “Sono io, tesoro. Sono tornato.” 

Una sagoma indistinta si stagliò davanti ai miei occhi, circondata da un’aura di luce che mi abbagliò tanto da costringermi a schermarmi gli occhi con la mano. 

“Non è possibile… papà, sei tu?” Stentavo a riconoscere il suono della mia voce, scossa com’ero dai tremiti. 

“Sì, tesoro, sono io. Ci sono io adesso, andrà tutto bene.” 

Sentivo il cuore scoppiarmi di felicità. 

Non credevo che sarei mai potuta essere tanto felice. 

Ridevo e piangevo, ancora incapace di credere che stesse succedendo davvero. 

“Dove sei stato? Perché mi hai fatta aspettare tanto?” 

Non riuscivo a vedere il suo viso, ma non mi importava. 

“Scusa se sono arrivato tardi.” 

In quel momento decisi che non mi importava più di niente: non avevano più importanza il dolore e la paura e la solitudine di quei diciannove anni senza di lui. 

Tutto l’odio nei suoi confronti che avevo nutrito nel mio cuore per avermi abbandonata era stato cancellato in un colpo solo da quella parole. 

Allungai la mano per afferrare la sua, desiderando disperatamente abbracciarlo, sentire il suo corpo caldo e vivo contro il mio, per sapere che era reale, che stava succedendo davvero e non era una stupida illusione. 

Ma appena provai a sfiorarlo, lui scomparve, la sua sagoma si dissolse davanti ai miei occhi. 

Il mio cuore si riempì di terrore. 

No no no ti prego torna indietro ti prego ho bisogno di te…. 

Lo chiamai disperata, ma lui non rispose. 

Urlai con quanto fiato avevo in gola, ma fu tutto inutile. 

Sentii il fiato spezzarsi e le ginocchia cedere; crollai a sedere con il volto inzuppato di lacrime, incapace di smettere di chiamarlo, nella sciocca speranza che tornasse da me. 

La coltre di nebbia era improvvisamente più fitta, mi avvolgeva le membra come se volesse risucchiarmi l’aria dai polmoni, e d’un tratto mi sentivo incapace di respirare, era come se qualcuno mi stesse strangolando…

 

“No!”

Balzai a sedere sul letto, espirando profondamente e a bocca aperta.

Mi massaggiai il collo con il respiro ancora affannoso, scostando i capelli dalla fronte madida di sudore.

L’ambiente circostante era buio e silenzioso, con l’unica eccezione del lieve russare di mia madre nella stanza accanto.

Voltai lo sguardo in direzione del comodino: la radiosveglia segnava le quattro del mattino.

L’ennesimo stupido incubo.

Mi sentivo così stupida, e avevo una voglia pazzesca di piangere.

Scostai le coperte con un gesto nervoso e appoggiai a terra i piedi nudi.

Sentivo il cuore martellarmi nel petto e la testa pulsare dolorosamente.

Mi piegai tenendomi lo stomaco con entrambe le mani, vomitando direttamente ai piedi del letto.

Basta, non potevo andare avanti così.

Lo sguardo mi cadde casualmente sul depliant di Parigi che spuntava dalla mia borsa.

Risparmiavo da mesi per potermi permettere il biglietto aereo.

Era l’unica traccia che avevo di mio padre, l’unico punto di partenza valido per provare a rintracciarlo.

Sapevo che poteva benissimo essersi trasferito altrove, d’altra parte erano passati vent’anni da quando lui e mia madre si erano conosciuti nella capitale francese, ma era la sola pista che avevo, e se non avessi fatto un tentativo me ne sarei pentita per il resto della vita.

Avevo progettato di andare laggiù l’estate dopo il diploma, e il pensiero mi aveva fatto sopravvivere a quattro anni di feste studentesche e bulli insopportabili.

Ma in quel momento decisi che ero stanca.

Degli incubi, delle domande, dell’incertezza perenne.

Un pensiero del tutto irrazionale mi attraversò la mente.

 

 

Devo vederlo.

Devo vedere il suo viso almeno una volta.

Devo guardarlo negli occhi e chiedergli perché.

Perché mi ha lasciata senza spiegazioni, perché mi ha odiata ancora prima che nascessi.

 

 

 

Non ero mai stata così sicura di qualcosa in tutta la mia vita.

Non c’era paura né incertezza nel mio cuore mentre rompevo il salvadanaio spargendo i soldi sul piano della scrivania, né mentre mi vestivo silenziosamente, muovendomi in punta di piedi per non svegliare mia madre.

Provai una fitta di senso di colpa per un momento.

Lei non se lo meritava.

Chissà quanto si sarebbe preoccupata alzandosi dal letto domattina e non trovandomi in casa.

Ma non mi avrebbe mai permesso di andare a Parigi, lo sapevo.

Ho sempre avuto la sensazione che non mi avesse detto nulla riguardo alla vera identità di mio padre di proposito, forse per risparmiarmi una delusione, senza rendersi conto che così mi aveva fatto ancora più male, alimentando involontariamente ancora di più il mio desiderio di conoscerlo.

Cacciai velocemente alcuni vestiti e articoli da bagno nell’unico borsone da viaggio che avevo, quello di una triste tonalità verde pisello con le cuciture ormai consumate per l’usura, presi chiavi, soldi e passaporto e lasciai un biglietto per mia madre sulla scrivania.

 

Sono andata a cercare mio padre. 

So che non avresti voluto, ma non posso più vivere con questo peso. 

Devo conoscerlo, devo vederlo almeno una volta. 

Spero che tu capisca. 

Per favore, non cercarmi, ti chiamerò io. 

Non preoccuparti per me, starò bene. 

Tornerò appena avrò trovato le risposte che cerco. 

Ti voglio bene.

 

In fin dei conti ero maggiorenne, potevo fare quello che volevo, anche se significava scappare di casa nel cuore della notte, anche se significava fare qualcosa di folle e incredibilmente stupido come decidere su due piedi di partire per Parigi senza dire niente a nessuno.

Passando davanti alla porta della camera di mia madre, fui tentata di entrare anche solo per un attimo, per vedere il suo viso un’ultima volta prima di partire, per accarezzarle i capelli e rassicurarla che sarei tornata, che me la sarei cavata e che non doveva preoccuparsi per me.

Ma avevo paura che avrei cambiato idea se l’avessi fatto.

Perciò scesi le scale il più lentamente possibile, stando attenta a non fare alcun rumore, il borsone in spalla e il cuore che sembrava voler uscire dal petto per quanto ero agitata.

Un solo passo falso e sarei stata scoperta, e addio Parigi per sempre.

Il minimo rumore ed ero fregata.

Tirai un sospiro di sollievo quando raggiunsi la porta.

Mia madre continuava a dormire beata, non si era accorta di nulla.

La aprii delicatamente per non far scricchiolare i cardini, ma sulla soglia ebbi un ultimo attimo di esitazione.

Stavo per lasciare la mia città, la scuola, gli amici, la casa dove ero cresciuta, e anche se per un’ottima ragione, era comunque triste e spaventoso.

Mi guardai indietro un’ultima volta, osservando il salotto immerso nella penombra.

Sorrisi nel vedere il divano di pelle dove io e la mamma ci rannicchiavamo a guardare stupide soap opera dopo cena, mangiando pop corn scadenti da una grossa ciotola e raccontandoci com’era andata la nostra giornata.

E poi c’era il tappeto su cui mi sdraiavo a pancia in giù con il mio album da disegno, passando infinte ore a scarabocchiare con i pennarelli, e poi un miliardo di altri ricordi racchiusi tra quelle pareti.

Ero davvero pronta a lasciare tutto questo?

Sentivo un fastidioso nodo in gola pronto ad esplodere da un momento all’altro.

Deglutii per ricacciare indietro le lacrime.

In qualche modo, mentre richiudevo la porta dietro di me, ebbi l’inequivocabile sensazione che non sarei mai più tornata in quella casa.

Una volta in strada, afferrai il cellulare con le mani che tremavano e composi un numero in tutta fretta.

“Caroline, sono io. Scusa se ti chiamo a quest’ora, ma è un’emergenza. Sei l’unica che può aiutarmi.”

  
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