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Autore: shilyss    08/12/2018    62 recensioni
Fable! AU La Bella e la Bestia
1882: Nel tentativo di rintracciare il padre disperso, la giovane Sigyn incappa in una leggenda vecchia di mille anni: una maledizione antica impossibile da spezzare che parla di dèi immortali e di antiche vendette.
“Una vita per una vita,” le ripeté l’ingannatore piegando leggermente il capo di lato. “Non sai a che stai rinunciando. Il tuo sacrificio è inutile, doloroso, francamente stupido,” sentenziò a denti stretti. […] “Io sono il dio del caos e degli inganni. Sono il mostro delle fiabe che vengono raccontate ai bambini, sono la bestia che ha sconvolto Asgard e Midgard e tutti i Nove Regni. Resterò qui fino al Ragnarok.” […] Si riscosse, un lampo divertito gli attraversò lo sguardo. “E sia. Questa è la mia prigione e, d’ora in poi, sarà anche la tua. Accetto lo scambio.”
La storia della Bella e la Bestia come non l’avete mai letta.
[ ♦ Storia Vincitrice del contest Villains against Heroes indetto da missredlights sul forum di EFP, a pari merito, e Vincitrice del Premio "Miglior Hero" ♦ ]
Genere: Angst, Drammatico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Loki, Odino, Sigyn, Thor
Note: AU, What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Ha i capelli d’oro degli Æsir

 

For my dreams I hold my life

For wishes I behold my night

The truth at the end of time

Losing faith makes a crime

 

I wish for this night-time

to last for a lifetime

The darkness around me

Shores of a solar sea

Oh how I wish to go down with the sun

Sleeping

Weeping

With you

(Sleeping sun – Nightwish)

 

 

Loki è bello e gradevole nella figura, malvagio nell’animo, molto volubile nei modi.

Egli portò gli Asi ripetutamente in difficili contese e spesso li trasse d’impaccio con le sue frodi.

(Edda in prosa)

 

 

 

 

Capitolo 1

Del tesoro perduto

 

 

Asgard, un altro tempo

 

Si dice che quando Thor riportò ad Asgard il dio degli inganni in catene, Odino dovette colpire per sette volte il pavimento della sala del trono, affinché gli Æsir facessero silenzio. Un brusio si era levato di fronte all’Ase dalla Lingua d’Argento capace d’incantare, col suono stregato della sua voce, ogni orecchio, concupire ogni mente. L’astuto dio aveva le mani legate da ceppi pesanti e un bavaglio di ferro gli copriva la bocca sempre pronta a mentire e a pronunciare terribili incantesimi. Era stato crudele. Un’ira tremenda gli aveva scosso il petto e il cuore. L’inganno orrendo perpetrato a suo eterno danno gli aveva corroso lo spirito e la mente, e tutti i Nove Regni erano stati sconvolti dalla sua furia terribile di figlio non amato, di erede truffato. Sì, era stato malvagio e lo sapeva. La corsa verso l’Hlidskjalf su cui solo il più degno si sarebbe potuto sedere, si era rivelata nient’altro che una beffa, una gara truccata in partenza. Il figlio di Laufey non sarebbe mai stato degno di governare gli Æsir; così il dio degli inganni era stato a sua volta ingannato. Tutto il sangue versato per la città d’oro dalle alte torri, tutti i favori, i doni, gli sforzi fatti per rendere più potente e solido il trono di Odino, improvvisamente erano svaniti, scomparsi, non contavano più nulla. Solo che l’astuto Loki non aveva messo a disposizione di Asgard solo il braccio pugnace e la mente svelta, ma anche ogni fibra del suo corpo nervoso, asciutto, elegante, ogni pezzo della sua anima corrotta, appassionata, bruciata.

Stirò le labbra in un ghigno perfido e storto, lupesco. “Allora, Padre, dimmi: che punizione hai scelto, per me? Per il figlio che doveva essere re, per la reliquia rubata che hai sottratto agli Jotnar?”

Lo disse compiacendosi di ogni sillaba, parola, concetto. Con quei suoi occhi dalla trasparenza smeraldina, fissò il sovrano travestito da genitore e lo vide per quello che era: un vecchio stanco che s’arroccava su inutili questioni, un guerriero dalla schiena ormai curva; un giudice ancora severo, tuttavia. E vendicativo. Loki deglutì e alzò fieramente il capo cercando, per l’ultima volta, di liberare i polsi doloranti e abrasi dal metallo impietoso. “Se è la pena capitale, quella che mi spetta, non esitare, Padre. Abbi il coraggio di pronunciare la mia sentenza di morte.”

Aveva parlato con voce sicura, priva d’incertezze, ma nel suo petto qualcosa s’incrinò.

“No, Loki. La morte non è la giusta punizione, per te. Ti accontenterò, mio disperato, perduto figlio. Avrai un regno dove sarai il solo padrone e signore: i tuoi sudditi saranno mostri, la solitudine ti mangerà il cuore, ma sarai re, Loki. Sì, io ti maledico e ti condanno a qualcosa di peggiore, di più tremendo della morte. Piegherò il tuo animo protervo, arrogante, sconsiderato, crudele, folle. Passerai il resto dei tuoi giorni esiliato in un luogo protetto da rune molto, molto lontano da qui, dove forse potrai riflettere su ciò che hai fatto, o maledetto dagli Æsir tutti. Non sarai mai più libero; rimarrai per sempre schiavo del tuo dolore, della tua arroganza, di te stesso. Portatelo via.”

Così avvenne.

Si racconta che la prigione del dio degli inganni fosse situata su Midgard, al centro di una grande, immensa foresta persa nel cuore di un continente antico. C’è chi dice che si trattasse di un palazzo di meravigliosa bellezza, che assomigliava alla perduta Asgard. Altri, sostenevano che un incantesimo potente, recitato da Odino in persona, celasse alla vista degli uomini quell’intrico magnifico e terribile di torri e stanze. La gente cercò a lungo la prigione del dio. Come tutti i mostri e le bestie, si diceva che fosse a guardia di un tesoro immenso, incredibile, così grande e prezioso da non avere eguali in tutto il mondo. Scossi dall’avidità, eccitati al pensiero dell’oro e delle gemme lì custodite, in molti partirono alla ricerca del castello perduto. Alcuni, forse bugiardi, certamente pazzi, dissero di averlo trovato: raccontarono di labirinti fatti d’oro e di un lupo feroce e famelico che sbranava gli uomini che osavano avvicinarsi al suo padrone. Altri sostennero di essere stati rinchiusi nelle segrete del dio per cent’anni interi e di un drago enorme che dormiva nei sotterranei, ma nessuno tornò mai con niente più di qualche storia oscura e una manciata d’incubi.

Così passò il tempo. La gente cercò disperatamente per molti anni ancora la dimora del dio perduto e bandito dal suo regno immortale; bagnò con il sangue la terra intorno alle foreste fitte che si diceva celassero la costruzione stregata e, infine, come tutte le cose, dimenticò il tumulo e le grotte e il palazzo e persino il nome del dio degli inganni si perse nella memoria. L’oblio lo accolse con la sua ombra. Questo si racconta.

 

Foresta di Hallerbos, Belgio, 1882

 

Non si può finire in Belgio per seguire quattro pagine di un’edizione secentesca trovata su una bancarella che si rifà, a sua volta, a un testo ancora più antico che nessuna biblioteca di Londra sembra possedere. Non si insegue una leggenda che è meno di una favola perché l’edizione in questione ha quattro pagine in più della sua unica sorella, finita chissà come a Boston. Sigyn fermò il cavallo tenendosi con una mano il cappello. In tasca teneva l’unico frammento reale di una storia di magia inventata da qualche genitore per ammonire i figli. Una fibula vichinga, abbellita da un’invocazione scritta in caratteri runici che, dicevano, proveniva direttamente dal Volga. Con tutta probabilità, il reperto in questione era appuntato su uno dei mantelli di coloro che assistettero al sontuoso funerale di un capo degli uomini del Nord, assieme allo storiografo Ibn Battuta[1]. Ecco perché suo padre era sparito. Si era ficcato in testa che doveva recuperare un tesoro che si era perso nelle cronache antiche e nei bestiari medievali che parlavano di sciapodi e di unicorni[2]. Si era lasciato sedurre dalla voce di un tumulo scoperto da un taglialegna in una sperduta foresta ai confini del Belgio e aveva abbandonato ogni cosa, speso ogni risorsa quasi mandandoli sul lastrico, per inseguire una chimera inesistente e vaga come le fiabe che si raccontano davanti al camino, nelle sere d’inverno.

Sigyn pensò alle ultime parole che si erano rivolti. “Ti porterò una rosa,” le aveva promesso sapendo che lei le amava. Non era mai riuscita a smettere di assecondarlo in quella ricerca spasmodica e folle ritenendo, a ragione o a torto, ora non lo sapeva più, che suo padre cercasse una leggenda antica per soffocare la nostalgia feroce che provava dopo la scomparsa di sua madre. Al Circolo dicevano che fosse pazzo, invece. Lo accusavano di stare sperperando una fortuna e lo trattavano con sufficienza. Sigyn lo sapeva e conosceva anche il nome di colui che, tra tutti, più si divertiva a beffarsi di suo padre. Lord Theoric di Gastonblury, un uomo tronfio e pieno di boria che credeva di poter fare tutto con i suoi soldi e che ogni cosa gli spettasse di diritto; persino lei. Sigyn gli aveva riso in faccia, quando le aveva detto che sposarlo era un privilegio. Arricciò le labbra con disappunto, al pensiero della sfacciataggine dimostrata dall’uomo. Lord Gastonblury in quel momento era solamente un pensiero fastidioso che doveva scacciare dalla mente: la priorità era cercare suo padre, svanito da troppi giorni. Con un groppo in gola, si addentrò nella foresta pregando di riuscire a individuare una traccia, anche una sola, capace di suggerirle che il genitore fosse ancora vivo.

 

Quello che successe dopo, fu un sogno, un incubo, entrambi. Sigyn non sarebbe riuscita mai a ricordarlo con precisione, e coloro che si inoltrarono con lei nel fitto della foresta non ne uscirono vivi. Chi li aveva preceduti, del resto, aveva smarrito il senno e dimenticato ogni cosa. Alcune immagini si erano fissate nella mente di tutti gli sfortunati esploratori, a dire il vero. Visioni false cristallizzate nella testa, tutte uguali, che raccontavano di un bosco diverso da quello visitato realmente, dove i rami degli alberi erano così fitti da oscurare il sole, i tronchi tanto contorti che pareva fossero cresciuti su una terra avvelenata, l’aria così fredda che sembrava di vivere in un inverno maledetto.

Non esistevano strade per la Tana del Mostro, dicevano le quattro pagine nate dal nulla che facevano loro da mappa e nessun’altra edizione conteneva. Gli dèi avevano cancellato ogni traccia o sentiero che potesse condurre nel luogo stregato. Nei secoli, altre vie erano state battute e segnate, ma il tempo e le sventure avevano convinto gli uomini a occultare anche quelle. Sigyn non avrebbe saputo dire mai cosa ci fosse di vero, in quella storia. S’inoltrò nella foresta accompagnata da un guardiacaccia, da un servitore e da alcuni uomini della città vicina che dicevano di aver visto suo padre avventurarsi, un mattino di molte settimane prima, verso il sentiero che conduceva nel bosco di Hallerbos. Era davvero quello il nascondiglio della Bestia? La prigione dove un dio vendicativo e riottoso aveva, secondo un mito vecchio di mille anni, rinchiuso il figlio traditore e bugiardo? Dicevano che fosse un luogo stregato, magico. Lo chiamavano il bosco blu[3], la foresta incantata, e il motivo era quel tappeto di giacinti che ricopriva la terra sospendendo il tempo. Spuntò un cervo, dal nulla. Prima di sparire nel silenzio dei rami fitti, li guardò sorpreso. Sigyn pensò che suo padre era pazzo: quella era una terra troppo bella per rinchiuderci un dio sconfitto. La nuvola di fiori tra l’azzurro e il viola le sarebbe rimasto in mente per sempre, unica traccia di quel viaggio assurdo. Mesi dopo, camminando attraverso corridoi contorti e senza luce, a un tratto si sarebbe fermata, colta dall’improvviso ricordo della distesa di giacinti e di suo padre. E avrebbe provato una fitta di nostalgia.

 

Fu il fiume che spariva nella grotta, l’ultima cosa che avrebbe ricordato con precisione e nitidezza. Dopo, tutto si sarebbe trasformato in un incubo dai contorni sbiaditi, governato dal caos. C’era un corso d’acqua pura e cristallina, che scintillava in mezzo ai giacinti tenuamente colorati d’azzurro e c’era incisa una runa nella pietra. Sigyn smontò da cavallo per far abbeverare l’animale e venne attratta da qualcosa. Si avvicinò al simbolo scolpito nella roccia e vide un lembo di stoffa che penzolava mesto tra i rami. Lo riconobbe come un pezzo del mantello di suo padre e sobbalzò, di fronte al segno che marchiava la pietra. Nelle quattro pagine che sembravano essere lo scherzo perfido di un editore o di un falsario, era raffigurata la medesima incisione: figure stilizzate create da uomini di un altro tempo. Si trattava di un segno magico che invitava i viandanti ad abbondare quella foresta incantata che si tingeva d’azzurro, persa nel cuore d’Europa, crocevia bagnato del sangue di popoli che non si erano riusciti a mescolare tra loro. Se solo lo avesse ascoltato. Se solo le rune scolpite sulla pietra non fossero state corrose dal tempo e occultate dalla vegetazione, forse Sigyn avrebbe potuto riconoscere i simboli e persino pronunciarli. Sarebbe stata in grado di ricordare vagamente ciò che diceva ad alta voce suo padre quando lei era bambina e, distratta, disegnava mondi fantastici, anziché finire nella grotta. Invece, questo accadde.

 

Quello che invece sapeva con assoluta certezza, riguardava il tesoro che scintillava nella grotta. Sembrava la tana di un drago o la tomba di un re: probabilmente, era entrambe le cose. Sfiorò anche lei le coppe e le armi scintillanti e splendenti. Le sue dita sostarono un momento di troppo sulle corone e sui gioielli che appartenevano a un altro luogo e a un altro tempo, ammirando le cesellature finissime, la cura degli intarsi, la lucentezza delle gemme. Non sottrasse nulla alla pietra, però; mormorò a mezza voce una filastrocca antica che spiegava perché non si dovesse mai rubare l’oro ai mostri e agli spiriti, ma il guardiacaccia e i servitori che erano con lei non furono altrettanto accorti. Sigyn li supplicò di non trafugare niente. Ricordò loro che erano lì unicamente per cercare suo padre che si era smarrito, non per violare una tomba o un santuario, e forse la sua voce coprì il fruscio leggero che avrebbe dovuto avvertirla del pericolo imminente. Non l’ascoltarono e, quando iniziarono a crederle e gettarono a terra le coppe e le corone, le collane e gli anelli, il lupo era già su di loro. Il suo ringhio basso li sorprese, le sue fauci li ghermirono dilaniando e strappando.

Era una creatura mostruosa, enorme, d’altri tempi, che smentiva, con la sua presenza terribile e la mole innaturale, la fiducia che gli uomini avevano iniziato a maturare nella ragione e nella scienza. Pareva uscito da un bestiario medievale o da una leggenda antica, una di quelle miniate con cura e perizia da Simone Martini e dagli altri[4], racchiuse nei codici medievali sparsi per le biblioteche d’Europa, come monito, speranza, sogno. Sigyn vide un’ombra nera e iniziò a correre inoltrandosi nei corridoi oscuri e senza luce del tumulo, insinuandosi ancora di più nella tenebra perché l’uscita le era preclusa dall’animale. L’elettricità che iniziava a dissipare il buio, le comunicazioni che viaggiavano da un capo all’altro di un filo steso dal genio e dall’inventiva umana, le macchine che permettevano agli uomini di spostare cose, persone e svolgere il lavoro di esseri senzienti: tutto svanì, nella fuga disperata da una morte che odorava di leggenda. Il mondo pareva essere cambiato; non esistevano più mostri né draghi e quelli che avevano terrorizzato il mondo erano bestie antiche vissute in un altro tempo, eppure Sigyn ebbe paura come se si trovasse in un racconto arcano. Un dolore tremendo la colse a una gamba. L’animale l’aveva azzannata e ora avrebbe dilaniato e sbranato anche lei. Scivolò e cadde; sentì il fiato caldo della bestia su di sé, la sua bava che sapeva di sangue e carne.

Il lupo era ormai sopra di lei, quando una figura avanzò tra le tenebre della grotta armata di una fiaccola tenue. Con un ordine secco amplificato dall’eco della caverna, bloccò l’animale, eccitato dal sangue. “Aspetta.”

L’uomo si chinò e prese tra le dita una ciocca sottile sfuggita all’acconciatura di Sigyn per valutarne la morbidezza. “Ha i capelli d’oro degli Æsir,” mormorò. Fu l’ultima cosa che la ragazza sentì; poi svenne e tutto divenne nero – anche i suoi pensieri.

 

Fu un singhiozzo soffocato, a svegliarla. Il lupo la inseguiva, feroce e terribile e lei continuava a scappare, perdendosi sempre di più nelle grotte ricoperte di gioielli, nei cunicoli freddi e umidi dove quasi poteva sentire il sibilo spietato di qualche creatura ancora peggiore. E la bestia, spietata e famelica creatura, continuava a rincorrerla con le fauci ancora insanguinate dei suoi compagni.

Fu il crepitio delle fiamme a tirarla via dall’incubo. E allora, Sigyn aprì gli occhi e capì di essere ancora viva. Girò lentamente la testa di lato, fu scossa da un brivido. Era in un palazzo in rovina. Glielo dissero i soffitti altissimi e le pareti un tempo riccamente affrescate, ora solo incrostate di colore su cui danzavano ombre spettrali. C’era un uomo, poco distante da lei, accanto all’ampio camino. Era giovane d’aspetto, e il suo profilo era affilato e bello. Aveva gli occhi chiari e i capelli neri, come neri erano gli stivali, i pantaloni e la camicia che indossava. Fissava assorto le fiamme che ravvivava, di tanto in tanto, con un attizzatoio.

“Dove sono? Che posto è questo? Chi siete?” boccheggiò, ritraendosi istintivamente.

L’altro non si voltò. “Siamo in ciò che resta di un grande castello.”

“Mi avete salvato,” mormorò Sigyn, stupita.

L’uomo posò il suo sguardo chiaro su di lei, scrutandola alla luce rossastra delle fiamme. “Così pare,” commentò asciutto. Aveva una voce calda e roca, bella da ascoltare, pensò la ragazza. Si accorse di essere coperta con un pesante mantello di lana scura – il suo? – e che le sue ferite erano state medicate.

“La mia gamba,” soffiò, scostando la stoffa scura. Una striscia di tessuto le copriva la pelle, ma dell’orribile ferita che le aveva inferto il lupo non c’era quasi più traccia. “Credevo fosse molto più grave.”

Lui le rivolse un’occhiata distratta, prima di concentrarsi nuovamente sulle fiamme guizzanti. “Eri spaventata, hai perso molto sangue. Ma il taglio non era così profondo.” Aveva il potere di calmarla, notò Sigyn, come se nel suo timbro ci fosse un qualche misterioso incantesimo. Ma forse fu solo il disperato bisogno di sentirsi al sicuro, che la spinse a fidarsi delle sue parole dopo tutto l’orrore che aveva visto.

L’uomo alzò i suoi occhi chiari su di lei. Erano verdi e quasi trasparenti, ma non privi di ombre torbide. Alla luce fioca del fuoco, forse la ragazza non se ne accorse. “Questo posto è maledetto. La gente lo teme, l’ha isolato dal mondo. Ha impedito che venissero costruite strade che conducessero qui e ha cancellato quelle antiche. Sotto queste mura dormono creature oscure. Perché siete venuti?”

“Cercavamo i segni di una leggenda antica,” mormorò Sigyn stringendosi di più nel mantello scuro. La stoffa in cui era avvolta odorava di cuoio, resina e pioggia. Nonostante il fuoco, il gelo le irrigidiva le ossa.

Lo straniero la fissò a lungo, prima di rispondere. “Ci sono cose che dovrebbero essere lasciate dove sono. Porte che non vanno aperte, oggetti che non vanno toccati. Spiriti che non vanno svegliati.”

Quella frase le fece tornare alla mente di nuovo, con orrore, l’orribile lupo e i corpi straziati dei compagni. Un conato quasi la costrinse a rimettere lì, di fronte allo sconosciuto salvatore. Ma poi si riscosse, e scoprì, dentro di sé, una forza che non credeva possibile. Sostenne il suo sguardo indagatore e parlò con voce vibrante, sicura. “Siamo fatti per scoprirlo, il mondo. Non per rimanere chiusi nelle nostre case, a tremare appresso a qualche vecchia superstizione,” s’inalberò, anche se forse, adesso, non ne era più così convinta.

“Ed è davvero questo che volevate vedere?” chiese lo straniero con un tono ironico e amaro assieme.

Sigyn si passò una mano sulla fronte quasi volesse, con quel gesto, scacciare il ricordo delle ore appena trascorse. Si rese conto di non saper rispondere a quella domanda e allora ne pose un’altra. “L’ultima cosa che ricordo è un lupo enorme che mi stava aggredendo. Come avete fatto a salvarmi?”

“Gli ho sparato per allontanarlo,” rispose l’uomo spostando con la punta del bastone alcune braci, “e quello è scappato.”

“E a trovarmi?” insistette ancora, “dite che nessun sentiero porta qui.”

“Quanta curiosità,” commentò laconico l’uomo, “sembra quasi vi dispiaccia che vi abbia trovato.” Fece una pausa e un sorriso sbieco gli attraversò le labbra sottili. “Siete dei ladri, dei predoni.” La sua voce mutò e divenne metallica, severa. “Cercavate il tesoro, volevate disturbare gli spiriti. Dicono che qui, più di mille anni fa, fu sepolto un dio: è il suo corredo funebre, quello che cercavate?”

Sigyn pensò al tesoro da cui era rimasta incantata, ma che aveva solo sfiorato, alle leggende antiche dietro cui suo padre si era perso smarrendo il senno. Conosceva le storie, le aveva imparate da bambina. I dettagli no, le erano sfuggiti, e per questo era entrata nella grotta, ma il mito remoto su cui si poggiava la spasmodica ricerca del genitore e di tanti altri prima di lui non le era estraneo. Una fiaba, lontana nel tempo e nello spazio, raccontava di un trickster, un essere magico e ambiguo dotato d’incredibili poteri, che era stato punito per le sue molte azioni riprovevoli e rinchiuso in una fortezza inviolabile, protetta da mille rune. Una tomba da cui non sarebbe mai più potuto uscire. Condannato a una vita sospesa in un mondo alieno che non gli apparteneva, non avrebbe potuto far altro che guardare. Così era stato deciso. Il racconto le salì dal cuore alle labbra, ma Sigyn non lo pronunciò. Amava suo padre e aveva attraversato mezza Europa per cercarlo, ma, pur appoggiando la sua ricerca, non la condivideva. Lei credeva nella scienza e nelle arti, nella volontà dell’uomo di manipolare la natura con la forza del proprio intelletto, non nella storia triste e oscura di un dio bugiardo prigioniero nel mondo degli uomini[5].

“Io no. Non sono in cerca di tesori, ma di mio padre,” lo corresse e nel suo sguardo brillò una fierezza che l’uomo si sorprese nel riconoscere, perché anche lui l’aveva provata. Prima che la sua prigionia fuori dal tempo avesse inizio, nei suoi occhi aveva scintillato una luce simile. Osservando la ragazza, si avvide che le tremavano le mani forse per il terrore che le aveva instillato il lupo. Eppure, nonostante questo, proseguì.

“Tuo padre è un ladro,” sentenziò sicuro, le labbra stirate in un smorfia di dispetto. “Si è intrufolato nella grotta per depredarla, spinto anche dalla sete di conoscenza, ma, alla fine, l’avidità ha prevalso. Ha rubato.”

Sigyn balzò in piedi. “Voi sapete dov’è! Chi siete, che gli avete fatto?”

L’altro la prese per un braccio e la trascinò in uno dei molti corridoi della fatiscente dimora. La ragazza tentò di fuggire e di divincolarsi, ma la presa dell’uomo era ferrea e tentare di scappare si rivelò inutile. La condusse attraverso un cunicolo più scuro degli altri ignorando le sue proteste e le sue grida, finché non giunsero davanti a una cella malamente illuminata; solo allora la lasciò andare. Oltre le grate, riverso a terra e scosso dalla febbre e da una tosse violenta, c’era un uomo che si stringeva in un mantello lacero e gemeva debolmente. Accanto a lui, scintillava una rosa fatta d’oro.

Nonostante la luce fioca, Sigyn riconobbe il prigioniero e si aggrappò alle sbarre. Un terrore senza nome l’avvolse di fronte a quella vista spaventosa. “Padre! Padre svegliatevi! Sono io, sono venuta a cercarvi!” gridò. Vide l’anziano genitore che si riscuoteva debolmente e si sfregava gli occhi e il suo cuore si spezzò nel vederlo improvvisamente così fragile e vecchio. Si rese conto, per la prima volta nella sua vita, di quanti pochi anni gli spettassero ancora vivere. Percepì che la morte lo avrebbe portato via presto, troppo, come già si era presa sua madre. Con il viso rigato da lacrime di pietà e di rabbia, si volse verso l’uomo vestito di nero e lo fissò con occhi ardenti. “Che gli avete fatto? Chi siete?”

Un ghigno. “Lo vedete da voi. Punisco un ladro,” le rispose, senza celare affatto la punta di divertimento che quella scena drammatica gli instillava.

Il vecchio, intanto, si era riscosso. Resosi conto con orrore che la voce della dolce figlia non era un miraggio o un sogno, ma realtà, si tirò in piedi nonostante le gambe malferme e si avvicinò alle grate prendendo tra le sue le mani morbide e sottili della ragazza. “Sigyn, vai via, ti prego! Scappa da questo luogo, corri, presto! L’ho trovato! È ancora qui, da mille anni…” boccheggiò.

Singhiozzando, lei tentò di abbracciarlo nonostante le sbarre. “Padre, non ti sforzare! Ti porterò via da qui, verrai con me a casa!” promise.

Gli occhi del vecchio esploratore si riempirono d’orrore. “No! Tu devi fuggire, devi andare via immediatamente. Io non posso, il mio destino è rimanere qui, come tutti gli altri.” Sbatté le palpebre, confuso. “Non ho saputo resistere al tesoro,” ammise con una punta di dispiacere, chinando la testa verso la rosa d’oro ancora a terra. “Ma tu,” riprese sfiorando la guancia serica e umida della figlia, “tu devi tornare indietro. Non può seguirti… guarda l’incisione, Sigyn. Questa è la sua casa. Guarda l’incisione, ti prego!”

La ragazza scosse la testa, incapace di comprendere a cosa si stesse riferendo suo padre. Si voltò per dare un nome alla paura che annichiliva il pensiero dell’altrimenti brillante genitore, per capire cosa avesse potuto ridurre, nel giro di pochi giorni, l’uomo in quel terribile stato. Di fronte alla cella, c’era un’incisione; una versione conservata meglio di quella che aveva visto appena fuori la grotta. Le si avvicinò lasciando a malincuore le dita nodose di suo padre e ne fu attratta al punto da sfiorarne i contorni, come se in quell’intaglio fosse nascosto un potente incantesimo. L’uomo in nero non disse nulla. Si limitò a fissarla con le mani incrociate dietro la schiena avvicinandosi, però, con passo felpato fin quando non le fu alle spalle.

Tre figure erano state disegnate con tratti spessi. Sigyn sfiorò con dita incerte la pietra lavorata, seguendone i contorni. Sentì la voce di suo padre minacciare e supplicare, ma ogni cosa svanì mentre toccava l’incisione. Il primo era un lupo, di stazza enorme e dalle fauci pronte ad azzannare.

“Fenrir,” le mormorò all’orecchio lo straniero.

Il secondo era un serpente che aspettava le sue vittime nelle profondità di un lago.

“Jormungander, il drago marino.”

Il terzo, era la figura stilizzata di un uomo. E Sigyn, sfiorandone la sagoma, comprese a quale fine fosse andata incontro con suo padre e le si gelò il sangue nelle vene.

L’uomo in nero le posò una mano sulla spalla, accarezzando appena una delle sue ciocche d’oro. “Se pronuncerai il mio nome, spezzerai l’incanto,” l’avvertì avvicinandosi e sfiorandole con le labbra il collo.

Sigyn tremò per la vicinanza improvvisa e per il terrore, ma non si mosse. “Perché ancora non mi hai uccisa?” domandò invece con un filo di voce.

“Abbiamo avuto già il nostro tributo di sangue,” mormorò il dio degli inganni. “E tu non hai tentato di rubare niente.”

Lei deglutì. “Non mentirmi,” soffiò, supplicò, senza voltarsi.

“Una debolezza,” le sussurrò all’orecchio. “Sono rinchiuso qui da molto tempo. Troppo.”

Sigyn si girò lentamente e riconobbe nei lineamenti affilati e belli dello straniero vestito di nero quelli dell’iscrizione che aveva scorto nella grotta e non aveva saputo decifrare e che ora aveva ritrovato lì, nel labirinto di corridoi e cunicoli di quel castello fatiscente.

“Liberalo, ti prego. È vecchio e malato,” lo implorò, pallida in volto.

Loki aggrottò le sopracciglia. “Ha sbagliato,” sentenziò perfido.

“Come tutti. Come te.”

L’Ase le scoccò un’occhiata gelida, terribile, fredda come una lama di ghiaccio. “Come osi? Ricorda il mio nome.”

“Lascialo andare,” lo supplicò ancora tremando, “la rosa la prese per me, gliela chiesi io. La colpa è mia, solo mia.”

“Morirà qui perché è un ladro.”

C’era una nota di compiacimento, nella voce arrochita del dio degli inganni che non sfuggì affatto a Sigyn. Di fronte alla possibilità che la spietata creatura potesse sfogare maggiormente la sua ira sul genitore, ebbe uno slancio di folle coraggio. “Prendi me.”

Lo aveva detto davvero, eppure la sua voce le risultò estranea, come se fosse stato qualcun altro, a pronunciarla.

Il dio Loki si volse verso di lei inarcando un sopracciglio, chiaramente sorpreso da quell’atto sconsiderato. “Il tuo sacrificio è folle e inutile,” l’avvertì maligno. “Tu sei giovane e non hai commesso alcuna colpa. Lui è vecchio, gli restano comunque solo pochi anni da vivere. Perché ti vorresti immolare per lui? Che vantaggio otterresti, rinunciando alla tua vita? Moriresti qui tra molti anni da oggi. Non è questo quello che desideravi, per te stessa. Io lo so, lo vedo.”

Sigyn si accorse che grosse lacrime avevano preso a rigarle le guance. “Non posso lasciarlo in queste condizioni,” spiegò con voce rotta. “Prendi me. La mia vita in cambio della sua. È uno scambio equo, un accordo. Una vita per una vita. A te non cambierà niente.”

“Una vita per una vita,” le ripeté l’ingannatore piegando leggermente il capo di lato. “Non sai a che stai rinunciando. Il tuo sacrificio è inutile, doloroso, francamente stupido,” sentenziò a denti stretti. “Perderai per sempre la tua libertà e per cosa? Per un vecchio pazzo che ha sempre preferito leggere le sue carte sdrucite che pensare a te? A un folle che ha dilapidato le sue sostanze per cercare la mia tomba maledetta?” Una risata fredda e secca gli scosse il petto. “Io sono il dio del caos e degli inganni. Sono il mostro delle fiabe che vengono raccontate ai bambini, sono la bestia che ha sconvolto Asgard e Midgard e tutti i Nove Regni. Resterò qui fino al Ragnarok.”

“Da quando a Loki interessa il destino di una mortale?”

L’Ase scosse la testa. “Tu non sai niente. Per gli abitanti di Midgard ho fatto tanto. Molto tempo fa, forse troppo, donai agli uomini il fuoco e il bell’aspetto,” rammentò, stringendo le palpebre come se cercasse, nella sua mente contorta, il ricordo perduto da associare a quell’ammissione. Si riscosse, un lampo divertito gli attraversò lo sguardo. “E sia. Questa è la mia prigione e, d’ora in poi, sarà anche la tua. Accetto lo scambio.”

Continua... (lunedì 10)



[1] Storiografo realmente esistito che narrò, appunto, di un funerale vichingo. Anche.

[2] Creature realmente presenti nei bestiari medievali.

[3] Si chiama veramente così ed esiste!

[4] Un famosissimo miniatore medievale.

[5] Sigyn ha uno spirito positivista che ben si adatta all’epoca (fine 800).

   
 
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