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Autore: alessandroago_94    10/12/2018    9 recensioni
Isabella è una ragazza come tante altre, senza alcuna pretesa di troppo dalla vita.
Tuttavia, da quando la relazione con il suo ragazzo è entrata in crisi, la felicità ha lasciato spazio alla più profonda tristezza.
Quello che non sa è che, a volte, la vita sa donarci piacevoli sorprese. E l’amore può annidarsi dove neppure lei avrebbe mai creduto di poterlo trovare.
Genere: Fluff, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: Lime | Avvertimenti: Tematiche delicate | Contesto: Contesto generale/vago
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Capitolo ventinove

CAPITOLO VENTINOVE

 

 

 

 

 

 

 

 

 

M’informai, e purtroppo scoprii che era tutto vero. Un testamento olografo, scritto a mano da mio padre, era stato depositato da lui stesso presso il notaio Bernardi, che mi aveva avvisato tramite lettera, contenente i suoi recapiti e le informazioni che mi poteva offrire. Era quindi una realtà, un dato di fatto che mi aspettasse questo testamento tenuto segreto per volontà del mio genitore, fino al decesso avvenuto.

Come se si stesse stagliando una grande incognita nei miei orizzonti, ascoltai quello che l’uomo dalla voce limpida mi spiegava, al di là del mio cellulare, mentre ancora ero in pausa pranzo, seppur agli sgoccioli.

Mi parlò, non mi disse tuttavia un granché, e si scusò per il ritardo dell’avviso, addebitandolo ad altre cause, e si spiegò in modo molto umano. Io non attaccai in alcun modo, lo lasciai parlare, ascoltando quel paio di frasi in croce che aveva da dire, e presi consapevolezza del fatto che l’ostacolo c’era, e che dovevo affrontarlo.

Infine, con scarsa attenzione, salutai cortesemente il gentile signore e gli promisi che l’indomani pomeriggio sarei stata al suo cospetto. Dovevo e volevo togliermi quel sassolino dalla scarpa, e mi sentivo desiderosa di agire, d’altronde purtroppo mi aveva anche avvertito del fatto che la lettura del testamento non sarebbe stata posticipata con così scarso preavviso. Ed io volevo esserci, lì ad ascoltare, al momento opportuno.

Pochi minuti prima che scattassero le quattordici, e quindi anche la ripresa del mio turno, con il suo orario pomeridiano, mi recai a parlare con la signora Virginia, che non oppose alcuna resistenza e fu molto accomodante, e riuscii quindi a liberarmi per tre giorni. Due in cui sarei stata a Milano, e uno di libertà a casa mia, al ritorno da un viaggetto di cui ancora non conoscevo il vero volto, e di cui non riuscivo a immaginare nulla. Nulla di quello che mi avrebbe potuto riservare, o di quello che mi sarei dovuta aspettare.

Con tutta la strada spianata, avvisai mia madre, dandole velocemente la notizia, e poi telefonai a George, e nonostante tutto fu ben felice di tornare a garantirmi il suo appoggio e il suo passaggio. Poi, ritornai a lavorare, ma ero tesa in una maniera assurda, e faticavo a far tutto.

Alle quindici ero già sudata e anche tremavo, a tratti, dalla tensione, anche se sapevo che dovevo saper tenere a bada il mio inconscio. Ma la curiosità e l’ansia erano salite a picchi vertiginosi, e non riuscivo più a domarle.

“Isabella cara, credo che qualche giorno in più di riposo possa aiutarti a farti stare meglio. Ti vedo troppo tesa, ormai non parli neppure più, e di questo mi dispiace moltissimo! Prenditi tutto il tempo che ti serve, e non temere nulla, perché so che questo è un periodo molto impegnativo, e mi dispiace per quello che ti sta accadendo di recente”, mi rassicurò la proprietaria del locale, gentilissima, quando tornai a passarle d’appresso.

Era incredibile notare come avesse cambiato atteggiamento da quando George le aveva parlato bene di me, e una volta era anche intervenuto come garante delle mie spiegazioni.

Se solo tre mesi prima mi fossi azzardata a narrarle anche una sola metà di quelle tristi vicende che mi stavano perseguitando e angustiando, avrebbe fatto tutto il possibile per licenziarmi e per rimpiazzarmi. Invece, oramai sembrava quasi fosse una mia vecchia amica, eravamo in ottimi rapporti.

“La ringrazio. È sempre molto umana e comprensiva nei miei confronti”, la ringraziai, sorridendole.

“Come potrei non esserlo? Io voglio solo il meglio per te. Ormai sei come una figlia per me, e spero che la vita torni a sorriderti”, aggiunse.

La ringraziai tacitamente, quella volta, con un altro e semplice sorriso, per poi tornare a svolgere le mie mansioni, e siccome quel giorno il locale era pieno zeppo di persone, di cose da fare ne avevo parecchie.

Sudata nonostante l’aria condizionata, sapevo che rischiavo anche di ammalarmi, ma ormai che importava? Mi sentivo una macchina, insensibile al mondo circostante. Fintanto che la vicenda riguardante mio padre e la sua morte non sarebbe stata risolta, poiché avevo anche intenzione di chiedere le giuste informazioni a riguardo del suo decesso, credendo fermamente che fosse mio diritto farlo, giacché neppure ne ero stata informata, non sarei stata tranquilla. Tanto valeva risolvere la faccenda al più presto possibile.

Sospirando, andai avanti con la mia solita routine lavorativa fino a sera, e solo quando tornai a salire sulla mia auto ripresi a respirare. Avevo comunque di fronte a me tre giorni di fuoco, che si preannunciavano tosti, e poi dovevo organizzare tutto in fretta.

Con la promessa di George, che mi avrebbe condotto a Milano, mi risparmiavo il problema del treno, e del cercare i biglietti, e quant’altro, e quindi ciò risultava anche un netto risparmio di tempo, tuttavia dovevo anche preparare un minimo di bagaglio. E parlare con mia madre. Riflettere. Prepararmi mentalmente.

Smisi di cercare di elencare e di razionalizzare tutte quelle cose che avrei dovuto fare, e misi in moto la mia auto, pronta per tornarmene a casa e cominciare a provare di sciogliere qualche nodo dalla matassa caotica di filo che era diventata la mia giovane esistenza.

 

Una volta a casa di mia madre, preparai in fretta il mio scarno bagaglio. Non cenai neppure.

Piergiorgio l’avevo avvisato, l’indomani mattina mi avrebbe atteso di fronte alla stazione del nostro paesino.

Misi in valigia solo l’indispensabile, ma come sempre mi rendevo conto che avevo davvero poco guardaroba, e la scelta ricadeva sui soliti capi di vestiario. Preferii non abnegare oltre la mia femminilità, come facevo ogni mattina prima di recarmi al lavoro, quindi presi con me qualche vestitino che ritenevo più da sera. Non m’importava molto quello che avrei indossato, d’altronde, bensì solo andare al sodo.

Scesi al piano inferiore solo quando fui certa che avevo preso tutto l’occorrente con me, adagiato nella mia valigetta da viaggio, comoda e maneggevole, la medesima con cui me n’ero andata dall’appartamento che avevo preso in affitto assieme al mio ex. Una fitta allo stomaco mi travolse, a quel pensiero. Era per quello che avevo bisogno della compagnia di mia madre.

Prima di recarmi in cucina, dove lei come al solito era impegnata con i suoi paciughi da mezza cuoca, mi soffermai sulla porta del salotto, dal quale, illuminate dalla luce del sole morente della sera avanzata, le due rose che il mio amore ci aveva regalato ancora profumavano l’ambiente, e il cui odore si percepiva anche nel corridoio, per via della porta aperta.

Ben presto sarebbe stato buio pesto, ma loro non sarebbero state inghiottite dalla sua oscura coltre, bensì con il loro profumo avrebbero continuato ad essere una presenza stabile.

Quelle che mi aveva fatto recapitare in precedenza, in anonimato, purtroppo erano sfiorite ed appassite, e mia madre era stata costretta a buttarle, senza mai capire che in realtà i doni erano correlati tra loro. E pensare poi che a me quel legame pareva davvero impossibile da nascondere, quasi banale.

Mi rendevo tuttavia conto che essere dentro ad una vicenda portava anche certe consapevolezze che terzi ed estranei a essa difficilmente avrebbero saputo cogliere.

Lasciai perdere i fiori, immersi placidamente nel loro vaso di ceramica di Faenza, pieno d’acqua, andai da mia madre, infine. La rassicurai, ma poco; non avevo molto da dire, e temevo di parlare troppo. Avevo paura di ciò che avrei udito l’indomani pomeriggio, di quello a cui mi sarei trovata di fronte. Era il senso dell’incognita a logorarmi, piano, lentamente, come un tarlo.

Andai poi a letto, rassegnata, con la mente svuotata. Mi ero già scordata di quel poco che avevo detto a mia madre, e di quello che lei stessa mi aveva rivolto. Gli scherzi dell’ansia.

Rimembravo solo che era apparsa calma e pacata, e che l’indomani mattina si sarebbe alzata presto, per darmi il suo personale saluto, e questo mi bastava per dirmi che dovevo solo riposare, e che il resto andava obbligatoriamente rimandato.

 

Una volta nel mio letto, senza pigiama ma solo in reggiseno e mutande, per via del caldo, affondai il viso nei miei due cuscini, ed aspirai l’odore di George, che era rimasto impregnato nella stoffa delle federe fin dalla notte precedente, l’ultima che avevo trascorso in compagnia del mio tenero amante. Sapevo che quella, senza di lui, sarebbe stata più triste e spaventosa.

Mi rialzai per accendere l’abatjour, intenta a dormire con la piccola luce accesa, come facevo solo quando ero estremamente turbata, e quando tornai a distendermi mi ritrovai di nuovo a cercare l’odore della sua pelle, impressa nelle lenzuola, e in modo ancor più vigoroso sui cuscini, dove aveva strofinato il suo viso.

Mi venne da pensare a cosa stesse facendo, e se fosse ancora sveglio; sicuro che lo era, riflettei, siccome erano solo le ventidue, ma… forse era andato a dormire, e immaginavo male. Non sapendo darmi risposte, ancora agitata, finii per frugare sul mio comodino, alla rinfusa e con gli occhi socchiusi, alla blanda ricerca del cellulare, pensando di fargli uno squillo, in modo da potermi rassicurare un pochettino.

Tuttavia, col senno di poi, giunsi alla conclusione di non voler tornare a telefonargli, col rischio di disturbarlo, siccome ormai era tarda serata e non volevo essergli di fastidio più del dovuto. Già sentivo di aver esagerato, e che lui si stesse sacrificando per me, per agevolarmi la vita, poiché mi aveva visto disperata e demotivata, quindi non volevo e non potevo permettermi di andare ad aumentare la mia pressione personale, anche solo con una telefonata rincuorante.

Che poi sapevo che lui sarebbe stato come sempre gentilissimo con me, e buonissimo, e questo mi faceva ancora più male da pensare, giacché sapevo di rubargli altro tempo, e ciò era quello che meno desideravo. Aveva fatto tantissimo per me, e doveva farne ancora di più, e di conseguenza non volevo approfittarne in nessun modo.

Non volevo diventare un qualcosa di asfissiante, qualcuno che lo chiamava a tutte le ore per ogni bazzecola.

Con quei pensieri tormentosi, quando ormai non ci contavo più, scivolai nel sonno senza accorgermene, e dormii fino alla mattina successiva, ormai a poca distanza.

 

Il risveglio fu frenetico e ansioso, comunque avevo già tutto pronto, e mi resi conto che mi mancavano solo due cose da fare; una breve colazione, e salutare mia madre.

Per quello, dopo essermi lavata il viso e pettinata, presi con me la mia valigia e andai alla ricerca della mia genitrice, che ovviamente mi stava aspettando con una sostanziosa colazione calda già pronta.

“Buongiorno, ma’. Come sempre, ti disturbi troppo”, le dissi, accorrendo però ad approfittare subito della sua premura.

“Bevi piano”, mi riprese, quando notò che stavo praticamente trangugiando il latte, e a momenti mi andava pure di traverso, “e stai attenta”.

“Non credo che morirò. Sarò presto a casa con te, di nuovo”, cercai di buttarla sul sarcastico. Le sorrisi, anche.

“Lo so. Comunque, qualunque cosa scoprirai, o che ti abbia lasciato… devi promettermi che non ti turberà. Che non tornerai a casa cambiata per questa che è solo una stronzata”.

Lasciai che le sue parole scivolassero su di me, e scolato il mio latte, appoggiai la tazzina sul tavolo, con lentezza.

“Vado solo per ascoltare un paio di stronzate, come giustamente le hai chiamate; penso di non correre alcun rischio, anche perché sono già pronta ad udire delle cose che mi faranno provare molto dispiacere”, le risposi, in modo molto diplomatico, comunque sottolineando con cura il verbo ascoltare. Era solo quello che avevo intenzione di fare, anzi, magari potevo anche permettermi di non ascoltare quelle stupidaggini e di far in modo che uscissero subito dall’orecchio opposto a quello in cui erano entrate.

Restavo tuttavia molto seria.

“Mi fido di te, ormai sei grande. Hai anche una lingua spigliata, e se serve usala, non utilizzarla solo in casa. Fai vedere che hai le palle, anche se sei donna e il mondo intero pensa di fregarti”, aggiunse, ed io l’abbracciai subito.

“Mamma, non parlare così, altrimenti non puoi sgridarmi più quando mi lascio andare troppo a parole”, le sussurrai, bonariamente, e potei godere del nostro lungo abbraccio condiviso. Lo sciogliemmo solo quando fui certa che non potevo più attendere oltre.

“Devo andare”, riconobbi, infatti.

“Vai”, m’incoraggiò mia madre, e quando la guardai, notai una piccola lacrima di commozione che le scendeva giù, lungo la guancia destra.

“Se fai così, fai piangere anche a me, e non ce n’è bisogno”, mormorai, un po’ in imbarazzo, temendo anche di essere stata troppo dura, ma lei non fece una piega e non prestò troppo caso alle mie parole.

“Sei proprio sicura che non vuoi che ti accompagni alla stazione?”, mi chiese.

Mi aveva già posto quel quesito, ed io ero stata categorica nel rifiutarlo. George mi attendeva lì, e non essendo troppo distante da casa, le avevo addirittura detto che ci sarei andata a piedi. Notando il suo sbigottimento, però, mi ero corretta con prontezza e avevo ceduto all’utilizzo della mia auto, tanto poi l’avrei lasciata parcheggiata lì di fronte, ed in quel modo avrei potuto scongiurare ogni altro sospetto, sempre che ce ne fosse qualcuno che aleggiasse nell’aria.

Mia madre non aveva mai accennato a nulla, ed io credevo fermamente che non sospettasse neppure che qualcuno mi avesse accompagnato, seppur sapesse ormai che mi vedevo con qualcuno. Forse pensava che non fosse poi qualcosa di così serio, siccome non glielo avevo mai presentato, ed ero stata sempre molto enigmatica con lei e con chi mi conosceva, cosa che invece non ero mai stata, fin da quando ero bambina, essendo da sempre una persona cristallina, in grado di dire le cose come stavano e in faccia.

“No, dai, ti ho già detto che mi farebbe solo commuovere troppo. Quindi, vado da sola, e non preoccuparti, stai su con il morale, che presto sarò di nuovo a casa”.

Le sorrisi, subito dopo il mio ennesimo rifiuto alla sua proposta, e cercai di sdrammatizzare, quando mi rendevo conto che probabilmente temeva un po’ il fatto di restare a casa da sola per un abbondante paio di giorni, quando ormai era abituata alla mia presenza, che almeno le avrebbe garantito un aiuto in caso di bisogno… o di malori improvvisi, com’era accaduto, purtroppo, qualche settimana prima.

Mi ritrovai a fare mentalmente gli scongiuri, sperando che non le accadesse nulla di male intanto che sarei stata via, e mi sentii un po’ in colpa per il fatto che non avevo pensato a lei, magari cercando qualche sua amica o qualcuno che potesse passare la notte lì in casa, per non lasciarla mai sola, ma era troppo tardi per organizzare qualcosa.

Pregai solo che la sfortuna non se la fosse così tanto presa con me da farmi anche uno scherzo macabro del genere. In fondo, però, era meglio non pensarci proprio a tali eventualità.

“Buon viaggio, allora, e fatti valere”, tornò poi a stringermi a sé mia madre, dopo aver accettato il mio ultimo diniego dopo parecchi secondi di impassibile e impalpabile silenzio.

“Grazie. Mi limiterò ad accogliere ciò che mi diranno”, chiusi la parentesi, e tornai a districarmi dal nostro ultimo abbraccio ricambiato.

Era ora di farla finita, era giunto il momento, per me, di andare. Lasciai così mia madre, con lei che mi accompagnò fino alla porta, e stette a guardarmi fintanto che non fui lontano dalla portata dei suoi occhi, con la mia auto che sfrecciava verso la stazione, non troppo distante.

Sbuffai, perché se da una parte la sua premura mi commuoveva, e mi lasciava intendere quanto ancora ci tenesse a me, dall’altra sembrava che stessi finendo al patibolo, e che il mio fosse una sorta di viaggio senza ritorno.

Scrollai il capo, riuscendo a distogliere la mia mente da tutti quei ragionamenti machiavellici, e in fondo anche sciocchi e inutili.

Quando giunsi in stazione, parcheggiai comodamente ed estrassi la valigia dal portabagagli, assicurandomi per bene anche la borsa, per non scordarla in macchina, e chiusi tutto a chiave.

M’incamminai poi lungo il parcheggio, fintanto che notai il fuoristrada bianco di George, che era già lì. Rincuorata, mi mossi subito verso di esso, finché potei vedere il mio uomo che mi stava aspettando.

Quando mi vide anche lui, galantemente scese dall’auto in sosta e mi venne incontro, pronto ad accollarsi il peso della mia valigia.

“Che puntualità, mio caro!”, esclamai, festosa.

Mi sorrise, e senza dire nulla, cercò di prendere la valigia.

“Pesa poco, posso portarla da sola. Grazie, comunque”, declinai la sua cortesia, che a volte mi sembrava davvero eccessiva, sorridendogli.

“Se non ti dispiace, vorrei portartela io”, insistette.

“Va bene”, lo lasciai fare, alla fine, cedendo. Era pur sempre lui che mi offriva un passaggio, e se portare una valigia poteva farlo contento, tanto valeva che lo accontentassi.

“Accomodati pure in auto”, m’invitò poi, senza smettere di sorridere, mentre andava a sistemare le mie cose nel suo portabagagli.

Feci come mi aveva detto, e salii in macchina, allacciandomi subito le cinture. Ecco, ero davvero pronta a partire.

Sospirai, prendendomi il volto tra le mani, immersa in un altro breve momento di sconforto, pensando a cosa avrei scoperto da lì a poco, durante quel pomeriggio.

A salvarmi di nuovo da me stessa fu George, che salì a mio fianco, e, dopo aver preso posizione ed aver infilato in fretta la chiave nel cruscotto, mi passò una scatolina.

“Cosa…”, gli dissi, ed immediatamente avvampai.

Pensai subito che si trattasse di un altro anello; quello che mi aveva in precedenza regalato era finito nel cassetto del mio comodino, e non l’avevo mai indossato. Ero una ragazza pratica e gli anelli e i monili non facevano per me, e anche se capivo l’importanza che quelle cose potevano avere per chi le regalava, non ero comunque disposta a cambiare le mie abitudini.

“Un regalino, per risollevarti il morale”, scrollò le spalle lui.

“Non posso accettarlo”, affermai, afferrando la scatola piccina e facendo cenno di passargliela, ma ritrasse le mani e le pose sul volante.

“E’ tua, tienila con quello che c’è dentro. Se non la vuoi, tienila lo stesso e non aprirla, ma tienila”.

“Non dovevi. Sai che io non vado molto d’accordo con gli anelli… non riesco a portare neppure quello che mi hai già regalato, e mi dispiace. Non farmi provare un altro dispiacere così”, feci leva sul reale stato delle cose.

Apparse però irremovibile.

“Ti dico di tenerlo. Mettilo da parte, fai finta di non aver mai ricevuto niente, poi quando un giorno te la sentirai, o ne avrai bisogno, aprila. Sul serio, fai così. Tanto di regali ho intenzione di fartene altri, a breve”, ridacchiò, bonario.

“Oh, George! Sai che da te non voglio nulla, se non il tuo amore e il tuo rispetto, e fidati, di tutto ciò me ne stai offrendo parecchio. Per quanto riguarda il resto, è solo qualcosa in più, di inutile”, risposi a mia volta, commossa dalla sua bontà.

Piergiorgio era come sempre una persona di una sincerità allucinante; sembrava che, quando parlava, si aprisse senza problemi, senza farsi scrupoli. Mi sembrava una persona così vulnerabile, così impossibile da amare per quello che era, che mi pareva impossibile che solo io potessi cogliere quel buono che c’era in lui, siccome non sembrava avere tanti impegni sociali, o averne mai avuti.

Mi sembrava tutto così strano, a volte.

“A me fa piacere farti dei regali, va bene? Fa bene a me stesso, e se poi ti regalano un sorriso, esiste cosa più bella?”, mi domandò retoricamente, in modo molto poetico.

“Non vivo più senza di te, George”, sussurrai, avvicinandomi al mio viso e strofinando le mie labbra sulla ruvidità del suo.

Quando le nostre labbra si incontrarono, ci scambiammo un bacio pieno di passione.

“Ora però dobbiamo proprio andare, se no non ce la faremo mai”, riconobbe lui, dopo qualche minuto in cui le nostre effusioni non avevano accennato ad allentarsi.

“E non vorrei che fossimo costretti a fermarci per soddisfare i nostri istinti…”, buttai lì, sorridendo, ricordando quello che era accaduto qualche giorno prima, in un anonimo parcheggino di periferia.

George la prese anche lui sul ridere, e rise forte.

“No, in macchina ti giuro che non lo farò mai più. Ne ho avuto a sufficienza”.

Mise in moto il fuoristrada, e partì facendolo sgommare.

“Non è mica un rally”, dissi, accorgendomi che aveva pestato un po’ più del solito l’acceleratore.

“Invece dobbiamo darci un po’ da fare, la strada di fronte a noi è tanta, e non vogliamo giungere alla meta con l’acqua alla gola”, sancì il mio saggio interlocutore, facendomi sospirare più forte del solito.

“Mi dispiace di averti recato così tanto disturbo per una sciocchezza del genere”, riconobbi.

“Non scherziamo. Là mi attendono anche delle conferenze interessanti, che altrimenti, senza accompagnare te, non avrei trovato stimoli per parteciparvi”, disse, serio.

“E’ che tutto mi sembra così senza significato”, cominciai a dire, per dare sfogo alla mia interiorità, “non prendertela, non ce l’ho con te, anzi, tu hai già fatto molto più del dovuto, ma me la prendo con i fatti, e con la piega che hanno preso”.

“Non c’è bisogno di reagire così! Stai solo facendo aumentare il tuo nervosismo, e basta. Non risolvi il problema, sii serena”.

“E’ che stiamo facendo tutta questa strada per andare ad ascoltare stronzate che sono convinta che mi faranno incazzare a morte. Tanto, lui cosa vuoi che mi abbia lasciato? Non mi ha mai potuto vedere, se fosse stato interessato a me non sarebbe scappato dietro alla prima gonna che gli è passato di fronte, ci avrebbe riflettuto un attimo, magari”.

Parlavo con ira crescente, e con quel lui marcato mi riferivo al mio ormai defunto genitore, e questo Piergiorgio lo aveva compreso.

“Non hai davvero alcuna fiducia in tuo padre”, sospirò.

“Non ce l’ho. Non potrei averla”.

“Se posso intromettermi, e sarà l’ultima volta che lo faccio, ti vorrei dire che ho impressioni positive a riguardo. Per me non resterai delusa”, mi spiegò la sensazione che probabilmente stava provando dentro di lui, sorridendomi.

“Sei diventato un sensitivo, per caso?”.

“Non ironizzare. Certe cose le so”.

“Non posso non riderci sopra, lo faccio per stare un po’ meglio! La verità è che sto per piangere”, proseguii, imperterrita, come se fossi stata un fiume in piena, “perché sono sicura che questa è tutta una messinscena che ha organizzato lui per prendermi per il culo un’ultima volta. Mi devo recare a Milano per ascoltare un perfetto sconosciuto che mi legge il manoscritto in cui il mio genitore mi lascia un suo paio di calzini bucati, o che ne so, una tuta da lavoro sporca e rotta”.

“Stai esagerando, adesso”.

Piergiorgio guidava, ma allo stesso tempo mi ascoltava con attenzione, serio, pronto a tentare di arginarmi.

“Non sto esagerando. Sai cosa faceva, quali sono i ricordi che ho di lui? Era un mascalzone, un puttaniere, un ubriacone, un…”.

Mi fermai, perché George aveva allungato una mano ed aveva afferrato la mia, sul mio ginocchio sinistro.

“Adesso basta, non voglio più sentire delle cose del genere, che dette alle spalle di un defunto risuonano come vergognose accuse. Ciò che è stato, ormai è stato, e non possiamo cambiare il passato, ma bisogna guardare avanti e sperare in meglio”, sancì. Nel suo tono di voce, non c’era l’ombra di un rimprovero, anzi, era molto pacato e tranquillo.

“Hai ragione, mi sono lasciata andare troppo”, fui costretta a riconoscere, mordendomi l’interno del labbro inferiore.

Da quando c’era stato un contatto fisico tra noi, era come se mi fossi svuotata di tutta la rabbia che provavo, e del mio nervosismo. Adoravo il calore della sua mano, posizionata con delicatezza sulla mia, e la mia mente sembrava ormai totalmente attratta solo da quella superficiale ma significativa stretta.

“Ti dico e ti ripeto solo che, secondo me, devi essere serena. Poi, sarà solo l’impressione di un uomo idiota, per carità, però io credo che andrà tutto molto meglio di come hai previsto”.

“Non che ci voglia molto, vero?”, ironizzai, sciogliendomi. Rise sotto i folti baffi.

“Va bene, proverò a stare tranquilla, ma tu aiutami, stammi a fianco più che puoi”, gli dissi, seriamente, avvolgendo la sua mano tra le mie.

Fu costretto a ritrarla in fretta, poiché doveva cambiare le marce. Dannata automobile.

“Io non ti lascerò mai. Mai, hai capito?”, esclamò, enfaticamente.

Sapevo che era sincero. Questo mi bastava, mi offriva quel calore di cui avevo bisogno per guardare la realtà sotto un’altra prospettiva, e per tornare a rasserenarmi, come dopo un breve acquazzone estivo.

George entrò in autostrada, ed io nella mia mente pensavo solo all’amore, a quanto l’amavo, e a quanto avrei desiderato giacere di nuovo tra le mie braccia.

Quella sera, almeno, al di là di tutto e in ogni caso, sarei tornata con il cuore più leggero a giacere a suo fianco, e a tornare sua anche fisicamente. Il suddetto pensiero mi faceva davvero stare meglio, e mi consolava, spingendomi a non riflettere troppo su quel che mi stava attendendo da lì a poche ore, giacché il mio amore aveva ragione, non aveva senso rodermi il fegato in quella maniera per una cosa così da nulla, in fondo.

Non avevo davvero nulla da perdere a riguardo di quella faccenda, tanto valeva che mi tormentassi il meno possibile.

 

 

 

 

 

 

 

 

NOTA DELL’AUTORE

 

 

Che idea vi siete fatti di ciò che sta per accadere? Sarà una vergogna assurda (come la nostra protagonista sospetta), oppure avverrà qualcosa che potrà cambiare, nel tempo, addirittura il corso dell’intero racconto?

Grazie per essere qui, come sempre ^^

   
 
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