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Autore: LanceTheWolf    07/12/2018    3 recensioni
Un pianeta troppo lontano da casa e tanta voglia di allontanare, per un po’, le brutture della guerra.
[questa storia partecipa al "Calendario dell’Avvento 2018", by Fanwriter.it! ]
Genere: Guerra, Sentimentale, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
- Questa storia fa parte della serie 'Planet's War'
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★★ Calendario dell’Avvento 2018, by Fanwriter.it!
★ Data: 7 Dicembre
★ Rating/Avvertimenti: Fantascienza/Guerra – Verde – Nessun avvertimento
★ Note: Un pianeta troppo lontano da casa e tanta voglia di allontanare, per un po’, le brutture della guerra almeno il giorno di Natale. [Questa storia fa parte della serie Planet's War]
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Margherite Bianche


Noia, ecco cosa provava Ian, seduto davanti ai monitor della postazione assegnatagli esclusivamente per tenerlo alla larga mentre il resto della squadra si occupava dei preparativi per il Natale.

Sbuffò, lasciandosi scivolare sulla seduta e incrociando le braccia dietro alla nuca. Gli occhi erano stanchi della monotonia sequenziale delle immagini trasmesse, tanto da trovare più rilassante osservare il soffitto metallico della sala comandi della base.

Chissà perché avevano fatto tante storie per tenerlo lontano.
Aveva capito perfettamente il discorso di Pete su quanto fosse importante tenere alto il morare dei soldati, soprattutto dopo mesi tanto lontani da casa, e lui voleva solo essere d’aiuto, eppure… ok, “forse” era stato un pochino cinico, ma non era certo colpa sua se il pianeta sul quale stanziavano non conosceva il Natale, ne tanto meno l’inverno o la neve. Non era colpa sua se non c’erano abeti o che l’unica cosa rossa nella base sembrava essere il suo caccia. Era forse colpa sua se non c’era stoffa a sufficienza per fare uno stupido vestito da Babbo Natale o che non ci fosse una singola pallina decorativa per l’albero? Albero poi, già, “quale albero”? Per non parlare del cibo: le riserve terrestri erano finite da un po’ e non era sicuro che su Aron, ovvero quel pianeta, ci fosse qualcosa che potesse fare lontanamente al caso loro.
Uhm… Ok, forse dire che era stato “solo un pochino” cinico poteva dirsi restrittivo ed era stato antipatico da parte sua far notare quelle e tante altre cose ai suoi compagni, proprio mentre si stavano dando tanto da fare per rendere quel giorno speciale, ma da qui a trattarlo come se stesse mettendo del filo spinato intorno al collo delle renne di Babbo Natale era stato crudele da parte loro.

“Non sono il Grinch!” lamentò nella sua testa, ricordando le parole di Shein quando lo aveva spinto fuori dalla Hall degli ufficiali.

Tornò a guardare distrattamente il monitor: nulla di nuovo come era presumibile.
Avevano da poco stroncato un attacco da parte dell’Impero, era assurdo pensare che il nemico avesse già rimesso insieme le forze e pianificato una nuova sortita nell’arco di pochi giorni.

Un nuovo sospiro. Anche il soffitto cominciava ad annoiarlo.
Forse avrebbe dovuto ingoiare un po’ d’orgoglio e andare a dire ai ragazzi che stavano facendo un buon lavoro e non criticare il festone di bicchieri di carta fatto da Herk o le coccarde che Shein aveva ritagliato dal pluriball d’imballaggio rimediato in magazzino. Stavano facendo del loro meglio e lui lo sapeva.
Doveva dirglielo, già, era proprio questo quello che doveva fare, se voleva riparare.

Sorrise. Con uno scatto si portò in piedi. Un po’ troppo rapidamente forse, dato che il resto del personale lo guardò perplesso.

Era stanco di starsene seduto e le persone in quella stanza sapevano svolgere quel lavoro meglio di lui. Era ragionevolmente certo che tutti i presenti sapessero che la sua presenza in quel luogo altro non era che una sorta di punizione per aver parlato troppo e non, come detto da Pete, perché “un paio di occhi in più potevano far sempre comodo”.
Adorava quel venusiano, anche se non glielo avrebbe mai detto, ma i suoi tentativi ehm… “diplomatici”, a volte, facevano acqua da tutte le parti.

Istintivamente tornò a guardare il monitor olografico prima di voltarsi e andare. Qualcosa di diverso nel susseguirsi monotono delle riprese lo fece però ritornare sui suoi intenti.

“Una bambina?” chiese conferma alla sua mente, chinandosi ad osservare meglio l’immagine sullo schermo.
“E sì!” era davvero una bambina quella ritta e impettita davanti al Varco 3.
Una bambina testarda, da quello che vedeva, talmente testarda che le sentinelle di guardia avevano abbandonato il gabbiotto per intimarle di allontanarsi e che, per tutta risposta, si era lasciata cadere seduta in terra.

A Ian sfuggì un ghigno divertito. Prima di andare dai ragazzi avrebbe fatto meglio a vedere se servisse una mano a quei due poveri soldati che avevano avuto la sfortuna di avere a che fare con una marmocchia. Gli ordini erano chiari: non bisognava essere aggressivi con i nativi. Ma i bambini difficilmente erano creature ragionevoli e lui lo sapeva bene: in passato aveva conosciuto un paio di esempi decisamente pregevoli in tal ambito.

Non sapeva nemmeno perché quella faccenda lo divertisse tanto, ma lui era così: faceva o diceva sempre quello che gli passava per la testa, per questo gli unici a sopportarlo realmente erano i compagni del suo squadrone.
Era da un po’, però, che il Capitano aveva smesso di parlargli, se non per cose estremamente necessarie. Ian era certo che fosse ancora furioso per quella piccola insubordinazione avvenuta durante l’ultimo attacco.
Piccola… Beh, in fondo se Setha Randor aveva insabbiato il tutto, limitandosi semplicemente a non rivolgergli la parola, era perché sapeva benissimo che, al suo posto, si sarebbe comportato nello stesso, medesimo modo.
Unica differenza?
Setha era il Capitano, non poteva passarci sopra con tanta leggerezza e quel silenzio era la punizione che gli stava riservando e aveva colto nel segno, perché a Ian faceva male: lui e Setha erano stati messi in continuo paragone all’accademia e questo aveva inizialmente alterato il rispettivo giudizio dell’uno verso l’altro ma da quando erano stati assegnati alla stessa squadra, dopo le prime marette dovute all’assegnazione del titolo di Capitano, lentamente si erano avvicinati, erano diventati amici.
Non era stato difficile capire il perché di quei ripetuti paragoni una volta infilati nello stesso gruppo operativo: loro due non erano solamente i migliori in volo, avevano anche una linea di pensiero molto simile. Solo… Setha era riuscito a non essere cacciato via dalla Hall quella mattina, non era stato nominato “il Grinch” ed… era “terrestre”, cosa che Ian, al contrario, non poteva vantare.
No, per quanto ne volesse dire l’Alleanza Galattica, Terresti e “Tutto il resto” non erano valutati alla stessa maniera e lui faceva parte di “Tutto il resto”, chiaramente. Era nato su una colonia, come gli altri membri della squadra, a eccezione di Setha.

Quella sera sarebbe stata la Vigilia di Natale.
Natale… Proprio un bel Natale, senza il suo migliore amico a criticare le sue battutine acide.

 
***

Ian ci mise una decina di minuti per arrivare al Varco 3. Se l’era presa calma, era il Varco più vicino alla Sala Comandi e sicuramente Setha non avrebbe gradito se il comandante della base gli avesse sventolato un nuovo richiamo sotto il naso con sopra scritto il suo nome. No, la squadra… ehm… “lui”, ne aveva collezionati a sufficienza per una vita intera, meglio non esagerare.

Scavalcò senza problemi il muretto che divideva il deposito mezzi dal condotto al Varco 3. Non era sicuro che quella fosse un’infrazione alle regole della Base R-127 ma, tanto per non cadere nell’errore, aveva dato uno sguardo attorno prima di farlo e, ovviamente, si era ricordato che fosse una zona videosorvegliata solo dopo, quando l’occhio era scivolato sulle telecamere all’ingresso.
E dire che aveva passato le ultime due ore della sua vita proprio a sbirciare da quelle stesse apparecchiature. Per la miseria, quanto poteva essere idiota a volte?
Fortuna che Shein era un mago dei Sistemi e sicuramente sarebbe riuscito a tirarlo fuori da quell’impiccio, prima che qualcuno se ne accorgesse. Beh, con la giusta motivazione chiaramente e, se Ian non ricordava male, il loro sistemista era da un po’ che occhieggiava la biondina del reparto ingegneria. Uno schianto di ragazza in effetti, ma meglio sacrificare una conquista, piuttosto che sentire la voce bassa di Setha rimarcare ogni singolo momento in cui avrebbe preferito essere prigioniero dell’Impero pur di non essere costretto a lavorare con lui. Melodrammatico come tutti i terrestri!

Ma… Eccola lì, la bambina del monitor. Dal vivo sembrava ancora più minuta, quanto poteva avere?
Tra gli otto e i dieci anni, probabilmente, o… forse no, forse era più grande, riflette Ian nell’avvicinarsi, incupendosi.
Era estremamente magra e questo poteva sfalsare la sua stima, ma non poteva affermarlo con esattezza; era Herk il biologo, medico e “una marea infinita di qualifiche che avrebbero sbalordito un premio nobel” del gruppo, mentre lui era solo un pilota con qualche specializzazione che avrebbe impressionato solo per pacifisti convinti che fermando l’utilizzo delle armi avrebbero fermato anche quella guerra. Uhm… ok, era un cinico, su questo i suoi compagni avevano ragione, ma…Per favore! Come pensi di fermare un imperiale grosso il doppio di te e armato dalla testa ai piedi senza armi? Quante firme bisogna raccogliere per diminuirgli corporatura e sete di sangue? Ma daiii!”.

“Non me ne vado!” La sciocca ironia di Ian venne accantonata non appena si fu avvicinato abbastanza da sentire le proteste della bambina.
Quella mocciosetta se ne stava ancora lì, seduta in terra, davanti al gabbiotto di guardia e poco distante dallo sbarramento del Varco 3. Teneva stretta al petto una vecchia teiera riadattata a vaso, con quello che sembrava un nastro per capelli legato al beccuccio a mo’ di fiocco. Fili d’erba e alcuni fiorellini bianchi, che si sarebbero potuti contare sulle dita di una mano, si affacciavano dalla stretta apertura di quel bricco.

“Che succede qui?” chiese a piena voce appena si trovò alle spalle delle sentinelle che sembravano non sapere minimamente come riuscire a staccare la giovanissima civile dall’asfalto.
Gli occhi della bambina si puntarono sorpresi nei suoi mentre i due soldati scattarono, voltandosi e mettendosi sull’attenti.
“Signore!” dichiararono all’unisono quei due ragazzini freschi d’addestramento.
Nel vedere l’atteggiamento delle sentinelle di guardia al varco, la bimba si sollevò da terra intenta a fissarlo con due enormi occhi castani.
“Signore, questa civile non vuole allontanarsi dal perimetro della base”, informò quello tra i due soldati che sopraintendeva al blocco.
“Signore?” chiese la bambina prima ancora che lui potesse aggiungere altro al dire dei sottoposti.

Quella cosetta aveva una voce sottile e acuta. Ian le sorrise avvicinandosi di qualche passo per poi chinarsi verso di lei sotto lo sguardo esterrefatto dei due soldati.
“Riposo”, dichiarò distrattamente, più attento al musetto curioso che si trovava davanti che al resto, rendendo sufficientemente più rilassati i due ragazzi di guardia.
“Sì. Signore. È uno degli appellativi con il quale mi chiamano da queste parti”, spiegò lui divertito.
“Uhm… non sembri tanto vecchio”, ribadirono quegli occhioni scuri.
“L’apparenza inganna”, ironizzò lui, “e tu, invece? Come ti chiami?”
“Ceti”, dichiarò decisa.
“Piacere di conoscerti, Ceti.”

Ian adorava i ragazzini, non che questo si dovesse necessariamente sapere in giro, ovvio.
Prima che la guerra gliela portasse via, aveva avuto una famiglia; una moglie e due splendidi monelli. Poi… poi era arrivata la lettera che richiamava i veterani della Prima Guerra, il richiamo forzato alle armi per qualunque militare appartenesse alle colonie.
“Veterani…” avrebbe sorriso amaramente a quel pensiero se non si fosse trovato davanti quella nanerottola tutta testa e troppo attenta ad ogni suo movimento. Ventisette anni, una guerra sulle spalle, due con quella che stava combattendo. Eppure… sembrava una vita fa, era una vita fa.
Ricordava quando era arrivata la notizia dell’attacco alla colonia di Gamper, il pianeta sul quale era nato, il pianeta sul quale si trovava la sua famiglia. Gli imperiali non si erano limitati a radere tutto al suolo, no, Gamper era stato un nodo di rifornimenti importante durante la Prima Guerra e avevano risolto il problema alla radice, rendendolo inadatto alla vita sotto ogni sua forma e distruggendo ogni nave in allontanamento dal pianeta. Poco importava che fossero mezzi civili o meno, almeno questo gli era stato riferito.
Era un Gamperiano, ma non gli venne mai permesso di tornare su Gamper, tantomeno vederlo da lontano, per gettare uno stupido mazzo di fiori nello spazio in onore delle persone che aveva amato, che amava ancora. Nulla di tutto questo, perché… “questi erano gli ordini” e questo, solo questo, gli era stato ripetuto ogni singola volta che aveva provato a chiedere.

“Uhm…” mugugnò quella piccoletta come valutando la cosa. Indossava un vestitino bianco, consumato, enorme per lei, ma pulito.
Pulito, una stranezza che Ian aveva notato subito: la Base R-127 si ergeva accanto a un piccolo agglomerato urbano estremamente povero, quel poco che rimaneva dei resti di quella che era stata una grande città, prima che gli imperiali decidessero che quella colonia di confine potesse risultare un pericolo per loro e attaccasse uno dopo l’altro i maggiori centri d’interesse del pianeta.
“Sei un terrestre?” chiese Ceti dopo un attimo di riflessione.
“Ti sembro un terrestre?” giocò lui.
“Sì”, rispose la bambina.
“Sbagliato, signorina. Sono delle colonie, proprio come te”, l’informò sorridendole gentile.
“Bugiardo!” accusò lei, mettendo su un broncio. “Hai gli occhi azzurri. Non esistono colonie con persone dagli occhi azzurri. Me lo ha detto mio fratello, lui ha studiato e queste cose le sa”, disse ancora e… non sbagliava.
Il sorriso di Ian si fece ancora più dolce. “Non esistono più, è vero”, asserì, “ma ti posso assicurare sul mio onore di alleato che sono un colono” e, nel dichiararlo, si portò una mano al petto, assumendo un giocoso atteggiamento solenne, prima di tornare a piegarsi sulle ginocchia e riprendere: “Senza contare che non sono esattamente azzurri, li hai visti bene?”.
Fece cenno alla piccola di avvicinarsi per osservare meglio. La meraviglia che Ian le vide spuntare sul visetto e che le spalancò la bocca voleva solo dire che la sciocca abilità della sua specie di mutare a piacimento le tinte del proprio corpo doveva aver fatto effetto. Un battito delle palpebre e le sue iridi erano cambiate dall’azzurro al dorato, per poi tornare al colore originario.

“Sei un mutante!” esordì Ceti entusiasta.
Essere un mutante non voleva dire essere un personaggio dei fumetti, ma solo di rientrare in una delle tante bizzarrie a cui i più non erano riusciti a dare un nome migliore e che si manifestavano, di tanto in tanto, tra i nati nelle colonie, fino a renderli, in un qual modo, una specie a sé stante.
La mutazione più comune?
Occhi e capelli dello stesso colore, mai che capitasse il senso di ragno, quello sì che avrebbe fatto comodo a più di un soldato e… la super forza, non dimentichiamoci la super forza, ovvio!

L’occhiolino che Ian dedicò in risposta alla piccola fu sufficiente a farle riguadagnare il sorriso.
“Te l’avevo detto che sono un colono. Ahhh, le ragazze!” scherzò lui. “Più sono carine, più sono testarde.”
Vedere quella bambina ridacchiare alla sua stupida battuta gli riempì il cuore di una tenerezza che non provava da tempo, al punto da non badare ai due soldati che osservavano stupiti quel suo atteggiamento tanto inusuale.
“Mi sei simpatico. Conosci la Super Force?” chiese poi la piccola a brucia pelo.
Ancora Ian si trovò ad annuire. Quello era il nome con cui su quel pianeta chiamavano il loro squadrone. Per un po’ avevano cercato di spiegare che il loro nome in codice fosse in realtà “Diavoli”, alla fine però si erano arresi a quell’appellativo e come “Super Force” avevano finito col definirsi anche loro stessi.
“L’avevo immaginato sai? Hai le Ali sulla divisa”, aggiunse la bambina, indicando il fregio ricamato in oro sul suo petto, che voleva dire tutt’altro, ma… era davvero importante?
“Puoi farmi un favore?” disse ancora la piccola, allungando quella specie di vaso fino a piazzarglielo sotto il naso. “Puoi portarlo al pilota che si è fatto male?”
Per un secondo Ian si sentì spaesato: a chi si riferiva quella piccina?
“Sai, io ero lì quando è successo. Ero dentro al palazzo che ha difeso facendo da scudo con il suo caccia ai colpi nemici”, alle parole della bimba la cosa per Ian cominciò a farsi, attimo dopo attimo, più chiara. “Non è stato facile volare così basso e intercettare quei colpi prima che arrivassero a segno. Ha fatto così: Whuhuuum!”, spiegò aggiungendo alle parole il gesto di una manina che sfrecciava rapida davanti alla vecchia teiera tenuta nuovamente stretta al petto con la mano libera, pur di dare il massimo in quella delucidazione. “E il suo caccia ha perso quota, così si dice, sai? Fino a colpire il suolo con la pancia e incastrarsi nelle macerie deserte degli edifici a sud. Io lo so, perché me l’ha detto mio fratello che queste cose le sa.”
Ian sorrise. “Tuo fratello sa molte cose.”
“Sì, lui è un ingegnere. È grazie a lui se abbiamo la corrente. Siamo tutti lì in quel palazzo, sai? Tutti quelli rimasti. È così che il pilota del caccia rosso ha capito che c’eravamo noi nel palazzo, perché c’era l’elettricità”.
Ed era vero, diamine se era vero!

Ian dovette rimanere in silenzio qualche istante di troppo, dato che la bimba tornò a parargli davanti al volto quel vaso pieno di terra e quattro fiorellini.
“Quindi puoi farlo?” chiese ancora lei. “Questi due sono cattivi e non mi vogliono far passare”, terminò guardando biecamente le sentinelle del Varco 3.
Ian scosse il capo come appena destato da un pensiero troppo assurdo per essere reale, per poi sorridere alla bambina. “Certo, che posso, ma… cos’è?” chiese a sua volta, raccogliendo quel vecchio coccio dalle mani della piccola.

“Grande!” esultò Ceti, facendo un saltino sul posto appena il pesante oggetto passò all’uomo che aveva difronte, per poi rispondere: “Sono rakonai.”
“Rakonai?” chiese Ian. Sapeva cosa fossero i rakonai, ma cosa c’entravano con… tutta quella storia?
“Sono fiori davvero speciali, sai? La mia mamma ha detto che nascono ovunque nell’universo. Ovunque!” specificò allargando le braccia come a voler cingere qualcosa di immenso. “Quindi ho pensato che gli avrebbero fatto piacere. Dicono… in città dicono che i piloti della Super Force sono tanto lontani da casa. La mia casa è stata distrutta e mi manca tanto, ma ho ancora la mia mamma e mio fratello. Ho pensato però che quel pilota, qui, non ha neanche quello che è rimasto a me, eppure ci difende e questa non è casa sua. Deve sentirsi molto solo, così ho pensato di regalargli qualcosa che gli ricordi casa.”

Ian rimase in silenzio ancora per qualche secondo, deprivato del coraggio di commentare quelle parole, prima di sorridere alla bimba.
“Puoi guardarli anche tu, se ti fa piacere, anche tu ci aiuti, come anche questi due cattivoni che mi volevano cacciare via.”
“Fanno solo il loro dovere, Ceti”, disse con voce gentile.
“Lo so, ma vedi, non è stato facile trovarli. I bombardamenti hanno distrutto quasi tutto, anche i fiorellini piccoli come i rakonai. Ma io li ho cercati tanto e li ho trovati. Sono piccoli ma forti, dice la mamma, proprio come chi ci difende: sono rimasti in pochi ma hanno coraggio e forza da vendere. Per questo sono andata al fiume e ho lavato il mio vestito più bello, la mamma non può più fare certe cose perché non ha più le mani, ma mi ha spiegato come fare. Ho pensato che se fossi stata carina, se avessi chiesto e pregato tanto le guardie all’ingresso di lasciarmi vedere il pilota ferito sarei riuscita a portargli questi fiorellini, ma se glieli porti tu a me sta bene uguale. Basta che gli dici che glieli manda Ceti, del palazzo con la luce. Sono sicura che lui capirà.”
“Non ne dubito.”
E alle parole di Ian la bambina sorrise come non aveva fatto ancora fino a quel momento.
“Perfetto! Io allora vado, ciaooo!” dichiarò lei a quel punto, prima di lanciarsi in una corsa. Una corsa che il pilota dagli occhi azzurri non riuscì a scorgere nella fretta di voltarsi e tornare sui suoi passi, troppo commosso e troppo timoroso di mostrarsi davanti a quei due soldati diverso dall’immagine dell’uomo che si era faticosamente cucito addosso.

Ceti, come colta da una rivelazione improvvisa, si fermò, voltandosi appena in tempo per vedere l’ufficiale addentrarsi nella base. Qualche passo la portò nuovamente accanto ai due soldati che finalmente riprendevano posto all’interno del gabbiotto e si appese alla pensilina di controllo per richiamarne l’attenzione.
“Non vorrai rimetterti a urlare, vero?” esordì uno dei militari alla vista della piccola che sbirciava dalla finestrella blindata del loro posto di guardia.
La bambina dissentì col capo, ottenendo un sospiro di sollievo dal più esasperato dei due ragazzi.
“Volevo solo sapere come si chiamava quel signore, ho dimenticato di chiederglielo.”
Senza rifletterci troppo sopra, il soldato rispose: “Ian O’connor, il pilota del caccia rosso. Sei stata fortunata che abbia deciso di parlarti, di solito è schivo e poco socievole.”
“Non si può però dire che sia un tipo delicato. È uscito quasi indenne dall’ultimo attacco. Non so se sia più resistente lui o il suo caccia. Sapevo che la Super Force utilizzasse modelli sperimentali, ma non avrei mai creduto che lo scudo energetico del Diavolo Rosso potesse riportare danni tanto minimi dopo uno scontro del genere”, aggiunse l’altro militare.
“Ian O’connor”, ripeté Ceti, come ad assaporare quel nome lettera dopo lettera.

 
***

“Ehi, Grinch!” chiamò Setha entrando nella sala comandi della base. “Alla fine non sei stato un completo disastro.”
“Capitano”, rispose Ian al saluto, ruotando la poltroncina e alzandosi per accostarsi a lui e riprendere con tono arrogante: “Despacito? Parliamone, Capitano. State davvero cantando canzoni da spiaggia a Natale?”
“Beh, è orecchiabile, ai nativi piace e l’importante è essere riusciti a rubare a questa cazzo di guerra un attimo di serenità, non pensi?”
A quella risposta Setha vide il pilota davanti a lui sorridere.
“Poi non ci vedo nulla di male, è solo una vecchia canzone in una vecchia lingua dimenticata”, aggiunse, sorridendo a sua volta, “e sono abbastanza sicuro che non dica nulla di troppo terrificante.”

A Setha non dispiaceva la persona che si trovava davanti. Quel gigante biondo non era tanto male quando non puntava il dito sulle sue origini terrestri, anzi, non era male neanche quando lo faceva. Era normale che i coloni non vedessero di buon occhio i terrestri, dopo la Prima Guerra che aveva visto le colonie non ottenere l’autonomia che desideravano a vantaggio del vecchio pianeta; ma Ian non risultava mai davvero cattivo. Fastidioso, questo sì, ma non aveva mai mirato a ferire e ormai conosceva meglio di lui gli scheletri nel suo armadio per fargli male davvero, se solo avesse voluto. E invece no, per quanto si atteggiasse a stronzo, la verità era che sapeva ben discernere la persona dall’etichetta.
Setha Randor era arrivato a essere il Capitano dei Diavoli grazie al duro lavoro, non certo perché, come diceva più d’uno, fosse un terrestre.

“E queste?” chiese Setha accostandosi alla console di controllo.
Ian diede uno sguardo al vaso di Rakonai accanto alla sua postazione. Poco importava se alla fine era rimasto nel Gruppo di Controllo mentre la gran parte del personale della base era sceso a festeggiare, lui aveva già avuto il suo regalo ed era il più bello di tutti.
Abbassò lo sguardo divertito, non gli sarebbe dispiaciuto affatto parlare a Setha di come aveva ottenuto quei fiori.
“Margherite?” disse ancora l’uomo davanti a lui. “Non ne vedo da una vita.”
“Marghe-cosa? Sono Rakonai, non lo vedi?”
L’espressione apparsa sul volto di Setha diceva chiaramente che “no, non lo vedeva” o forse, come succedeva anche troppo spesso, tra terrestri e coloni, parlavano della stessa cosa ma non si capivano.

Quindi… è finito lo sciopero del silenzio?” chiese Ian con una nota di speranza nella voce.
Setha sorrise. “Cazzo sì, è Natale! E poi non c’era nessuno sciopero, Ian, ero solo incazzato. Sai, a volte succede.”
“Già”, si limitò a commentare, sapendo perfettamente d’essere il motivo di quell’arrabbiatura, tirando intimamente un sospiro di sollievo. Erano stati pochi giorni, ma diamine quanto gli erano pesati!

“Invece di controllare lo spazio aereo ci stavi spiando dai monitor, a quanto pare”, constatò il Capitano, fissando i suoi occhi neri sullo schermo olografico.
“Facevo l’uno e l’altro, non c’è molto con cui svagarsi qui, come vedi, sono solo”, gli fece notare Ian, scorrendo con una mano quasi ad accarezzare ideologicamente il resto dei sedili di quella sala, rigorosamente vuoti.
Setha si sentì scioccamente dispiaciuto a quel gesto, mentre… “Quell’uomo è in grado di mettere in una frase talmente tante parole andate in disuso da far impallidire un esorcista, ma puoi convincerlo, ne sono certo. È un terrestre, proprio come te”, gli tornarono alla mente le parole che il pilota del caccia rosso aveva detto solo qualche ora prima. Parlava di Conrad, “L’Irlandese”, come amava definirlo lui, il comandante di quella base. Ian era spuntato di punto in bianco nella sua camera e aveva cominciato con lo sciorinare parole su parole, dando un sonoro calcio al suo orgoglio, cominciando dal chiedergli scusa e finendo con un “mi dispiace darti questo peso, ma i ragazzi a te danno retta, io non otterrei nulla”.
Accidenti se gli era dispiaciuto vedere l’amico così: doveva tenerci davvero molto a festeggiare con quella piccola comunità di Aroniani per arrivare ad abbassare il capo.
Setha aveva lasciato che finisse quel discorso, prima di rispondere semplicemente con un “ok” atono e per nulla incoraggiante che Ian era sembrato farsi bastare comunque.
Gli aveva chiesto di proporre al comandante della R-127 di ricercare un po’ di spirito natalizio, di ricordargli quanto fosse vero che da mesi non ricevevano approvvigionamenti e altro, ma che non mancava molto all’arrivo dei prossimi rifornimenti, mentre quelle duecento anime tra le macerie avevano a malapena gli occhi per piangere. E alla fine Setha lo aveva fatto: aveva accontentato il suo amico e aveva convinto L’Irlandese, anche se non proprio ad aprire le porte della base, almeno a dividere quel poco che avevano con i sopravvissuti della zona, perché era Natale infondo e, miracolosamente, questi aveva accettato. Aveva accettato e senza mettere su troppe storie, così si erano messi all’opera: avevano preso un po’ di tutto, coperte, cibo, medicinali. Chitarre, speranze e tanta, troppa fantasia visto il loro improvvisato Albero di Natale, ed erano andati in città. I civili ci avevano messo un po’ ad avvicinarsi, titubanti e dubbiosi per quello che stava accadendo, ma infine l’avevano fatto ed erano cominciati i festeggiamenti e i racconti su quella antica festa terrestre di cui si erano persi i motivi della celebrazione, ma che rimaneva comunque un evento di fratellanza e di pace.
La base, però, non poteva rimanere sguarnita, sarebbe stato assurdo. Come gli era stato suggerito da Ian, Setha aveva fatto presente al Comandante che la grandezza del Natale era nel festeggiare a cavallo di due giorni, la vigilia e il Natale vero e proprio. Chi non avesse potuto partecipare al primo giorno di festa si sarebbe rifatto il giorno successivo. Così avevano diviso in due gruppi il personale e Ian si era proposto per restare di turno alla base entrambi i giorni, dicendo che il Natale non faceva per lui e che lo lasciava volentieri a chi aveva un cuore più tollerante di quanto fosse il suo.
Idiota!
Come poteva continuare ad avercela con lui?
Era uno stronzo, ma uno stronzo cosciente di parlare troppo spesso a sproposito, non che questa consapevolezza lo fermasse, per carità, ma… questa volta aveva Ian deciso che il Grinch, non avrebbe rovinato il Natale con le sue pessime battute, il suo cinismo e la sua satira fuori luogo.

Setha si poggiò di schiena contro la console e sollevò il termos che aveva portato con sé pieno di quello che L’Irlandese dichiarava essere il miglior eggnog dell’universo.
“Gentilmente offerto dal Comandante”, dichiarò con tono divertito, mentre stappava il recipiente e ne versava buona parte del contenuto nel tappo apposito che fungeva anche da tazza, appoggiandolo accanto alla postazione di controllo del suo Secondo. Si infilò poi una mano in tasca per estrarne un pacchettino incartato alla buona e infiocchettato con un ritaglio di stoffa. “Prima però… tieni”, disse ancora, porgendoglielo.
“Cos’è?” chiese Ian.
“Ha un fiocco. Se ha un fiocco è un regalo, logico.”
“Ah, questo sarebbe un fiocco! Oook, se lo dici tu, deve esserlo”, commentò sarcastico.
Setha sorrise divertito. “Aprilo Cretino, non fare tante storie”, l’esortò lui.
Ian obbedì senza aggiungere altro, rivelando… “Una chiavetta del distributore. Forte”, constatò senza mostrare alcun entusiasmo.
“La mia chiavetta del distributore”, specificò Setha. “Ho sentito dire che avevi perso la tua e… sei odioso quando non ti inietti in vena la tua dose di caffeina quotidiana.”
“E tu?” domandò il suo amico, mostrando finalmente una meraviglia autentica a quel gesto.
“L’avrò usata una volta in sei mesi”, minimizzò.
Ian rimase un secondo in silenzio. Non c’era praticamente nulla in quell’avamposto e se perdevi qualcosa dovevi entrare nell’ottica che ti saresti dovuto arrangiare senza.
“Mi dispiace Capitano, io non ho nulla da darti.”
“Non importa, non l’ho fatto per avere qualcosa in cambio. Anche se…”
“Se?”
“Vuoi davvero farmi un regalo per Natale?”
Ian annuì alla domanda.
“Ottimo”, l’accontentò a quel punto il Diavolo Nero, “allora smettila una buona volta di rischiare la pelle e le attrezzature. Le seconde si riparano, ma la prima…”
“Uhm… per sempre?” domandò l’altro, mostrando una bella crepa nella sua armatura.
“Sei mesi”, si sbrigò a concordare il moro, prima che Ian potesse ritrattare.
“Sei mesi?”
“Uno?”
“Uno. Ci sto!” convenne, annuendo.
“Bene, allora tanti auguri Ian.”
“Tanti auguri a te, Capitano.”
E… brindarono a quel Natale con il peggior eggnog della storia, ma andava bene così.

 
***

Aron era una delle colonie più vecchie di quel settore, e talmente distante dalla Terra che era un miracolo che parlassero ancora la loro stessa lingua, non si poteva sperare che conoscessero anche il Natale, ma fu bello suonare e ballare insieme canzoni che, probabilmente, raccontavano storie che anche l’ultimo terrestre tra loro aveva dimenticato.
Avevano avuto addirittura il loro albero: poco importava che non fosse altro che un insieme di scopettoni rimediati negli sgabuzzini della base, montati a mestiere da Pete e decorati con un po’ tutto quello che avevano trovato che potesse fare allegria, dalle tazzine di porcellana dell’Irlandese, ricordo della Zia Bezzi, alle lattine delle provviste a lungo termine. Qualcuno aveva anche sacrificato qualche camicia colorata, fatta a strisce per l’occasione. Alla fine, era bello: alto, colorato e luminoso come ogni Albero di Natale che si rispetti e… andava bene, perché, a modo loro, in un modo del tutto assurdo, il Natale era comunque arrivato anche lì, ed era stato un Natale magico.


 
Fine

 


Angolino dell’autrice: Eccoci qui! Volevo tanto scrivere una storia per Natale, ma per una serie di assurdi eventi non riuscivo a entrare nello spirito delle feste. Poi, di punto in bianco, sono passata dal non avere nessuna idea ad averne troppe e non sapere comunque quale di queste seguire. Risultato: ho cominciato ben tre storie e terminata una, quando tre giorni fa mi sono trovata in mano un quadernino di quando ero una ragazzina. 17 anni e tanta voglia di mettere su carta ogni cosa che mi passava per la testa.
È stato un secondo, al massimo due, e ho accantonato ogni cosa fatta fino a quel momento per ridare vita a questi vecchissimi personaggi, frutto del tempo passato a vedere serie di fantascienza, i primi film di Star Wars, e cartoni come Macross, Southern Cross, Mospeada, il gundam di Amuro Ray e le varie serie di robottoni che ci propinavano in quegli anni. Probabilmente questa storia piacerà solo a me, ma è stato un tuffo nel passato e sarebbe bello se qualcuno che passasse di qui provasse lo stesso, perché va a pizzicare un po’ da tutto quello sul genere che ci propinava la TV in quel periodo.
Che dire quindi?
Anche se con un po’ d’anticipo: Buon Natale!
 


Qualche nota importante per capire il testo: purtroppo il mondo che avevo creato era molto vasto e alcune cose possono essere risultare poco chiare, quindi…
  • I nomi delle squadriglie vengono dati sovente per impressionare il nemico, per questo tra i più comuni troviamo nomi come Skulls, Devils, Hunters, Crazy Dogs e sarebbe stato assurdo cambiare il nome originale della squadra per trovarne uno più adatto alle festività, quindi ho lasciato quello dell’epoca.
  • Ceti parla in maniera strana per mia scelta. Spero si intuisca dalla narrazione che il suo usare orgogliosamente termini tecnici, altalenando termini più fanciulleschi, sia il risultato di quello che sente e che riadatta alle sue necessità.
  • La Prima Guerra è stata combattuta tra la Terra (con le colonie a questa rimaste fedeli) e le colonie che chiedevano l’indipendenza dal pianeta “madre”. Solo cinque anni dopo, L’Impero (formato per lo più dall’altra specie intelligente dominante di questo mio universo, Colonie ancora ostili alla Terra e ibridi delle due specie) ha dichiarato guerra all’Alleanza Galattica (Terra, Colonie e pianeti alleati) nel tentativo di “banchettare” sulle forse già debilitate dalla Guerra appena passata.
  • I terresti non sono visti bene da diversi coloni e diversi coloni non sono visti bene dai terrestri. La Prima Guerra è avvenuta troppo recentemente per poter pensare che siano stati seppelliti tutti i rancori (questo riguarda anche la piccola Ceti che non è immune come bambina a chiacchiere e pregiudizi che ascolta quotidianamente).
  • La sorte di Gamper. Non è permesso ai Gamperiani di tornare sul loro pianeta d’origine perché questo non esiste più. L’impero ha usato un arma in grado di annientare completamente un pianeta, un arma che richiede un enorme dispendio di energia e di conseguenza un lunghissimo periodo per poter tornare efficiente, questo però gli alleati non lo sanno e hanno preferito insabbiare e confondere la questione “Gamper” onde evitare reazioni brusche e isteria di massa da parte dei civili e dei soldati. Ian e molti come lui sono rimasti nell’esercito, malgrado gli venga negato anche solo di avvicinarsi allo spazio planetario di Gamper, perché non hanno nessun altro posto dove andare.
  • Venusiani. Non hanno nulla da spartire con Venere tranne Venus, il nome dell’astronave colonica che per prima approdò su un enorme pianeta simile alla terra e gli diede il nome: Venus. Venus è la prima colonia e il suo governo è stato il promotore della Prima Guerra. Malgrado questo, rimane uno snodo di scambi interplanetario di tale importanza dall’essere stato tramutarlo in pochi anni nel centro di maggior attività per le operazioni dell’Alleanza Galattica (un modo anche per tenerne a freno i sovversivi ancora presenti, benché le varie figure di rilevanza siano state sostituite da terrestri).
   
 
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