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Autore: CHAOSevangeline    05/12/2018    4 recensioni
{ Mito di Apollo e Giacinto | Modern!AU }
Eccola, la sua condanna: era un fiore che non poteva crescere.
Di fronte a quel giovane, il volto illuminato da un sorriso fiero sulle labbra cesellate, Giacinto si era sciolto e aveva perso tutte le parole, ogni facoltà di pensiero. Cosa poteva dire? Cos’era giusto dire? Cos’era il caso di dire proprio a lui, per far sì che restasse ancora un minuto, dieci, anche per sempre se lo desiderava?
I suoi occhi celesti, quei capelli di grano ondulato raccolti forse in una coda, forse in uno chignon che non vedeva. La pelle ambrata coperta da una camicia chiara e dei jeans che fasciavano i muscoli delle gambe. Pareva una statua.
E Dio, era bellissimo.
Genere: Introspettivo, Romantico, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: AU, Lime | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Apollo e Giacinto'
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IV.
Apollo e Giacinto




Dal loro primo appuntamento era trascorso un mese. Un lungo mese di due uscite la settimana, il mercoledì e il sabato, perché Apollo riusciva a giostrarsi con i turni del tirocinio e Giacinto usciva presto dall’accademia.
Per non sprecare nemmeno un minuto di tempo Apollo si faceva trovare nel parcheggio con la macchina già in moto e Giacinto aveva imparato a portare con sé una tracolla di riserva, da infilare in quella più grande e piena di libri e blocchi da disegno che usava per la scuola, in modo da essere più comodo e leggero dopo averle scambiate.
Le loro uscite erano molto improvvisate, spesso nemmeno pensavano con preavviso a dove andare: lo decidevano in macchina, i finestrini abbassati per lasciar entrare la brezza che prometteva estate.
Si erano visti otto volte. La prima era quella che Apollo ricordava con più affetto, anche se Giacinto gli aveva negato un bacio. Cosa che aveva continuato a fare anche per le sette uscite successive.
Solo una volta erano andati al cinema in otto uscite, al secondo appuntamento, perché «Ammetto che preferisco usare il tempo che riusciamo a ritagliarci per parlare.»
Lo aveva detto Giacinto, questo, ma dando voce anche ai pensieri di Apollo. Nell’udire quelle parole, Apollo per poco non aveva sospirato, come una ragazzina innamorata. E, maledizione, non si riconosceva più. Così non c’erano più andati.
Se non altro quell’appuntamento al cinema gli aveva permesso almeno di intrecciare le dita con quelle di Giacinto, i gomiti sul bracciolo condiviso e le mani a penzoloni a mezz’aria.
Le altre sei uscite erano state al ristorante, in un fast food che «rovina la mia linea, ma ti ci porto perché ti piace tanto», secondo Apollo, e qualche tavola calda.
Ritrovi molto poco sofisticati per il giovane Apollo che, prima di Giacinto, era abituato a far notare la propria presenza a qualche festa ben meno sobria organizzata da un amico. Amico. Già. Forse, o forse no. Meglio dire conoscente, suo o di sua sorella Artemide, che lo voleva come invitato per la sua popolarità. E Apollo si divertiva, conosceva persone. Cosa gli importava di essere usato?
A proposito di Artemide, Apollo quel giorno la odiava. Non stava esagerando: essere gemelli lo portava a nutrire dei forti sentimenti nei suoi confronti, positivi o negativi che fossero. Raramente quelli negativi perduravano per più di uno o due giorni, ma era certo che almeno nelle ventiquattr’ore successive alla mattina di quel giorno l’avrebbe mal sopportata. Infantile? Probabile, ma Apollo non brillava certo per la bravura nell’ammettere i propri difetti e le proprie colpe. Lo aveva fatto solo con Giacinto e perché credeva gli avrebbe portato un tornaconto che alla fine non era arrivato. O forse perché funzionava su di lui come un siero della verità, chissà.
Artemide sosteneva, e proclamava di farlo per il suo bene, che forse Apollo avrebbe dovuto imparare a gestire meglio la propria relazione con Giacinto. Relazione che ancora non c’era, essendo il loro uscire confuso: entrambi chiamavano le loro serate insieme “appuntamenti”, ma Giacinto non voleva ancora saperne di baciarlo. Si frequentavano per diventare una coppia, ma di fatto non lo erano. Nemmeno ne parlavano. Apollo era interessato. Anzi: era cotto. «Cotto e stracotto», aveva detto Artemide, «tanto da sembrare un idiota». Ma tanto a lei Apollo pareva sempre un idiota.
Dunque, secondo l’umile parere della sorella che diceva di parlare nel suo interesse, Apollo avrebbe dovuto trovare un equilibrio. Tra Giacinto e lo studio, tra Giacinto e il tirocinio. Tra Giacinto e la sua intera vita.
E Apollo si era sentito punto sul vivo, perché era vero che avrebbe dovuto trovare un equilibrio e gli sarebbe piaciuto – forse – smettere di vivere di farfalle nello stomaco e testa fra le nuvole, notti insonni, sospiri e sguardi persi nel vuoto mentre pensava a Giacinto. O almeno lo aveva creduto fino a quando, un giorno in cui era arrivato in ritardo davanti all’accademia, guarda caso, per uscire con Giacinto, lo aveva sorpreso nelle sue stesse condizioni. Non poteva parlare per le farfalle nello stomaco, ma il ragazzo aveva lo sguardo trasognato e sospirava, un’espressione inebetita stampata sul viso.
E quando aveva rotto il ghiaccio con un «A che pensi?» Giacinto aveva risposto con estrema innocenza e sincerità.
«A te.»
Apollo studiava medicina ed era abbastanza arrogante da reputarsi piuttosto bravo nel diagnosticare anche i disturbi assenti nel suo manuale di sintomatologia. Era un talento naturale, non c’era margine di dubbio.
Lui e Giacinto, ne era convinto, soffrivano della stessa malattia. Quindi, finché era così, Apollo aveva scelto di non guarire e qualsiasi cosa Artemide dicesse, anche se supportata dalla più inconfutabile delle prove, per lui rimaneva una sciocchezza.
Una sciocchezza da non ascoltare e che minava alle sue libertà, e che dunque lo infastidiva. Anche se Artemide gli aveva fatto notare che il suo rendimento scolastico sarebbe potuto crollare, se avesse continuato a rischiare di arrivare tardi ai tirocini e se non si fosse messo a studiare come aveva sempre fatto.
Era solo una coincidenza che quel giorno, con Giacinto, fosse in aula studio. Perché se lui era convinto di qualcosa niente e nessuno gli faceva cambiare idea. Erano lì soltanto perché si era messo a piovere così forte che alla fine avevano scelto di rimanere insieme in quell’aula fino a quando non avesse smesso, facendo qualcosa di costruttivo nel frattempo. Per Apollo sarebbe stato costruttivo anche un cappuccino in caffetteria, ma a quanto pareva Giacinto aveva tutta l’intenzione di disegnare.
Lo aveva salutato con una strana luce negli occhi, quel giorno, quasi avesse un’idea pazza a frullargli nella mente e che non vedeva l’ora di realizzare.
E così eccoli lì, Apollo che nemmeno si era sforzato di aprire il libro chiuso di fronte a sé.
Almeno trovandosi in un’aula diversa dalla biblioteca, probabilmente assediata da quella antipatica di Atena che dell’amore non capiva niente e che gli avrebbe fatto pagare ogni suo singolo fiato con la vita, Apollo poteva compensare il libro chiuso chiacchierando con Giacinto. Si erano scelti una delle aule più rumorose dell’intero campus e Apollo giurava di aver notato con la coda dell’occhio anche dei ragazzi coinvolti in una giocosa guerra, intenti a colpirsi a tradimento con delle cerbottane improvvisate, fatte con le cannucce larghe dei bicchieri della mensa. Paravano i colpi con quaderni e libri, svilendoli del loro valore intellettuale.
Apollo raramente non aveva voglia di studiare. O meglio: gli veniva così facile studiare che imporsi venti pagine al giorno da imparare era una sorta di scotto da pagare per dedicarsi in tutta tranquillità alle attività con cui riempire il resto della giornata.
Giacinto gli annebbiava la mente come un oppiaceo e lo spingeva a confidare nelle sue abilità abbastanza da fargli credere di poter studiare il tomo di medicina a partire da cinque giorni prima dell’esame, per disperazione. Esame che forse avrebbe anche potuto rimandare, tanto non era quello l’importante.
Quindi Giacinto gli faceva confidare in sé stesso un pochino troppo.
«Come mai ti è venuta tutta questa voglia di disegnare?»
«In realtà un’amica di mia sorella ha bisogno di una caricatura per una festa, così la sto aiutando. Devo mandargliela entro questa sera.»
Giacinto era adorabile quando si concentrava: aveva aperto bocca e il carnoso labbro inferiore era scappato alla presa dei denti, vibrando appena, arrossato. Era appena lucido e Apollo lo trovava dannatamente invitante.
«All’amica di tua sorella non piace il preavviso, eh?»
«No, direi di no.»
E gli rispondeva, Giacinto, ma sbrigativamente. Di solito alzava almeno gli occhi verso di lui e li puntava in quelli chiari di Apollo. Lo scrutava perché non gli piaceva perdersi un solo istante di lui.
In quel momento però Giacinto non era solo un’immagine paradisiaca di giovane intento a disegnare su un blocco. No: stava continuando a strappare fogli su fogli del suo album da disegno. Uno spreco, lo avrebbe ammesso anche lui, ma doveva sentirsi sotto pressione per il poco tempo e con ogni probabilità non aveva davvero voglia di disegnare. Doveva.
«Va bene, d’accordo», disse infine Apollo, portando entrambe le mani su quelle di Giacinto, una per ciascuna. «Fai una pausa.»
«Non posso fare una pausa…»
«Sì, invece. È il tuo medico che la prescrive.»
Solo a quel punto Giacinto alzò gli occhi verso quelli di Apollo e si convinse. In qualche modo il ragazzo gli trasmise tutte le vibrazioni che andavano dalla frequenza calma a calmissima. Improvvisamente si ricordò che non sarebbe tornato prima delle undici, vero, ma anche la festa non sarebbe stata prima del giorno successivo e che a conti fatti avrebbe potuto disegnare anche di notte, essendo sabato.
Sospirò e rilassò le spalle contro lo schienale della sedia.
Svuotare la mente per ritentare con più calma – e ispirazione – in seguito poteva solo fargli bene.
Doveva essere quella la sensazione provata ad essere Apollo, quello che crede di poter preparare un esame in cinque giorni e che è così calmo nel farlo da riuscirci a pieni voti. Chissà se funzionava solo da quando era a medicina o se ne era sempre stato in grado, al liceo o prima ancora. Chissà se era davvero un dono naturale, o se lasciava trapelare solo ciò che era conveniente gli altri vedessero, i propri successi.
Per qualche motivo Giacinto non riusciva a non credere che fosse perfetto. Non gli sembrava ci fosse alcuna menzogna in quell’aspetto di Apollo.
«Distraimi», esalò infine Giacinto. «Se non mi distrai ricomincerò a fare il nevrotico consumando grafite e fogli.»
«Ok, distrarti…»
Apollo si rigirò in bocca quella parola per qualche altro momento, cercando disperatamente un modo per tenere impegnata la mente di Giacinto. Gli sembrava che i suoi occhi fossero ancora pericolosamente attratti dal blocco sotto il suo naso, tanto spesso vi cadeva il loro sguardo.
«Sai che so suonare la chitarra?» chiese di punto in bianco.
«Davvero?» domandò Giacinto.
Sembrava genuinamente sorpreso, ma non gli donava ancora tutta la propria attenzione.
«Già, ma ho scelto il momento sbagliato per dirlo dato che non posso farti sentire un pezzo», notò. «Saprei anche cantare, ma per quanto l’aula sia chiassosa direi che non è il caso farlo qui…»
Giacinto sorrise. Le sue mani erano ancora sotto quelle di Apollo, ferme. Sentiva le sue dita muoversi, senza imbarazzo, per accarezzare la pelle diafana.
«C’è qualcosa che non sai fare, scusa?» domandò con un sorriso.
Se i suoi calcoli fossero stati corretti…
«Se voglio saper fare davvero qualcosa allora no, è davvero molto raro.»
Giacinto ridacchiò.
Apollo, modesto come sempre.
«Infatti, ecco, mi dedico anche alla poesia.»
In qualche modo l’attività “distrai Giacinto” era diventata un’ottima occasione per tessere le proprie lodi in un palleggio di risposte che faceva sembrare Apollo un po’ narcisista. Un po’ tanto. Solo più del solito. Ma beh, Giacinto sembrava divertirsi.
«Le scrivi o le reciti e basta?»
«Le scrivo, anche.»
«Mi improvvisi qualcosa?»
Sia Giacinto che Apollo sapevano che produrre arte su due piedi non era sempre facile. Giacinto aveva eliminato mezzo sketchbook nell’arco di dieci minuti per via della poca ispirazione, quindi sapeva di aver messo alle strette Apollo. Era per questo che proprio lui, proprio Apollo, trovava Giacinto interessante: non gli risparmiava nulla, lo metteva alla prova e lui adorava percepire qualcuno alla sua altezza. Era stimolante.
Restò in silenzio qualche attimo perché no, non avrebbe improvvisato qualcosa. La sua mente era vuota. Ma lui voleva farlo, non poteva smentire delle parole dette solo qualche istante prima, tradendosi.
A quel punto Apollo strinse di più le sue mani fra le proprie. Unì quelle di Giacinto sotto le proprie, quasi una cupola protettiva intorno alle sue. Gli occhi azzurri si fissarono in quelli verdi del ragazzo, decisi.
«Rapito
Nello specchio dei tuoi occhi
respiro
il tuo respiro.
E vivo.»
Giacinto, il respiro, lo aveva trattenuto. Era rimasto immobile a osservare la curva sinuosa delle labbra di Apollo che si muoveva.
E smise di resistere, perché potevano anche essere in una rozza aula studio, ma non gli importava. Contavano loro, non il luogo, non il momento, l’epoca, l’ambiente.
Si sporse sul tavolo e lo baciò. A stampo, nulla più.
«Ti bacio perché voglio farlo, ma non troppo, non se siamo qui», sembrava dire. «Per questo un po’ di intimità serve.»
Lui voleva respirarlo davvero il respiro di Apollo e lo aveva fatto, in quel bacio che sapeva d’impazienza e di sospensione. Perché Apollo rimase con le labbra schiuse e gli occhi sgranati. Un ciuffo di capelli portati dietro l’orecchio cadde attonito al lato del suo viso. Giacinto lo riportò dov’era con le dita esili e gli sorrise.
Perché era felice di quella poesia e di averlo finalmente baciato. Era felice di essere lì con Apollo, con le labbra che sapevano di lui.
«Ringrazia Saffo per questo bacio.»
Apollo sorrise e portò una mano calda sul suo volto. Non sarebbe mai riuscito a ingannare Giacinto, ma adesso poteva baciarlo.
 

«Perché mi hai baciato quel giorno, Giacinto?»
Apollo era sistemato alle spalle del suo ragazzo, Giacinto, seduto sul letto e con le mani vicino al suo collo. Stava massaggiando piano i muscoli delle spalle, contratti a causa della posizione fin troppo accartocciata che il ragazzo assumeva quando disegnava. Sembrava così assorbito dai segni che tracciava con la matita da arrivare nell’arco di pochi minuti a premere il naso sul foglio e ad abbracciare il tavolo su cui se ne stava appoggiato.
Un’immagine adorabile o forse, a dirla tutta, un po’ inquietante.
Almeno a detta di Artemide, che una volta lo aveva visto e l’aveva paragonato allo sgorbio de il Signore degli Anelli, mandato in onda in tv appena la sera prima. Inutile dire che Apollo si era offeso anche per il fidanzato, perché le battaglie di Giacinto erano le sue. Sì, anche se Giacinto nemmeno era a conoscenza dell’offesa.
Siccome Giacinto era inconsciamente testardo, anche se Apollo tentava di fargli notare la sua postura e di sistemarlo in una posizione più salutare per la sua spina dorsale, ci voleva poco perché la schiena del ragazzo si afflosciasse di nuovo sulla carta come un fiore appassito. Sulla testardaggine si incontravano: Giacinto aveva approvato l’idea di Artemide circa i doveri accademici di Apollo, così era divenuto il suo carceriere personale che si rifiutava di salire sulla sua auto se prima non si trattenevano in aula studio almeno un poco, per essere certo che Apollo studiasse. Mai Artemide avrebbe potuto essere più felice, così aveva subito dato la propria benedizione al loro legame. Apollo aveva tentato di rifiutare, opporsi, e Giacinto minacciato di gridare al rapimento se avesse provato a trascinarcelo di peso.
Giacinto non era Artemide: non riusciva a odiarlo nemmeno un secondo.
Così andava.
Apollo cedeva, Giacinto no.
E poi succedeva ciò che era accaduto qualche istante prima.
«Mi fa male la schiena.»
«E lo sai perché?»
«Sì, lo so… mi fai un massaggio?»
E Apollo come poteva resistere di fronte a quegli occhioni verdi, innocenti senza che nemmeno loro lo sapessero? Come poteva fare la predica al suo splendido ragazzo?
Giacinto gli aveva avanzato quella richiesta perché se Apollo avesse fallito come medico si sarebbe sempre potuto dare alla massoterapia. Giusto perché di cose ne sapeva fare poche.
Era anche un brillante pensatore, ma a quella domanda ancora non aveva trovato risposta.
«Perché mi hai baciato quel giorno, Giacinto?»
E la risposta giunse in fretta, chiara e coincisa.
«Perché mi andava di farlo.»
«Hai capito cosa intendo», gli rispose Apollo. « Perché proprio quel giorno? Perché proprio quel momento? Perché ti andava di farlo?»
Giacinto esitò, la schiena che finalmente tornava a dargli tregua.
Se Apollo avesse potuto vederlo in viso si sarebbe accorto delle sue guance rosse e degli occhi in fuga verso ogni angolo possibile per evitare uno sguardo che non avrebbe comunque potuto raggiungerlo.
«Perché con la poesia che mi hai recitato penso di aver sentito tutto l’amore che provavi nei miei confronti», rispose, sincero. «E io… beh, ti ho fatto dannare tanto perché volevo essere sicuro che provassi almeno la metà di quello che provavo io. Avevo paura.»
Mai chiedere all’animo delicato di un artista di denudarsi, ecco cosa si appuntò nella mente Apollo. Mai chiederglielo se sai di non avere tutto il tempo e la passione per raccoglierlo e prenderti cura di lui. Però lui aveva entrambe queste cose, le aveva eccome.
Il mento di Giacinto era sulla sua spalla, adesso, e lo guardava incerto. Così Apollo si fece vicino e lo baciò, piano, le mani sulle sue di spalle e poi sul suo viso come se fosse il cimelio più prezioso al mondo.
«E la tua conclusione qual è stata?»
«Che provavamo entrambi le stesse cose, in un perfetto equilibrio.»
Anche Apollo aveva più equilibrio, ora: sua sorella Artemide nemmeno si lamentava più di quanto sospirasse assorto in preda all’amore. Buffo come la fonte del suo squilibrio fosse anche ciò che aveva riportato tutto all’ordine.
Giacinto era irresistibile, nella sua innocenza. Era irresistibile da quando lo aveva conosciuto, ma ancor di più quando aveva lasciato cadere quei muri di risposte di gentile riserbo, costruiti per proteggersi.
«Quindi lo sai che ti amo o vuoi che te lo ripeta?» domandò Apollo sulle sue labbra, che stava baciando fino allo sfinimento.
«Mhn… mi piace se me lo ricordi», sussurrò Giacinto. «Anche io ti amo.»
E scivolare sotto Apollo mentre Apollo scivolava in lui, i vestiti a terra, gli parve quanto di più naturale potesse esserci al mondo.
 

Giacinto non viveva senza il blocco da disegno, quindi anche se il suo corpo nudo era coperto solo dalle lenzuola e Apollo sonnecchiava accanto a lui, il busto allenato scoperto e lo chignon dietro la testa sfatto a causa delle dita di Giacinto contorte e rese artigli per il piacere, nulla gli aveva impedito di recuperarlo per disegnare.
Voleva disegnare Apollo, perché si era reso conto che dopo più di due mesi di relazione ancora non lo aveva ritratto. Non copiandolo dal vero, almeno.
Le dita di Giacinto scivolavano come pennelli sul viso di Apollo; sfioravano gli zigomi e il pollice tracciò il contorno delle labbra. Facevano ciò che i pennelli fanno su una tela, ma per carpire i suoi lineamenti e poterli riprodurre.
Memorizzava prima per sé, poi per la carta.
Dopo aver spostato la gamba per trovare una posizione più comoda, Apollo schiuse gli occhi e lo guardò.
«Che stai facendo?»
«Metto su carta quello che provo per te.» Giacinto esitò un istante. «Ti disegno.»
Apollo fece per sollevarsi.
«Quindi devo restare fermo?»
«No, non serve. Ho quasi finito e le ombreggiature posso metterle anche a memoria.»
Giacinto sapeva tutto di lui a memoria. Ogni muscolo, voglia, piega della pelle. In qualche modo sembrò ad Apollo il pensiero più romantico al mondo.
Quindi il biondo si alzò e si appostò alle spalle di Giacinto, le braccia nerborute cinsero i suoi fianchi e il mento andò a riposare sulla sua spalla.
Gli piaceva quella posizione: gli sembrava quasi di inglobare quel corpo tanto piccolo e delicato, di proteggerlo con tutto sé stesso, che era poi ciò che sempre avrebbe voluto fare.
E scoprì che gli piaceva anche guardarsi attraverso gli occhi di Giacinto.
«Sai, il giorno in cui sei venuto a presentarti stavo disegnando un viso che prima di conoscerti ero solito ritrarre spesso», cominciò Giacinto, ripassando un punto in particolare del foglio per scurirlo di più. «L’ho sempre fatto da che ho memoria, come se fosse un mio grande bisogno. Sono passato dal disegnare questo ragazzo biondo in versione stilizzata quando avevo cinque anni ai ritratti più accurati, come quelli che faccio ora. E c’è una cosa buffa. Sai qual è?»
«Qual è?» chiese Apollo, incuriosito da quella storia.
Allora Apollo non se n’era accorto.
«Ti assomigliava tantissimo. Polybea mi aveva detto di dargli un nome, come se fosse una mia creazione, ma non ne trovavo uno che fosse adatto.» Poggiò la matita sul foglio e lo guardò. «Lo stavo disegnando anche il giorno in cui mi hai parlato la prima volta. Quando ho sentito il tuo nome mi è parso subito perfetto.»
Apollo non rispose, perché non sapeva bene cosa dire. La trovava solo una coincidenza romantica, che lo spinse a baciare la guancia morbida di Giacinto e poi la curva della sua mandibola.
«Ora capisco perché mi sembrava tanto bello…» fece Apollo.
Giacinto rise prima di voltarsi.
«Presuntuoso», lo rimproverò. «Ma te lo puoi permettere. Davvero non te n’eri accorto?»
Apollo lo guardò negli occhi, serio per un momento.
«Ho davvero guardato cosa stavi disegnando e mi è davvero piaciuto, ma ero più preso da te, Giacinto.»
Il giovane non si lasciò ingannare.
«È un modo carino per dirmi che volevi solo provarci?»
«Così stai minimizzando!»
Apollo lo punì con una tempesta di baci sulla guancia e Giacinto si dichiarò sconfitto solo per averne degli altri.
Poggiò il ritratto sul comodino e si rilassò contro il petto del fidanzato, portando le mani sulle sue braccia mentre intrecciavano le gambe sotto le lenzuola.
Erano abituati a non avere un filo logico nei loro discorsi: potevano parlare di arte e poi improvvisamente di scuola, passavano dallo sviscerare filosofie antiche al chiedersi quale fosse il loro gusto di gelato preferito. Scherzavano, poi tornavano seri.
«E sai cos’altro trovo buffo?»
Giacinto aveva voglia di chiacchierare e ad Apollo stava bene, perché la sua voce era la melodia più soave che avesse mai sentito. Un po’ acuta per essere la voce di un ragazzo, ma cristallina e confortante. Ad Apollo piaceva ascoltarla, soprattutto quando come in quel momento Giacinto era del tutto rilassato, pelle d’oca al passaggio dei suoi polpastrelli, lievi sulle braccia esili.
Sentiva ogni sua parola vibrare attraverso la sua schiena, contro la propria cassa toracica.
Scosse il capo.
«I nostri nomi», rispose. «Sai che un ragazzo di nome Giacinto, nei miti greci, si è innamorato del dio Apollo?»
«Che è quello che hai fatto tu.»
«Cercherò di ignorare il fatto che la tua autostima ti abbia appena portato a paragonarti a un dio.»
Risero entrambi.
«Peccato che la loro storia non sia finita bene. Si dice proprio da Giacinto sia stato generato il fiore per cui io mi chiamo così. Infatti uno dei colori del giacinto, il rosso, gli dà come significato il dolore.»
Apollo scosse piano il capo.
«È un momento troppo perfetto perché tu mi chieda di ascoltare epiloghi tristi.»
Giacinto sorrise mentre i muscoli si scioglievano come burro contro il petto caldo del fidanzato.
«Beh, il giacinto ha molti significati, sai?»
Sentiva tutta la volontà che Apollo aveva di ascoltarlo dalle piccole carezze che stava dedicando al suo ventre. Giacinto non sapeva come spiegarlo, ma aveva un modo di carezzarlo quando nonostante tutto, nonostante parlasse da ore, non vedeva l’ora di ascoltare altre sue parole.
«Gentilezza…» cominciò Giacinto e le labbra di Apollo schioccarono un bacio sulla sua spalla.
«Sincerità», proseguì.
Apollo baciò di nuovo la sua pelle in un punto più vicino al collo, come se stesse prendendo come ritmo le sue parole. Le sue attenzioni lo fecero sospirare.
«Dolore è solo uno dei tanti significati, come può esserlo la gelosia, la costanza e il gioco», spiegò. «È anche il fiore degli amanti.»
Apollo alzò il capo verso Giacinto.
«Oh, si fa interessante…»
Giacinto gli pizzicò bonariamente un braccio mentre Apollo rideva, salendo con le labbra e con il respiro lungo il collo esile del ragazzo. Le dita stavano scorrendo sulla sua gola in una carezza sensuale che portò il mento del ragazzo a sollevarsi.
Apollo ricordò che da quella stessa gola erano scappati dei gemiti adorabili solo poco tempo prima e desiderò di udirli ancora, di esserne la fonte.
La voce di Giacinto era anche questo.
«La vita è un po’ come un mazzo di giacinti di tanti colori diversi. Si trovano tutte queste cose lungo il proprio cammino», mormorò. «Mi piace che sia il mio nome. Giacinto. È un po’ come un augurio per tutte le cose belle che significa.»
Apollo smise di baciare la linea morbida della sua mandibola.
«E quelle brutte?»
Giacinto sorrise. Rendersi conto di quanto Apollo non potesse abbandonare quei significati negativi gli diede come l’impressione di avere un ruolo speciale, al suo fianco: era le sue ali. E per questo il suo compito era non lasciare che Apollo si concentrasse anche per lui sugli aspetti più nefasti e oscuri dell’esistenza.
«Fanno parte della vita, compensano quelle belle. Si chiama karma.»
Apollo alzò gli occhi al cielo.
«Grazie per la lezione, professore», brontolò.
Giacinto si voltò fra le sue braccia, accoccolandosi contro il suo petto. Era il suo turno di alzare il capo per baciare il mento deciso del ragazzo dalla pelle e i capelli dorati.
«Hai capito cosa intendo.»
«Ho capito che stando al tuo modo di vedere le cose dovrei pagare per una vita intera la più grande fortuna che io abbia mai avuto, cioè incontrarti.»
Il volto spruzzato di lentiggini di Giacinto si fece purpureo.
«Beh… non funziona proprio così…»
Apollo si sporse verso le sue labbra. Parevano quasi una statua greca, una composizione: i corpi morbidi adagiati uno sull’altro, le braccia di Giacinto onde che si avviluppavano attorno al busto di Apollo come due rampicanti d’edera; le gambe annodate. I loro corpi erano linee morbide che sfumavano in quelle dell’altro.
Giacinto pesava su di lui come una piuma, pur essendo del tutto abbandonato fra le sue braccia. Apollo gli teneva il viso come fosse una reliquia preziosa e poggiava le labbra sulle sue quasi stesse bevendo da un calice colmo fino all’orlo del nettare più delizioso. Ambrosia.
«Facciamo che non funziona così e basta», protestò. «Facciamo che impedirò al dolore di avvicinarsi a te anche solo per sbaglio.»
Giacinto doveva essere le ali di Apollo, questo gli impediva per definizione di aiutarlo a rimanere con i piedi ancorati per terra. Ma quando Apollo sceglieva di volare da solo, maledizione, sarebbe riuscito a stregare chiunque.
Quell’attimo di pace venne turbato da una suoneria. Il telefono di Giacinto.
Il ragazzo era di nuovo sdraiato sotto il peso di Apollo, incastrato fra le sue ginocchia e l’unico palmo che il ragazzo non stava usando per accarezzargli il viso.
Sapeva cosa sarebbe accaduto, avrebbe lasciato che accadesse ancora e ancora. Avrebbero fatto l’amore e Giacinto si sarebbe sentito al sicuro, felice come mai prima di allora.
«Mhn… spegnilo…» si lamentò Giacinto, del tutto disinteressato dal mittente.
Apollo eseguì, perché nemmeno a lui andava troppo di vedersi sottratto del tempo con Giacinto affinché parlasse con… chiunque. Era abbastanza egoista da credere fosse una questione di poca importanza.
Odiava distrarsi da lui.
Nulla avrebbe vietato ad Apollo di ignorare la chiamata senza nemmeno distrarsi dai baci di Giacinto. Eppure qualcosa, forse il fato, lo spinse a far cadere l’occhio sullo schermo acceso del cellulare.
«Chi è Zefiro?» domandò, esitando nel bacio.
Quando abbassò il capo si accorse subito che l’espressione sul volto di Giacinto era una smorfia. E si era incupito.
Non gli rispose subito.
«Ehi…» tentò di richiamare la sua attenzione Apollo.
Giacinto quasi trasalì.
«Oh… scusami. Lui è… un amico, credo.»
«Credi?» domandò Apollo, un sopracciglio inarcato. «Perché sembra proprio quello che diresti di una persona che ti sta dando fastidio?»
Giacinto si tirò a sedere e Apollo con lui.
«È molto solo. Ho cercato di essere carino con lui, ma diciamo che si è attaccato troppo.»
Si sentiva orrendo, anche se fra tutte le persone che conosceva Giacinto sapeva di essere l’unico a non aver mai parlato male di Zefiro. Persino sua sorella Polybea si era lasciata sfuggire qualche commento spazientito su quanto fosse fuori luogo quel ragazzo nel presentarsi di fronte casa anche se non invitato.
«Direi che è il momento giusto per dimostrarti che posso tenere le scocciature ben lontane.»
Giacinto si sforzò di sorridere, ma scosse il capo.
«Va bene così, Apollo… non è un cattivo ragazzo. È solo che…»
«Ti mette a disagio, a me basta vedere questo.»
Giacinto sospirò, ancora indeciso su quanto fosse una fortuna essere capito tanto da qualcuno, senza nemmeno parlare.
Apollo lo strinse fra le braccia e gli baciò una tempia.
«Non te ne preoccupare ora, d’accordo? Lo risolveremo.»
Apollo era stupendo, ammaliante.
In tempi antichi sarebbe stato considerato una creatura pericolosa, tanto era attraente e persuasivo. Giacinto sarebbe stato un miscredente, perché si sarebbe gettato nelle braccia del male pur di stare con lui, pur di farsi baciare dalla luce che nonostante tutto emanava.
Avrebbe scelto il destino più tragico pur di poter essere suo e sapere di averlo per sé anche solo per un istante.
Ma non tutto doveva essere tragico, non tutto doveva ferire. Non avrebbe sofferto, lo aveva detto Apollo.
E, ancora una volta, Giacinto scelse di credergli.
   
 
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