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Autore: kurojulia_    19/12/2018    0 recensioni
Yuki ringhiò, stringendo i denti in una morsa dolorosa. Dannazione. L'unica cosa che potevano fare – l'unica che avesse un po' di senso, per lo meno – era quella di levare le tende. Eppure, la sola idea di lasciarli continuare a vivere, impuniti, la faceva impazzire come il più spregevole dei demoni. Se fosse dipeso da lei, sarebbe rimasta nella neve fin quando essa non le avesse raggiunto le ginocchia, e avrebbe continuato ad ucciderli. Fino all'ultimo.
Genere: Azione, Romantico, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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14.



 

Alyon Hendrik Akawa.

 

Era proprio lì.

All'ingresso della Stanza delle Mappe, le braccia incrociate al petto e la spalla contro lo spipite della porta. Era lì, davanti ai loro occhi, davanti gli occhi di Yuki – la sua figura, avvolta dall'oscurità.

Suo zio. Un uomo che non vedeva da cinque anni. Un uomo che solo con il suo sorriso metteva paura. Un essere che si trascinava uno strascico di morte come un mantello.

Yuki sentì l'aria venirle meno, il fiato farsi corto. Il panico, apparentemente senza motivo, stava sormontando come un'onda. Stava avendo sul serio un attacco di panico?

 

Nel corpo di un quarantottenne, suo zio sorrideva, come se stesse guardando qualcosa di estremamente divertente – cosa accidenti aveva da sorridere? Poi sollevò la mano sinistra, sfilandola dalle braccia conserte, e la agitò lentamente per salutare.
Era stato un gesto semplicissimo e quasi impercettibile, tuttavia la mezzosangue ci vedeva solo pericolo.

 

«Non ti azzardare», sibilò.

 

 

Alyon allora sollevò le sopracciglia, staccandosi dallo stipite per camminare verso la nipote, ad ampie falcate – fece solo qualche passo, tenendosi a debita distanza dai quattro. Non di certo per paura, ma per osservare i loro visi, studiare la giovinezza della loro pelle. Si soffermò su Tetsuya, e il vampiro biondo rimase immobile, in silenzio; egli era molto alto e slanciato, arrivando forse ad un metro e novanta, e possedeva una corporatura solida e ben piazzata.
La sua pelle era liscia come marmo e più scura di quanto ci si aspetterebbe da un vampiro, con qualche ruga attorno alla bocca; i suoi occhi, neri e trasparenti come un pozzo, erano marcati da profonde occhiaia.
Pensare che il tempo, nonostante i secoli che si portava alle spalle, non avesse intaccato il suo aspetto – faceva ben capire che stile di vita avesse condotto. Quante vite aveva strappato con quei denti.

 

Alyon aprì le labbra, sfoggiando un paio di canini lunghi e sporgenti. «Sei proprio una bambina».

Quella dannata voce. Non era più abituata al suo timbro. Al suo suono vibrante, alle parole indecifrabili che usava ogni volta.

Quando la sentì, la mezzosangue fece un ringhio, più simile a quello di una bestia che ad un animale – con un movimento fluido, si spostò di un passo, parandosi di fronte ai tre amici.

 

«Vuoi farti male? Vuoi che ti faccia del male?».

Alyon sogghignò brevemente, divertito dalle sue domande.
Il suo tono era ridotto al sibilo di un serpente, strisciante fra le caviglie della sua preda, silenzioso – voleva arrivare alla gola di quell'uomo per attorcigliarcisi.
Più lei guardava i lineamenti spigolosi del suo viso, le guance scavate e la chioma corvina e lucida sulle larghe spalle, più sentiva il sangue ribollire dalla rabbia. I canini fremevano abbastanza da farle male.

 

Sin da bambina, non l'aveva mai apprezzato; all'età di sei anni, gli unici sguardi che quel vampiro riusciva a ricevere erano di astio e sospetto. Era istinto a quel tempo, ben presto consapevolezza.
Ricordava quei tempi come se non li avessero mai lasciati.
Ricordava come Sebastian la prendesse per mano, con gentilezza, per portarla in un posto più tranquillo, ricordava come Tetsuya – poco più grande di lei – scrutava guardingo quel vampiro tanto antico.
Lei voleva solo che quella persona la smettesse di andare a casa sua e di infestare il salone da pranzo con quel ghigno. Voleva che andasse via e basta. Ora, invece, era diventata molto più egoista ed ambiva a ben altro.

Aveva sviluppato quello spirito combattivo che la teneva in vita.

 

 

«In qualche modo, tu mi conosci: sai che a prescindere dalla tua risposta, non mi tirerò indietro», parlando, Yuki fece un passo in avanti. «Tu sai che», un altro passo. «noi ti odiamo. Quindi, cosa ci fai qui? Cosa diavolo vuoi, ancora?».

 

C'erano solo cinque, importanti e vitali passi ad ostacolare uno scontro.

Ironicamente, Alyon non aveva ancora fatto niente per farsi ammazzare. Si era limitato a salutare sua nipote con un grosso sorriso e il resto della combriccola con la mano. Era stato fin troppo educato, evidentemente. Il punto era, infatti, che la mezzosangue non poteva sopportare nemmeno il suo modo di respirare.
Riusciva ad udirlo, a cinque passi di distanza, calmo e quieto. Non aveva nessuna paura, né delle minacce della nipote, né di trovarsi in un campo nemico.
L'uomo piegò il capo da un lato, lasciando scivolare i capelli neri oltre la spalla – non aveva ancora smesso di sorridere, con quella strana e inquietante eleganza. «Sì, ti conosco. Ma non ho ancora avuto l'onore di sapere perché tanto odio nei miei confronti».

«Forse perché ti porti dietro una scia di morte e distruzione. Da te non arriva mai niente di buono», ringhiò lei. «Mai

Serrò i denti finché non senti le gengive dolerle – poi, come risvegliata dal torpore di un sogno, ricordò che non era da sola in quella grande stanza. I suoi amici erano proprio lì, a qualche metro da lei, in pieno pericolo, così come Ai, che era a qualche porta da loro.

 

 

I loro occhi si incrociarono.

Oro e nero si scrutarono, si giudicarono e cominciarono ad attaccarsi, prima ancora del vero contatto fisico. Anche quell'uomo non si tirava mai indietro e vantava uno spirito combattivo piuttosto tenace.

Yuki ruotò i piedi, impercettibilmente, e da sotto la suola delle scarpe serpenti di elettricità iniziarono a diramarsi sul tappeto; fece allora un altro passo, percependo il suo elemento mentre vibrava sotto i piedi. Si infilava nel tessuto intrecciato del tappeto e cominciava ad espandersi, sempre di più, per formare un cerchio intorno a lei – l'elettricità stessa era consapevole di non potersi allargare più di così.

Alyon approfondì il ghigno e aiutò la nipote ad accorciare quella vitale distanza, compiendo un passo in avanti. Poi alzò la mano sinistra e... la porta si spalancò con forza, con un boato.

 

 

«Basta così».

Kazumi Akawa era entrata nella stanza.

 

Le scosse elettriche dell'albina si ritrassero velocemente ma indispettite, mentre Alyon metteva la mano sinistra dentro la tasca dei pantaloni, con un gesto disinvolto. Entrambi si voltarono verso il punto in cui avevano sentito la voce della donna, in direzione della porta.
Accanto a lei, Oseroth. Entrambi avevano i visi coperti da un velo di serietà.
Alla vista dei coniugi, il vampiro indesiderato scoppiò a ridere. «Ecco, proprio chi desideravo vedere! La mia carissima sorella e mio cognato. Lieto di vedere entrambi in salute».

Tetsuya si lasciò sfuggire uno sbuffo, basso e appena percettibile. Quell'uomo non faceva altro che mentire.

 

Yuki raddrizzò la schiena e prese una boccata d'aria.

Salvato in calcio d'angolo, pensò, e magari questo calcio ti arriva in c-

 

 

«Alyon, ti serve qualcosa? Ma soprattutto», Kazumi si allontanò dalla figura del marito e poi sorpassò la lunga tavolata, giungendo al fianco destro della figlia, senza staccare gli occhi dal vampiro per nemmeno un attimo. «come fai ad essere qui?».
Anche Oseroth si era intanto staccato dalla porta spalancata, a larghi passi, fino ad affiancare la figlia a sinistra. Quando li vide tutti e tre insieme, con la figlia al centro, Alyon si decidette a rispondere. «Domanda legittima, risposta semplice. Mi ero stancato di quel posto. Così sudicio, noioso. Credo che al Consiglio sfugga il significato di “tenere a modo”, sapete?», e alzò le spalle.

«In pratica, le cose ti andavano male e hai deciso di venire qui a farti uccidere?», proruppe Yuki. «Che ideona, bravo!».

«Sei molto più simpatica adesso che da mocciosa. Nipote, non vorrei fare il guastafeste, davvero, ma... c'è un abissale differenza fra me», sollevò un indice, indicando prima se stesso e poi lei, flemmatico – con le fiamme negli occhi neri. «e te».

«Non avevo dubbi», Yuki roteò gli occhi. «che tu fossi l'ennesimo pompato che vuole ricordare al mondo quanto siano miserabili i mezzosangue».

«Se fosse quello il problema... ma ti posso assicurare che non lo è. Non solo, per lo meno. D'altronde, anche lei era una mezzosangue».

«Lei?», disse l'albina, perplessa, aguzzando gli occhi. «Ma che stai farneticando? Lei chi?».

«Alyon», la voce di Oseroth era ferma, imponente, simile al rimbombo di un tuono. Avanzò di un passo e alzò il mento per guardare dritto negli occhi quell'anarchico vampiro, quell'apocalittico uomo.
I loro occhi si intercettarono, violenti e amici di un odio reciproco. «Vattene da casa mia e non farti più vedere».

 

 

 

 

 

 

***

 

 

 

 

 

 

In via del tutto eccezionale, Alyon non aveva risposto alle parole di Oseroth e, seguito da lui, era arrivato alla porta d'ingresso ed era uscito, in silenzio tombale.
Ormai era andato via. Adesso, erano al sicuro. Tuttavia, solo dieci minuto dopo i presenti riuscirono a sospirare di sollievo, chi più forte, chi un po' meno.

Sembrava essere finita, per il momento.

 

«Che tipetto», disse Sayumi. «Simpatico!».

«Visto che siete sotto la nostra supervisione, non avreste rischiato in ogni caso», ribatté Oseroth, quando fu tornato nella stanza. «Ma– ».

«Non poteva fare nulla», lo interruppe Kazumi. Il demone guardò la moglie, soppesando per brevi secondi le sue parole, poi annuì.

«D'altronde era da solo contro cinque».

Kazumi stava per condividere la sua frase quando si fermò per elaborare meglio la sua risposta – e socchiuse le palpebre guardandolo di traverso. «Hai contato Ai? Avresti davvero fatto combattere una bambina? Davvero?».

«Ai non è più una bambina. Ti ostini a vederla in quel modo perché sei sua madre».

 

I coniugi, probabilmente, avevano dimenticato che intorno a loro c'erano altre quattro persone e tra queste una in particolare aveva i nervi a fior di pelle. La primogenita aveva davvero grossi problemi a mantenere la calma in quelle situazioni, quando i suoi genitori cominciavano a discutere come se fossero da soli.
Si era seduta sulla poltrona singola di fianco al divano, con la gamba sinistra accavallata sull'altra e le braccia appoggiate ai braccioli. Le mani li stringevano come salvagenti. Lo sguardo irruente schizzava da una parte all'altra.

«Ai non è una bambina e ve lo posso assicurare. Sa usare i suoi poteri, come ha fatto con Tetsuya. Anche se questo non vuol dire che dovrebbe usarli, dal momento che conosciamo la conseguenze», disse, trattenendo a stento l'accidia.

Oseroth ruotò il busto verso la figlia. I suoi occhi erano tutto, fuorché felici. Erano arrabbiati, molto arrabbiati – il rosso scarlatto che brillava nelle iridi ne erano la prova. «Noi due dobbiamo parlare».

«Già», rispose Yuki. «Dobbiamo parlare».

«Caro, aspetta... ».

«No. Kazumi, ha disubbidito ad un ordine. Deve essere punita».

«Ma– ».

«Ma, niente. Non può fare quello che vuole e quando vuole, e tu non puoi proteggerla ogni volta. Deve imparare a– ».

«DACCI UN TAGLIO!».

 

 

Calò il silenzio. La bella e posata Kazumi aveva appena urlato. Quella scena era così surreale che Yuki fu tentata di darsi un pizzicotto.

«Yuki non è una bambina e non è di certo pazza, sa quello che fa. Lasciale fare ciò che ritiene giusto e smettila di fare il vecchio rimbambito!».

«Oddio», disse Sayumi.

«Oddio sì», fece eco Takeshi.

 

Oseroth guardò sua moglie, calmo, perché si aspettava che la donna avrebbe – primo o poi – reagito in quel modo. D'altronde, la conosceva da tre secoli – non per nulla. «Forse hai ragione. Sto esagerando», si voltò verso Yuki. «Ma tu vedi di fare attenzione. Non gira tutto intorno a te».

«Ah... okay, farò attenzione».

 

 

Tetsuya si schiarì la voce con qualche colpo di tosse. «Tornando al discorso di Ai, sicuramente è cresciuta ormai, ma i suoi poteri non possono permetterle di prendere parte a degli scontri così violenti. E Yuki non provare a negarlo, sappiamo entrambi che sarebbe stato un casino».
Tetsuya sapeva bene quanto spesso in quella famiglia c'erano pareri discordanti e che non era mai buona idea metterci bocca, ma... stavano parlando di Ai e non poteva star zitto. «Sarebbe come mettere un cecchino in prima linea, proprio di fronte al nemico».

«Quindi, come dicevo, dovrebbe stare al sicuro invece di prendere parte a certe stupidaggini».

«Kazumi–».

«Sto dicendo che è meglio aspettare che cresca ancora e diventi più robusta, se proprio deve infilarsi in certe situazioni», aggiunse Tetsuya.

 

 

Oseroth sospirò, girando il volto dall'altra parte. Odiava ammetterlo ma era d'accordo con il ragazzo; odiava ammettere che aveva più buon senso di due esistenze antiche come lui e sua moglie.
Ai doveva essere protetta; protetta da chi si arrischiava così tanto per possedere il suo potere. Oseroth non se la sentiva di escludere figure come Alyon e il Consiglio. In ogni caso, qualsiasi fosse la verità, doveva fare qualcosa.

«Credo che... », tornò a guardare Yuki. «... sia arrivato il momento».

«Per? Lucidare la scrivania?».

«Yuki».

«In realtà», Kazumi parlava sottovoce, guardando in basso. «Avremmo voluto aspettare una volta che io fossi morta, maa se Alyon è in libertà non– ».

«Cosa diavolo stai dicendo?», urlò l'albina, scattando in piedi dalla poltrona. «Di cosa accidenti state parlando? Perché dovresti morire? Voi due... ». Si fermò, scostando lo sguardo dal duo – che istintivamente ricadde su Takeshi.

 

 

Lo guardò.
Anche con quell'espressione dubbiosa e preoccupata, Takeshi era la sua ancora in mezzo all'oceano. Il suo meraviglioso punto di riferimento, la sua bussola.
Lui le stava restituendo lo sguardo, con gli occhi attenti e la bocca serrata. Adesso, Yuki poteva parlare con coraggio.

Si voltò, osservando i suoi genitori. «Voi due, naturalmente, avrete dovuto nascondere delle cose. Non posso farvene una colpa assoluta; siete intelligenti, devo ammetterlo, e avrete avuto i vostri motivi per farlo. Adesso sembra essere il momento giusto per rivelare ogni cosa. Basta segreti».

Oseroth e Kazumi si guardarono e, alla fine, annuirono lentamente. Basta segreti.

 

 



 

 

***

 

 

 

 

 

Contrariamente da come avevano sempre pensato Takeshi e Sayumi – gli unici a non aver familiarità con quella casa –, accedere a dei sotterranei era molto più semplice di quanto si poteva immaginare, addirittura più veloce che arrivare alla soffitta; bastava recarsi nel grosso ingresso, aprire la porta nel sottoscala e spostare un paio di cianfrusaglie dal pavimento.
Proprio lì, sepolta da secchi, scatole, vecchi stracci e spazzoloni, c'era una botola in acciaio.

Ovviamente, Sayumi non era più nella pelle di visitare quei posti.

 

«Come al solito», sospirava Yuki, le mani sui fianchi. «stai esagerando. Questa è praticamente la parte inferiore della casa, la parte umida, fredda e buia. Come fai ad essere così contenta?».

«Yuki, Yuki. Per te non saranno niente di ché, potresti persino odiarli, ma per qualcuno che ha sempre vissuto in una normalissima casa questo è decisamente interessante. E poi non sono una ragazzina da quattro soldi, un po' di freddino o di buio non mi ucciderà».

«Sì, sempre ammesso che non ci siano problemi, là sotto».

 

 

Oseroth, che era impegnato a spostare tutta quella roba ammassata insieme a Takeshi, aveva sentito le parole della figlia e le aveva lanciato un'occhiata di traverso, come se volesse ammonirla di andarci piano con le confidenze.
Già, qualche volta era capitato che quei sotterranei fossero stati presi in prestito da qualche imbecille che se l'era presa con l'albina; era successo due, tre volte, e ormai quel posto aveva raggiunto un certo livello di sicurezza.

Yuki alzò le spalle, con fare noncurante, mentre faceva un sorriso all'amica. «Se ti piaceranno anche dopo, potrei lasciarti questa casa come regalo, quando avremo levato le tende».

«Scherzi? Sul serio?».

«Yuki, cara, potresti evitare di lasciare i nostri beni in modo così sprovveduto... ?», aveva detto Kazumi, con un tono di voce a metà fra l'esasperato e il rassegnato.

 

«Ci siamo». Tetsuya richiamò l'attenzione delle signore, indicando poi il demone e il moro mentre sollevavano la botola dal manico, tirandola su fino ad appoggiarla contro il muro; tra sinistri cigolii, Oseroth era sceso per primo grazie ad una scala a pioli; poi c'erano stati Tetsuya, Takeshi e Kazumi.
Era giusto che Takeshi fosse in mezzo ai coniugi e all'amico vampiro perché sapeva che la prudenza non era troppa e potevano difenderlo. L'albina aveva invece aspettato, con l'intenzione di scendere per ultima, per guardare personalmente le spalle dell'amica.

 

 

«Ti seguo appena scendi, forza».

Sayumi annuì brevemente ed avanzò verso quello che, guardandolo dai suoi occhi, appariva solo come un largo buco nero, fitto di oscurità. Poteva distinguere a fatica le figure degli altri al di sotto. Poi sentì la voce di Takeshi, che la chiamò. «Yumi? Sei viva? Ci sei?».

C'era, sì che c'era. Solo che, all'ultimo secondo, si sentiva estremamente tesa – all'idea di gettarsi nel petrolio. E se ci fossero stati mostri terrificanti? E se doveva davvero preoccuparsi di qualche demone o vampiro introdotto di nascosto? E se – proprio mentre stava per porsi l'ennesima domanda, un piede le colpì leggermente il sedere. «Ahio!».

«E allora datti una mossa, non abbiamo tutta la vita!».

«Sì sì, vabbene!».
Due secondi dopo, stava scendendo traballante la scala a pioli, mettendo lentamente un piede dopo l'altro e infine, con molta attenzione, toccò il pavimento con la punta della scarpa.
Quando fu giù, come aveva immaginato, le tenebre erano così dense che non riusciva a vedere nemmeno i suoi piedi; tentennando e stringendosi le spalle con le braccia, fece un passo in avanti – in quel momento, una folata di vento proveniente dall'alto la fece rabbrividire.

Con la pelle d'oca, Sayumi aggrottò la fronte, cercando l'amica in mezzo al nulla. «... non potevi usare la scala? No, eh?».

Yuki si stava spolverando la gonna con qualche pacca, tranquilla, per poi alzare il volto verso Sayumi. La raggiunse con due passi, prendendole la mano saldamente, trascinandosela dietro per potersi avvicinare a Takeshi e prendere anche la sua.
Con le labbra leggermente incurvate, alzò le spalle. «Dal momento che non ci vedete un accidenti».

«Sembriamo bambini dell'asilo... ».

«Shhh, stai zitto! Godiamoci il momento prima che scappi via».

«Più avanti ci sono delle lanterne», aveva detto poi Tetsuya, dal cui tono si capiva quanta voglia avesse di scherzare.

 

 

I sotterranei vantavano una certa profondità. Le pareti di mattoni si univano al soffitto formando un arco e il pavimento era primitivo e pieno di polvere. Di fronte alle scale, c'era una porta grigia. Non c'era assolutamente nulla, lì.
Solo dopo un paio di metri più avanti, quando ormai gli occhi si erano abituati al buio, spiccò un tavolo con al di sopra quattro lanterne. Tutti, eccetto Oseroth e Tetsuya, presero una lanterna e l'accesero, continuando dopo poco il tragitto.

«Sei stata qui spesso?», disse Sayumi.

«No, non proprio... qualche volta, ma non mi sono mai allontanata molto dalle scale».

«E che ci venivi a fare?».

«Beh», fece l'albina, alzando le sopracciglia. «È un posto così interessante che bisogna scenderci ogni tanto, no?».

«Ah-ah. Ti ho capita, ora piantala».

 

 

Dopo un po' di tragitto, raggiunsero quella che era una porta a due ante; alta e stretta, fino al soffitto, ricordava un enorme albero per la sua imponenza. Su entrambe le ante vi era l'incisione a basso rilievo di una quercia, i cui rami si diradavano fino ai bordi. A giudicare dalla luminosità, doveva essere fatto di vero oro, mentre la porta era di un nero opaco.

Tutto intorno non c'era altro, nessuna uscita, nessuna strada secondaria.

Solo quella porta.

Kazumi e Oseroth vi si avvicinarono. La prima rimase ferma, di fronte ad essa, con una mano sul petto a tenersi lo scialle. Oseroth le era ad un passo di distanza e il suo sguardo si era fatto addirittura malinconico, una visione che nessuno si sarebbe sognato di vedere.
La mezzosangue non sapeva cosa pensare. Cos'era quella porta? Cos'era tutto ciò? Ci era scesa appena tre volte in quel posto e non si era mai spinta così in profondità. Ma se avesse saputo che lì sotto si nascondeva qualcosa...

 

Nel silenzio, la vampira dai capelli rossi appoggiò i palmi delle mani contro la porta e iniziò a spingere. Le due ante cominciarono lentamente a muoversi verso l'interno, producendo un intenso rumore, e per un attimo le pareti dei sotterranei vibrarono come durante un terremoto.
Istintivamente, Yuki alzò il viso verso il soffitto, mentre faceva qualche passo indietro – quel posto non le ispirava molta fiducia – e anche Takeshi e Sayumi si guardarono intorno.

 

 

La porta era aperta. Lo spazio era sufficiente per far passare una persona.

Kazumi tolse le mani e si girò, guardando la figlia con un espressione seria in viso. «Vieni, cara».

«Dovrei... venire là? Cioè, devo entrare in quella stanza?».

«Sì, esatto. In questa stanza», Kazumi annuì. «possono entrare solo le Akawa e tu, come tale, hai il diritto di farlo. Il diritto, ma anche il dovere».

 

Yuki deglutì e avanzò per raggiungere la madre. Non era per niente sicura di quello che stava facendo. Più guardava quell'albero, più si sentiva tesa – e lo sguardo austero della madre non l'aiutava affatto a scacciare quella sensazione maligna al petto.
Ciononostante, ormai era lì e doveva andare in fondo a quella storia. Quando le fu accanto, Kazumi le prese la mano ed entrò per prima attraverso il piccolo spazio fra le due ante. L'albina la seguì subito dopo, senza lasciare la mano della madre.

 

 

Una volta dentro, sentì la mano di Kazumi scivolarle via.

Era una stanza piccola. Il soffitto era abbastanza alto ma le pareti color crema, di fronte e quelle laterali, rimpicciolivano l'ambiente. Kazumi aveva premuto l'interruttore e il lampadario di bambù aveva illuminato la stanza, rivelando un tavolo basso e stretto di mogano al centro; sul tavolo c'era un pezzo di stoffa rossa e sopra questa un lungo contenitore di pelle, chiuso.
Alle spalle del tavolo, quello che sembrava un piccolo altare. Qualche candela, che emanava profumo di vaniglia e un quadro ad olio, di medie dimensioni, che ritraeva qualcuno. Una giovane donna, di appena vent'anni.
La donna era rappresentata seduta su una poltrona elegante, in un abito rosso dalle maniche a campana,con uno spazio scuro a farle da sfondo; seduta composta, aveva una mano in grembo e l'altra posata sul braccio della poltrona, e un sorriso leggero sulle labbra sottili.
I lunghi capelli biondi scendevano oltre i fianchi come una cascata di oro fuso e gli occhi, del medesimo colore, guardavano dritti davanti a sé senza la minima esitazione.
Ed era... la copia sputata di Yuki. Erano identiche.

Solo dopo, a quel punto, Yuki fece caso alla tiara che brillava sulla sommità del capo biondo – si voltò, guardando la madre con gli occhi sgranati.
Kazumi non diceva nulla, rimanendo invece a scrutare il ritratto – poi aveva indicato alla figlia il contenitore sul tavolo. «Devi aprirlo».

 

La mezzosangue serrò la mandibola e annuì lentamente. Sbloccò le chiusure del contenitore e sollevò il coperchio. 


Lì, immersa nel velluto, riposava una katana.

   
 
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