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Autore: Adeia Di Elferas    13/12/2018    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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“Non abbiate paura – disse Alessandro Orfeo, sporgendosi un po' in avanti, per stringere la mano a Francesco Fortunati – ho già scritto al Duca, parlandogli in modo estremamente chiaro. Milano è amica di Firenze, lo sapete benissimo, ma la Contessa è una Sforza, e dunque il mio signore parteggia più per lei che non per la Repubblica.”

Il piovano annuì, senza staccare gli occhi dal viso dell'ambasciatore, nella speranza di capire se davvero fosse riuscito a convincerlo o se quell'uomo stesse cercando di prenderlo per i fondelli, recitando solo una parte.

Quando riprese a parlare, però, Francesco fu abbastanza sicuro che il diplomatico si fosse davvero convinto che quella fosse la realtà, e quindi si permise di calmarsi un po'.

“Quell'Achille Tiberti...” soffiò Orfeo, scuotendo il capo e sporgendo un po' in fuori le labbra umide: “Un facinoroso, ecco che cos'è. L'ho detto io stesso alla Contessa, ma quella non mi vuole sentire. È una donna, che volete, si lascia impressionare da qualche muscolo e da una bella armatura...”

Fortunati non commentò, evitando di dar voce ai suoi reali pensieri, e si limitò a restare in ascolto.

Così il milanese proseguì: “E per Baldraccani... Sono contento che mi abbiate messo in guardia. Mi rendo conto che voi conoscete molto meglio di me gli affari della Contessa, e se dite che questo Segretario la sta manipolando, ebbene, avete ragione a dire che va allontanato, e mandarlo a Milano mi pare un ottimo compromesso.”

Il piovano fece un respiro appena più profondo, accomodandosi meglio nella poltrona imbottita davanti al camino. Gli pareva impossibile essere riuscito a convincere il milanese tanto in fretta, ma più gli parlava più gli appariva chiara la sua inconsistenza, e, da lì, la sua ingenuità.

“E per Firenze, quindi?” chiese alla fine Francesco, quando il loro incontro stava per dirsi concluso.

“Ho già ribadito più volte al mio signore l'insoddisfazione della Contessa, e sono convinto che presto farà sentire la propria voce alla Signoria, affinché ritornino a trattarla come si deve trattare un alleato della sua levatura.” disse Alessandro, serio.

A quel punto, il piovano lo ringraziò ancora per tutto, aggiungendo che avrebbe fatto quanto in suo potere per convincere la Sforza, che purtroppo lo teneva a distanza, come stava facendo con tutti i fiorentini che le capitavano a tiro, a permettere a Baldraccani di partire per Milano e a Tiberti di accettare – se mai fosse arrivata – una condotta dal Moro.

“Ah...” fece allora Orfeo, appena prima di lasciar andare il suo ospite: “Volevo chiedervi...Vi ho visto, l'altro giorno, entrare alla rocca e uscirne dopo almeno due ore... Cosa ci siete andato a fare, se voi stesso mi dite che la Contessa vi parla a mala pena?”

Fortunati, nel breve scambio di sguardi che ne seguì, si chiese quanto l'ambasciatore fosse realmente superficiale e quanto, invece, fingesse di esserlo.

Senza scomporsi, preferì restare sulla difensiva, nel caso in cui la sua prima valutazione circa il milanese fosse stata troppo ottimista: “A fare cosa, mi chiedete...” sorrise: “Ebbene, il castellano di Ravaldino chiedeva la consolazione di una confessione e io non potevo certo negargliela, dato che non può uscire dalla rocca. Non credete che abbia fatto bene, ad andare per raccogliere il suo pentimento per i suoi peccati?”

Accigliandosi, Orfeo parve credervi e concluse: “Certo, certo... Vi auguro una buona giornata.”

Uscito dal palazzo in cui alloggiava il diplomatico, Francesco camminò a vuoto per quasi un'ora e poi arrivò alla locanda in cui la Contessa lo stava aspettando.

A quell'ora era pressoché deserta e in più la Tigre si era fatta riservare una saletta privata, al primo piano, in modo da non avere nessun orecchio indiscreto in ascolto.

“Allora, cos'ha detto?” chiese la donna, appena il piovano si sedette davanti a lei.

“Tutto quello che ci aspettavamo.” la rassicurò lui e poi le riassunse quanto discusso con Orfeo.

Caterina, intanto, beveva a piccoli sorsi un po' di vino color rubino. Non era tra quelli che chiedeva più spesso, ma si trovava poca scelta, ormai, in giro. Il commercio si stava pian piano paralizzando e anche gli osti dovevano accontentarsi di servire quello che trovavano in circolazione.

Aveva la testa pesante e un vago senso di nausea che non l'aveva lasciata fin dalla notte appena trascorsa. Erano i segni più tangibili della confusione che le aveva lasciato il suo ultimo litigio con Manfredi. C'era qualcosa, nel modo in cui si sfuggivano a vicenda, che la inquietava. Era come se entrambi cercassero di afferrare l'altro, ritirando poi la mano all'ultimo momento. In un'alleanza, più ancora che in una relazione che si potesse definire sentimentale, quel modo di tenersi a distanza poteva essere fatale.

Anche mentre Fortunati le parlava, veloce e a voce bassa, riportandole con una puntualità ineccepibile tutto quello che era uscito dalle labbra dell'ambasciatore del Moro, la Contessa non faceva altro che rivedere il viso contratto dalla rabbia di Manfredi, risentire la sua voce che si alzava, mentre le ricordava che lui non era il suo mantenuto, riassaporare la sua pelle sotto i denti, mentre lo mordeva, quasi a volerlo punire...

“E questo è quanto.” concluse il piovano, sistemandosi un po' sulla sedia e schiarendosi la voce.

Finendo il suo vino, la donna sospirò: “Grazie. Almeno da questo lato volevo sentirmi tranquilla.”

Mettendosi d'accordo per rivedersi nel giro di un paio di giorni e ridiscutere le eventuali novità, la Sforza e Fortunati si salutarono e la Leonessa, lasciandogli una mezz'ora di vantaggio, uscì dalla locanda mentre cominciava a scendere dal cielo una pioggerella fine e fredda.

Accelerò il passo, arrivando a Ravaldino appena un po' inumidita, e, prima di dedicarsi a qualsiasi altro impegno, andò in camera per scrivere una lettera che le premeva. Era notizia abbastanza recente – confermata da Manfredi, che era tornato da poco dal campo fiorentino – che Albertino Boschetti cominciasse a non essere più sereno come un tempo.

Aveva saputo che il suo comandante aveva avuto degli screzi, abbastanza pesanti, con gli Este di Ferrara per alcune tasse che sosteneva di non dover corrispondere loro. Pareva ormai chiaro che il loro della pace tra Firenze e Venezia sarebbe stato messo proprio nelle mani di Ercole d'Este e dunque Caterina voleva a tutti i costi evitare di inimicarsi l'uomo che avrebbe, di fatto, redatto i termini della tregua, tanto meno per un motivo così stupido.

In più, conoscendo Boschetti solo fino a un certo punto, temeva che potesse avere qualche colpo di testa improvviso, magari addirittura usando i suoi soldati per qualche rappresaglia contro i ferraresi.

Ora, sentito come Orfeo avrebbe lavorato al suo posto per convincere il Moro a prendersi in casa Baldraccani – che avrebbe finalmente potuto vedere coi suoi occhi cosa accadeva alla corte di Milano – poteva concentrarsi sulla questione di Boschetti.

Per prima cosa, scrisse un ordine rapido con cui informava il comandante della sua decisione, spiegando con parole abbastanza vaghe, come quella scelta fosse legata a meri motivi politici e non a una sua insoddisfazione nei suoi confronti, e poi, intingendo con calma la punta della penna nell'inchiostro, passò alla missiva per suo Lorenzo il Popolano.

Voleva approfittare di quell'occasione per mettere in chiaro con suo cognato quanto l'esercito di Forlì fosse nelle sue mani, saldo e impossibile da piegare in alcun modo.

Gli scrisse che i membri della compagnia di suo figlio Ottaviano, ma di fatto guidata da Albertino Boschetti, non dipendevano dal suddetto comandante, ma direttamente da lei, e che questo punto doveva essere chiaro a tutti, perché voleva assicurare che Boschetti non avrebbe mai potuto prendere per sé gli uomini che militavano nelle sue fila, né per scopi privati, né pubblici.

'Li uomini d'arme – sottolineò – voglio spezati e non conductieri, et tali che sieno bene a cavallo et possino servire et fare honore.'

Deglutì un paio di volte, e poi concluse, per essere certa di non essere fraintesa in alcun modo, nemmeno da un uomo infido come suo cognato: 'Faccia le cose in modo che nui siamo conosciuti per li padroni.'

Finito di scrivere, firmato il messaggio e chiuso coi suoi sigilli, si stiracchiò un po' i muscoli e poi decise di uscire dalla sua stanza. Aveva ancora molte cose da fare, oltre a spedire l'ordine e la lettera. Primo fra tutti i suoi impegni, si ricordò, uscendo, ottemperare alle questue cittadine, che da troppi giorni venivano lasciate in sospeso o delegate al suo cancelliere. Voleva dare l'idea di uno Stato stabile, in mano a una guida forte e sicura e per farlo doveva farsi vedere ovunque, continuamente, facendo sì che nella mente dei suoi sudditi apparisse come onnipotente e onnipresente.

Quando scese la sera, dopo cena, la donna fu felice di trovare Manfredi nella sua tana. Malgrado tutto, era stata in dubbio, quasi temendo che quella notte lui l'avrebbe disertata per ripicca.

Lo abbracciò, con un sospiro e gli disse, all'orecchio: “Qualsiasi cosa ci sia, ti prego, almeno noi due non facciamoci più la guerra.”

Ottaviano annuì e poi, dopo averla baciata, rilanciò: “Niente guerra, almeno tra noi. La nostra rabbia teniamola per gli altri.”

Mentre l'uomo la portava verso il letto, con urgenza, ma senza troppo fretta, la Sforza si aggrappò a lui e gli fece presente: “Dopo dobbiamo parlare. Ci sono delle novità di cui dobbiamo discutere, cose che dobbiamo decidere...”

Dopo.” ribatté il faentino, sorridendo.

“Dopo.” accettò la Tigre, che, in effetti, si stava già perdendo nel suo giovane amante, e avrebbe trovato difficile parlare di tattica e strategia, prima di aver placato almeno in parte la sua sete.

 

Andrea Bernardi si tolse la berretta, come stavano facendo tanti altri per strada, quando vide avanzare Gaspare da Sanseverino, su un grosso cavallo da guerra, affiancato da Alessandro e Annibale Bentivoglio, figli del signore di Bologna.

Stavano andando dritti filati al palazzo di Giovanni Bentivoglio e, nel passare, dedicavano solo qualche raro saluto ai presenti. La cittadinanza osservava con ossequiosa curiosità gli abiti sfarzosi di Annibale e Alessandro e dopo il loro passaggio si perdeva in commenti riguardo i vestiti meno eleganti di Fracassa, compensati, almeno secondo certi, dalla ricchezza delle armi che portava al fianco e legate alla sella.

Il Novacula, invece, non era per nulla interessato né al tenore dei vestiti dei tre uomini né all'arsenale privato del Sanseverino.

Quello che lo impensieriva era scoprire cosa ci facesse il Fracassa – per quanto ne sapeva lui un uomo al soldo di Milano – nella casa dei Bentivoglio, che fin dall'inizio della guerra erano stati ambigui nello schierarsi, tanto che, malgrado Alessandro avesse sposato Ippolita Sforza, signora di Casteggio, il fratello Annibale era rimasto stabilmente alle dipendenze dirette del Doge.

Una vaga risposta ai suoi quesiti gli arrivò a sera fatta. Era intento a mangiare la sua zuppa, nella locanda in cui aveva trovato ospitalità, quando si rese conto che i pettegolezzi attorno a lui erano cambiati, rispetti ai giorni addietro.

I bagagli rubati dalla Tigre di Forlì ad Annibale Bentivoglio erano stati sostituiti in modo abbastanza radicale da un altro argomento, molto più fresco e scottante: Gaspare Sanseverino, meglio noto come Fracassa, era stato bandito da Milano, accusato di tramare alle spalle del Moro e di informare il Doge di ogni suo più piccolo movimento e quindi, in seguito alla condanna, aveva lasciato lo Sforza per cercare soccorso e aiuto a Bologna.

Che Giovanni Bentivoglio fosse disposto o meno ad aiutarlo, quello non sapeva dirlo nessuno. Per quel poco che valeva, Bernardi era convinto che Fracassa sarebbe rimasto con un palmo di naso, in quel frangente della guerra, ma preferì tenersi le proprie idee per sé.

Quando arrivò nella sua stanza, la pancia piena di cibo e la mente di idee, fu tentato di prendere il necessario per scrivere e mandare un messaggio alla Contessa. In altri tempi, l'avrebbe fatto senza pensarci un solo istante. Se anche avesse avuto pure solo la speranza di poterle essere utile con quelle notizie, avrebbe addirittura pagato una staffetta veloce, per tenerla al corrente.

E invece, quella sera, dopo appena un momento di frenesia – che l'aveva già portato a stendere il foglio davanti a sé e prendere l'inchiostro – la voglia di rendersi utile svanì di colpo.

Pensò che quella donna bellissima e crudele l'avrebbe ritenuto troppo apprensivo, ridicolo probabilmente. Di certo le sue spie le avevano già riferito tutto quello che anche Andrea aveva visto e sentito, anzi, di sicuro erano state anche molto più precise.

“Non le serve uno stupido barbiere convinto di essere uno storiografo.” disse a mezza bocca il Novacula, scuotendo il capo e lasciando subito la scrivania.

Si andò a coricare, ancora vestito e con le candele accese e pensò, con rancore: 'le serviresti solo se fossi giovane e bello. Non le interessa altro. Non le è mai interessato altro'. E poi, mentre si annegava nelle immagini della Tigre, nei momenti così familiari che negli anni avevano trascorso assieme, si addormentò, senza avere nemmeno l'accortezza di mettersi sotto le coperte.

 

Ottaviano Manfredi stava pigramente appoggiato al davanzale del loggiato, gli occhi azzurri rivolti alla Sforza, che, nel cortile d'addestramento, stava dando prova di essere una spadaccina molto più dotata di tutte le reclute appena arrivate alla rocca.

Quei giovani erano quasi tutti ragazzi strappati ai campi, rastrellati dall'ultimo arruolamento di massa – non più forzato, come invece aveva preteso mesi addietro il Moro – che aveva avuto un grande successo, soprattutto per via della scarsità dei raccolti e delle prospettive per il futuro.

Tra loro non c'erano, almeno a prima vista, grandi promesse, ma Caterina si stava mettendo il più possibile d'impegno per capire dove destinare chi.

Manfredi la osservava in silenzio da almeno un'ora. Mentre la guardava mostrare mosse di scherma e valutare serratamente un soldato dopo l'altro, non poteva fare a meno di ripensare all'ultima notte che avevano passato insieme.

Non riusciva a capire che cosa lo tenesse così legato a lei. Non sapeva nemmeno più dire se gli convenisse o meno restarle accanto, se il loro piano per prendere Faenza avesse un senso, né se la Tigre cercasse in lui qualcosa di più che non un amante da usare per sfogarsi quando era stanca di tutto il resto.

La guardava mentre sollevava la spada, mentre gridava ordini o rimproveri e mentre rideva, con quella risata grossa, da armigero, alle battute volgari dei suoi uomini, prima inter pares, ribattendo a tono, con ancor più volgarità, mostrando il suo vero volto, come se quel cortile secco e polveroso fosse il suo ambiente naturale, come se non esistesse al mondo per lei posto migliore in cui stare.

Quando faceva così, non sembrava la donna che nel buio della notte, mentre lo stringeva a sé, sussurrava il suo nome – o meglio, il suo cognome – né quella che lo guardava assorta, mostrandoglisi nuda in molti sensi. Non sembrava nemmeno quella donna tanto colta e arguta da arrivare a tratti a spaventarlo, e a spaventare, su questo non aveva dubbi, tutti gli uomini che, conoscendola, scoprivano quel lato di lei. Quando motteggiava a quel modo coi soldati, quasi fosse un loro compagno d'armi, pareva una zotica, non la figlia di un Duca, non una matriarca con nozioni ottime di alchimia e medicina, capace di recitare a memoria intere liriche in latino o di tradurre a impronte impegnativi testi antichi.

Quando era con una spada in mano, attorniata da uomini in armatura, si trasformava in qualcosa che Manfredi non riusciva ad afferrare, come se una parte tutto sommato limpida e palese della sua anima prendesse il posto del suo lato più inquieto e ombroso, quello in cui si mescolavano le sue fini conoscenze, i fantasmi del suo passato e il suo continuo e incessante lavorio di mente.

C'erano poi momenti, quando, per esempio, l'aveva osservata aiutare un ragazzo di sì e no diciotto anni a rialzarsi, o quando l'aveva scorta permettere a un soldatucolo troppo intraprendente di sollevarla in trionfo, dopo averla vista battere a duello tre avversari contemporaneamente, in cui si sentiva ribollire dalla gelosia, al pensiero di non poter essere l'unico. Quella era la verità: non lo era stato nemmeno il suo amato Giacomo, né il suo ultimo marito Giovanni. Alla fine, li aveva traditi tutti.

“C'è qualcosa di interessante?” chiese Ottaviano Riario, arrivandogli alle spalle.

Con un sospiro, riprendendosi dai suoi pensieri scuri, Manfredi si voltò verso di lui e scosse il capo, mentre l'amico gli si affiancava: “Nulla di che. Carne fresca al vaglio di tua madre.”

A quelle parole, il figlio della Tigre sbuffò e borbottò: “Non ne ha mai abbastanza.”

Non volendo girare il dito nella piaga, il faentino sollevò appena una spalla e tornò a guardare lo spettacolo, cercando di alleggerire l'atmosfera con un: “Ce ne sono un paio che potrebbero essere adatti come guastatori. Guarda come sono minuti... Li potremmo usare per entrare in qualche cunicolo e far saltare le porte di Faenza dall'interno.”

Il Riario, come sempre del tutto disinteressato alle questioni belliche, non capì nemmeno quali delle reclute il suo amico stesse indicando il suo compare, ma fece comunque qualche commento vago a riguardo, giusto per non far morire subito la conversazione. Quando, però, gli fu chiaro che Manfredi non era in vena di chiacchiere, si rassegnò a chiudersi in un mutismo totale.

“Guarda là...” sussurrò a un certo punto Manfredi, vedendo affacciata a un'altra delle finestre Bianca, accompagnata da una ragazzina che doveva avere qualche anno meno di lei: “Buon sangue non mente.”

Anche l'altro Ottaviano sollevò lo sguardo, capendo perfettamente cosa il suo amico intendesse. In quel momento, Bianca e la sua amica erano talmente concentrate su quello che accadeva nel cortile da non accorgersi nemmeno di essere state notate. Avevano i volti accesi e continuavano a scambiarsi commenti a mezza bocca, accennando ora a questo ora a quel nuovo soldato.

“Sarà tua moglie, no?” fece a quel punto il Riario, dando di gomito al faentino: “Vai a dirle di smetterla di mettersi così in ridicolo.”

Manfredi sospirò, lanciando un'ultima occhiata a Bianca, che, proprio in quel momento, lo aveva scorto e si era fatta più seria, come se temesse davvero di vedersi rimbrottare a distanza per quello che, a conti fatti, era un innocente passatempo da ragazze: “A me non dà fastidio.” sussurrò, e poi distolse lo sguardo dalla promessa sposa in modo così teatrale da farle capire che aveva deciso di soprassedere.

Mentre, con un po' di fatica, la Riario tornava a parlottare con la sua amica, rianimandosi man mano che le reclute mettevano in mostra le loro abilità, il fratello Ottaviano lanciò ancora un'occhiata stranita al faentino, per poi borbottare: “Se sta bene a te...”

“Sì, e ti avverto: non provare a sgridarla per questo genere di cose.” ci tenne a dire Manfredi, subodorando le intenzioni dell'amico: “Come hai detto tu, sarà mia moglie, presto, e dunque sta a me decidere cosa può e cosa non può fare.”

Il tono minaccioso del faentino spense ogni voglia di rimostranza del forlivese che, tacitando il suo istinto possessivo, annuì in silenzio e non ribatté più.

Entrambi con gli occhi puntati sulla Sforza – ognuno dei due Ottaviano per un motivo tutto suo – si persero per un po' nei loro pensieri, senza più aprir bocca.

Solo il faentino, di quando in quando, si sistemava un po', sbadigliando. Non aveva chiuso occhio, quella notte, e crollava di sonno. Se non si fosse vergognato a ritirarsi a dormire a quell'ora, probabilmente lo avrebbe fatto e si sarebbe risvegliato il giorno dopo.

Non riusciva a capire come facesse, invece, la sua amante ad apparire così fresca e piena di energie, in grado, dopo una notte insonne, di passare quasi tutto il giorno a cavalcare, tirar di spada e attendere riunioni importanti, che richiedevano una lucidità non indifferente.

Era evidente che fosse fatta di una pasta più resistente della sua.

Quando aveva provato ad accennarle quella sua perplessità, la donna aveva fatto una risata molto breve e poi gli aveva risposto, con una certa freddezza: “Se sono arrivata viva a trentasei anni, e in discreta salute, con tutto quello che mi è capitato, un motivo ci sarà.”

Mentre Manfredi si portava ancora una volta una mano alla bocca per trattenere uno sbadiglio, il Riario gli chiese: “Ma non fai altro che sbadigliare, oggi?”

Con la voce ancora strascicata, l'altro rispose: “Scusa, ma tua madre stanotte non mi ha lasciato chiudere occhio.”

Il forlivese strinse le labbra e, tornando a guardare la Tigre che si stava cimentando con uno scontro all'arma bianca, ribatté, aspro: “Facevo meglio a starmene zitto.”

“Non mi ha tenuto sveglio solo per quello.” precisò allora l'amico, rendendosi conto di aver ancora una volta parlato troppo: “Abbiamo passato anche parecchio tempo a parlare di te.”

“E perché?” c'era qualcosa, nella voce di Ottaviano, che tradiva una sorta di atavica paura, come se fosse certo che quando sua madre parlava di lui, era solo ed esclusivamente per qualcosa di negativo: “Tu non sei mio padre, né mio fratello. Sei solo l'amante di mia madre.” soggiunse.

“Lo so che non ho alcuna autorità, per parlare si te.” mise le mani avanti il faentino: “Ma sono tuo amico e di guerra, con tutto il rispetto, ne so più di te.”

“E quindi? Che avete detto di me?” si informò il Riario, guardingo.

“Abbiamo discusso di come poterti impiegare, nel caso in cui tua madre riuscisse a farvi andare tutti a Milano.” buttò lì Manfredi, battendo poi una mano sul davanzale di pietra e alzando un pochino la voce: “Ma non crucciarti adesso, che si tratta solo di ipotesi. Per il momento, goditi la tua bella vita. Tra poco più di due settimane farai vent'anni... Intanto che sei qui, al sicuro, mangia, bevi e passa la notte con delle belle donne. Per pensare agli affari e alla guerra, verrà anche il tuo tempo, fidati.”

L'altro tentò di fermarlo, per chiedere maggior informazioni, ma il faentino gli disse che ci avrebbe pensato sua madre a spiegargli tutto 'non appena avrà deciso qualcosa'.

“Dove stai andando?” chiese il Riario, senza però cercare di seguire l'altro.

“Affari miei.” tagliò corto il faentino e, accelerando un po' il passo, si avviò alle scale.

Aveva differito anche troppo, ma credeva fosse giunto il momento. Voleva parlare con Fortunati, che sapeva essere molto vicino agli ambienti importanti di Firenze. Voleva capire assieme a lui se vi fosse un modo per avere in fretta i soldi che la Signoria gli doveva. Alla Tigre servivano liquidi e Ottaviano voleva esserle utile. E voleva esserlo in fretta, prima che qualcun altro – Giovanni da Casale sopra tutti – si presentasse per qualche motivo a Forlì con un esercito di tutto rispetto, offrendolo alla Sforza come pegno d'amore e fedeltà.

 

“Alzati in piedi!” la voce della guardia trafisse i timpani di Dionigi Naldi come un coltello: “Dai, muoviti!”

Il prigioniero, che, stremato dopo una notte insonne, aveva trovato un po' di riposo nel primo mattino, si alzò a fatica. Anche se bene o male gli davano da mangiare cose abbastanza sostanziose, l'immobilità e la tensione di quella detenzione lo avevano lasciato molto smagrito e defedato.

“Mi hai sentito?” insistette la guardia: “Ti ho detto di metterti in piedi!”

Naldi, esterrefatto nel vedere come l'altro stesse lasciando la porta aperta, sbatté le palpebre un paio di volte. Mosse qualche passo incerto, fino ad affiancare la guardia, e, arrivato a un soffio da lui, lo guardò interrogativo.

“La tua Tigre ha fatto sì che ti liberassimo.” gli spiegò il carceriere: “Ritieniti un uomo fortunato.”

Dionigi, senza chiedersi come avrebbe fatto a lasciare Urbino, né con quali soldi e mezzi sarebbe tornato a Forlì, non rimase ad ascoltare nemmeno una parola di più.

Abbozzando una goffa corsa – le sue gambe parevano aver dimenticato come si facesse a muoversi rapidamente – oltrepassò la guardia e, senza sapere nemmeno come, riuscì ad arrivare all'uscita.

Appena fuori, incurante del freddo di quel giorno di marzo, Naldi respirò a pieni polmoni e, piegandosi un po' sulle ginocchia, scoppiò a ridere come un pazzo, folle di gioia.

“E smettetela di fare così, che diamine... Sembrate un demente..!” esclamò un soldato che aspettava appena fuori dall'imponente struttura da cui era uscito Dionigi.

Questi, gli abiti logori e la gola riarsa dalla risata che l'aveva appena attraversata, fissò quello che gli aveva parlato e quando riconobbe lo stemma della Sforza sui suoi paramenti, esclamò: “Sia benedetta la vostra voce!”

“Sì, sì...” tagliò corto quello, che era partito da Forlì su ordine espresso della Contessa per prelevare Naldi e riportarlo da lei: “Avanti, montante in sella. Non abbiamo tempo, dobbiamo muoverci, prima che cambino idea.”

Dionigi annuì subito e, seppur con fatica, salì sul cavallo che l'uomo gli stava indicando. Senza dire nulla, l'altro partì e l'armigero gli stette alle spalle.

Appena usciti da Urbino, il soldato della Leonessa rallentò un po' l'andatura e spiegò: “Dovete ringraziare che siete un uomo importante, per il nostro esercito. E sappiate che la Contessa si aspetta da voi un atto di riconoscenza.”

“Qualsiasi cosa.” fece subito Naldi.

“Dovete ammorbidire vostro fratello Vincenzo nei confronti della Tigre. Non importa come. Non è necessario che passi al suo soldo, basta avere la certezza che almeno lui non ci attaccherebbe mai, siamo intesi?” fece il forlivese, ripetendo in parole povere quello che la Sforza gli aveva chiesto di dire.

Dionigi era tutt'altro che uno sciocco e capì subito che quello era un favore da niente, che in realtà la Leonessa non aveva alcun bisogno di quella rassicurazione. Era stato il suo modo di fargli sapere che l'aveva liberato in segno di stima. Certo, riavvicinarsi a Vincenzo sarebbe stato un beneficio aggiuntivo, ma, più di ogni altra cosa, era un modo per salvare la faccia.

Dandogli quell'ordine, dava l'impressione di averlo liberato per un motivo preciso che andasse oltre la stima. Era un trucco, diplomazia pura. Se messer Giovanni Medici fosse stato ancora vivo, Dionigi avrebbe giurato che quella fosse una sua idea. Forse il passaggio di quel fiorentino aveva lasciato più tracce di quanto non si credesse.

Sollevato da quella consapevolezza, Naldi si permise finalmente di rilassarsi, tuttavia, a beneficio della pantomima politica e diplomatica voluta dalla sua signora, fece segno di sì con la testa, come se quello affidatogli fosse un compito della massima importanza.

“E siate sempre fedele, Naldi.” concluse il soldato, e da allora, fino a che non entrarono in territorio amico, non profferì più parola.

 
 
   
 
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