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Autore: Piperilla    06/12/2018    1 recensioni
Le storie sono belle, ma la vita vera è un'altra cosa: si nasconde agli angoli delle strade, negli appartamenti anonimi, nelle periferie, e quando va in pezzi, ti dilania come le schegge di una granata.
Questo Vera lo sa bene: piena di ferite e di demoni con cui convivere, ha smesso di illudersi. La vita è crudele, meschina, e senza giustizia.
Anche Vittorio lo sa, ma non se ne cura: dopo vent'anni passati seguendo passione e vocazione, tutto quello che ha realizzato gli si sta sgretolando tra le mani. La vita è dura, irriconoscente, e ha un pessimo senso dell'umorismo.
La vita spesso fa schifo: è questo che pensa Vera mentre si domanda se le cose andranno mai meglio.
La vita a volte è proprio una stronza: è questo che si dice Vittorio mentre si chiede se valga la pena di ricostruire quelle macerie.
La risposta che entrambi si danno è no: ormai pieni solo di rabbia e amarezza, l'unica cosa che riescono a fare è usarle come spinta per alzarsi al mattino. Se lo tengono stretto, tutto quel veleno che gli scorre nelle vene.
Almeno finché qualcuno non glielo tirerà fuori a forza e gli ricorderà che esiste anche altro oltre la rabbia.
Genere: Angst, Commedia, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate | Contesto: Contesto generale/vago
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Vittorio era ufficialmente stanco di quel tempo matto.
   A un passo dall'estate, non ci sarebbero più dovuti essere temporali un giorno sì e uno no: era questo che pensava il carabiniere in quella sera di fine maggio mentre usciva dal portone del palazzo, un grosso ombrello in pugno per ripararsi dalla pioggia torrenziale che martellava il terreno. Proprio di fronte al palazzo era parcheggiata la macchina di Vera: la ragazza era seduta all'interno dell'abitacolo con aria scocciata, in attesa, e Vittorio le si avvicinò rapidamente per poi bussare al finestrino.
   «Vittorio Valenti al suo servizio, madame» disse forte.
   Vera alzò gli occhi al cielo e scosse la testa per un attimo prima di sorridere; sgusciò fuori dall'auto il più agilmente possibile e si strizzò sotto l'ombrello accanto a Vittorio.
   «Grazie» disse Vera. Gli scoccò un bacio sulla guancia. «Ero sicura di avere un ombrello in macchina, ma a quanto pare mi sbagliavo» sbuffò.
   «Poteva andare peggio» la consolò Vittorio. «Pensa se ti fossi dimenticata la gamba!»
   «Divertente» bofonchiò lei. I due si mossero cauti verso il portone, attenti a non mettere i piedi in qualche pozzanghera, ed erano a metà strada quando un movimento accanto all'ingresso del palazzo accanto attirò la loro attenzione.
   Vittorio non era certo di cosa avesse visto; Vera, invece, doveva essersene fatta un'idea precisa, perché schizzò in quella direzione a una velocità che il carabiniere non si sarebbe mai aspettato.
   «Vera?». A Vittorio occorse qualche istante per rendersi conto che la ragazza si era lanciata in avanti e scattare al suo inseguimento; quando la raggiunse, Vera stava goffamente accovacciata accanto a un vaso. «Perché con te si finisce sempre per stare sotto la pioggia?» brontolò.
   Vera non lo degnò di uno sguardo: continuò a fissare lo spazio esiguo tra il muro e il vaso, i capelli e gli abiti bagnati incollati addosso, le mani tese, incurante dell'acqua che continuava a inzupparla.
   «Vieni, piccolino, vieni qui» chiamò con voce dolce. Le rispose un miagolio profondo, e finalmente Vittorio capì: quello che aveva intravisto poco prima era un gatto alla ricerca di un riparo. Vera si trascinò in avanti di mezzo passo. «Avanti, piccolo, non ti faccio nulla: voglio solo aiutarti» disse ancora in tono calmo. La testa tigrata di un gatto, col pelo fradicio e gli occhi spalancati, fece capolino; annusò sospettoso le dita della ragazza e si ritrasse in fretta, terrorizzato, quando il rombo di uno tuono riempì l'aria. «Oh, hai paura, lo so, ma se vieni fuori ti porto all'asciutto, tesoro, lo prometto» lo esortò.
   «È un gatto, ragazzina: non può capire quello che gli dici» le fece notare il carabiniere in quello che sperava fosse un tono ragionevole. Quando Vera non si mosse, sospirò tra sé e spostò l'ombrello in modo che la coprisse. «Per quanto dovremo stare qui?» grugnì.
   «Per tutto il tempo necessario» replicò brusca Vera, lanciandogli una rapida occhiataccia. «Avanti, micio, vieni fuori: lo so che questo soggetto vicino a me sembra antipatico, ma non è poi così male, te lo assicuro».
   «Sempre gentile» bofonchiò Vittorio, convinto che quel gatto non sarebbe mai uscito dal proprio nascondiglio; solo un paio di minuti più tardi, però, il felino lo smentì, facendo qualche passo esitante verso Vera e lasciando che la ragazza lo prendesse in braccio.
   «Bravo cucciolo!» esultò Vera; si sistemò il gatto sul petto e lo coprì coi lembi della felpa che indossava prima di rivolgersi al carabiniere. «Dai, Valenti, tirami su e andiamo dentro».
   L'uomo alzò gli occhi al cielo ma eseguì, lieto di sfuggire al temporale; i due entrarono in silenzio nell'androne e poi in ascensore, e appena Vittorio aprì la porta di casa, Vera andò dritta verso il divano e sedette a terra, con la schiena appoggiata al pezzo di mobilio.
   «Ce l'hai un asciugamano vecchio?» chiese Vera mentre tirava fuori il gatto dalla felpa.
   Vittorio non rispose; andò direttamente in camera da letto e tornò con due asciugamani tra le braccia. Porse alla ragazza quello scolorito, poi sedé sul divano, aprì il secondo telo di spugna e lo gettò sulla testa di Vera.
   «Ehi!» protestò lei, temporaneamente accecata.
   «Zitta, Gamba Bionica: visto che tu pensi solo ad asciugare quel gatto, io penso ad asciugare te... prima che ti venga una polmonite» replicò il carabiniere.
   Vera sbuffò ma non rispose: si sistemò il randagio in grembo e iniziò a strofinargli la pelliccia con delicatezza, mentre Vittorio faceva lo stesso con i suoi capelli. Il micio non oppose resistenza: si accoccolò contro lo stomaco della ragazza e si lasciò asciugare, facendo le fusa.
   «Povero piccolo» mormorò Vera, senza smettere di tamponare l'animale con il telo. «Guarda quant'è buono» aggiunse, rivolta a Vittorio. «Devono averlo abbandonato: un randagio non si lascerebbe tenere e toccare così».
   «Sì, lo penso anch'io» convenne Vittorio. Si mise a sedere a terra, accanto a lei, e passò a strofinarle il collo e le spalle. «Però, tutto sommato, è stato fortunato: l'hai trovato tu».
   «Io direi che è più fortunato ad aver trovato un nuovo padrone che ama gli animali almeno quanto me» ribatté Vera, scoccandogli un'occhiata eloquente.
   Vittorio rimase in silenzio per alcuni lunghi momenti.
   «Scusa?» disse infine, incredulo.
   «Se porto a casa un altro gatto, mio padre mi ammazza» replicò Vera.
   «Quindi stai dicendo che questo gatto deve stare a casa mia?» insisté il carabiniere, tanto per essere certo d’aver capito bene.
   «Non possiamo mica buttarlo di nuovo in mezzo alla strada!». Vera lo guardò implorante. «Non lo adotteresti, Vittorio? Per me?»
   Vittorio tentennò, poi sbuffò, sconfitto.
   «E va bene: hai vinto. Lui resta» grugnì.
   La ragazza gli rivolse un gran sorriso, lo afferrò per la maglietta e gli stampò un bacio sulle labbra. «Grazie, grazie, grazie!»
   «Solo lui, però» disse severo l’uomo. «Niente altri randagi».
   «Solo lui: promesso» gli assicurò Vera.
   Vittorio sbuffò di nuovo. «Come se potessi crederci».
   «Oh, smettila di brontolare» lo rimproverò la ragazza, senza degnarlo di uno sguardo, mentre frugava nella propria borsa; recuperato il cellulare, iniziò a scrivere un messaggio a tutta velocità.
   «Che fai?» indagò Vittorio, sospettoso: l'ultima volta che l'aveva vista trafficare al cellulare con tanto entusiasmo, si era trovato ad accompagnarla a un appuntamento con un altro uomo, e non ci teneva affatto a ripetere l'esperienza.
   Vera scoccò un rapido sguardo alla sua espressione e sorrise beffarda, quasi gli avesse letto in volto i pensieri che gli passavano per la testa.
   «Sto scrivendo a mia madre: ora che sei il felice padrone di un gatto ti serviranno un po' di cose, e vista l'ora non credo che farai in tempo a passare in un negozio, stasera. Io ho qualcosa in più a casa e sto chiedendo a mamma di fare una busta e avvertirla che tra...» diede un rapido sguardo all'orologio da polso, «venti minuti passi a casa nostra a prendere quella roba».
   Il carabiniere inarcò le sopracciglia. «Passerò a casa tua?» sottolineò.
   «Non ho detto ai miei genitori che io e te stiamo... che siamo...» Vera sbuffò, «qualsiasi cosa sia, insomma. E non ho intenzione di farlo: dopo tutte le volte che ci siamo azzuffati ci vorrebbero davvero troppe, troppe, troppe spiegazioni che al momento non sono in grado di dare; quindi, per quanto ne sanno loro, io sono da Giulia e tu mi hai chiamata per dirmi di aver appena salvato un gatto dalla strada e chiedermi se posso prestarti qualcosa per il micio, fino a quando non potrai andare a comprare quello che ti serve».
   Le sopracciglia di Vittorio si sollevarono un po' di più. «Hai pensato proprio a tutto» esclamò bruscamente.
   La ragazza lo fissò, anche lei con le sopracciglia inarcate. «Valenti, gli affari nostri sono nostri» rimarcò. «E no, non mi vergogno di te, tonto» aggiunse spazientita.
   Vittorio, che aveva aperto la bocca per replicare, la richiuse e rimuginò per qualche istante sulle parole di lei; dopodiché si alzò e sparì in camera da letto per riemergerne un paio di minuti più tardi con una felpa pulita addosso e un fagotto tra le mani.
   «To'» disse secco, lanciando il proiettile di stoffa in direzione di Vera e colpendola con precisione in piena faccia. «Cambiati, mentre non ci sono».
   Vera sputacchiò indignata mentre recuperava le cose che Vittorio le aveva appena tirato addosso: una tuta da uomo, una maglietta in cui sarebbero potuta entrare comodamente almeno due volte e una felpa enorme, asciutte e profumate.
   «Dovevi proprio tirarmeli in faccia?» domandò immusonita.
   Vittorio prese le chiavi della macchina e quelle di casa dal tavolo e scrollò le spalle, andando verso la porta. «Se tu puoi insultarmi...»
   «Se tu pensi una cosa stupida, come faccio a non insultarti?» domandò lei in tono ragionevole.
   «Facile: ti mordi la lingua e conti fino a dieci» replicò il carabiniere.
   «Ma tu non lo fai mai!» protestò Vera.
   Vittorio scrollò di nuovo le spalle. «Irrilevante» dichiarò, richiudendosi la porta alle spalle.
   Vera scrutò il punto in cui Vittorio era sparito, incredula, poi si chinò a guardare il micio ancora accoccolato sulle sue gambe e lo grattò sotto il mento. «Tranquillo, piccolino, Valenti è matto come sembra ma non è pericoloso».
   «Guarda che ti sento!» arrivò la voce di Vittorio, attutita dalla porta.
   «Spione!» gridò in risposta Vera.
   Il carabiniere non replicò. La ragazza sentì la porta dell'ascensore chiudersi e decise che, in fondo, l'idea di Vittorio non era male: i vestiti fradici che indossava erano diventati ancora più freddi di quanto già non fossero, e al contatto con la pelle le davano una sensazione sgradevole.
   Mezz'ora più tardi, una Vera infagottata negli abiti di Vittorio stava accoccolata sul divano e guardava il gatto annusare con cura ogni angolo e ogni mobile della stanza quando, con un fracasso tale da disturbare l'intero piano, il padrone di casa fece ritorno.
   «Mi sento un mulo da soma» mugugnò l'uomo non appena mise piede nell'appartamento, due grosse buste nelle mani. Alzò lo sguardo e vide Vera sogghignare dal divano. «Ti sei messa comoda» commentò.
   Lei si strinse nelle spalle. «Il tuo nuovo coinquilino sta esplorando la casa e io non avevo niente da fare». Guardò Vittorio posare le buste vicino alla porta e frugarsi in tasca con aria assorta. «Non è che vuoi tirarmi di nuovo qualcosa in faccia, vero?» chiese, sospettosa.
   «Non in faccia, no: sarebbe un peccato, rovinare una delle poche cose gradevoli di te» la punzecchiò il carabiniere. «Aha!» aggiunse trionfante, trovando ciò che cercava. «Al volo, Gamba Bionica!»
   Vera sbuffò, ma afferrò comunque l'oggetto che Vittorio le aveva appena lanciato; perplessa, osservò alternativamente il mazzo di chiavi che stringeva tra le dita e l'uomo che gliel'aveva appena consegnato.
   «Che cosa sono?» domandò Vera.
   Vittorio la fissò come se avesse avuto di fronte una persona particolarmente stupida. «A te cosa sembrano? Sono chiavi».
   «Lo vedo che sono chiavi» replicò spazientita la ragazza. «Vorrei capire che devo farci».
   Il carabiniere tacque per un istante. «Non me l'hai chiesto davvero» disse infine. «Ti serve un manuale di istruzioni, Vera? Magari un disegnino?» aggiunse sarcastico. «Sono chiavi, e le chiavi aprono» proseguì lentamente, scandendo con cura ogni parola. «Queste, nello specifico, aprono la porta d'ingresso, il portone di sotto e la cassetta della posta».
   Vera gli lanciò uno sguardo minaccioso. «Smettila di trattarmi come se fossi stupida» abbaiò, «e dimmi perché ho in mano le chiavi di casa tua!».
   Stavolta fu Vittorio a stringersi nelle spalle. «A qualcuno dovevo lasciarne una copia, per qualsiasi evenienza, e tu sei la persona che abita più vicina a me. E poi, visto che mi hai appioppato un gatto, puoi passare a controllare che non mi stia distruggendo casa, mentre sono al lavoro. E ancora, se ci diamo appuntamento qui e arrivi prima di me, puoi entrare invece di aspettarmi da sola per strada. Oppure, metti che io stia facendo la doccia e non possa venire ad aprirti, non saresti costretta a stare impalata fuori dalla porta in attesa che io finisca. O ancora...»
   «Ho capito!» esplose Vera. «Non mi piace, ma ho capito!»
   «E perché non ti piace?» indagò lui.
   Vera fece un buffo movimento con le spalle e la testa.
   «Non lo so» ammise controvoglia. «È che avere le chiavi di casa di qualcuno... è una cosa abbastanza intima, no? Ci vuole fiducia» bofonchiò.
   Vittorio gettò il resto delle chiavi sul tavolo, si buttò a peso morto sul divano e nascose il volto contro lo stomaco di Vera.
   «Be', io mi fido di te» dichiarò, la voce soffocata dalla felpa. L'espressione sul volto di Vera si ammorbidì. «Però sei noiosa e brontoli troppo».
   Qualsiasi tenero sentimento avesse suscitato in Vera la precedente dichiarazione di Vittorio fu spazzata via dalle sue ultime parole. La ragazza piazzò le mani sul petto del carabiniere e gli diede un violento spintone: lui rotolò sulla schiena e cadde sul pavimento prima di poter capire cosa fosse successo.
   «Alzati, Valenti: dobbiamo sistemare le cose per il tuo nuovo gatto e dargli da mangiare» disse Vera in tono zuccherino, alzandosi e scavalcando con superba noncuranza l'uomo ancora steso a terra. «Qui, micio, vieni!»
   Gatto e donna sparirono in un'altra stanza; Vittorio guardò il soffitto per un lungo momento e si chiese come fosse finito a farsi maltrattare e dare ordini nella sua stessa casa, prima di rimettersi in piedi e seguire gli altri due.

******

Quando Vera aveva detto a Vittorio che l'evoluzione del loro rapporto non riguardava altri all'infuori, appunto, di loro, era stata sincera: prova ne era il fatto che, solo tre giorni dopo quell'affermazione, era in procinto di entrare nell'appartamento di Giulia senza alcuna intenzione di rivelare il nuovo stato delle cose alla sua migliore amica.
   «Alla buon'ora» l'accolse la padrona di casa. «Iniziavo a pensare che avessi dimenticato dove abito!»
   «Esagerata e drammatica come sempre» tagliò corto Vera, già sulla soglia della cucina.
   «Dici?» replicò Giulia, sarcastica. «L'ultima volta che ti sei fatta vedere è stata al compleanno di Ludovica. Venti giorni fa» precisò.
   «Ho avuto da fare» replicò l'altra con grande dignità. Sedette e si guardò intorno. «Be'? Il senso di ospitalità e le buone maniere dove sono finite? Offrimi almeno un caffè, donna!»
   Brontolando, Giulia andò al lavello e iniziò a preparare la caffettiera.
   «Te la do io, l'ospitalità» bofonchiò tra sé, scuotendo la lunga chioma fulva. «Te la do io l'ospitalità e pure il caffè: prima sparisce, poi torna e pretende che le venga steso davanti il tappeto rosso... insensibile e ingrata...»
   Vera sorrise, divertita dalle scene di Giulia, ma non parlò; aspettò che il caffè fosse pronto e la sua migliore amica seduta vicino a lei, per farlo.
   «La verità, Giù, è che ho fatto un po' di fatica a tirare avanti, in questi giorni» ammise mentre girava il cucchiaino nella tazzina, lo sguardo fisso sul liquido scuro. «Non ero esattamente di buonumore e ho litigato con alcune persone – litigato di brutto, intendo – e... non so, non ero proprio di compagnia» spiegò.
   Anche Giulia fissò a lungo il proprio caffè prima di alzare gli occhi e guardare l'amica.
   «Perché non mi hai detto nulla?» chiese, delusa. «Ci siamo sempre dette tutto. Avrei potuto aiutarti... tirarti su di morale».
   Vera sorrise di nuovo, stavolta debolmente. «Credo sia ora che io ritrovi la capacità di gestire i miei sbalzi d'umore da sola. Non posso contare sempre sugli altri, per riuscirci: non va bene né per me né per voi. E mi sto impegnando, però faccio ancora fatica e ci metto più tempo di quanto sia normale, a ritrovare l'equilibrio».
   Giulia non rispose subito; si portò la tazzina alle labbra e bevve un sorso con aria assorta. Fece una smorfia quando il caffè ormai freddo le toccò la lingua e appoggiò la tazzina sul tavolo come se le avesse fatto torto.
   «Lo vedo che ti stai impegnando; lo vediamo tutti, veramente» disse infine. «E, Vè... col rischio di suonare presuntuosa... penso di aver avuto ragione fin dall'inizio, a dire che Vittorio Valenti avrebbe avuto un impatto positivo sulla tua vita».
   L'altra sbuffò. «Hai ragione: suoni presuntuosa, anzi, sei presuntuosa». Scrollò le spalle allo sguardo piccato che le rivolse Giulia. «Per fortuna ci sono abituata».
   «Comunque» riprese pungente la padrona di casa, «persino Tiziano ha dovuto darmi ragione, soprattutto dopo aver visto quanto Vittorio sia stato premuroso nei tuoi confronti nell'anniversario dell'incidente, e abbiamo pensato che sarebbe carino invitarlo a cena per instaurare un rapporto amichevole e civile. Da parte di Tiziano, cioè, perché io non gli sono mai stata ostile» precisò.
   Vera la fissò, un sopracciglio inarcato.
   «Vorresti farmi credere che Tiziano è riuscito a superare il fatto che Vittorio è romanista?» domandò con evidente scetticismo.
   «Ma quando mai» sbuffò Giulia. «Continua a lagnarsi dicendo che è crudele da parte mia pretendere che fraternizzi col nemico, ma è davvero l'unica cosa di cui si lamenta... e credo che ormai lo faccia più per partito preso che per una reale convinzione».
   «Tu sottovaluti il suo antagonismo da juventino verso alcune squadre» commentò Vera.
   «Tu sottovaluti il mio potere di rendergli la vita un inferno» replicò Giulia, leggera.
   L'ex ginnasta si strozzò con la propria saliva.
   «Sei perfida» riuscì a dire tra un colpo di tosse e l'altro.
   Giulia scrollò le spalle, indifferente. «Uso le armi che ho a disposizione...»
   «... per costringerlo a fare a modo tuo» concluse Vera per lei. «Come ho detto, sei perfida. Ma, in fondo, basta tenerli lontani quando Juve e Roma giocano una contro l'altra».
   «Come ti pare» disse l'altra con fare sbrigativo. «Allora, quando la facciamo questa cena?»
   Vera alzò gli occhi al cielo. Non riusciva a crederci: com'era possibile che Tiziano avesse deciso di tollerare Vittorio, e Giulia di includerlo nella loro cerchia di amicizie, proprio nel momento in cui il suo rapporto col carabiniere stava cambiando e lei desiderava tenere la cosa per sé, in attesa di capire come si sarebbe sviluppata la situazione? Se non avesse avuto la certezza assoluta che Giulia fosse all'oscuro di quanto accaduto pochi giorni prima, avrebbe scommesso che quella fosse l'ennesima trovata dell'amica per irritarla a morte.
   «Più avanti, Giù: più avanti» borbottò sconfitta.

******

Più tardi in quello stesso pomeriggio, Vera, sbrigate alcune commissioni, si ritrovò nel condominio in cui abitava Vittorio, e più precisamente nell'ascensore: dopo aver citofonato quattro volte a vuoto, infatti, aveva ricevuto un messaggio dal carabiniere, che la esortava a usare per la prima volta quel mazzo di chiavi che le era stato graziosamente consegnato solo settantadue ore prima. Vera non era affatto convinta che fosse appropriato, entrare in casa d'altri come se fosse stata la propria; soltanto un secondo messaggio di Vittorio – con cui l'uomo le aveva detto chiaramente che la scelta era tra usare le chiavi e restare impalata fuori dal portone – l'aveva persuasa a cedere.
   Quando finalmente varcò la porta d'ingresso, Vera capì all'istante il perché di tale insistenza.
   «Lo sapevo! Lo sapevo che c'era un altro motivo, per darmi le chiavi di casa tua!» sbottò la ragazza: Vittorio era spaparanzato sul divano, con la gatta – avevano scoperto che era una femmina mentre la lavavano e spazzolavano – accoccolata sul suo petto a fare le fusa. «Sei pigro, ecco cosa!»
   «L'ho fatto per Estia» tentò di discolparsi il carabiniere, indicando la gatta. «Ha ancora bisogno di essere rassicurata e non volevo lasciarla sola».
   «Ma se la lasci sola per andare al lavoro!» ribatté Vera.
   Vittorio ebbe il buongusto di mostrarsi almeno un po' imbarazzato. «Non volevo lasciarla sola più del necessario» si corresse.
   «Come no» sbuffò Vera; andò a sedersi sul divano, accanto allo stomaco di Vittorio, e accarezzò il felino. «Estia, eh?» ripeté, lo sguardo malandrino.
   L'uomo si strinse nelle spalle, o almeno ci provò. «Mi piaceva l'idea di continuare la tua tradizione, e lei non prova neanche ad avvicinarsi alla porta: sta bene in casa, al caldo. Quindi Estia, la dea del focolare domestico».
   «Sì, direi che è appropriato» convenne Vera con un sorriso. Accarezzò di nuovo Estia e prese un sacchetto dalla borsa. «Piccolina, che ne dici di uno scambio? Io ti do una caramella all'erba gatta e tu molli questo pigrone». La gatta annusò freneticamente l'aria, attirata dal sacchetto; Vera lanciò un paio di snack sul pavimento, ed Estia balzò giù dal petto di Vittorio per correre all'inseguimento dei dolcetti.
   «Vieni qui». Senza perdere un istante, Vittorio afferrò la ragazza e se la tirò sul petto, costringendola a sdraiarsi su di lui, poi nascose il volto nell'incavo del collo di lei.
   Nonostante fosse in equilibrio precario, Vera sorrise.
   «Hai carenze d'affetto, Valenti?» chiese, divertita.
   «Sì» rispose lui, la voce soffocata; Vera poteva sentire la sua bocca muoversi contro la propria pelle mentre parlava. «E visto che hai mandato via Estia, adesso tocca a te farmi sentire amato e coccolato. Anche se penso d'averci perso, nel cambio».
   Sebbene Vittorio non potesse vederla, la ragazza inarcò un sopracciglio.
   «Stai mettendo in dubbio la mia capacità di fare le coccole?»
   «Non oserei mai» replicò Vittorio. «Solo che prima avevo addosso una gatta, mentre adesso...»
   «Mentre adesso?» lo incalzò Vera.
   Il carabiniere si staccò da lei quel tanto che bastava per guardarla negli occhi.
   «Be', più che un gatto, tu mi ricordi una tigre dai denti a sciabola» dichiarò.
   La ragazza sorrise di nuovo e scosse la testa. «Che ci esci a fare con me, se sono una bestia feroce?»
   «Amo il pericolo» sogghignò Vittorio in risposta.
   Rapidissima, Vera girò la testa e morse il braccio di Vittorio; lui gemette di dolore.
   «Non mi mordere!» si lagnò. «Sono delicato io, cosa credi?»
   «Non eri tu quello che due secondi fa amava il pericolo?» ridacchiò Vera. «Stai abbracciando una tigre: dovevi aspettarti qualcosa del genere. E comunque tu sarai delicato il giorno in cui io mi metterò alla guida ubriaca».
   «Tu non ti metterai mai alla guida ubriaca» replicò all'istante Vittorio.
   Stavolta fu Vera a sogghignare. «Appunto».
   L'uomo la strinse di nuovo tra le braccia e per buona misura avvolse una delle proprie gambe intorno a quelle di lei prima di chiudere gli occhi.
   «Shhht: smettila di ruggire» mugugnò.
   Vera lanciò uno sguardo all'orologio da polso. «Non dovevamo andare a cena e poi al cinema?». Vittorio bofonchiò qualcosa di incomprensibile e lei gli punzecchiò le costole con un dito. «Inutile grugnire: è un'idea tua» gli ricordò.
   «Tra dieci minuti mi alzo» borbottò il carabiniere.
   «Tra dieci minuti sarà tardi» replicò Vera.
   Vittorio aprì un occhio solo. «Otto?»
   «Cinque» rilanciò la ragazza.
   «Cinque e un bacio: è la mia ultima offerta» offrì Vittorio.
   «Che è un altro modo di dire dieci minuti» sbuffò Vera. L'uomo le scoccò uno sguardo ardente e lei sorrise suo malgrado. «Vorrà dire che faremo tardi» ridacchiò un istante prima che Vittorio le catturasse la bocca con la propria.
   
 
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