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Autore: Koa__    19/12/2018    10 recensioni
La sera della vigilia di Natale, Sherlock di malavoglia rientra a casa. È arrabbiato perché tutti sembrano preferire le feste al lavoro e si rifiuta di farsi coinvolgere dall’atmosfera natalizia. A Baker Street intanto, John e Rosie si stanno preparando per andare a cena da Mycroft e Lestrade, i quali hanno organizzato una festa per quella stessa sera. Ma Sherlock si rifiuta di seguirlo, ritenendo il Natale un stupidaggine e per questo i due litigano. Rimasto solo, Sherlock riceverà la visita del fantasma di Mary Morstan, la quale è tornata per annunciare la venuta di tre spiriti che lo porteranno a vedere i Natali passati, il Natale presente e i Natali futuri.
[Ispirato al: "Canto di Natale" di Charles Dickens]
‘Storia partecipante al ‘Mille e una fiaba contest’ indetto da Emanuela.Emy79 ”
Genere: Angst, Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson, Nuovo personaggio, Quasi tutti, Sherlock Holmes
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Questa storia è stata scritta per l’evento Marry Christmas, del gruppo Johnlock is the way… and Freebatch of course.
 
 



 
 Canto di Natale
 
 




 
 
 

 
 
 
 
 Il fantasma di Mary Morstan
 



 
 
 
Marley era morto, tanto per cominciare.
Non c’era dubbio su questo:
il suo atto di morte era firmato dal pastore,
dal coadiutore, dall’uomo delle pompe funebri
e dal capo dei piagnoni.
L’aveva firmato anche Scrooge,
ed il nome di Scrooge alla Borsa degli scambi
valeva per qualunque cosa a cui egli decidesse di metter mano.
Il vecchio Marley era morto come un chiodo di un uscio
.
 
 

 
Doveva essere la viglia di Natale o un qualcosa di simile, non ne era certo e a dire il vero nemmeno s’era soffermato troppo a pensarci. Si era fatto due domande quello stesso mattino e giusto per un paio di secondi netti, ma poi la mente era tornata su cose più importanti e, del Natale, se n’era dimenticato. In effetti Sherlock Holmes non poteva dire d’essere sicuro neanche che fosse il mese di dicembre. Nelle ultime settimane non era stato particolarmente attento a quel che lo circondava, aveva avuto di meglio da fare che badare alle feste. Il merito di tanta disattenzione (merito che John avrebbe definito una colpa), era da additare a uno degli omicidi più affascinanti che gli fosse mai capitato d’avere per le mani. Dopo quasi un mese d’indagine serrata, di appostamenti notturni e pomeriggi interi trascorsi nella solitudine del proprio palazzo mentale, nel tentativo di riuscire a ricomporre il puzzle, il suo nome era finito addirittura sulla prima pagina dei più importanti quotidiani britannici. E non che fosse una novità per uno con la sua fama, ma questa volta c’era qualcosa di vagamente più morboso nell’attaccamento che l’opinione pubblica aveva dimostrato. Sebbene alcuni di giornali avessero espresso il solito distaccato scetticismo, la maggior parte era invece ammirata dal genio che il “detective col cappello” aveva dimostrato di possedere. Sherlock era certo che sarebbero tornati presto a disprezzarlo, ma non ci fece troppa attenzione. Quel che importava era il lavoro, nient’altro e questa volta stava andando alla grande. Grazie a una brillante intuizione, infatti, il colpevole di un efferato delitto avvenuto in una scuola d’infanzia era finalmente stato arrestato. No, non era stato per niente un caso facile e non tanto per le meccaniche complesse dell’accaduto, quanto per la mancanza di movente e per la maniera in cui gli omicidi avevano colpito la gente. Ben presto si era reso conto che l’indagine diventava sempre più delicata e, la buona riuscita, a rischio. Così come gli ricordava spesso Lestrade, i genitori delle piccole vittime erano dilaniati dal dolore mentre i comuni cittadini non mancavano di mostrarsi furenti nei confronti della polizia che avrebbe dovuto fare qualcosa al più presto. A peggiorare una già precaria situazione, c’era il suo essere costantemente pedinato da giornalisti in cerca di uno scoop da prima pagina. Ma la situazione era precipitata davvero nell’attimo stesso in cui aveva finalmente fatto il nome del colpevole, a quel punto la notizia era rimbalzata ovunque in Inghilterra. Alcuni lo avevano definito un vero e proprio scandalo, sostenevano che Sherlock Holmes fosse del tutto impazzito e che qualcuno dovesse impedirgli di svolgere indagini parallele a quelle di Scotland Yard. Soltanto grazie a delle sostanziose prove concrete aveva ottenuto la ragione che meritava, incastrare uno dei principali ministri del governo per triplice omicidio fu il passo immediatamente successivo. Colpevole, che ora stava in prigione e che era stato accusato d’aver assassinato due bambini e un’insegnante. Sherlock aveva affrontato tutto quello con un distacco apparente che, a detta della sempre delicatissima sergente Donovan, era quasi disumano. Come al solito, aveva pensato amaramente, quella donna non poteva essere più lontana dalla verità. Perché Sherlock ne era rimasto sconvolto fin da quando aveva ricevuto la chiamata di Lestrade, un mattino sul presto. Era stato invitato sulla scena del delitto così come capitava piuttosto di frequente con gli omicidi complessi. Ma nell’attimo stesso in cui aveva posato lo sguardo sul cadavere di un bambino di appena due anni, era rimasto letteralmente bloccato dall’orrore. Credeva, stupidamente, che col mestiere che faceva le avesse viste proprio tutte e invece si sbagliava di grosso. Da quel momento in avanti aveva faticato a trattenersi dal diventare fastidiosamente emotivo, spaventarsi non sarebbe servito a nulla e di certo non avrebbe reso giustizia a quei poveri bambini. Però il sembrare distaccato era il minimo che potesse fare e nonostante fosse difficile ignorare quella vocina che, da dentro di lui, gli ricordava che Rosie Watson aveva la stessa età di due delle vittime. E che quel giorno, oltretutto, la dolce piccola John si trovava all’asilo come tutte le mattine. Dall’altra parte di Londra rispetto al luogo del crimine, ovviamente, ma se l’assassino avesse invece deciso per una strada diversa? Se fosse entrato alla scuola di Rosie? Che ne sarebbe stato di lei o di John? Che ne sarebbe stato di Sherlock Holmes? Avrebbe potuto essere una delle vittime, pensava con orrore crescente. Scacciare i brutti pensieri con un drastico cenno della mano era un gesto diventato ormai quasi meccanico e che il più delle volte serviva a ben poco. Che esistesse una qualche correlazione tra il pessimo umore di Sherlock, quel macabro delitto e la paura per Rosie e per John, nessuno tra coloro che assiduamente lo frequentavano pareva averne la minima idea. Di sicuro, l’avvicinarsi del Natale non migliorava le cose.
 
 
Quel pomeriggio, lo scontroso detective col cappello lasciò gli uffici Scotland Yard dopo quasi dodici ore di lavoro ininterrotto. Certamente non per propria volontà. Chi conosceva bene il suo metodo, sapeva che quanto stava facendo da qualche giorno a questa parte poteva definirsi una rarità. Solitamente, dopo aver tratto le proprie deduzioni con l’usuale teatralità che lo contraddistingueva, se ne andava e delegava le faccende pratiche a Lestrade. Scartoffie e dettagli noiosi non erano un qualcosa che lo riguardava. Questa volta però era diverso, questa volta non voleva lasciare niente al caso e aveva tutta l’intenzione di non mollare a meno finché l’assassino non avesse confessato. Fatto che non era ancora avvenuto, e nonostante un consistente numero di prove schiaccianti. Stava quindi portando avanti un lavoro certosino, oltre che faticoso, che richiedeva ore di concentrazione. In quel tardo pomeriggio e con sua somma irritazione, si rese conto che un qualcosa di diverso aleggiava nell’aria. Era stato dopo le cinque che aveva distrattamente notato gli uffici svuotarsi mentre, alle cinque e tre quarti, erano rimasti sì e no una decina di agenti e nessuno tra loro aveva un grado superiore a quello di sergente. Poco gl’importava, tutto ciò che serviva per lavorare erano gli archivi della polizia e un computer, e per nessuna ragione se ne sarebbe privato. C’erano ancora tanti particolari da mettere a fuoco. Stava lavorando alacremente quando, del tutto inaspettatamente, fu proprio Lestrade a proibirgli di proseguire oltre. Con brutalità spense i computer della stanza, smorzò le luci e gli lanciò in malo modo il cappotto. Non aveva fatto neanche in tempo a indossarlo per bene che s’era sentito afferrare e trascinare per un braccio.


«Avrei altro da fare, ispettore e anche tu» sputò Sherlock, con rabbia, mentre veniva spintonato dentro l’ascensore da un irreprensibile e determinato Graham (o come accidenti si chiamava).
«Abbiamo l’assassino, abbiamo le prove. Al resto penseranno i colleghi» gli aveva detto, premendo con forza il pulsante che li avrebbe portati al pian terreno. Lestrade era molto strano quel giorno, lo era stato fin dal mattino, ma il suo già pessimo carattere era andato peggiorando col trascorrere delle ore. Aveva anche tentato di capire quale fosse il suo problema, ma poi aveva desistito ritenendola una delle sue tante stranezze (d’altra parte, stava con suo fratello... quanto strana poteva essere una persona che dormiva con Mycroft Holmes?). Eppure, c’era qualcosa che gli sfuggiva del suo comportamento, si ritrovò a pensare mentre l’osservava. Era evidentemente nervoso, ma non sembrava esserci alcuna ragione plausibile. Inoltre aveva una gran fretta, continuava a guardare l’orologio come se avesse un appuntamento.
«Dannazione, sono già le sei» borbottò, parlando fra sé e svicolando tra i poliziotti che affollavano l’atrio. «Mi ucciderà, me lo sento e tu fila subito a casa. Vedete di non fare tardi o ucciderà anche voi» gli aveva urlato, appena prima di sparire oltre le porte a vetri. No, per quanto l’avesse trovato strano, Sherlock Holmes non si era preoccupato affatto d’indagare oltre. Tardi per che cosa? Lui non aveva proprio niente da fare. Ma poco gl’importava, non voleva sapere quale delle tante crisi esistenziali lo avesse portato a straparlare. Scoprire di più sulla sua vita privata non era di certo in cima alla lista di cose che aveva ancora da fare. Inoltre era arrabbiato, con così tanto lavoro si permetteva di cacciarlo? Il caso era tutto ciò che contava e quello non era un giorno diverso dagli altri. Fermo sul marciapiede antistante gli edifici di New Scotland Yard, a fumare di rabbia, Sherlock Holmes ci rimase per qualche istante di troppo. Non poteva tornare indietro, Lestrade gli aveva portato via il badge per i visitatori e lui non ne aveva altri a disposizione. Avrebbe dovuto controllare una cosetta sulla scena del crimine, ma era già buio e aveva addirittura iniziato a nevicare. Londra, oltretutto, era un caos inimmaginabile e lui era talmente inviperito che avrebbe seriamente rischiato di sbraitare contro qualcuno, e di conseguenza farsi arrestare. Non il modo migliore per tornare a Scotland Yard. Quindi, per quanto preferisse dedicarsi ad altro, ritenne più saggio andare a casa e riflettere per bene sul da farsi. Poteva lavorare anche da lì e una serata seduto in poltrona con John che gli trotterellava attorno era l’ideale per sciogliere i dubbi. E poi un tè era ciò che gli ci voleva contro tutto quel freddo.
 

I suoi sospetti circa il Natale tornarono a farsi vivi dopo che l’auto si fu fermata in prossimità del 221b di Baker Street. Si rese conto solamente allora di quale giorno fosse e non tanto per il portone decorato con una ghirlanda di pungitopo, che ne stava lì appesa da un mese e che Sherlock non aveva mai notato, e non era nemmeno per le finestre del soggiorno decorate con lucine dorate. A farlo piombare drasticamente nella realtà fu la voce dell’uomo alla guida. Costui era un tizio comune e anche un po’ banale, sulla cinquantina, aveva un’aria paciosa e un quoziente intellettivo sotto la media nazionale. Una di quelle persone a cui non avrebbe dato retta neppure se gli avesse puntato contro una pistola e che, per uno strano scherzo del destino, ascoltò allora.

«Buon Natale, Mr ‘Olmes!»
 
Buon Natale, aveva detto proprio così. Ecco qual era il problema di tutti. Il Natale era la ragione per cui Lestrade lo aveva cacciato e la gente era impazzita. Ed era sempre per quello che tutti gli yarder avevano stranamente deciso di rivolgergli la parola, non li aveva ascoltati ma ora supponeva che avessero fatto gli auguri. Era proprio lo stupidissimo ventiquattro dicembre e quindi Graham era scappato in quel modo per colpa di una qualche stupidissima cena con lo stupido Mycroft. Stupido, stupidissimo Mycroft, pensò avvicinandosi al portone.
«Natale… che sciocchezza» borbottò, mentre recuperava le chiavi. Accadde allora, mentre stava per aprire la porta. Per un istante ebbe l’impressione d’aver visto il volto di Mary affacciarsi dal battente, poi però subito si riscosse. Era solo la stanchezza, si convinse scrollando le spalle.
 
 
 

 
*
 


 
Al di là di ogni ragionevole dubbio si poteva dire che Sherlock Holmes odiasse le feste. Per esempio, non aveva mai capito perché si dovesse celebrare il compleanno (per quel che gli riguardava, invecchiare non era un motivo per cui esser contenti), ma il Natale era anche peggio. Era tutta una scusa per rimpinzarsi di schifezze spacciate per prelibatezze e comprare oggetti inutili che avrebbero preso polvere su un mobile. Era una festa idiota nella quale si facevano cose ancora più stupide come cantare o scambiarsi auguri scemi con gente mai vista, e tutto per celebrare un bambino nato più di duemila anni prima, in un posto che nessuno sarebbe stato in grado d’indicare su una mappa geografica. In quel periodo dell’anno non capitava mai niente di buono, persino la classe criminale decideva di non dargli da lavorare. Il che era assurdo. E ancora più insensato fu il fatto che, quel fruire di pensieri, lo portò a ricordarsi di John. Avrebbe voluto festeggiarlo? Sicuramente e forse era ancora in tempo per darsela a gambe. Non voleva forse controllare quel dettaglio sulla scena del delitto? Purtroppo per lui non fece in tempo a far nulla: l’odore di biscotti al pan di zenzero che ormai invadeva l’atrio, fu preceduto di pochissimo da una sorridente Mrs Hudson.


«Oh, finalmente sei tornato, caro» trillò, mentre scendeva lentamente le scale. «John iniziava a preoccuparsi» aggiunse, aiutandolo a svestirsi del cappotto e della sciarpa bagnati di neve, neanche fosse stato un bambino. «Non è bene che le giovani coppie come voi stiano separate a Natale e tu non ti fai vedere da ieri sera. Quel povero caro era spaventatissimo all’idea che non tornassi in tempo. Buon cielo, ma che ci sarà mai in quella tua testolina matta?» Rideva, Mrs Hudson e lo faceva persino mentre oltrepassava la soglia del proprio appartamento e vi spariva dentro. Sherlock, però, già non l’ascoltava più. Il suo cervello si era bloccato sulla parola “Coppia” e da lì non pareva volersi più muovere. Lui e John non lo erano, per quanto la loro padrona di casa si ostinasse a sostenere il contrario, non lo sarebbero nemmeno mai stati. Se John fosse stato presente l’avrebbe senz’altro fatto notare perché no, non era gay e, anche se lo fosse stato, di certo non sarebbe stato interessato a stare insieme a una persona come lui. Da quando si conoscevano era capitato spesso che la gente li scambiasse per fidanzati e, anzi, di recente succedeva sempre più di frequente. Due uomini adulti con una bambina di due anni a seguito e che chiamava papà entrambi? Ma ovvio che li credevano sposati e quando non erano i clienti a insinuarlo, era la stampa scandalistica a fare del pettegolezzo. Sembrava che Holmes e Watson fossero la coppia più gettonata d’Inghilterra. Stando all’edicolante di Crawford Street, loro due vendevano più copie di tutta la famiglia reale messa assieme. [1] Dal canto proprio, Sherlock non si era mai troppo preoccupato di precisare che non fosse vero. Il suo non era menefreghismo, né il fatto che non considerasse minimamente le opinioni altrui, la realtà era che a un parte di sé faceva piacere l’idea di essere considerato all’altezza di John Watson, perché lui non pensava affatto di esserlo. Oltretutto non era mai stato interessato alle relazioni sentimentali e non aveva neanche idea di come avrebbe dovuto comportarsi. Era un uomo solo e così sarebbe sempre stato, era meglio per tutti pensò aggiustandosi meglio i baveri della giacca che indossava. Anche se lo amava come mai era stato capace d’amare nessuno, non sarebbe successo niente. Il suo tentare di convincersene, anche in quel momento, divenne sempre più consistente man a mano che saliva i diciassette gradini del 221b. Procedeva a passo determinato, sicuro di quanto avrebbe fatto o detto di lì a poco. Niente Natale e nessuna questione. La sua marcia si bloccò soltanto quando già si trovava a metà della scalinata, gli era parso di sentire un rumore di ferraglia che veniva trascinata. Una catena, forse. E, di nuovo, diede la colpa alla stanchezza.


«Oh, giusto in tempo.» Se si fosse guardato allo specchio probabilmente non si sarebbe reso conto dell’espressione incattivita e cupa con la quale se ne andava in giro. Una serata libera era tutto tempo sprecato e ci stava giusto rimuginando, quando si trovò davanti John Watson. Doveva avergli parlato, ma non poteva dire d’averlo ascoltato. Eppure se ne stava lì a pochi passi. John che sorrideva e che lo faceva in una maniera che dall’alto del suo immenso genio, il detective col cappello non riusciva a decifrare. Se non fosse stato così impegnato a essere di cattivo umore, avrebbe senz’altro notato il sollievo farsi strada in lui, oltre che un sincero sentimento fargli prudere le dita delle mani. Aveva avuto la sensazione che gli si fosse avvicinato col preciso intento di baciarlo o abbracciarlo, ma non ne era affatto sicuro. Quel che aveva invece notato era il suo sguardo, illuminato di una strana espressione. In un giorno come un altro avrebbe detto che tanto buonumore era per via di una qualche donna rimorchiata in un locale, ma adesso che sapeva di quella stupida festa diede la colpa al Natale. Eccola, una delle tante cose di John che non capiva: era un sentimentale. Nonostante i Natali in cui era stato realmente felice si potessero contare sulle punte delle dita, riusciva a trovarci sempre qualcosa di buono. Forse vedeva qualcosa di buono anche lui, pensò mentre una fiammella di speranza gli si accendeva nel petto. Ma no, che andava dicendo. Era un illuso, questa era una di quelle cose che non sarebbe mai potuta accadere. John era felice per i regali e le renne e quant’altro, così come faceva ogni anno. Tutto qua. John vedeva magia, Sherlock invece, irritazione e fastidio. John si lasciava incantare dalle luci del centro, Sherlock sbuffava per colpa del traffico impossibile. Che cosa c’era di magico? Nulla, era un giorno come un altro. La magia non esisteva e il Natale non era un giorno speciale. Quindi qualsiasi progetto avessero per la serata lo avrebbe ignorato, così come avrebbe evitato di essere contento per tutti quei dettagli che ora, e per la prima volta, riusciva a cogliere. C’era un abete non molto lontano dalla finestra, uno vero e non di plastica. Doveva esserlo, almeno stando al profumo di pino e resina che invadeva il soggiorno e il cui aroma si mescolava a quello dei biscotti allo zenzero di Mrs Hudson. Da quanto si trovava lì? Da quanti giorni le lucine erano state sistemate sopra al caminetto? E perché a Billy il teschio era stato fatto indossare un cappello da renna con tanto di corna? Era Natale ovunque attorno a lui e neanche ci aveva fatto caso. Era Natale persino in quel piccolo presepe costruito in un ripiano della cucina svuotato per l’occasione. E lo era in quei pacchetti ammonticchiati sotto l’albero e nella voce di Frank Sinatra che risuonava ovunque.
«Sono in tempo per che cosa?» gli domandò con finta noncuranza. Soltanto allora aveva indossato la vestaglia ed era sprofondato in poltrona, non era dell’umore adatto per fare conversazione. Quindi decise di mettere il muso e chiudersi in un ostinato silenzio.
«Ma per uscire, mi pare chiaro. Devi essere pronto tra un’ora, sai che tuo fratello odia i ritardatari.»
«Noi andiamo da mio fratello?»
«Te ne sei dimenticato.»
 
Ora, per quanto piuttosto spesso John Watson fosse impossibile da decifrare, in quel momento gli fu facile dedurre che era arrabbiato e deluso. Lo aveva capito da alcuni dettagli, come il modo in cui aveva preso a stringere le nocche delle mani o per come aveva interrotto ciò che stava facendo, sebbene per un breve istante. Era infatti chinato sui pacchi regalo sistemati sotto l’albero e ogni tanto ne infilava qualcuno in un grosso sacco di iuta. Ora però la sua mano sinistra tremava leggermente e un lampo di delusione era passato nel suo sguardo. Sherlock l’aveva visto, ma non aveva fatto neanche in tempo a pensare a che cosa potesse significare che John si era risollevato e aveva preso a fronteggiarlo.
«Anzi no» sibilò e aveva una voce fredda, intrisa di una rabbia non trattenuta. «Non mi hai proprio ascoltato. Sono tre settimane che ti dico che per Natale siamo stati invitati da tuo fratello e che ci saranno anche tutti i nostri amici. Mycroft e Lestrade tengono alla nostra presenza perché pare debbano fare un annuncio. Tre settimane» gridò, ora più arrabbiato. «Ma ovviamente chi sono io per poter essere ascoltato dal grande Sherlock Holmes? Un idiota qualsiasi, ecco chi.»
«Da quell’odioso di mio fratello e dalla sua geisha personale non ci vado, e non dovresti andarci nemmeno tu e poi per che cosa? Natale, ma che ridicolaggine. Il Natale è per gli idioti» replicò in tono infantile e chiudendosi in un mutismo taciturno.
«Ecco» sbottò John, cacciando a forza i regali dentro al sacco. «E adesso so se mi hai fatto un regalo oppure no, cosa che mi domando ormai da un mese. Ad ogni modo il tuo è questo» gli disse prima di afferrare un piccolo pacco di forma rettangolare e lanciarglielo malamente contro. «Ah e prima che tu possa dedurre che cos’è, oh immenso genio, è un libro sull’apicoltura. Dato che sembra esser diventata la tua nuova fissazione, pensavo di poterti far felice perché sai, sono talmente scemo d’aver voluto fare un regalo alla persona più importante della mia vita. Ma come non detto, tanto lo sapevo di non contare niente per te. E non ti preoccupare, io e Rosie togliamo subito il disturbo.»
«Joh…»
«Buon Natale, stronzo.» E una volta che ebbe detto questo, sparì al piano di sopra. A Sherlock sembrò di vederlo tornare un’ora più tardi con in braccio una Rosie Watson tutta felice e ben coperta, ma di neanche questo fu sicuro. Tutto quel che sapeva per certo era che non lo aveva degnato di uno sguardo. Aveva semplicemente lasciato Baker Street e mentre se ne stava lì che rimuginava sul fatto che non succedesse mai niente di buono a Natale, gli parve quasi d’aver visto una delle campanelle che decoravano l’abete, iniziare a suonare. Non ci diede peso, doveva esser stata una corrente d’aria.
 
 
 
 
*
 
 


Si era rintanato nel palazzo mentale, ma da quanto tempo ci stesse non lo sapeva. L’ultima cosa che era sicuro d’aver visto era la sagoma di John che scendeva di corsa le scale del 221b di Baker Street con Rosie in braccio. Da quel momento in avanti la realtà aveva assunto contorni assai strani. La sola cosa di cui era certo riguardava il soggiorno. Era diverso dal solito, più spoglio e triste. Il fuoco del camino si era spento, la stessa cosa era successa all’albero di Natale, alle lampade e persino ai lampioni giù in strada. Sherlock evitò di spaventarsi o di allarmarsi, era un uomo profondamente razionale e la sua mente gli suggerì che doveva esserci stato un qualche blackout. E per qualche istante credette d’avere ragione, salvo poi scartare l’ipotesi. C’era dell’altro, a inquietarlo. Un freddo innaturale e anche degli strani rumori provenienti dal piano di sotto e che gli sembrava d’aver sentito fin da che era rincasato. Era un qualcosa di diverso dallo scricchiolino del legno tipico delle case più vecchie, era invece molto metallico. Se avesse lasciato vagare l’immaginazione, questa gli avrebbe suggerito che era il tintinnio di pesanti catene trascinate con fatica su per i gradini. Ma era un’ipotesi assurda, del tutto improbabile. A meno che non si trattasse di uno scherzo, ma in quel caso sarebbe dovuto essere Halloween. Questa invece era la notte di Natale. Possibile che invece fosse un ladro? Magari un topo d’appartamento che approfittava delle case non abitate per svuotarle dei rispettivi averi? La prospettiva era assai più plausibile. Non avrebbe avuto difficoltà a catturarlo, certo doveva essere davvero un idiota per aver deciso di rubare in casa dell’unico consulente investigativo al mondo. Beh, chiunque fosse l’avrebbe steso prima di subito. Ne era più che sicuro.
 

Quel rumore di catene andò intensificandosi e assieme a esso percepì anche un fruscio, come di vestiti. Non riusciva a dedurre altro, non sentiva nessun tipo di camminata, alcun passo particolare. Non un respiro pesante. Solitamente deduceva altezza e peso dei clienti da come salivano le scale, ma in questo caso non aveva nessun appiglio. Il che lo spaventava parecchio. E se fosse stato armato? La sola pistola che avevano la tenevano in alto nell’armadio di Sherlock, dove Rosie non si sarebbe potuta avvicinare, ma non aveva il tempo necessario per andarla a prendere. Avrebbe dovuto giocare d’astuzia, prendendolo di sorpresa. Quindi si levò di scatto dalla poltrona e indietreggiò di un passo, nascondendosi nell’ombra. Evitò di esporsi al cono di luce che filtrava dalla finestra perché sebbene non ci fossero luminarie lungo tutta la via, il brillare della luna che spuntava tra nuvole cariche di neve, era sufficiente a chiarire i contorni di mobili e oggetti. Facendo in fretta, si sistemò appena dietro il divano e aspettò in silenzio. Quello che credeva sarebbe successo tuttavia non accadde, il parquet non scricchiolò in corrispondenza dell’ultimo gradino e la porta non cigolò. Il che era impossibile. Conosceva quella casa a memoria e sapeva tutti i rumori che il pavimento faceva. Se là fuori ci fosse stato qualcuno che camminava, le assi di legno si sarebbero certamente mosse sotto al peso di chiunque. Dandosi coraggio Sherlock chiuse appena gli occhi, inspirando a fondo, ma quando li riaprì vide qualcosa che non si sarebbe mai aspettato. Un qualcosa che lo spaventò tanto da farlo sobbalzare per la paura. La maniglia non si era abbassata, ma la porta si stava aprendo da sola e questa volta non avrebbe potuto dare la colpa a una corrente d’aria. Lì a pochi metri da lui, sulla soglia del soggiorno c’era Mary Morstan. Ed era proprio lei, sebbene diversa in alcuni piccoli particolari. Anzitutto era evanescente ed era circondata da una nebbiolina sottile e impalpabile. Per quanto la parte più razionale del suo cervello si rifiutasse di accettarlo, il buon senso gli suggeriva che quello era un fantasma. Non poteva essere un’allucinazione, in passato ne aveva avute parecchie e i vari personaggi che gli apparivano erano diversi da ciò che ora si trovava di fronte. Scartò anche l’ipotesi che potesse essere un sogno particolarmente fantasioso o che il suo palazzo mentale fosse fuori controllo, non aveva assunto alcuna droga che giustificasse una cosa simile. E poi, perché mai avrebbe dovuto vedere la moglie di John con una pesante catena? Perché avrebbe dovuto vederla col volto scavato e magro? La ricordava diversamente e altrettanto diversamente la vedeva.

«Ciao, Sherlock.»
«La morte non ti dona, Mary.»
 
Fingeva noncuranza, lo faceva nonostante provasse ancora quel timore forte di chi non ha ben chiaro cosa stia succedendo. Era da sempre una persona controllata e razionale, ma quanto aveva di fronte lo stava mettendo seriamente in difficoltà. Che fosse del tutto impazzito? Che i sensi di colpa fossero tornati a fargli visita? E se si trattava invece della droga e non si fosse reso conto d’averla assunta? No, questo lo escludeva. Aveva giurato a John che non avrebbe preso mai più niente e che non un grammo di nessuna schifezza sarebbe entrato dalla porta del 221b, non adesso che lì ci viveva anche la piccola Rosie.
«Tranquillo, non sei impazzito o drogato e il tuo non è un sogno, né un’allucinazione. Mi trovo davvero qui, beh, più o meno.» Un’allucinazione avrebbe detto lo stesso, come poteva esser certo che si trattasse di fantasmi? Dentro di sé sapeva che questa era l’unica spiegazione plausibile, ciononostante la sua vena logica gl’impediva di prender sul serio un’ipotesi del genere. La magia non era nulla se non l’invenzione di menti semplici, non in grado di spiegare fenomeni altrimenti chiari a uno scienziato o a un cervello illuminato.
«Mh» mormorò Mary, con aria fintamente meditabonda e interrompendo volontariamente il flusso dei suoi pensieri «ma non eri tu a dire che dopo aver eliminato l’impossibile, quello che rimane, per quanto improbabile, dev’essere la verità? Cos’è, ora infrangi i tuoi stessi dettami?» In tutta risposta Sherlock sorrise, ma lo fece con un ghigno tirato e infastidito. La riconobbe proprio allora e non tanto grazie a un qualcosa che il fantasma aveva detto, quanto dalla maniera in cui aveva parlato. Aveva capito che non si trattava di un’allucinazione proprio da quel sentimento che provava, era di fastidio alla bocca dello stomaco, come d’imbarazzo. Lo stesso che spesso gli era capitato di dover soffocare quando Mary era ancora in vita. Era lei, ne era sicuro. Aveva lo stesso modo di fare pungente e sarcastico, mostrava intelligenza persino da morta. Un’illusione sarebbe stata capace di tanto? Si domandò, rispondendosi che no, nemmeno nelle sue più realistiche fantasie riusciva a ritrarla così precisamente sarcastica. Solitamente, al contrario, il suo subconscio aveva la tendenza ad addolcirle il carattere in una maniera che non le era mai appartenuta davvero.
«Quindi saresti un fantasma?» le chiese, indugiando appena sulla parola giusta da usare. Non era un esperto in materia, per la prima volta in vita sua detestava non saperne su un argomento che comunque non gli era mai interessato. Se Mary fosse stata un pianeta, per esempio, avrebbe odiato non saperne del sistema solare.
«Lo dici come se fosse una brutta cosa. I fantasmi esistono, mio caro. Mai visto Belfagor? Il fantasma del Louvre? E dove credi che Charles Dickens abbia preso ispirazione per il suo Canto di Natale?»
«Perché sei qui?» Sì, era una domanda stupida e di certo un genio del suo calibro avrebbe potuto chiederle ben altro. Aveva la possibilità di sapere cosa c’era nell’aldilà e di rispondere a tutti quei quesiti che l’umanità si poneva da secoli, ma l’unica cosa che sembrava importargli era il motivo di tutto quello.
«Perché non vuoi finire come me, Sherlock, non lo vuoi davvero.»
«Finire in che senso?»
«Nel senso che se continuerai a comportarti in questo modo, le tue catene saranno più pesanti delle mie. Ti ho affidato mio marito e la mia bambina perché sapevo che solo tu saresti stato capace di amarli come meritavano, e invece ti trovo qui a trascorrere il Natale da solo. Dov’è John e dov’è Rosie? Perché non sei con loro?» Nonostante la sua fosse una precisa domanda, non gli pareva che fosse lì per cercare un risposta. Dal suo tono di voce era chiaro che quella era una precisa accusa. E lui non sapeva che cosa dire, perché non esisteva alcun valido motivo dietro alla sua ricerca di solitudine. Non ce n’era neanche uno e Sherlock ben lo sapeva. Eppure e nonostante sapesse che darle ragione era la scelta più onesta, s’impuntò sostenendo invece che ne aveva moltissime. Ovviamente, lei non rinunciò a controbattere e ora lo additava con una sincerità che mai aveva usato quando era in vita. Lo faceva adesso e con il volto scavato e pallido, dalle cui pieghe trapelava un tenue sorriso. Aveva le espressioni tirate e cariche di un’amarezza palpabile, allo stesso modo di come si percepiva il suo sguardo, ora puntato lontano a fissare chissà dove. Si era accomodata in poltrona, ma se si prestava attenzione si notava che non stava realmente seduta. Aleggiava invece a qualche centimetro, le sue gambe attraversavano i cuscini mentre le catene, aggrovigliate sul tappeto, di tanto in tanto tintinnavano. C’era una strana luce in quegli occhi grigiastri e uno stupore che non era certo di sapere da dove provenisse. Sherlock si ritrovò a pensare che, dalla maniera in cui la vedeva guardarsi attorno, stesse tentando di ricordare il 221b per come lo aveva conosciuto. Una casa sorridente, allegra, sempre piena di persone e di cose da fare. Questo posto buio e tetro, carico di un freddo che gelava fin dentro le ossa non era per nulla ospitale.
«Dimmi un po’» se ne uscì, pensierosa «è qui che cresci mia figlia?»
«Io non cresco tua figlia, Mary» le rispose facendosi avanti e permettendo a quel cono di luce che filtrava attraverso i vetri, di avvolgerlo completamente. «Aiuto John a prendersi cura di lei, che è diverso. Il padre è lui e non io, noi non stiamo insieme e mi stupisce che sia proprio tu a farmi discorsi del genere. Sembri Mrs Hudson!» esplose, nervoso. Era stanco di tutto quello, stufo di sentirsi continuamente dire che sarebbero stati una bella coppia. Certo che lo sarebbero stati, lui era il primo a crederlo ma ciò non cambiava lo stato delle cose.
«Dovresti stare con John, con i tuoi amici, con la tua famiglia.»
«Che cos’è un lampo di generosità, il tuo? Sei venuta qui perché sei preoccupata per me? Davvero, Mary? E dovrei credere che mi stai spingendo tra le sue braccia? È di tuo marito che stiamo parlando oppure sei talmente presa ad atteggiarti a quella santa madre e moglie premurosa che hai sempre creduto di essere, che te ne sei dimenticata?» Di nuovo aveva sputando fuori le proprie parole in maniera velenosa e che, forse, lei neanche meritava di sentire. Si trattava pur sempre di una donna morta molto giovane e in modo tragico, la madre di una stupenda bambina dagli occhi blu e con una cascata di ricci biondi. Avrebbe dovuto mostrare pietà e ringraziare la sua generosità, apprezzare il suo desiderio di vedere felici che le persone che aveva amato in vita. Voleva che qualcuno che si occupasse di loro insomma. E fu quasi sul punto di scusarsi quando lei tornò a fronteggiarlo, le espressioni amareggiate di poco prima avevano lasciato posto a una rabbia feroce.
«Non m’importa ciò che pensi di me» sbraitò, agitando le catene «e se tu fossi intelligente quanto ti vanti di essere, allora sapresti che ti ho voluto bene davvero. Ma se preferisci vedermi come una bastarda egoista, allora diciamo che sto pensando soltanto a mia figlia e alla felicità che merita e che di te non me ne importa niente. Va bene così?»
«Io… stai sprecando il fiato, anche se andassi da lui non cambierebbe niente. John ama ancora te e se un giorno dovesse rifarsi una vita sarà senz’altro con una donna che lui crederà poter prendere il tuo posto. Per me non c’è spazio, non in quel senso.» Era un bel discorso, del quale era fermamente convinto ma la verità non risiedeva esattamente tra quelle parole. Sherlock aveva paura e temeva di non poter essere abbastanza, era convinto che il paragone che John avrebbe fatto senz’altro con sua moglie, non avrebbe retto. Mary aveva tanti difetti, moltissimi a dire il vero. Aveva un’indole individualista che l’aveva portata a mentire e a fuggire, spingendola a non cercare rifugio in una famiglia che per lei avrebbe fatto di tutto. Un sostegno che Sherlock aveva invece imparato a trovare. Dopo il suo ritorno dal mondo dei morti, si era ripromesso che non l’avrebbe più tagliato fuori e così aveva fatto, condividendo con lui tutto quanto. Mary non c’era mai riuscita e, per quanto lo desiderasse, il suo spirito auto-conservatore aveva sempre prevalso. Però aveva amato profondamente e si era prodigata per essere la moglie ideale, era una donna in gamba e talentuosa e che John aveva amato davvero. Lui l’aveva scelta, sposata anche e Sherlock non poteva proprio dimenticarlo.
«Questa è divertente» rise, agitando le catene che ballonzolarono sotto ai suoi piedi. «Tu ti senti intimorito da me? Tu? Tu che al mio matrimonio sei stato molto più al centro dell’attenzione di quanto lo sia stata io che, pensa un po’, ero la sposa. Sherlock, John è sempre stato con te e non sai quanto mi costi ammetterlo. Anche quando siete stati separati, lui pensava di continuo a dov’eri e a cosa stavi facendo o a come trovare una scusa per raggiungerti. E nonostante i suoi ridicoli tentativi di negare che gli mancavi, io me ne accorgevo. Delle volte mi domandavo con chi si sentisse sposato per davvero.»
«Questo non significa nulla, lui era drogato di adrenalina e io ero il suo spacciatore. Era per questo che mi cercava. E se stai insinuando che John amasse me invece di te, allora ti stai sbagliando di grosso. Ti ha sposato per una ragione e per quello stesso motivo non ha mai fatto niente per dimostrarmi che volesse costruire un qualcosa con me.»
«Sai cosa penso, invece?» gli domandò, ridendo amaramente «che è ridicolo il fatto che accusi gli altri di guardare, ma non osservare e poi cadi in quello stesso errore.»
«E questo dovrebbe significare?»
«Oh, niente» s’affrettò a rispondere. «O meglio, lo comprenderai da te, ma non per mie parole. Io sono qui per annunciarti la venuta di tre spiriti che ti faranno visita stanotte. Ti consiglio di» ma invece che proseguire oltre indugiò per un istante o due. Sembrava indecisa su quello che aveva da dire, durò un attimo e le ragioni di quel tentennamento gli parvero incomprensibili. Subito infatti si riprese. «Ti consiglio di dar loro retta.»
«Aspetta, spiegati.»
«Tre spiriti, Sherlock.» E una volta che ebbe detto questo, il fantasma di Mary Morstan sparì oltre la porta. Precipitarsi al piano di sotto fu tutto inutile. Lei già era scomparsa.
 
 
 
 
Continua
 
 
 
[1]Crawford Street è una strada non troppo lontana da Baker Street. Non so se ci sia un edicolante da quelle parti, ma essendo una zona molto frequentata e piena di negozi, l’ho trovato verosimile.

Note: 
La storia ricalca (anche per struttura) il Christmas Carol di Charles Dickens, del quale è una versione semplificata. Mantiene i punti fondamentali, con però alcune differenze e diversi personaggi omessi. Per quel che riguarda l’aspetto degli spiriti mi rifaccio a: “Il Canto di Natale di Topolino”, in cui i fantasmi assumono fattezze di personaggi Disney. Qui assumeranno invece quelli degli attori della serie. All’inizio di ogni capitolo è presente una citazione, tutte provengono dal suddetto racconto mentre alcuni passaggi, i dialoghi soprattutto, sono ripresi (qui come nei prossimi capitoli) dalla versione cinematografica del 2009 e dal Canto di Natale di Topolino.

Questa storia partecipa a un evento del gruppo "Johnlock is the way, and Freebatch of course", ringrazio ChiaFreebatch che mi ha permesso di pubblicare il primo capitolo della mia storia qui su Efp prima che il file venisse pubblicato nel gruppo.
Koa
   
 
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