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Autore: Athelye    08/12/2018    0 recensioni
Una mattina come tutte le altre stava scivolando via, era un comunissimo venerdì mattina. L’inverno alle porte, e anche il Natale lo era, se si fermava un attimo a pensarci. Il 5 dicembre però gli sembrava ancora troppo lontano per pensare ai regali da fare e alle faccende da sbrigare.
[...]
John stava sinceramente iniziando a odiare la parola tempo. Sembrava che tutti, in qualche modo, gli dicessero che aveva tutto il tempo del mondo per fare quello che voleva.
Genere: Angst, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Lennon, Quasi tutti
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
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Quando si risvegliò, la luce aveva invaso la stanza, ma la piccola figura di suo figlio non si era mossa da dove l’aveva lasciata poche ore prima. Dormiva ancora profondamente. Quella visione ebbe un effetto calmante su di lui.
Guardò l’orologio, lesse la data. Il suo cuore fece una capriola. Aveva ancora poco meno di quarantotto ore. Forse. Perché, per quanto ne sapeva, sarebbe potuto morire l’8 mattina alle sei, come alle undici e cinquantanove di notte. Ripensando però a quello che aveva detto l’elegante signorina, era più plausibile la seconda.
Si alzò piano, cercando di non svegliare Sean. Andò in cucina e fece colazione da solo. La porta di camera sua e di Yoko era chiusa, quindi probabilmente lei ancora dormiva.
Cosa voleva fare adesso? Aveva chiamato sua zia, e le aveva promesso qualcosa che sapeva essere impossibile. Decise di chiamare più tardi anche Julian.
Aveva chiamato Paul, quindi forse avrebbe dovuto chiamare anche gli altri due suoi amici di una vita. Così fece, chiacchierando per un po’ con entrambi, discutendo del più e del meno con loro. George fu il più incoraggiante, anche se non sapeva esattamente cosa stesse tormentando il cuore di John.
Anche Ringo gli aveva infuso un po’ di allegria. Gli aveva fatto promettere che, se mai fosse riuscito a convincere gli altri due, John doveva rendersi disponibile all’istante per una ‘rifondazione’ dei Beatles. John aveva riso, ma aveva promesso.
Ormai era mezzogiorno. L’attesa era snervante. Chiamò di nuovo in Inghilterra per parlare con Julian. Incredibilmente, Cynthia glielo permise. Scambiò qualche parola anche con lei, parole da cui traspariva un certo affetto. Lei lo amava ancora, John lo sapeva, non aveva mai smesso nonostante lui l’avesse trattata come uno straccio vecchio.
Parlò con Julian, gli disse quello che aveva detto anche a sua zia, che sarebbe tornato, almeno per un po’. E Julian non gli sembrava dispiaciuto, ma John non ne era del tutto sicuro.
Dopo averlo salutato, si mise a osservare New York. Nella sua mente, prese vita una catena di pensieri.
Pensò in primis a Stuart. Chissà se l’avrebbe rivisto. Era l’unica nota positiva di quella storia del morire. Pensò a tutte le cose che avevano potuto fare insieme, e si sentì fortunato perché non erano poche. Si convinse che sì, l’avrebbe rivisto e avrebbe riso con lui di tutte le cazzate che aveva fatto dopo la sua morte.
Pensò che Paul ne sarebbe stato geloso. Paul era sempre stato geloso di Stuart, vivo o morto. Paul.
Scelse di cambiare pensieri, e tornò con la mente a sua zia. Si chiese se casa sua fosse ancora come l’aveva lasciata. Sicuramente era così, Mimi non aveva mai spostato un mobile in vent’anni. Gli mancava Mendips, il nome che lui e Paul avevano dato a casa di Mimi. Che nome idiota, a ripensarci. Non ricordava se l’idea era stata sua o del suo migliore amico. Paul.
Per un qualche strano motivo, anche i suoi neuroni dovevano avercela con lui, perché a prescindere da quale oggetto, ricordo o dialogo partisse a pensare, loro lo facevano finire a pensare a Paul.
“Pensi a domani?” Chiese una voce femminile alle sue spalle.
John trasalì. Girandosi, vide che era solo Yoko. “Perché a domani?”
“Per il servizio fotografico e l’intervista. Ricordi?”
L’uomo sbatté qualche volta gli occhi, poi parve ricordarsi delle cose che la donna aveva appena elencato.
“Ah, sì. Sì, sto pensando a domani.” Sarà un ultimo giorno impegnativo, pensò. “Comunque, non preparare il pranzo anche per me oggi. Starò fuori per un po’.”
Yoko lo guardò perplessa, iniziando a intrecciarsi velocemente i capelli. “D’accordo. Dove vai?”
“A fare due passi, ho diverse idee per la testa e voglio ragionarci un po’.” Cercò di mascherare la preoccupazione con un gran sorriso.
Lei annuì, comprensiva e contenta per l’entusiasmo del marito. Anche la settimana prima le era sembrato molto emozionato all’idea di ricominciare a lavorare intensamente. “Allora ci vediamo quando rientri. Ora vado a fare una doccia. Sveglia Sean prima di andare.”
John seguì con gli occhi la sua figura sottile finché non sparì oltre la porta del bagno. Quando sentì avviare l’acqua, si avvicinò di nuovo al telefono e compose uno dei pochissimi numeri che sapeva a memoria.
Ora sapeva cos’era l’ultima cosa di cui aveva bisogno.
. . .
. . .
Pronto?
“Sì, lo sono.”
. . .” John percepì un lieve sbuffare dall’altro capo del telefono. “Che battuta del cazzo.
Risero entrambi, più per agitazione probabilmente. Il maggiore iniziò ad arrotolare il filo del telefono con le dita. “Paul..”
Dimmi.”
John prese un bel respiro profondo. Sentiva il cuore battergli in gola. “Ti andrebbe di rivederci, oggi?”
 
* * *

John era già dove Paul gli aveva detto di farsi trovare. Aveva scelto il minore, dopo una serie interminabile di capricci. Gli anni erano passati, ma lui non si smentiva: rimaneva il solito maniaco del controllo.
Era seduto in un bar lontano dalla zona più affollata della città, il che era un’impresa trattandosi di New York, ma Paul era riuscito a trovare un posto isolato.
John aveva capito subito perché il minore aveva scelto quel bar: oltre ad esserci effettivamente poca gente all’interno, c’erano anche tanti tavoli con separé dove avrebbero potuto parlare indisturbati.
Lui aveva già preso posto, e ora aspettava l’arrivo dell'altro.
Controllò l’orologio con ansia. Sentiva ogni secondo trafiggerlo come un coltello, dritto al cuore. Un martellare continuo al cervello. A questo punto non sapeva più se sperare di ritardare il più possibile quel momento, quello del suo ultimo respiro, o sperare che arrivasse subito per mettere fine all’ansia che lo divorava.
Mentre era assorto in questi suoi pensieri, davanti a lui si sedette una figura tutta intabarrata. Una volta tolti gli enormi occhiali da sole, i tre giri di sciarpa e il cappello, Paul prese un lungo respiro. “Dio, non respiravo più sotto tutta quella roba.”
John rise di gusto. Arrivò un cameriere a prendere le loro ordinazioni. Presero entrambi un semplice caffè, dopotutto erano appena le undici.
“Allora, quale altra cosa totalmente delirante volevi dirmi?” Chiese il moro, quando ebbe davanti la tazzina.
“Paul..” John prese un bel respiro. Non si sentiva affatto pronto a ciò che stava per dire. “So che fra noi non è più come una volta, sono passati anni, e come hai detto tu stesso, sono stati anni in cui ci siamo detti e fatti tante cose, tanti ‘dispetti’. Si dice che chi muore tace, e io non voglio tacere finché ne ho possibilità.”
“John..”
“Lasciami parlare, per favore. Ho letteralmente i secondi contati.” Sorrise nervoso, e lo stesso fece Paul.
“Nonostante questi anni, io ieri l’altro ti ho chiamato, ti ho chiesto aiuto, e tu sei corso da me. Oltre a un grazie enorme, che mi rendo conto essere una sola parola scritta al massimo in maiuscolo a fronte di un gesto molto più significativo, non saprei come fare per dimostrarti quanto questo sia stato importante per me.”
Paul fece di nuovo per parlare, ma John lo fermò con un gesto.
“Ho poco più di ventiquattr’ore, e domani non potrò fare ciò che voglio.” Disse, mentre una morsa lo afferrava alla bocca dello stomaco. “Tre giorni sarebbero stati comunque troppo pochi per ricucire uno strappo così grande come quello che c’è fra noi, però poche ore sono meglio di niente. Non pretendo che tu faccia finta di nulla, che non sia successo nulla. Ma queste ultime ore vorrei passarle con la persona più importante della mia vita, l’unica che sia mai stata in grado di darle un senso.”
Mentre parlava, John non staccava gli occhi da quelli verdi del minore. Quasi gli sembrava di non sbattere neanche le palpebre.
“Ti prego, se è chiedere troppo, dimmelo subito. Perché mi rendo conto che quello che ti sto chiedendo è assurdo. Tutta questa situazione lo è.”
Paul ascoltò tutto, giocando nervosamente con la tazzina. Abbozzò un sorriso. “Ora mi spieghi, dopo tutto quello che hai appena detto, come faccio a dirti di no?”
Il maggiore si rilassò un po’ a quella risposta.
“Mi hai sempre sconvolto i piani, Lennon. Anche ora. Ho sempre pensato che sarei morto prima io.” Ridacchiò, mentre anche la tensione fra i due sembrava allentare la presa.
“Scusa..” Si sorrisero.
“Hai ragione, comunque. Non hai decisamente tempo per risanare tutto. Ma si farà quel che si può, dai.” Aggiunse, continuando a sorridergli. “Da cosa vuoi iniziare?”
John osservò l’altro che si metteva comodo e gli restituiva lo sguardo, appoggiando la guancia al palmo della mano mentre girava il proprio caffè.
“Con delle scuse, più che dovute.” Iniziò. “Non mi sono mai scusato come si deve, per tutte le volte che abbiamo litigato. Per tutte le volte che non ti ho dato retta, anche quando avevi ragione. Per tutte le cose orribili che ti ho detto, di persona e tramite interviste e canzoni. E soprattutto, per aver messo Yoko prima di te, in un attimo di follia, per dispetto.”
Paul inarcò le sopracciglia. “Beh, meglio tardi che mai, suppongo. Scuse accettate. Vai avanti.”
“Ho sempre temuto di averti perso, per quello.”
“Stupido. Direi che, se sono qui ora, tu non mi abbia perso mai.” Paul sbuffò e John gli sorrise. “Altro?”
“In questi ultimi due giorni, mi sono accorto di una cosa interessante. Non importa cosa io pensi, o a chi, finisco comunque per pensare a te o a un ricordo legato a te.”
Il minore fece finta di niente a quelle parole, anche se si sentiva scaldare un po’ il cuore.
“Pur non accorgendomene prima, non ho mai smesso di pensare a te.”
“Questo fa di te un idiota.” Commentò senza guardarlo.
“Sì, lo so. Ma quest’idiota ti vorrebbe di nuovo, se solo avesse più tempo.” Disse senza pensare.
Paul alzò lo sguardo dalla tazzina, per fissarlo con un’espressione indecifrabile.
“Tu non mi stai chiedendo di riprovarci, vero?”
“Solo per mancanza di tempo.”
Lo fissò senza dire niente per dei secondi che parvero interminabili a entrambi.
“Fammi capire. Tu mi stai dicendo che se non ‘dovessi morire’ domani, cosa per cui nutro ancora fortissimi dubbi, vorresti, dopo più di dieci anni, riprovarci con me?”
L’altro annuì.
“Ho sempre avuto quest’idea in testa su di te, ma ora posso confermarla con certezza. Tu sei scemo.” Inevitabilmente, scoppiò a ridere appena finito di dirlo.
“Paul, sono in un ritardo infinito nel dirtelo, ma non penso di aver mai smesso di amarti un solo giorno della mia vita.”
“John Lennon, tu sei un bastardo senza cuore. Come puoi dirmi una cosa del genere dopo tutte le lacrime che ho versato per te e davanti a te, senza che tu avessi un minimo di reazione?” Sibilò il moro, sentendo una fitta al cuore.
“Lo so, e hai ragione. Non ho mai avuto il coraggio di dirtelo. Non ti meritavi una persona come me, forse per questo alla fine non te l’ho mai detto prima.” Gli rispose. Ormai sentiva di aver iniziato a parlare a ruota libera, senza frenare neanche un pensiero. Che senso aveva nascondergli qualcosa adesso? Neanche un giorno dopo sarebbe morto, quindi solo uno stupido avrebbe cercato di salvare la faccia mentendo alla persona che amava nei suoi ultimi momenti.
Paul si passò le mani fra i capelli corvini. “Perché dovrei crederti adesso?”
“Domani morirò. Cos’altro avrei da perdere?”
Quello si morse il labbro. Non aveva torto, ma era troppo orgoglioso per dargli ragione.
“Supponendo il caso assurdo in cui io provi la stessa cosa, cosa faresti?”
John sorrise, incoraggiato. “Ti direi che non passerei più un giorno senza chiamarti, cercarti per suonare insieme. Che questa volta non vorrei nascondermi, perché non ce ne sarebbe bisogno. Che vorrei non aver aspettato tutto questo tempo per dichiararmi, di nuovo. Sono sempre un disastro con i tempi.”
Paul ridacchiò per l’ultima cosa. “Già. Anche la prima volta sei stato lento.”
Bevvero un sorso di caffè. Ormai si era raffreddato ed era diventato schifoso. Fecero entrambi una smorfia e risero come due bambini.
“Ma siamo entrambi sposati, sai?” Gli fece notare Paul.
“In realtà, penso che Yoko stia pensando al divorzio.” Affermò John.
“Quindi le voci che girano sono vere?” Chiese l’altro, ripensando a quante volte Linda gli aveva detto di averlo letto su alcune riviste di gossip.
“Lei non ha avuto ancora il coraggio di dirmelo in faccia, e venirlo a sapere mentre sei in borghese dal barbiere è una delle esperienze più strane che possano capitarti nella vita. Fidati.” Gli rispose tranquillamente. “Ma siamo entrambi adulti, e che ci fosse qualcosa che non andava lo sentivamo entrambi da tempo.”
“E Sean?”
“Credo sia il motivo per cui non me l’ha ancora detto.”
“Capisco..”
“Quindi.. Tu mi ami ancora?” Chiese John, senza troppi giri di parole. Sentiva ancora il tempo pesargli come una scure sul collo.
Paul annuì, chiudendo gli occhi. In fondo si vergognava di ammetterlo, ma il suo comportamento tradiva i suoi sentimenti e mentire non sarebbe servito a nessuno. John l’aveva chiamato, e lui era corso. Come sempre. Sarebbe stato da stupidi negare.
John gli sorrise. “Ti ricordi quando abbiamo mandato quella cartolina, da Parigi?”
“Intendi quando abbiamo firmato McLennon?” Si sorrisero istintivamente al ricordo. “Penso sia stata una delle tue trovate più carine.”
Dopo qualche secondo di silenzio, Paul tirò fuori un altro aneddoto su di loro, iniziando a richiamare altri bei ricordi, e a raccontarglieli come se il maggiore non li avesse vissuti con lui.
Passarono il resto della giornata a ricordare, seduti in quel bar, tagliati fuori dal mondo a vivere solo nella loro bolla, ridendo e scherzando.
 
Si erano fatte le sei, e quando uscirono il cielo era già nero. Non si vedeva neanche una stella, ma entrambi guardarono in alto, sapendo che le stelle erano solo nascoste dalla luce della città.
Continuarono a passeggiare, ricordare e sorridere, uno a fianco all’altro. Affondando nelle rispettive sciarpe, si tennero per mano mentre camminavano nell’aria fredda della sera.
Paul si sentì ringiovanire per un po’, per quel gesto avventato. Gli sembrò di tornare un diciassettenne, a quando lui e John si baciavano di nascosto, quando si punzecchiavano davanti a tutti passando solo per ottimi amici.
Guardò John e trovò nei suoi occhi la stessa scintilla, vispa di allegria, che brillava nei suoi. Per la prima volta dopo anni, si sentiva sinceramente felice, di nuovo nel posto giusto.
“Johnny?”
“Mh?”
“Perché abbiamo aspettato tanto?”
“Non lo so, principessa.”
Paul arrossì sotto la sciarpa, mentre John gli sorrideva. Era lo stesso, dannato sorriso di quando l’aveva conosciuto.
“Devi proprio tornare a casa?” Chiese, già conscio della risposta.
“Sì.. Per Sean.” Rispose, combattuto.
Il minore annuì, ugualmente dispiaciuto. Si fermarono in un punto deserto della strada, abbracciandosi stretti.
Quindi.. Domani non ci potremo vedere?” Gli sussurrò all’orecchio.
John scosse la testa, e l’altro sospirò.
Paul?
Mh?
Ti amo.”
Quello sorrise e lo guardò dritto negli occhi, dandogli con la punta del naso un colpetto leggero contro il suo.
Anch’io.” Si avvicinò per dargli solo un velocissimo bacio sulle labbra. Nessuno dei due pretese di più. “Allora.. Ci vediamo, mh?
John annuì, mentre agli angoli degli occhi si formavano delle lacrime. Il minore cercò di asciugargliele con la mano coperta dal guanto di lana, finendo nella stessa situazione.
Smettila, dai..” Soffocò un singhiozzo. “Mi chiamerai tu martedì mattina, d’accordo?
Il maggiore annuì. Dentro di sé sapeva perfettamente che quella chiamata non l’avrebbe mai fatta, e dall’espressione di Paul, pensò che anche lui dovesse saperlo.
Affondò di nuovo nella sua sciarpa. Cercò di inspirare il più possibile il suo profumo, sperando di averlo con sé il giorno dopo.
Si separarono con terribile sforzo e dolore. John con la consapevolezza che non l’avrebbe rivisto tanto presto, Paul con la crescente paura che lo scherzo di pessimo gusto di quella ragazza potesse essere la realtà e il cuore che già iniziava a soffrire di un dilaniante dolore.
 
* * *
 
Suonò la sua sveglia. Controllò la data. 12.08.80.
Per semplice fastidio estetico, si chiese perché quel giorno e non il mese prima.
Si alzò. Dopo un po’ si svegliò anche Yoko. Andarono insieme a fare colazione fuori, ma prima di uscire diede un bacio sulla fronte a Sean che ancora dormiva beato nel suo lettino.
Al bar, si gustò le sue uova e il suo cappuccino. Poi si fumò in tranquillità una sigaretta. Chiacchierando con Yoko, le disse che sarebbe andato a tagliarsi i capelli, per il servizio fotografico. Lei lo accompagnò, commentando le foto delle modelle appese alle pareti del barbiere.
Erano circa le undici quando tornarono all’appartamento, appena in tempo per l’arrivo della fotografa, Annie Leibovitz.
John le spiegò allegramente le idee che aveva per quel servizio, e lei accettò senza problemi. Lui, soddisfatto del risultato, commentò che sarebbero state delle copertine perfette per il Rolling Stone.
Verso l’una, andò con Yoko in uno studio radiofonico per un’intervista. Fu incredibilmente lunga, ma tre ore trascorsero ugualmente in modo piacevole.
Quando uscirono, erano passate le quattro e mezza. Fuori dallo studio c’erano diversi fan, ammassati per farsi firmare le copie di Double Fantasy. Un uomo gli porse la sua per farsela autografare.
“Ecco, ti va bene?” Gli chiese, restituendogliela subito prima di risalire sulla limousine che li avrebbe portati verso la Record Factory. Lui e Yoko registrarono per quattro ore, poi, verso le dieci e mezzo, uscirono per tornare a casa. John salutò sorridente il produttore.
 
Era stata una giornata davvero piena, e John si sentiva decisamente stanco. Per un secondo si illuse di averla passata indenne. Pensò di raccontare la sua giornata a Paul la mattina a venire, chissà cos’aveva fatto lui invece.
Scesero dalla limousine. Con la coda dell’occhio, John intravide, alla fine della strada, una figura elegante e bionda, che lo salutava, sorridendogli, con un movimento lento delle dita. Deglutì.
Proseguì sulla scia di Yoko, quando si sentì chiamare. Pensò di aver semplicemente dimenticato qualcosa in macchina.
Solo quando sentì esplodere i colpi capì. Sentì un dolore tremendo al petto e alla spalla. Un fischio vicino all’orecchio.
 
Ripensò alla signorina che aveva incontrato al parco, la morte. La sua morte.
Sarebbe stato meglio non sapere niente?
 
Mi.. Hanno sparato..
Non sapeva se l’aveva solo pensato o anche detto. Cadde, per il dolore. Sentì delle urla e poi delle sirene.
Iniziò a vedere appannato intorno a sé. Si sentì sollevare e poggiare da qualche parte.
 
Ripensò a sua zia. Al suo tono felice, quando le aveva detto che sarebbe tornato a casa.
Sarebbe stato meglio non prometterle niente?
 
C’erano delle figure non distinte davanti a lui. Dove aveva gli occhiali?
Chiesero se era John Lennon. “Ovvio..”
Gli pesavano le palpebre. Pensò di chiuderle solo per un secondo, cullato da una melodia di sottofondo. Gli era familiare. Sembrava la voce di Paul.
 
Ripensò al giorno prima. Pensò a quanto gli sarebbe mancato Paul. La sua voce, i suoi occhi, i suoi sogni.
Ma a questa domanda sapeva rispondere. Sì, aveva fatto la scelta giusta.
Mi mancherai, principessa.















_______________
Note dell'Autrice
Salve ancora, un’altra volta, probabilmente l’ultima per quest’anno, almeno in questo ambiente.
Comunque, cosa ne avete pensato di questa storia? Vi è piaciuta? Vi ha fatto schifo? Avete mangiato le verdure? No? Male, sono molto salutari le verdure.
Passando al testo in sé, ci sono tre cose che volevo dire, la prima: so che il fatto di aver fatto ‘dichiarare’ John è abbastanza assurdo ed estremo, così come lo è la reazione di Paul. Mentre scrivevo questa parte, ho pensato che sarebbe suonato assurdo, ma visto il contesto di assurdità, forse è la cosa più normale. Inoltre mi sono sentita mancare il fiato, perché alla nostra principessa ho riservato la rosea speranza di rivedere il proprio amore e la triste consapevolezza che non l’avrebbe mai più visto né sentito. Sono crudele, mi sono sentita crudele, e ancora soffro per la sensazione che ho provato.
La seconda: per la cosa del divorzio, leggendo articoli e interviste varie, è uscito questo pettegolezzo che la signora in giallo (battuta pessima e razzista, me ne rendo conto, pessimo esempio di humor; nota mentale: non ripeterlo) stesse effettivamente contattando avvocati e tutto per divorziare. Questo la renderebbe più viscida di quello che sembra (altra nota mentale: vedi punto precedente e cerca di rispettarlo).
L’ultima cosa riguarda l’ultimo giorno: è incredibilmente breve, poco più che un resoconto di azioni. Questo potrà sembrare un assurdo, ma volevo che fosse esattamente così: breve, quasi fulmineo. Come ho detto a inizio storia, volevo ripercorrere soprattutto i pensieri di John se avesse saputo in anticipo che sarebbe morto, cosa avrebbe fatto prima dell’ora x. Quindi, descrivere l’intera giornata della sua morte, oltre che estremamente doloroso per me da scrivere, sarebbe stato anche ‘fuori tema’. Non era mai stato nelle mie intenzioni scrivere nel dettaglio cosa avrebbe pensato l’ultimo giorno: credo che io non vorrei pensarci, il giorno della mia morte, al momento in cui questa dovesse accadere. Almeno l’ultimo giorno vorrei passarlo come gli altri. Anche per questo resoconto comunque mi sono basata su articoli e interviste.
 
Comunque, ora posso finalmente liberarmi: ho pianto come una fontana mentre scrivevo. Ho provato l’ansia terribile, ogni volta che ho preso in mano la matita per tutti e tre i capitoli, di raccontare di cose che sapevo non sarebbero mai state vissute. E questo, credetemi, mi ha fatta stare malissimo.
E come ho detto, sì, ho pianto. Ho pianto della mia stessa storia. Mentre scrivevo, mi sono dovuta fermare davvero un sacco di volte perché o non ci vedevo più, o avevo finito i fazzoletti, o mi saliva un magone tremendo.
Nel farlo mi vergognavo anche abbastanza, perché d’altronde nessuna delle cose che ho scritto l’ho vissuta, provata o testimoniata. Anche a confessarvelo qui e adesso provo un discreto imbarazzo.
Ma da una parte, spero di avervi passato almeno una piccola fettina di questo turbine di emozioni che mi ha travolta mentre scrivevo: se vi siete anche solo commossi in un solo punto, per me è una vittoria.
Questa storia l’ho iniziata, scritta e conclusa per me. Forse ha trovato una fine sbagliata, diversa da quella che la prima me aveva pensato, probabilmente scorretta per la seconda me, e non del tutto soddisfacente per l’attuale me. Tra l’altro, mi sembra di parlare dei Fantasmi del Natale, passato, presente e futuro, lol.
 
Tuttavia, questa storia ha una grande differenza rispetto alle altre.
Per la prima volta, finendo una storia, non l’ho riletta per intero, solo ricontrollata velocemente. Per la prima volta, so per certo che non è perfetta, e va bene così. Perché le persone che l’hanno scritta sono diverse, colpite da sentimenti diversi: gioia, dolore, determinazione.
Scriverla non è stato facile neanche il primo giorno, questo me lo ricordo bene, ma sono soddisfatta, per una volta, di aver finito una storia, e di averla pubblicata pur sapendo che non è perfetta per me.
Ma ne sono soddisfatta proprio per questo: perché mi ha dato così tanto scriverla che ho voluto pubblicarla in suo stesso onore, come segno di gratitudine per il tempo che mi ha aspettata.
Mentre scrivevo quest’ultimo capitolo, sarò sincera, ho sentito la stessa sensazione che si prova quando si dice addio a qualcosa, a una persona, a un capitolo della propria vita. Mi sono sentita come se il bisogno di scrivere di loro si fosse esaurito, ormai soddisfatto. Non so cosa vorrà dire, se sarà davvero ‘la fine’ delle mie storie su di loro (e mi auguro di no, perché mi piacciono davvero troppo), ma so per certo che si è concluso qualcosa di importante dentro di me, che ha aperto la porta a qualcos’altro, che spero sarà all’altezza.
 
A questo punto, passiamo ai saluti.
Ringrazio la mia Beta, che mi accompagnerà ancora a lungo su queste strade fatte di pagine e inchiostro. Giò, grazie davvero per starmi accanto adesso e in futuro, per la nuova avventura che abbiamo in mente.
Ringrazio la mia ragazza, che sperò vorrà rimanere al mio fianco, nonostante viva a 792km da me.
Grazie a tutti coloro che hanno letto e leggeranno questa storia, che hanno deciso di commentarla o lo decideranno: senza di voi, lettori silenziosi e non, questa storia non ci sarebbe, come il mio coraggio nel pubblicarla sapendo che, se anche non vi è piaciuta, me lo direte senza insultarmi o cercare di umiliarmi. Questo fa di voi delle persone meravigliose.
 
Ora vi saluto davvero, spero di leggervi presto, qui sotto o anche nell’elenco delle storie pubblicate. Questa parte di efp è purtroppo ricaduta nell’oblio, senza nuove storie e nuove penne, e mette un po’ di nostalgia.
Come mi disse una volta Skipper, al tempo in cui ancora sapevo parlare con i cani: “Non esistono gli addii, ma solo lunghi arrivederci.”.
Quindi ora vi mando un grande abbraccio, e arrivederci.


Athelye ~♥

 
   
 
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