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Autore: _EverAfter_    13/12/2018    2 recensioni
La Seirin ha vinto contro la Kaijo.
A ridosso delle festività natalizie, Aomine si presenta a casa del mancato miracolo per riavere indietro le scarpe che gli ha prestato durante l'incontro, ma mentre fa per andarsene una strana rivelazione sembra farlo desistere dall'intento di tornarsene a casa.
Durante una sera in cui fuori imperversa una tormenta, tra una coperta di troppo ed una cioccolata calda decisamente bollente, possono due nemici giurati dimenticare di odiarsi?
Prima classificata a pari merito al "Contest del fluff" indetto da wurags sul forum di EFP.
Genere: Commedia | Stato: completa
Tipo di coppia: Yaoi | Personaggi: Daiki Aomine, Taiga Kagami
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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Non gli è mai piaciuta, la pioggia. Quando la sente scivolare lungo il corpo, gli ricorda le gocce di sudore delle partite giocate in passato, partite che non ha mai amato, che non gli riportano alla mente alcun gioioso ricordo.

No, decisamente non gli piace, quell’accozzaglia d’acqua sparsa alla rinfusa. Eppure adesso se la ritrova tra capo e collo, nel vero senso della parola. Cammina a passo svelto, affrettandosi per i marciapiedi consunti e scivolosi, speranzoso di poter sfruttare la sporgenza delle balconate degli edifici per evitare d’infradiciarsi più di quanto già non abbia fatto.

“Vaffanculo” impreca, innervosito, “non dovrebbe nevicare, piuttosto?”

Sa per certo che se le nuvole potessero rispondergli, probabilmente lo prenderebbero per il culo, perché non vi è assolutamente nulla di sensato nell’uscire di casa, mentre in TV la tipa delle previsioni continua col suo sermone sull’allerta meteo, consigliando a tutti di rimanersene al caldo con quella vocina dannatamente fastidiosa, così fastidiosa da fargli schiacciare il pulsante rosso del telecomando solo per ritrovare un po’ di religioso silenzio.

Viene richiamato di sfuggita dall’ambiente intorno a lui, pieno di ghirigori natalizi da fargli venire la nausea: sul serio, quelle luci sono davvero troppo intermittenti, non riescono a stare ferme, sembrano fatte apposta per indurgli una crisi epilettica. Accanto ai negozi nota la presenza d’inquietanti Babbi Natale che sorridono fissando il vuoto, mentre altre vetrine – probabilmente troppo poco rinomate per poter avere il proprio Claus personale – si accontentano della banalissima renna di cartapesta, quella col naso rosso, ovviamente. Non sia mai si trattasse di una renna normale.

Nonostante quel clima terribilmente materialista e pieno di pacchetti dalle tonalità più improbabili – color carta da zucchero, mah –, a lui il Natale è piuttosto indifferente, altrimenti non sarebbe mai stato in grado di aggirarsi così tranquillamente per una città presa dalla follia degli ultimi acquisti. Cazzo, la gente si venderebbe anche un rene, pur di fare tutti i regali che si è prefissata.

Cammina con sempre maggiore foga, sente i piedi fare un terribile cic-ciac a contatto con l’acqua dentro le scarpe sporche di fango: i calzini di spugna sono ormai ridotti ad una groviera, mentre avverte l’accumulo di pioggia avvizzirgli gli alluci e intorpidirgli le falangi.

“Va’ al diavolo, Kagami” borbotta, cercando disperatamente il campanello con il cognome del rivale. Lo trova, e col pollice rugoso s’attacca ad esso come un venditore porta a porta disposto a tutto.

Una voce assonnata risponde: “Chi è?”

“Tua madre” sbotta l’asso della Tōō, scrollando il capo nel vano tentativo di liberarsi delle gocce che scendono copiose a bagnargli il volto. “Anzi, tua madre a novanta.”

“Aomine.” Sente il rosso sbadigliare rumorosamente dall’altra parte del citofono. “Che sei venuto a fare?”

“Aprimi, testa di cazzo, sto per diventare un fottutissimo fazzoletto raggrinzito!” impreca, innervosito, “e poi sei stato tu a chiamarmi, idiota!”

“Ah, già.”

Ah, già. L’indaco stringe il pugno nella mano, mentre la vena che gli pulsa frenetica sulla tempia manifesta la sua improvvisa smania di uccidere l’interlocutore insonnolito. Sono più fradicio del Titanic e tutto quello che lui ha da dire è “Ah, già”.

Il rumore del portone sbloccato gli ovatta le orecchie, distogliendolo dall’odioso motivetto natalizio che sente provenire dal gabbiotto del portiere stravaccato sulla sedia pieghevole – dannazione, già che c’era poteva aprirgli lui, maledetto panzone.

Si fionda sui gradini, poi un dubbio lo assale. Ma a che cazzo di piano abita? Si guarda attorno, osservando i nomi sui campanelli. Suzuki, Tanaka, Kimura… Dannazione.

Imprecando ancora una volta, sale le scale a due a due, sperando che Kagami abbia socchiuso la porta per invitarlo silenziosamente ad entrare. Se così non fosse, dovrà rifarsi tutti i piani. E il senpai che si preoccupava di non vederlo agli allenamenti.

Arriva al quattordicesimo piano, zuppo tra l’acqua piovana che ancora gl’inumidisce il giubbotto e il sudore che sente sull’epidermide accalorata dal troppo movimento e dal maglione infeltrito che gli pizzica la pelle bronzea. Se si misurasse la temperatura in quel momento, probabilmente il termometro esploderebbe. Giunge trafelato ad un uscio semiaperto, speranzoso di leggere sul campanello il cognome che tanto desidera vedere. Quando posa lo sguardo su di esso, non vi è alcuna dicitura. Quella potrebbe essere la centesima volta che bestemmia contro il rivale.

Preme sonoramente le nocche delle dita contro la porta blindata, infischiandosene che possa trattarsi dell’appartamento di un’altra persona: ha caldo, sete e sarebbe anche disposto ad intrattenersi a casa di uno sconosciuto, per quanto gli riguarda. La voce profonda che segue, gli lascia intuire di essere nel posto giusto. “Entra.”

Quando raggiunge il rosso nel piccolo soggiorno, si è tolto praticamente tutto di dosso.

“Ohi!” sbotta l’asso della Seirin, “che diavolo stai facendo?” Lo ignora deliberatamente, mentre si leva le scarpe gocciolanti ed i calzettoni che lasciano intravedere il piede ormai ridotto ad un puzzolente acquitrino. Kagami lo fissa, stranito. “Sei andato a pescare?”

“Piantala, e dammi qualcosa per potermi asciugare.” L’indaco lascia cadere distrattamente sul divano il cappotto e il maglione, rimanendo con una sudaticcia canotta bianca. “E dammi qualcosa da indossare.”

Il rosso gli si avvicina, cercando di non fare caso a quell’orrendo fetore che gli fuoriesce dai piedi stropicciati dalla troppa umidità. “Vatti a fare una doccia. Puzzi come una carogna.”

“Ti manderei a fare in culo, se non dovessi usufruire del tuo bagno” lo ammonisce, mentre vede Kagami trafficare dentro l’armadio per cercargli dei vestiti puliti.

“Tieni.” Glieli passa. “In bagno trovi gli asciugamani.”

“Ma davvero?” Se ne va, portando con sé il suo sarcasmo. Quando giunge alla toilette, si sorprende di trovarla così stranamente in ordine. Non ha mai creduto che Kagami potesse essere una buona colf.

Si sfila via la cintura dai passanti del jeans, mentre apre con foga i bottoni: ciò che vuole è solo togliersi di dosso quella tremenda puzza stantia. Si butta in doccia, lasciandosi finalmente permeare dalla magnifica sensazione dell’acqua che dilava via l’orribile tanfo, mentre fa scorrere le dita tra i corti fili bluastri per lavarseli con lo shampoo da quattro soldi trovato sulla mensola ancorata alla parete della doccia.

Esce mezz’ora più tardi, con dei pantaloni della tuta e una canotta. Si strofina i capelli con l’asciugamano, buttando l’occhio ad un Kagami intento a scrostare le padelle accumulatesi nel lavabo.

“Così abiti qui, eh?” gli chiede retoricamente, mentre s’aggira attorno alla mobilia semplice e moderna, impreziosita da piccoli ninnoli d’ottone e vetro. “Perché mi hai fatto venire?”

“Per ridarti le scarpe.”

“AH?!” Ha fatto tutta quella strada per un motivo tremendamente stupido. È ancora indeciso su chi sia il coglione, tra i due.

“Non credevo saresti venuto oggi, francamente” si giustifica il rosso, sospirando, “con una tempesta simile solo un idiota sarebbe venuto fin qui.”

Deve ammetterlo, forse è davvero lui, il coglione. Sospira, stravaccandosi sul divano. “Dammi cinque minuti, poi me ne torno a casa” risponde, poi continua: “E per quanto riguarda quelle scarpe… puoi tenerle.”

“Ne sei sicuro?”

“Sì, ne ho da buttare.” Aomine si lascia sfuggire un ghigno compiaciuto. “D’altronde, ti hanno portato fortuna.”

Avverte il sobbalzare delle molle del divano: il padrone di casa si è seduto accanto a lui, ancora visibilmente spossato per la partita vinta il giorno prima. Ammette di sentirsi un po’ a disagio, mentre vede tutto quel lussuoso openspace pullulare di oggetti che richiamano all’attenzione la passione della persona che gli sta seduta di fianco; tutto, in quell’ambiente, sembra voler urlare «amo il basket».

“Kagami” lo chiama, incuriosito, “perché giochi a basket?”

“Non c’è un perché.” Lo vede socchiudere gli occhi, mentre accenna un mezzo sorriso. “Gioco e basta.”

“Tutti hanno un motivo per farlo.”

“Andrebbe bene se dicessi che gioco per me stesso?”

“Suppongo di sì.”

“Ok, allora è come ho detto.”

Aomine sbuffa, seccato dal modo monosillabico con cui gli risponde. Cazzo, non ha mica fatto tutta quella strada per niente.

“Ancora non posso credere che tu abbia fatto tutta questa strada per niente.” Ecco. Come volevasi dimostrare.

“La colpa è tua, imbecille” gli fa notare, incrociando le mani dietro la nuca, “la prossima volta avvertimi che non è nulla di urgente.”

“Bastava chiederlo, idiota.”

Loro sono così: rivali dal primo sguardo, non riescono a trovarsi nella stessa stanza senza litigare. Non è certo il clima natalizio, ciò che potrebbe farli desistere dall’intento di azzannarsi alla gola. In realtà deve ammetterlo, un po’ l’atteggiamento sfrontato del rivale gli va a genio, lo fa sentire a suo agio sapere che c’è qualcuno in grado di tenergli testa. Perfino perdere contro di lui, per certi versi, è stato appagante: ha potuto riscoprire una parte di sé stesso che credeva ormai perduta. Kagami è di certo singolare, deve riconoscerlo.

“Ti sei dovuto sbolognare i canti natalizi?” si sente domandare, con quella voce del cazzo che fa ogni volta che lo sbeffeggia.

Sbuffa ancora. “No, a parte quel tristissimo Tu scendi dalle stelle che ascoltava l’obeso all’ingresso.”

“Non ti facevo tipo da Natale.”

“Non lo sono” s’affretta a dire, “non so come funzioni in America, ma qui se non stai attento ti ficcano canditi persino su per il buco del culo.”

Lo sente ridere, mentre si alza e torna verso la cucina. È strano, ma la sua risata gli piace. È così naturale e spontanea da fargli dimenticare per un istante di quanto siano prive di gusto le sue battute.

Imita il rivale, vagando con lo sguardo in cerca del giubbotto che ha lasciato prima sulla penisola del divano. Kagami gli fa un cenno con la mano. “L’ho messo ad asciugare lì.”

“Credi si sia asciugato?”

“Vai a controllare, cretino.” Simpatico come sempre.

Tasta con la mano il tessuto semimpermeabile, constatando la sua asciuttezza. Lo sfila dal termosifone, facendo scorrere il braccio nella prima manica, mentre butta distrattamente un occhio all’orologio che segna le otto e venti di sera: forse fa ancora in tempo a prendere il treno delle nove, evitandosi l’ennesimo viaggio della speranza. S’infila con noncuranza le mani nelle tasche ancora leggermente inumidite. Un po’ – forse – gli dispiace andarsene, in fondo a casa sua non ha nulla da fare e rabbrividisce al solo pensiero che Satsuki possa trascinarlo in giro per i negozi addobbati, mentre fuori ancora imperversa il temporale.

“Allora io vado” dice.

“Ok. Fai attenzione.”

“Per chi mi hai preso?” È irritato, ma non ne comprende il motivo. O meglio, lo comprende ma il suo inconscio tace.

Fa per uscire, sta per richiudersi la porta alle spalle, ed improvvisamente la sente: è una telecronaca inglese, lo capisce perché non ha mai capito un cazzo di quella lingua.

“Ohi” richiama il rivale, voltandosi indietro, “che guardi?”

Gli occhi rubicondi del talento lo fissano perplessi. Sembra davvero che stia trovando un motivo come un altro per ritardare il suo ritorno a casa, e tuttavia spera che Kagami non sia così intelligente da capirlo. Inaspettatamente si ritrova a vederlo sorridere: “È la NBA TV.”

Aomine sbarra gli occhi, posandoli affascinati sullo schermo del televisore al plasma. “E tu come diavolo fai a vederla?”

“Semplice” gli risponde, “sono abbonato da una vita. Ho un account premium.”

“Sei una merda umana!” Il miracoloso asso si porta a sedere vicino al rosso, visibilmente irritato. “Perché diavolo non mi hai mai detto niente!?”

“Ma che razza di spunto di conversazione vuoi che sia, dire che ho un account premium per guardare la NBA?!”

“Non c’entra una sega, avresti dovuto dirmelo comunque!” Gli sfila via dalle mani il telecomando, premendo il pollice sul tasto info per sapere chi giocherà quella sera. Lo sguardo gli ricade sulla bianca scritta in sovrimpressione: Boston Celtics vs. Los Angeles Lakers. Per la miseria. “Che cazzo di scontro!”

Non è mai stato così emozionato di vedere una partita prima di quel momento: di solito finisce quasi sempre per rinunciare a vederle in streaming, poiché il maledetto buffering non fa che stoppargli l’incontro ogni cinque secondi.

“Vuoi vederla?”

L’indaco rimane impassibile, celando la sua fin troppo evidente euforia. “Beh, se non ti va di guardarla da solo, posso anche farti compagnia.”

“Dì che vuoi rimanere e falla finita.” Kagami gli molla un ceffone sulla nuca, voltandosi verso il finestrone che lascia intravedere l’inizio della tremenda fioccata. “E poi fuori ha iniziato a nevicare di brutto.”

“Difficile immaginarlo” borbotta l’altro, mentre volge l’attenzione ai ventitré gradi segnati rigorosamente sul termostato dell’appartamento.

Gli applausi che sentono giungere dall’apparecchio elettronico li fanno tornare alla partita, mentre si sistemano alla bell’e meglio sul divano: Aomine precede il rivale, stravaccandosi sulla penisola, mentre Kagami fa una rapida ronda in cucina.

“Vuoi un thè?” si sente domandare.

“Chi sei, mia nonna?” Si alza dal divano e gli si affianca, strappandogli di mano il cartone con dentro le bustine, “che diavolo è questa brodaglia?”

Lo vede distogliere lo sguardo, improvvisamente in imbarazzo. Aomine focalizza l’attenzione sull’etichetta posta sul retro della confezione: tisana rilassante, aiuta a distendere i nervi e favorisce un sonno sereno.

Gli scappa da ridere, ma si trattiene, portandosi una mano alla bocca. “Sei il peggiore, Kagami.”

“Che c’è?!” sbotta l’altro, strappandogli l’involucro dalle mani, “non posso mica rimanere sveglio prima di ogni partita!”

“Non c’è nulla di meglio?”

“Ad esempio?”

Aomine si guarda in giro, aprendo a caso le antine della credenza e cercando qualcosa che abbia un minimo sapore. Afferra la piccola scatola nascosta dietro i cereali al farro, legge il cartellino, poi si volge verso il rosso. “Questa può andar bene.”

Kagami scruta con attenzione la custodia. “È cioccolata calda.”

“E allora?”

“Non la so preparare” ammette, facendo spallucce, “l’ha comprata Alex, ma non l’ha mai cucinata.”

L’indaco si schiaffeggia la faccia: potrà anche essere un asso nel basket, ma per la vita è davvero negato. “Come cazzo ho fatto a farmi battere da te?” mormora, mentre il rosso inizia a imprecargli contro. “Non importa. Ci penso io.”

“Cosa ti serve?”

“Un pentolino e un po’ di latte.”

Il talento della Seirin apre il frigorifero, cacciando fuori il cartone con sopra la mucca sorridente. “Non so quando scade.”

Aomine cerca la data incriminata, quella talmente piccola da fargli rigirare ogni volta la confezione tra le mani per riuscire a beccarla. La trova: da consumarsi preferibilmente entro il 22/12.

“Scade oggi” sghignazza, com’è solito fare quando è divertito, “tempismo perfetto.”






Giunge nel soggiorno, Kagami è già posizionato con le gambe incrociate attorno ad un cuscino: gli ha lasciato la penisola, buon per lui. Gli passa la tazza fumante, quella brutta, con sopra un vischio che avrebbe potuto disegnare anche un bambino di quattro anni e la scritta Kiss Me! ornata con quei fastidiosi glitter che ti si appiccicano alle mani per mesi.

“Sul serio” gli dice, “comprati qualcosa di meno agghiacciante, la prossima volta.”

Il rosso sbuffa, innervosito. “Ti pare possibile che possa aver comprato una cosa tanto oscena?”

“La tettona?”

“Già. Lei e le sue manie sul Natale.”

La partita deve ancora cominciare, mentre attendono pazienti il fischio d’inizio. Aomine rimane quieto a fissare il lussuoso open space: non c’è dubbio, deve essere davvero ricco fino al midollo per potersi permettere un appartamento di quelle dimensioni. Vorrebbe tanto chiederglielo, ma non ha studiato abbastanza l’etichetta sociale per comprendere se sia una domanda da fare o meno, perciò desiste dall’intento, focalizzandosi sul tabellone che appare in TV, quello che segna il punteggio delle squadre e il tempo a disposizione per ogni quarto.

“Kagami” lo chiama, “per chi tifi?”

“Boston Celtics.”

“AH?!” Peggiore notizia di quella non poteva capitargli. Non solo non tifa Lakers, ma parteggia per la squadra che odia di più.

“Non avevo dubbi che tifassi per i Lakers, Aomine” gli risponde, sul volto reca un’espressione divertita che l’indaco prenderebbe volentieri a schiaffi, “d’altronde, immaginavo avessi un debole per le squadre in declino.”

“Crepa!” Gli molla un cazzotto sulla fronte. “Questa volta ti faranno il culo, vedrai!”

“Non hanno alcuna speranza.”

“Scommettiamo?” Non sa neanche da dove gli sia uscita quella richiesta, ma lo sguardo del suo interlocutore s’infiamma, mentre le pupille circondate dal fuoco vermiglio si rimpiccioliscono impercettibilmente.

“Va bene.” ‘Fanculo. Pensava che avrebbe rifiutato.

E se ne stanno lì, a bisticciare maldestramente per appropriarsi della coperta che avvolge le loro gambe, mentre la fioccata decisa imbianca il tegolame dei tetti; fuori è freddo, ma Aomine non si è mai sentito così riscaldato in vita sua: è una strana emozione, quell’afa che gli avvolge il cuore senza farlo sudare. Decisamente non ci è abituato, ragiona mentre nella sua testa si susseguono le immagini sfocate della loro ultima partita. Dannazione, dovrebbe davvero odiarlo, eppure in quel momento l’unica cosa che riesce a pensare è che gli piace stare lì, a guardare la tv con lui.

Si volta a fissare lo sguardo concentrato del rosso, illuminato dal debole luccichio dello schermo, mentre l’ambiente intorno a loro si rischiara e scurisce ad ogni intermittenza delle luci natalizie. Sente l’aroma del cioccolato farsi strada tra le sue narici, e ancora una volta la familiarità di quella scena che non ha mai vissuto gli ricorda che col rivale non vi è mai nulla di scontato. Persino in quel momento, si sente come se avesse perso ancora una volta contro di lui. Una sconfitta dolce, che lo strappa via dal ghiaccio che gli serra il petto.

Scrolla il capo, ritornando in sé. Discorsi così non li ha mai sentiti neanche dalle eroine degli shoujo manga. Patetico.

“Ohi” si sente chiamare, “hai ancora l’acqua nelle orecchie?”

“No, perché?”

“Allora piantala di scuotere la testa.”

Aomine gli ghigna in faccia, stranamente soddisfatto. “Davvero basta così poco per attirare la tua attenzione, Kagami?”

“No” gli risponde, distogliendo lo sguardo, “è che sono ormai abituato a tenerti sott’occhio. È un’abitudine.”

Socchiude la bocca per la sorpresa. Non l’ha detto affatto con malizia, eppure non può fare a meno di sentire quelle parole rimbombargli tra le pareti del cranio.

È un’abitudine.

Come dargli torto. Hanno passato così tanto tempo a studiarsi lì, sul cerchio di metà campo dove adesso i giocatori attendono pazienti il fischio d’inizio, che neanche si ricorda quando ha cominciato a provare nuovamente l’appagante sensazione dei muscoli in tensione, il fiatone pronto a conquistare ogni lembo della sua bocca, la spinosa sensazione di non riuscire a vincere. Si sorprende di come appaia limpido il volto del rivale nella sua mente: l’ha visto così tante volte spaesato, concentrato, preoccupato, arrabbiato. Potrebbe descriverlo alla perfezione senza neanche il bisogno di vederlo ancora una volta. È per questo che, anche senza volerlo, gli è così familiare.

Gli echeggia nelle orecchie il fischio prolungato, mentre i piccoli omini schiacciati dalla tv al plasma iniziano a giocare. Meglio finirla con quelle stupide elucubrazioni.

“Il possesso palla è dei Lakers.”

“Togliti quello stupido ghigno dalla faccia, coglione.”

I movimenti dei giocatori sono fluidi e privi di errori, lo scontro continuo tra le due ali grandi rimarca la netta differenza che intercorre tra loro e i talenti della NBA. A guardare la partita sembrano davvero due stupidi mocciosi, in confronto alla straripante potenza di anni passati a giocare in squadre facoltose come quelle. Rimangono incatenati allo schermo, così presi dalla partita da non accorgersi di null’altro: sono oramai seduti sul grande tappeto ai piedi del divano, spartendosi in malo modo la coperta e con le mani riscaldate dalle tazze ancora ricolme di cioccolata, che sorseggiano di tanto in tanto non appena riprendono fiato.

“Al Horford è una bomba.” Si volta a fissare gli occhi luccicanti del rivale, perso ad ammirare il cestista dei Celtics.

“Più che altro è una bestia.”

“Quanto sarà alto?”

“Due metri e qualcosa.” Aomine trattiene a stento una risata. “In confronto, tu sembri quasi carino.”

Schiva all’ultimo un ceffone di Kagami che mirava alla sua nuca. Dannazione, quanto è suscettibile quel ragazzo.

Un altro fischio prolungato rende valido il canestro appena raggiunto dall’ala grande dei Lakers, rendendo l’indaco particolarmente infervorato dall’improvviso vantaggio della sua squadra del cuore. Presto, si ritrovano nuovamente a sbraitare come due dannati contro il televisore, ignari del fatto che nessuno dei giocatori presenti su quel campo possa sentirli.

Ma che cazzo sto facendo? si ritrova a pensare.

È a casa del suo arcinemico, circondato dall’intimità di quell’appartamento a luci spente, mentre i led natalizi creano per brevi istanti una luce soffusa, la quale a stento gli permette di vedere l’espressione emozionata del rosso, che se ne sta incollato alla partita come un bambino in trepidante attesa di Santa Claus.

Non gli piace particolarmente il Natale, e non l’ha mai vista quell’atmosfera lì, con la neve che cade sempre più prepotente a imbiancare tutto intorno a sé e la tazza di cioccolata intiepidita ancora stretta tra le mani. È qualcosa che chiamano serenità, o almeno così gli pare di sentirsi. Il sentimento più patetico che possa mai provare, nei confronti della persona che dovrebbe più disprezzare.

Eppure, mentre lo vede strapparsi i capelli per la frustrazione di non riuscire a vedere la sua squadra segnare, Aomine non riesce a smettere di sorridere.







Los Angeles Lakers          Boston Celtics
107                              104



Non è proprio in grado di toglierselo, quel ghigno divertito dalla faccia; persino lui pensa che se dovesse guardarsi allo specchio si prenderebbe a schiaffi, per cui non riesce affatto a sorprendersi dell’incredibile frustrazione dipinta sul volto del rivale, così perplesso del risultato da risultargli innocentemente sconvolto.

“Non metterti a piangere, sarebbe imbarazzante” lo canzona, mentre il rosso gli lancia un’occhiata che ha tutta l’aria di volerlo zittire.

“Non ci posso credere” lo sente borbottare, “francamente non li credevo capaci di tanto.”

Neanche io ti credevo capace di tanto, vorrebbe tanto rispondergli, eppure tu sei ancora nella Winter Cup, io no.

È frustrante, e rassicurante al tempo stesso. “Non sempre vince chi è più forte.”

“Fammi segnare questo giorno sul calendario” lo canzona Kagami, che prima di quel momento non si sarebbe mai aspettato che una frase simile uscisse davvero dalla bocca del miracolo.

“Piantala, idiota. È una cosa naturale.”

“Cosa?”

Non vuole esporsi più di tanto, specie con una persona che sa di dover rincontrare sul campo, un giorno. Non dovrebbe sentirsi in quel modo, eppure di fronte a sé, per qualche malizioso e bizzarro motivo, non riesce più a figurarsi il rivale. Serra impercettibilmente la mascella, implorando la propria lingua di non mettersi così a nudo proprio di fronte a lui, ma fallisce.

Sospira, grattandosi nervosamente la nuca. “Non è importante vincere, alla fine dei conti.”

Il rosso sbarra gli occhi, sorpreso. Aomine sbuffa, continuando: “Voglio dire, tu sei una pippa pazzesca. È ovvio che sia io il più forte.”

“OHI!” Kagami vorrebbe mandarlo al diavolo, ma qualcosa nello sguardo nostalgico dell’indaco lo fa desistere dal proposito d’interromperlo ulteriormente.

“Non avresti avuto alcuna speranza in un uno contro uno… eppure… tu hai vinto, ed io no.” L’asso della Tōō cerca lo sguardo del rivale, acerrima antitesi di tutte le loro silenziose battaglie. “Quello che sto cercando di dirti, razza d’imbecille, è che tu hai voluto vincere, l’hai voluto davvero. Per certi versi, ripensare a te quel giorno, mi fa venire ancora i brividi.”

“Aomine…”

“Non è sentimentalismo, il mio. Perciò non ti azzardare a indorarmi la pillola, mi stanno davvero sul cazzo le persone che lo fanno.”

S’accorge che il rosso non sa davvero cosa dirgli, ma d’altronde se lo aspettava. Sono entrambi incapaci di gestire le proprie emozioni, per cui non vi è mistero che il rivale non sia il tipo in grado di reagire ad un simile discorso. Continua a fissarlo, lasciandosi sfuggire uno strano sorriso: non è il suo solito ghigno, poiché gli zigomi non sono spigolosi, ma leggermente arrotondati. Perfino il blu dei suoi occhi è meno ottenebrante.

Nello zaffiro di quello sguardo, Kagami riesce a vedere tutto più chiaramente, tanto da rimanerne intimidito. “Ohi! Piantala di dire cose simili, tu e il tuo fottuto bipolaris-”

Sente le mani dell’indaco afferrargli il volto, mentre il respiro gli si mozza al placido tocco delle sue labbra a contatto con le proprie, la muta richiesta di tacere, almeno per quella volta. Dovrebbe spingerlo via, magari dirgli che due come loro non dovrebbero neanche pensarla, una cosa simile. Eppure, contrariamente a ciò che la sua mente gl’impone di fare, schiude la labbra, invitando la lingua dell’intruso ad esplorare l’interno della sua bocca.

Si prenderebbe volentieri a schiaffi, se non fosse per la mite tranquillità con cui il miracolo si porta sopra di lui, sfiorandogli delicatamente i capelli.

“Aomine, noi non-”

“Ho vinto la scommessa, stupido.” Per una volta, il suo timbro vocale non è canzonatorio né alterato, è come sentire per la prima volta la sua vera voce. “Perciò mi devi qualcosa.”

Si sorprende di come gli appaia il rubicondo rivale, mentre gli si avvicina ancora una volta al viso.

“E poi” continua, sorridendo sornione, “è finita la cioccolata.”

“E allora?” gli domanda il rosso, confuso.

Preme ancora una volta le proprie labbra contro quelle di Kagami, lasciandosi sfuggire un piccolo sospiro: potrà anche essere l’asso della Seirin, ma a vederlo da quella prospettiva gli appare proprio un bimbetto ingenuo.

“E allora ne prendo un po’ in prestito dalla tua bocca” risponde, concedendogli un bacio completamente diverso dal precedente.

Non aspetta neppure il beneplacito delle labbra di lui, mentre insinua avidamente la lingua dentro la sua cavità orale, assaporandone ogni centimetro. Si sente bene, come non gli capitava da anni, e sa perfettamente qual è la fonte inesauribile di quel bizzarro appagamento: è proprio lì, sotto di lui, che ricambia a poco a poco le carezze che Aomine gli concede, sfiorandogli le braccia mascoline e il petto asciutto, coperto dalla maglietta leggermente inumidita dal sudore.

Sa di essere un imbecille. D’altronde non si spiega altrimenti: si è spolpato non sa quanti chilometri per giungere inatteso alla casa del rivale, è stato subito felice di poter trascorrere del tempo con lui senza la presenza asfissiante degli altri compagni di squadra – o peggio, di Satsuki – e adesso se ne sta tutto giocondo sul corpo di Kagami, godendosi quel bacio che corona la rassicurante atmosfera in cui è capitato tra capo e collo. Magari dopo riuscirà anche a trovare il tempo per sgridarsi, ma in questo momento non ha alcuna voglia di crucciarsi ulteriormente.

Si convince che è così che dev’essere, o forse come avrebbe dovuto essere fin dall’inizio, il giorno in cui i suoi occhi hanno incrociato le fiamme divampanti tra le iridi del giovane talento. Non si può sfuggire in eterno a quel dolce calore, e poco gl’importa che possa trattarsi del Natale e di tutte quelle stupidaggini sulla vampa affettiva dei giorni di festa, quando improvvisamente la gente si ricorda di dover essere meno stronza del solito.

Aomine non è il tipo da comprendere certe etichette. Se lo fosse, di certo non starebbe lì, avvinghiato alle toniche spalle del rivale, in cerca di un contatto viscerale, votato alla disperata ricerca del fuoco che può vedere ancora incastonato nello sguardo fiero del rosso che, superato l’attimo di smarrimento, ricambia l’inatteso abbraccio, vittima e carnefice del tepore che sente provenire dal corpo del miracolo.

“Tu…” gli sussurra, mentre l’altro gli sfila via la maglietta, soffermandosi sugli addominali scolpiti.

BaKagami” lo sbeffeggia, ricordandosi il buffo epiteto con cui lo bolla la sua coach, “non penserai che mi fermi qui, vero?” L’indaco lo scruta, alzando un sopracciglio; si assesta meglio sopra al bacino del rivale, sentendo la sua intimità farsi sempre più serrata contro il tessuto dei jeans. “Anche perché non sembra che il tuo amico sia d’accordo.”

“Fanculizzati, Aomine.” Si lascia sorprendere, trovandosi improvvisamente premuto contro il tappeto. “Chi cazzo te l’ha detto che puoi stare sopra?”

“Perché dovresti stare tu?”

“Perché sì.”

“Non è una risposta!” sbotta il cestista della Tōō, stizzito.

Se la veneranda leggenda dalla giubba rossa assistesse alla scena rimanendosene in disparte sul ciglio della balconata, attraverso il vetro vedrebbe qualcosa che gli parrebbe più simile ad un’azzuffata che ad un amplesso amoroso. Eppure – forse – i doni li porterebbe comunque, a quei due stupidi scapestrati, poiché niente potrebbe mai oscurare l’amorevole dolcezza con cui i loro occhi comunicano, sussurrandosi a vicenda le più mal celate debolezze, ciò che rende entrambi umani ed incapaci di mentirsi ancora.

È come assistere ad un film muto, o meglio: loro si parlano, si rotolano sul pavimento cercando di prevaricarsi, per poter ottenere l’egemonia di uno scontro fatto di carne pulsante, speranzosa che quel contatto non debba mai finire, mentre i loro sguardi ricolmi di serenità si perdono a contemplare l’uno il volto dell’altro, soffermandosi distrattamente sul rumore del vento che sbatte febbricitante contro i vetri della finestra.

“Sarà una lunga notte” ghigna Aomine, mentre ribalta per l’ennesima volta il rivale, “spero tu sia pronto. Non ho intenzione di perdere, oggi.”

“Neanche io.” È tutto ciò che gli risponde Kagami, trascinandolo ancora una volta al suo fianco e riappropriandosi delle sue labbra, più secche rispetto a qualche minuto prima, in un bacio che corona quel piccolo centimetro di felicità.

Fuori è freddo, ma loro non lo sentono.

O almeno non più.












Angolo dell'Autrice:

Vi chiedo di perdonarmi; sono una fan convinta della ship Kuragami, però qualcosa su 'sti due la dovevo proprio scrivere. Li adoro entrambi, perciò non potevo lasciarli in panchina per molto altro tempo - e poi diciamocelo, è bello pensare ad una loro gara a chi sta sopra e chi sta sotto ^^.

Spero che questa piccola one-shot vi sia piaciuta, ringrazio moltissimo wurags per aver idealizzato il contest che mi ha dato la possibilità di scrivere su di loro.

A presto,

_EverAfter_

  
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