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Autore: Tenar80    09/12/2018    2 recensioni
Devono metterlo in conto questi ragazzetti che giocano con i pattini. Il ghiaccio è duro e freddo. Ed è spietato, come tutte le cose dure e fredde.
Di chi prova a diventare un campione.
Di chi diventerà Victor Nikiforov e di chi non ci riuscirà.
Della fatica di crescere dei campioni, o almeno di farli diventare adulti.
Genere: Sportivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Victor Nikiforov, Yakov Feltsman
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Stagioni'
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Nel tragitto tra casa sua e quella della famiglia di Ekaterina, Yakov diede fondo a tutte le sue imprecazioni, in russo come in tutte le altre lingue che conosceva. E di alcune il suo vocabolario si limitava alle imprecazioni. La prima volta che lasciava uscire il ragazzino alla sera e quello si sentiva male. Sperando che non avesse bevuto. O fumato. Anche se per certi versi, per un atleta era meglio sperare in una sbornia, piuttosto che in un malanno. Magari non a quattordici anni, però.

    Trovò Vitya piegato in due, intento a buttar fuori anche l’anima, sopra un cespuglio sul retro dell’elegante palazzo in cui abitava la famiglia di Ekaterina. A tenergli la fronte non c’era la pattinatrice, ma un ragazzo alto sui diciotto anni che aveva i suoi stessi occhi blu. Occhi che si sgranarono in un viso che era la maschera dell’innocenza, appena si trovò davanti quello inferocito dell’allenatore.

    – Può aver fatto qualche tiro di spinello. Nulla di che – provò a giustificarsi. – Non pensavo di dover fare da balia a mia sorella o ai suoi amici.

    Quindi aveva fumato. E bevuto.

    – Comunque adesso prende un po’ d’aria e si riprende – continuò il ragazzo. – Vero che va già meglio, Vitya… Attento che quelle una volta erano le mie scarpe preferite.

    Il ragazzo provò ad alzare la testa, ma desistette e tornò alle prese con le proteste del suo stomaco. Se quel tipo, come si chiamava… Boris? fosse stato sottoposto in un modo qualsiasi all’autorità di Yakov si sarebbe preso un ceffone.

    – Tua sorella dov’è? – ringhiò.

    – In casa, ha mal di testa.

    Vitya si era inginocchiato a terra. A prescindere dall’età, i fisici dei pattinatori erano delicati, dovevano essere leggeri per saltare, con solo nervi e muscoli attaccati alle ossa. Si chiese se dovesse preoccuparsi sul serio.

    – Adesso tu vai a controllare come sta tua sorella. Sono minorenni. Se lei o il ragazzo finiscono al pronto soccorso ti becchi una denuncia.

    – No, si calmi… – biascicò il ragazzo. A quanto pareva Yakov era ancora bravo a far paura. – Avranno fatto qualche tiro e non sono abituati… Se lo sa mio padre mi ammazza.

    – Tuo padre non è un problema mio. Vai da lei. Subito.

    Boris fece per aggiungere qualcosa, ma in un rigurgito di saggezza ci ripensò e corse via.

    Yakov rimase a osservare Vitya che cercava di rimettersi in piedi.

    – Credi di riuscire ad arrivare all’auto? – gli chiese.

    Il ragazzo alzò il viso stravolto.

    – Sì, penso di sì.

    Aveva risposto alla stesso modo la prima volta che aveva tentato di fare il triplo Axel e si era quasi ammazzato.

    Non ci fu bisogno di portarlo al pronto soccorso. Bastò sbatterlo sotto la doccia e poi trascinarlo in cucina per fargli bere qualcosa di tiepido. Aveva una buona capacità di recupero, ma questo Yakov lo sapeva già.

    – Quindi, fammi capire, un ragazzo ti offre non sai neppure cosa da fumare e tu accetti? Dopo aver bevuto non si sa cosa che ti hanno messo nel bicchiere? – gli chiese Yakov.

    Vitya alzò dal tavolo della cucina quei suoi occhi dal colore indefinibile, tra l’azzurro, il verde e il grigio, nella sua migliore interpretazione del cane bastonato.

    – Lo stavano facendo tutti… Ekaterina voleva insegnarmi a ballare qualcosa di diverso da quello che si fa con Lilia, ma è intervenuto suo fratello, dicendo che eravamo troppo rigidi e qualcun altro ci ha detto che con due tiri ci saremmo sciolti… Poi lei ha finito per ballare con quel ragazzo e io…

    E tu per non pensare al fatto che avresti voluto uccidere quel tipo hai finito tutto quello che ti è stato messo in mano, terminò mentalmente Yakov. Che cazzo si diceva a un ragazzino, in queste situazioni? Ivan era stato la disciplina in persona e comunque lui ce l’aveva un padre adibito ai cazziatoni. 

    – Senti, ragazzino, dovresti averlo già capito da un po’ che nella vita ci vuole un po’ di giudizio – sbuffò. – Non posso portarti in giro per il mondo con l’idea che questa scena patetica si ripeta, magari prima di una gara. Sono stato chiaro?

    Sul viso di Vitya si dipinse un’espressione che Yakov non gli aveva mai visto, qualcosa di molto simile al panico. Non piangeva, ma gli tremavano leggermente le labbra.

    – Mi stai mandando via? – chiese il ragazzo.

    – No, ti porto in pista domani mattina alle otto. Così ti rendi conto da te di quello che ho detto.

    Un istante dopo, Yakov si trovò stretto in un abbraccio, come non gli capitava… Beh, forse da che aveva l’età del ragazzo. Nell’incapacità di capire come dovesse reagire, si trovò a stringerlo a sua volta tra le braccia.

    – Basta così, ragazzino, non è morto nessuno. Fammi sentire come sta quell’altra pazza.

 

    San Pietroburgo – Maggio 2002

 

    – Adesso abbiamo smesso di giocare – disse Yakov ai suoi tre atleti, riuniti in una delle salette del palaghiaccio. – Sono arrivate le assegnazioni per il Grand Prix Juniores. L’anno scorso avete fatto una stagione di prova. Adesso si fa sul serio e mi aspetto che uno di voi tre vinca il Grand Prix.

    Georgi, Kirill e Vitya annuirono all’unisono, con gli sguardi seri. Georgi appollaiato sulla sedia in una di quelle sue posizioni assurde in cui gli arti si attorcigliavano tra loro ma da cui in qualche modo sapeva sempre districarsi, Kirill rigido e attento, pronto a balzare sull’attenti, Vitya in apparenza rilassato, ma con le mani che tormentavano il portafazzoletti di peluche. Bene, pensò Yakov, stavano prendendo la cosa sul serio. Il Grand Prix apriva la stagione internazionale e psicologicamente era un banco di prova fondamentale. Per gli juniores i ritmi erano un po’ meno serrati che per i senior, ma si veniva comunque sballottati per il mondo, costretti a gareggiare ancora sottosopra per il fuso orario e obbligati a dei testa a testa con gli altri atleti. Per esperienza, Yakov sapeva che le rivalità peggiori nascevano durante il Grand Prix. E, in questo senso, le assegnazioni non li avevano favoriti.

    – Partiamo subito con la prima tappa – spiegò. – Sia Kirill che Vitya vi parteciperanno, in Francia, a Courchevel, dal 21 al 25 agosto

    I due ragazzi si guardarono, Vitya un po’ spaesato, Kirill minaccioso.

    – Georgi andrà invece negli Stati Uniti un mese dopo e poi ognuno di voi si farà una tappa diversa, con mia grande gioia, che a ottobre non faccio un fine settimana che sia uno a casa, Kirill in Germania, Vitya in Cina e Georgi in Italia. Tutti e tre avete le carte per arrivare alla finale e sarei molto deluso di scoprire che il vincitore non sta adesso qui in questa stanza.

    Georgi sospirò, stirandosi le braccia.

    – Io mi chiamo fuori da questo – disse. – Farò del mio meglio e voglio entrare in finale, ma per vincere devo far fuori i miei compagni di allenamento.

    – Puoi vederla come una sfortuna o una fortuna, Georgi – replicò Yakov, serio. – Se fossi nato in un qualsiasi altro stato del mondo saresti il migliore della tua nazione. Ma qui ti confronti ogni giorno con il meglio. Se riesci a tenere il loro passo, riesci a tenere il passo di chiunque e non ci sarà nessuno, là fuori, che potrà mai intimidirti.

    Il ragazzo fece un sorriso poco convinto nel volto magro e affilato. Non era facile per niente la sua posizione. Lavorava più degli altri due, studiava più degli altri due, era l’unico ad avere dei voti decenti a scuola, e comunque non riusciva a primeggiare. Non era ancora riuscito a fare un triplo Axel come si doveva, mentre gli altri pensavano già a mettevano già nelle combinazioni. Yakov al posto suo avrebbe pensato seriamente ad avvelenare il cibo della concorrenza e invece Georgi cercava in tutti i modi di farsi amici le due primedonne. 

    Kirill invece sbuffò.    

    – Voglio modificare i programmi – disse. – Sono il più grande e il più bravo. Ho diritto a portare un programma più difficile di quello di Vitya.

    – Ah, sì? – replicò il tecnico. – I diritti voi tre ve li conquistate sul ghiaccio. Se potete fare una cosa dovete farla e poche storie. Mi aspetto di vedere il vostro meglio e solo la classifica finale ci dirà chi di voi è il più forte.

    Kirill sostenne il suo sguardo.

    – Vincerò io, non certo un bambino con il pupazzetto – sbuffò.

    – Hai qualcosa da dire, Vitya? – chiese Yakov.

    Il ragazzo era rimasto per tutto il tempo a fissare il peluche, ma ormai il tecnico lo conosceva abbastanza per sapere che stava ribollendo di rabbia.

    – Voglio partire nel libero con una combinazione con due tripli – disse, alzando lo sguardo. – Triplo Lutz e triplo Toe Loop.

    Yakov lo guardò perplesso.

    – Non è che sia proprio il tuo cavallo di battaglia, il Lutz – commentò. – Ma sei libero di provarci. Kirill?

    – Io lo faccio dopo l’Axel il triplo Toe Loop.

    Con una difficoltà ancora maggiore della combinazione proposta da Vitya.

    – Molto bene. La sfida è aperta.

    I due ragazzi si fissarono senza parlare.

    Nessuno dei due sarebbe progredito in quel modo senza l’altro. E tuttavia Yakov doveva capire anche quale fosse il momento di fermarli, per evitare che si distruggessero a vicenda.

    – Adesso filate a cambiarvi, vi aspetto in pista tra dieci minuti.

 

 

    Era in ritardo, ok. I dieci minuti erano passati e Victor avrebbe dovuto essere già in pista e non diretto ai distributori nell’atrio del palaghiaccio. È che aveva bisogno di schiarirsi le idee. E di caramelle alla menta. Poche cose non potevano essere migliorate dalle caramelle alla menta, quelle gommose, a forma di ditale, con la polvere di zucchero sopra. Ne teneva sempre un pacchetto infilato dentro al portafazzoletti, per averle a disposizione e evitare che gli venissero fregate. Non che ce ne fosse davvero il rischio, era solo una vecchia abitudine dei tempi in cui poteva trovarsi a scuola senza neanche l’ombra di un mozzicone di matita nell’astuccio. Si cacciò subito una caramella in bocca. Non aveva una gran voglia di andare in pista a schiantarsi con il Lutz. Era di gran lunga il salto che gli veniva peggio. Peggio perfino dell’Axel, che richiedeva più forza e concentrazione. Non avrebbe avuto davvero difficoltà, lui, a mettere a punto la combinazione che aveva proposto Kirill e questo era proprio il motivo per cui sapeva di doversi concentrare sul Lutz. Perché il Grand Prix voleva vincerlo. Non per battere Kirill. Non gliene importava niente di lui, non davvero, anche se sul momento poteva essere irritante.

    «Chi è quello?» avevano chiesto in molti, alle nazionali, la stagione precedente, quando era arrivato secondo. E lo avevano chiesto gli amici del fratello di Ekaterina, due settimane prima, alla festa. E le risposte che aveva sentito sussurrare erano una variazione del tema: «il siberiano. Vive con l’allenatore perché pare che il padre sia un poco di buono. Era in istituto». Non era una cosa che volesse rinnegare, ma non sopportava le illazioni che seguivano, sopratutto quelle che aveva sentito a casa di Ekaterina. «Tua sorella se lo porta in casa? Con tutto quello che si potrebbe portare via?». Non sarebbe stato molto più semplice se la risposta alla domanda «Chi è quello?» fosse diventata «Quello che ha vinto il Grand Prix Juniores al primo tentativo, a quattordici anni». Le illazioni sarebbero state diverse. «Yakov se lo tiene stretto, eh, il campioncino, non vuole neppure che stia in pensionato, vive con lui». «Ah, non era la stessa competizione che ha vinto anche tua sorella?». Sarebbe stato tutto più facile. E se avesse vinto abbastanza, a un certo punto non gliene sarebbe importato più niente a nessuno delle sue origini e certo avrebbero smesso di preoccuparsi per l’argenteria. Persino Yakov, i primi tempi, aveva tenuto tutti i cassetti e tutte le ante chiuse a chiave. Come se, per altro, appena arrivato a San Pietroburgo avesse già saputo come e dove rivendere gioielli e cucchiaini d’argento.

    – Eh, ragazzino, hai intenzione di ignorarmi ancora per molto?

    Victor sobbalzò, sentendo la voce di Ekaterina.

    Lei stava entrando in quel momento. Aveva indosso una banalissima tuta da allenamento, non era truccata, aveva i capelli raccolti in uno chignon e persino gli occhiali riposavista. Era l’Ekaterina che lui era abituato a vedere tutti i giorni, bellissima così com’era. Non la ragazza nell’abito scintillante, con le labbra virate al violetto e le ciglia lunghe il doppio della sera della festa, con cui non sapeva bene come interagire. Non sapeva neppure dire se gli piacesse. Di certo non quanto gli piaceva ora.

    – Non ti sto ignorando, pensavo che non mi volessi tra i piedi, non quando hai… Igor?

    Il ragazzo con cui aveva ballato, che era al primo anno di università e certo non indossava vestiti di seconda mano. Lui era rimasto a guardarli inebetito, mentre Boris, con quei suoi occhi così uguali a quelli della sorella, lo prendeva in giro e gli passava quella maledetta canna.

    Ekaterina si strinse nelle spalle.

    – Non sono abbastanza elegante per lui. E non ho abbastanza tette – disse, accennando al petto quasi piatto.

    – A me piaci così.

    Gli si avvicinò e gli passò una mano sulla guancia.

    – Bene. Quindi vedi di smetterla di ignorarmi. Io odio essere ignorata.

 

 

 

    – Ok, basta così. Andate a cambiarvi tutti e due – disse Yakov.

    L’allenamento in pista sarebbe dovuto terminare venti minuti prima, ma né Kirill né Vitya volevano mollare. Entrambi avevano deciso di inserire una combinazione che partiva con un salto che non dominavano ancora del tutto e entrambi avevano deciso che lo avrebbero padroneggiato prima del rivale. Erano dieci giorni che provano e riprovavano con ostinazione. Vitya aveva allungato anche gli allenamenti in palestra e quelli di danza, per aumentare potenza ed elasticità. Si era beccato un voto pessimo perché si era addormentato durante una lezione e la sera prima era praticamente crollato sulla cena. Kirill stava tenendo più o meno i suoi stessi ritmi, ma aveva più resistenza. Prima che Yakov terminasse di parlare era già partito per il salto. Un triplo Axel perfetto, da sei tondo, con atterraggio impeccabile. Georgi, a bordo pista, applaudì di cuore e anche Ekaterina, che stava provando dei passi sotto la supervisione di Dimitri, accennò a un mezzo inchino. Quello era un triplo Axel da campionato del mondo senior.

    – E con questo possiamo dire di aver chiuso in bellezza – approvò Yakov.

    Era bello vedere Kirill soddisfatto, per una volta. Non era simpatico, era un dato di fatto, ma non era colpa sua. Yakov doveva essere oggettivo. Era un ottimo pattinatore e bisognava che lo sapesse.

    – Andiamocene – disse.

    Vitya, però, non aveva nessuna intenzione di uscire dalla pista.

    – Un ultimo tentativo e arrivo.

    Aveva saltato maluccio ed era caduto un paio di volte. Ma dare la vittoria morale della giornata a Kirill gli scocciava da morire.

    – Ultimo – concesse Yakov.

    Errore. Il ragazzo era stanco e ammaccato. Non avrebbe dovuto permettergli di saltare ancora.

    Il tecnico vide subito la partenza fuori asse, il tentativo maldestro di completare le rotazioni e poi la caduta, con le gambe una sotto l’altra… Una caduta così simile a quella di Ivan che per un istante Yakov si sentì mancare.

    – Non riesco ad alzarmi – disse Vitya un attimo dopo.

    Aveva le mani appoggiate sul ghiaccio e la fronte corrucciata, con i capelli lunghi che gli ricadevano sul viso. Era atterrato col sedere sul pattino destro e caviglia e ginocchio…

    – Datti un attimo, può essere solo la botta – disse Yakov, con una sicurezza che non sentiva.

    Kirill era solo a pochi metri da lui, lo guardava imbambolato, ma col cavolo che faceva un movimento per dargli una mano. Fortuna che Dimitri era in pista con i pattini ai piedi e si stava già muovendo. Raggiunse Vitya in pochi movimenti e controllò immediatamente la gamba.

    – È una distorsione al ginocchio. Farà male, ma non è nulla che non possa guarire – disse un attimo dopo.

    – Sei sicuro? – mormorò il ragazzo, con voce flebile.

    Aveva la stessa espressione di quella sera, il terrore che fosse tutto finito.

    – Cos’è, è la prima volta che ti fai male? – chiese Kirill, che finalmente si era degnato di avvicinarsi.

    Vitya non replicò. Era la prima volta che Yakov lo vedeva davvero a un passo dalle lacrime.

 

    – È davvero terrorizzato, non l’ho mai visto così – sussurrò Ekaterina.

    Yakov annuì. Si fidava di Dimitri, ma aveva comunque chiamato il medico che seguiva i ragazzi e in quel momento si stava occupando di Vitya nell’infermeria del palaghiaccio.

    – Non lo facevo un piagnone – disse ancora la ragazza.

    – Non è per l’infortunio in sé – replicò Yakov. – Dorme nella stessa camera di Ivan e lui non ha nulla a cui tornare.

    Ekaterina annuì.

    – È così brutto là dove stava? – chiese.

    – La Russia è piena di posti peggiori in cui crescere – rispose il tecnico. – Ma non è il posto per lui, non dopo aver provato tutto questo.

    Yakov un paio di volte aveva chiamato Ivan. Il ragazzo si era sempre sforzato di mostrarsi positivo. Sua madre stava meglio, il padre lavorava di nuovo. Nella fabbrica apprezzavano la sua precisione, l’abitudine alla fatica. Si era fatto degli amici, usciva anche con una ragazza. Se la sarebbe cavata. Sarebbe diventato magari capo reparto, magari meglio. Si sarebbe fatto una famiglia, avrebbe comprato un appartamento in un casermone di periferia. Lui che, nella mente di Yakov, a febbraio di quell’anno avrebbe dovuto vincere le olimpiadi. E Ivan era solido, ancorato alla realtà e con una buona dose di senso pratico. Vitya in una fabbrica sarebbe durato quindici giorni.

    Sospirando, il tecnico si mosse verso l’infermeria. Incrociò il medico sulle scale.

    – Lo stai spremendo troppo quel ragazzo – gli disse l’uomo, sistemandosi gli occhiali. – Il ginocchio torna a posto in due settimane di riposo, il resto sono solo lividi. Sta piangendo come una fontana, però, ma credo sia sollievo. È crollato quando ha capito che davvero sarebbe andato tutto a posto. Non sono ritmi per ragazzi di quest’età. Dovresti farli seguire anche sul piano psicologico. Quasi tutte le squadre europee, di qualsiasi disciplina, ne hanno uno.

    Yakov grugnì qualcosa di incomprensibile. Odiava gli psicologi.

    – Una volta non avevamo di questi problemi – ringhiò.

    – Erano altri tempi. Si veniva su indottrinati, questa è una generazione persa, nati in mezzo al guado, non più sovietici, non ancora russi. 

    Il tecnico scosse il capo. Sapeva che il medico aveva ragione, a sessantacinque anni aveva visto generazioni di sportivi. Era anche uno dei pochi che vedesse gli atleti come individui e non come macchine da medaglie. Evitava di somministrare certi farmaci che in Russia giravano con troppa facilità e Yakov sapeva che quando si fosse ritirato avrebbe perso un tassello fondamentale del proprio staff. E tuttavia gli psicologi per lui rimanevano quelli che ti dicevano che era normale sognare di portarsi a letto la propria madre.

    Vitya era ancora in infermeria e Yakov si fermò appena fuori dalla porta socchiusa, da dove poteva sbirciare dentro senza farsi vedere.

    Il ragazzo era sul lettino, il ginocchio era stato fasciato e inserito in un tutore, anche la caviglia era fasciata e aveva un aspetto gonfio. Lui si stava asciugando quasi con rabbia le lacrime che suo malgrado continuavano a colargli dagli occhi, estraendo uno dopo l’altro i fazzoletti dal cagnolino. Ekaterina gli teneva una mano sulla spalla e guardava preoccupata ora lui e ora Dimitri, in piedi al suo fianco. Con sorpresa, Yakov si accorse che anche Kirill era nella stanza, in un angolo, come fosse lì per caso, ma non riusciva a staccare gli occhi dal compagno di allenamento.

    – Odio farmi vedere così – stava dicendo Vitya.

    Yakov non stentava a crederlo, il ragazzo era vanitoso come un gatto. Forse era meglio rimanere lì, senza imporgli anche la propria presenza.

    – Guarda che lui non ti lascerà andare – disse Dimitri. – Non importa cosa ti abbia detto o quanto abbia ringhiato. Di una cosa potete essere certi, tutti quanti, qualsiasi problema abbiate, qualsiasi cosa vi possa capitare, Yakov non vi lascerà andare, a meno che non siate voi a voler partire.

    – Ma Ivan… – iniziò Kirill.

    Tutti avevano sentito la sua storia. E ne erano terrorizzati.

    – Non poteva più pattinare – raccontò Dimitri. – E voleva tornare dalla sua famiglia. Chi pensate che abbia smosso mari e monti per trovare qualcuno disposto ad assumerlo da un giorno all’altro e con stipendio pieno? Io ho trovato il contatto, ma è stato lui a ungere gli ingranaggi. E se invece Ivan avesse voluto studiare si sarebbe trovata un’altra soluzione.

    Anche dalla sua posizione, Yakov vide l’incredulità negli occhi dei ragazzi. Bene, quindi lo pensavano davvero senza cuore? Beh, lui ci si metteva davvero d’impegno perché lo pensassero. Ma non era così bello constatare che l’obiettivo era stato raggiunto.

    – So di cosa parlo – continuò Dimitri. – Io sono uno di quelli che non ce l’hanno fatta. Ho avuto sfiga, pura e semplice sfiga. Dovevo andare a Lillehammer. Non avrei vinto, questo no, ma avevo vent’anni ed era un sogno che si realizzava. Ma mi sono fatto male durante quella stagione, una brutta caduta in una tappa del Grand Prix. Ho dovuto essere operato e hanno sbagliato qualcosa. Ho provato a imbottirmi di farmaci, ma non c’è stato niente da fare, la schiena non regge più il contraccolpo dei salti. Avevo vent’anni, il che vuol dire essere giovane per un sacco di cose, ma vecchio per altre. Non avevo uno straccio di titolo di studio, tanto per dirne una, allora non si dava peso a queste cose. Yakov non era il mio allenatore, anche se ovviamente nell’ambiente ci si conosceva tutti e mi ha preso su, come si prende un cucciolo abbandonato, offrendomi un lavoro che proprio allora non sapevo fare, ed eccomi qui, otto anni dopo. Credetemi, ragazzi, vi sembreranno tanto fighi gli europei e gli americani, con i loro tecnici a contratto, con le loro università, ma in tutto il mondo non potevate capitare meglio che con Yakov.

    L’allenatore fece un passo indietro. Adesso, pensò, non era proprio il caso di entrare. 

    – Grazie – disse più tardi a Dimitri, quando anche lui fu riemerso dall’infermeria. – Ho sentito quello che hai detto hai ragazzi.

    – E di che? Ho detto la verità – replicò l’uomo, facendo ondeggiare i capelli lunghi, che portava legati in una coda.

    – Pensi che sia il caso di farli seguire da uno psicologo, come fanno in Europa e in America?

    – Dio, no. Così quello convince Kirill che andare con gli uomini sia bello e normale!

    Yakov si strinse nelle spalle.

    – Guarda che per un tecnico un atleta gay è più facile da gestire, lo puoi sempre ricattare.

    – Sì, ma io nella stessa stanza con uno di quelli non ci voglio stare. Kirill è ancora salvabile e di certo non voglio che qualcuno lo incoraggi!

    – Dimitri, noi siamo cresciuti con la consapevolezza di essere soldati. Non era bello, non era giusto, ma sapevamo cos’eravamo. Loro non lo sanno. Combattono, senza neppure la consapevolezza della battaglia.

    L’uomo più giovane scosse il capo.

    – Lo scopriranno. Cadranno, si faranno male. Qualcuno lo perderemo come atleta. Ma tutti diventeranno adulti.


NOTE A MARGINE
Questo racconto non è stato inizialmente pensato per EFP, quindi dividerlo in capitoli è un po' problematico. Sto anndo a casaccio, interrompendo dove mi sembra un buon punto per farlo, ma inevitabilmente alcuni saranno molto più brevi di altri.

Qualche appunto sportivo, Victor, Georgi e Kirill fanno parte della stessa generazione atletica la cui unica (o quasi) esponente ancora competitiva è Carolina Kostern, che avrebbero in effetti potuto incontrare nella tappa francese del Grand Prix Juniores.
Rispetto ad allora il sistema di punteggi è stato rivoltato come un calzino e le combinazioni progettate da Victor e Kirill sono oggi (quasi) normale amministrazione, ma per quegli anni erano in massimo che si riusciva a fare. Devo qui un ringraziamento particolare alla mia "spacciatrice di pattinaggio" per aver scomposto alcune esibizioni juniores d'annata per ricostruire un programma credibile per i nostri baby pattinatori.

Infine, un grazie sincero a chi sta seguendo questa storia anomala, che procede lenta nel seguire i contorni delle ombre delle vite dei giovani campioni.
   
 
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