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Autore: yonoi    19/12/2018    10 recensioni
Storia di un albero di ciliegio, di un umano randagio e di un gatto ormai giunto alla sua settima vita.
Dalla campagna alla città, il gatto Mozzicone è alle prese con la sua missione di "animale protettore". Una missione non facile: seminare nei cuori difficili degli umani una scintilla di tenerezza, di forza, di compassione.
Una storia di formazione, di strani cambiamenti che fanno sì che una ragazza si trasformi in un ragazzo, di una piccola campionessa e un’anziana signora che arrivano a perdere tutto per poi riuscire a trovare ciò che è davvero importante, e di un gatto senza coda, a cui spetterà tirare le fila di tutta la vicenda.
Prima classificata al contest "Racconti di pioggia e di luna" indetto da Wurags sul Forum di EFP e al contest "Mille e una fiaba", indetto da Emanuela.Emy79 sul Forum di EFP, a pari merito con "Anche con il mondo contro" di Molang.
Questa storia partecipa al contest "Il mio Babbo Natale segreto", indetto da Claire Roxi sul Forum di EFP.
Genere: Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
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“La campana del tempio tace,
ma il suono continua
a uscire dai fiori”
(Matsuo Basho)


 
 
4. Nei campi aperti, dietro alla Fortezza
 


Quando recuperai le forze e riuscii a guardarmi un po’ intorno, scoprii che mi trovavo infilato al riparo tra una giacca e un maglione, per di più in un luogo asciutto e confortevole.
Allora incrociai lo sguardo dell’umano con lo zaino e restai stupito a guardarlo: lo annusai a lungo per cercare di capire chi fosse, e il suo odore non era né quello delle donne, né quello della pelle più aspra degli uomini. Sotto agli strati di lana – le maglie erano più d’una, come in chi è abituato a stare a lungo all’aperto – il suo cuore aveva un ritmo lento e tranquillo, a dispetto del gelo e della fatica di portare anche me, oltre a un grosso zaino sormontato dalla custodia di una chitarra.
Tutto questo bagaglio lo notai di sfuggita quando il Fratellone lo posò accanto a sé, ai piedi del tavolino di un caffè elegante: uno di quei posti in cui ai gatti, ma anche ai giovani vagabondi, sarebbe vietato entrare.
In quel momento nel locale non c’era nessuno, fuori era molto buio e la coltre di neve assorbiva ogni rumore.
L’umano che mi teneva tra le braccia del suo giaccone contò quattro monete e ordinò un latte caldo. La cameriera gli riservò un sorriso benevolo e addirittura un panno per asciugarsi il viso, i capelli sui quali indugiava qualche fiocco di neve e che erano lunghissimi, lisci e sottili come quelli delle femmine. Anche il viso era fine, scavato da pasti non proprio regolari, ma così delicato che pareva uscito da una di quelle illustrazioni che facevano compagnia agli ospiti dei Ciliegi.
Quando l’umano cavò dallo zaino una fetta di pane e cominciò a inzupparla a bocconi per me, mi sembrò di rinascere: pensai che avevo ricevuto in dono un’altra vita, un’ottava vita extra che proprio in quel momento stava per cominciare.
Le mani dell’umano erano screpolate dal gelo di lunghi inverni, non solo da quell’unica serata di neve. Ma nell’accarezzarmi, possedevano la stessa dolcezza di Venturina. Mi abbandonai a quel tocco e quando, molto più tardi, tornammo a camminare nella tormenta per raggiungere la Fortezza – la roulotte dell’umano fuori città – sapevo dentro di me che avevo trovato un nuovo padrone. In fondo ero contento e sotto ai baffi ghiacciati dal vento sorridevo.

 
******

 
La Livietta Seriani era tornata da poco in città, dopo aver viaggiato a lungo.
Al suo rientro dopo quei lunghi mesi di degenza in ospedale, una volta rimosso il fissatore esterno e con le fratture finalmente saldate, aveva sperimentato la strana sensazione di non riuscire a orientarsi neppure in casa sua. La sua stanza di adolescente, decorata con foto di gare alle pareti e trofei sulle mensole, le era parsa estranea esattamente come la vecchia palestra, la pedana su cui si era esercitata per anni, i corpi delle ginnaste così diversi dal suo.
La coach l’aveva squadrata da capo a piedi, aveva domandato come procedeva la terapia ormonale e la Livietta aveva risposto con un’alzata di spalle.
“Siamo rientrate adesso dalla trasferta per gli europei, la prossima tappa sono i mondiali e tu sai che qualificarsi ai mondiali significa essere ammessi di diritto alle Olimpiadi. La squadra ha fatto un grande lavoro, ma io ho continuato a pensare a te per le competizioni individuali.”
Da tempo la Livietta aveva perso il vizio di tirarsi con forza i capelli dietro alle orecchie. Riprese a farlo in quell’occasione, mentre la coach proseguiva:
“Si tratta della meta più importante per una ginnasta: quattordici Nazioni, le più forti del mondo. Per ogni Paese, una squadra di cinque elementi più due individualiste. Partecipare è già un traguardo. Più in là, c’è solo il podio.”
La coach doveva credere veramente nella Livietta per prendersi l’impegno di schierarla di fronte al mondo con le ossa appena rattoppate da un infortunio. Ma di tutto il discorso la diretta interessata riuscì ad afferrare solo queste parole: più in là.
Ne restò folgorata come da un’improvvisa intuizione.
Doveva esserci qualcosa più in là delle medaglie, degli allenamenti, delle qualificazioni internazionali. Qualcosa che il suo corpo probabilmente intuiva, ecco perché aveva incominciato a muoversi da tempo in una direzione diversa:
“Non posso partecipare,” si sentì dire alla coach. “Non posso, mi dispiace.
In realtà voleva dire non posso perché al mondo esistono anche le cose difficili – ammalarsi, morire – e molto probabilmente la meta di una vita sta oltre il podio olimpico. Cosa desidero per me stessa, e che significato hanno le cose difficili, non me lo sono mai chiesto, e forse è giunto il momento di farsi delle domande e trovare delle risposte.
Tutte queste parole erano troppe per il carattere schivo della Livietta: non sarebbe riuscita a metterle in fila neppure se fosse stato un tipo più estroverso, per via della confusione che aveva nella testa.
Un suggerimento le arrivò dal suo vecchio zaino, che teneva stretto tra i piedi con dentro le calzamaglie, le scarpette e l’asciugamano, e che il mattino seguente caricò di maglioni e ricambi, e il resto se lo sarebbe procurato strada facendo. Era lo stesso zaino che aveva adoperato per anni in trasferta, e che per quanto fosse scolorito e consunto da tutti i posti in cui l’aveva portato in giro, portava ancora la scritta Veritas - società di ginnastica stampata sul davanti.
Veritas. Era esattamente ciò per cui era disposta ad andare in capo al mondo, in un bagno di realtà che doveva per forza darle delle risposte.
Il mattino seguente, lasciò un biglietto ai suoi: Starò via per un po’.
Di fatto era rientrata la sera stessa, spaventata dal buio e dalla pioggia a dirotto che l’aveva sorpresa sulla piazza del paese vicino: la massima distanza che era riuscita a raggiungere a piedi, con quel bagaglio sulle spalle ancora fragili e la paura che si era rivelata più forte della sete di avventure. Aveva addirittura chiamato sua madre, perché venisse a recuperarla con l’auto.
Il viaggio di ritorno si era svolto tra la tempesta e l’incanto. La tempesta verbale che proveniva dal sedile del conducente – non provare a rifarlo, si può sapere cosa ti è saltato in mente? – e poi l’incanto della natura fuori città. Le colline che si levavano verso i primi contrafforti dell’Appennino somigliavano a lei, la più alta delle ginnaste, con quel corpo che cresceva spontaneo e con la stessa forza delle rocce, dei silenzi delle radure, delle cortecce intrise di pioggia.
Il giorno successivo, lasciò un altro biglietto: Telefono quando arrivo.
Questa volta riuscì a spingersi più in là, non riuscendo a resistere al richiamo dei grandi spazi. La natura si aprì dinanzi a lei per poi chiudersi alle sue spalle, senza lasciare tracce. Come fanno i cespugli sui sentieri meno battuti, come fa il mare quando ci si immerge in profondità, e l’acqua forma cerchi lenti che si richiudono. 
Si scordò di telefonare fin dalla prima sera. Poi prese l’abitudine di scrivere a casa poco prima di andarsene dal luogo in cui si trovava. Era la sua strategia per non essere raggiunta dalla vita di prima.
Divenne in tutto e per tutto l’umano con lo zaino, e quando la conobbi viveva in strada da anni. Aveva visitato molti paesi e dormito su molte strade, solamente la rabbia non era riuscita a scaricarla da nessuna parte, continuava a portarsela addosso insieme allo zaino e alla chitarra.
Non era ancora riuscita a far pace con quel corpo che le era cresciuto addosso senza tener conto del suo amore per la ginnastica, per la quale provava una nostalgia dolorosa.
Le mancava la coach, il dottor Luong col suo volto da Buddha felice, le compagne di squadra che pure avevano suscitato in lei i peggiori sentimenti: la gelosia e l’invidia, una gioia feroce quando ottenevano un punteggio inferiore. Eppure, attraverso lo sguardo della malinconia riusciva a vederle per quello che erano: compagne con cui aveva condiviso la fatica degli esercizi, l’avventura delle trasferte, l’ansia prima delle gare, la gioia delle vittorie.
Di nuovo, il Fratellone cercava di sfuggire alla tristezza cantando, e lo faceva anche per necessità: per raccogliere a sera quel pugno di monete che la gente gettava nella custodia della chitarra, e rimediare qualcosa da mettere sotto i denti.   
Da quando c’ero io, non più Garibaldi ma gatto Mozzicone perché, come sapete, son nato senza coda, il Fratellone riusciva a racimolare qualcosa in più, perché la mia presenza aggiungeva un tocco di simpatia. Ma era la musica dell’umano a compiere il miracolo, e anche se il suo cuore era sempre pesante, le note uscivano chiare e trasmettevano un’energia travolgente.
Un pomeriggio, l’umano con lo zaino s’era messo a suonare nel cortile di un ospedale.
I pazienti che passeggiavano in vestaglia si fermavano ad ascoltare: quando riprendevano lenti il loro cammino, sentivano le ginocchia più salde, il sangue che scorreva con maggiore vigore.
Su una panchina poco lontano s’era fermato un uomo, ed era rimasto a lungo.
L’umano con lo zaino non l’aveva notato ma a me non sfuggiva nulla: non gli uccelli grassocci che ogni tanto scendevano a beccare qualche briciola e mi facevano venire l’acquolina in bocca, e neppure quel tizio dall’aria sfinita, che aveva tutta l’aria di pensare al suicidio.
A una prima occhiata, pareva vecchio di cento anni. Ma quando si avvicinò ed era già sera – il giardino era deserto, e in cielo qualche stella preannunciava una notte limpida – vidi che si trattava di un giovane. Grandi occhi febbrili, il viso consumato da qualche malattia o, più probabilmente, da terapie estenuanti.
Il Fratellone levò lo sguardo e fece appena in tempo a incrociare quello del giovane, che gli consegnò una manciata di banconote – tutto quello che aveva nel portafoglio – insieme a un biglietto che poco prima gli avevo visto buttare giù, seduto su quella panchina su cui era rimasto per tutto il pomeriggio.
Per ore aveva tenuto quel foglio sulle ginocchia, e io pensavo che avesse scritto chissà che cosa. In realtà, quel biglietto conteneva soltanto quattro parole: Grazie per la vita.
Non lo rivedemmo più, ma quelle poche parole sortirono l’effetto di un fulmine a ciel sereno nell’anima del Fratellone. Da quel momento, si fece un punto d’onore di tornare a suonare nelle sale d’attesa, nei vialetti dei policlinici, nelle case di cura.
Fu allora che, con quella faccia tosta che possediamo solamente noi gatti, presi l’iniziativa e un giorno lo guidai fino ai Ciliegi, su quel tratto di strada dove ci eravamo incontrati nel tempo dell’inverno. Ora la neve era un mormorio di ruscelli che ruzzolavano a gambe all’aria dentro ai tombini. Nel cortile della struttura, pochi alberi storti – di ciliegi, neanche l’ombra – si scrollavano gli ultimi rimasugli del disgelo, come fanno i cani quando escono dall’acqua e si scuotono il pelo.
All’inizio, il Fratellone non capiva perché mi ostinassi a trottare sempre in quella direzione, non appena mettevamo piede in città: la strada dei Ciliegi era poco frequentata e un pomeriggio di musica fruttava poco e niente, poche erano le monete che cadevano nella custodia aperta della chitarra.
Ma io sapevo che, al di là delle mura della casa di riposo, seduti dietro ai soliti libri illustrati, i vecchietti attendevano il dono della musica. Le finestre della sala di ricreazione rimasero chiuse a lungo, ma io vedevo spesso la sagoma da mietitrebbia della Clelia sostare dietro ai vetri e tendere l’orecchio.
Finché un giorno le finestre si aprirono e poco dopo si aprì, per noi, anche il portone:
“Ragazzo, vieni a suonare,” ci invitò la capo cuoca. “Vieni a far compagnia agli ospiti, ti pago io il disturbo.”
Pochi minuti dopo, ero già sulle ginocchia di Venturina e gli anziani cantavano le canzoni dei loro tempi: i canti degli alpini per chi era stato in guerra e ci tornava ogni volta che il Fratellone suonava, poi i motivetti ascoltati alla radio e sulla pista da ballo insieme alla morosa, le canzoni dei primi incontri, le ninne nanne cantate ai figli. I volti dei mariti, delle mogli e gli affetti di una vita intera ritornavano a vivere, nel canto del Fratellone e nella sua voce ch’era sia da maschio che da femmina. Gli ospiti del gattile avevano le lacrime agli occhi, e dopo la nostra visita continuavano a lungo a rivivere i ricordi e a scambiarsi racconti. All’ora della cena mangiavano con appetito e di notte dormivano, senza destarsi disorientati e gridando che volevano tornare a casa.
Chi voleva davvero tornare alla propria casa, anche soltanto per rivedere il ciliegio del suo giardino, era la signora Venturina. Un giorno ce lo disse, e la sua voce era colma di nostalgia:
“Non so cosa darei per rivedere il ciliegio che mi aveva regalato mio figlio.”
L’ingegnere di Kyoto non era mai venuto a trovarla in struttura, né si avevano notizie del chirurgo che operava in America: solamente a Natale passava il magistrato per saldare la retta. Portava un panettone, due stecche di torrone e subito spariva, inseguito dalla fretta. Il torrone se lo mangiavano le inservienti, tanto quei poveri vecchi non hanno più i denti.
Da un pezzo la capo cuoca e l’infermiere giovane, quello che aveva sempre la musica nelle orecchie per vincere la tristezza, avevano fatto domanda per andarsene altrove. Decisi a chiudere in bellezza, ci proposero un piano ancora più temerario di quello che avevo messo a segno quel giorno, quando mi ero intrufolato nella stanza di Venturina mettendo in subbuglio tutto il gattile.
Evidentemente, fare delle bravate faceva parte della mia missione di animale protettore, ma anche questa volta non mi tirai indietro. Un pomeriggio in cui la Direzione era assente e c’erano tutte le condizioni favorevoli, Venturina uscì in permesso accompagnata dal sottoscritto e dal nipote, ovvero dal Fratellone.
Ci recammo alla vecchia casa della padrona, ma trovammo un cantiere: la villetta era in corso di ristrutturazione, e solo dopo molte insistenze riuscimmo a convincere gli operai a farci entrare.
Del piccolo giardino, però, non c’era più traccia: trovammo solo un cumulo di terra sradicata adibita a deposito per i sacchi di calcestruzzo, pile di mattonelle per rifare i pavimenti e mucchi di calcinacci. Del ciliegio coi suoi lunghi rami pendenti, delle rose e delle ortensie non restava più nulla, e del resto la casa era stata completamente smantellata. Non c’erano più i cucù, e del cipiglio di Garibaldi restava solo l’ombra della cornice su un muro, anch’esso destinato a essere demolito.
Lo sconforto di Venturina era assoluto, ma fu a quel punto che il Fratellone ebbe un’idea: andare a vedere i ciliegi vicino alla Fortezza, là dove si aprivano i campi aperti di un contadino.
Non fu un’impresa da poco. Il Fratellone ribaltò la custodia della chitarra per cavar fuori fino all’ultima moneta e pagare un taxi, poi una volta raggiunta la piazzola di sosta toccò trovare un’auto in grado di caricare anche la carrozzina.
“I soldi non ti bastano certamente, ragazzo.” Il conducente dell’unico taxi a furgoncino squadrò con diffidenza la nostra combriccola, soprattutto i panni randagi del Fratellone. “E in ogni caso, il gatto non può salire. Ci vuole il trasportino a norma di legge.”
Durante i lunghi mesi trascorsi per strada, il Fratellone aveva imparato a cavarsela nelle situazioni più estreme. Mise insieme una storiaccia strappalacrime, dove la vecchia nonna che stava per morire desiderava tanto rivedere per l’ultima volta la campagna dove aveva vissuto per tanti anni, ma il nipote disoccupato e a sua volta malato terminale non disponeva del denaro necessario per realizzare quell’ultimo desiderio.  
Pochi minuti dopo, seduti comodi dentro al taxi, la signora Venturina s’era sentita in dovere di puntualizzare i fatti, fortunatamente sottovoce e all’orecchio del Fratellone:
“Guardi che lei è male informato. Io non sto per morire, anzi non mi sono mai sentita così bene.”
“Zitta, per carità.” Il Fratellone sghignazzava sotto i baffi e sotto ai baffi ridevo anch’io, dal mio trasportino d’occasione ricavato dalla custodia della chitarra. Tenevo fuori solo la testa, e dal riflesso nello specchietto retrovisore potevo vedere il tassista che con un occhio badava alla strada, con l’altro si lasciava scappare, di tanto in tanto, qualche lacrimuccia di commozione.
Poco lontano dalla vecchia roulotte, lungo il versante di una collina, i ciliegi erano nel pieno della loro fioritura. Altri già cominciavano a smarrire nel vento i loro petali fragili, che come aveva detto l’ingegnere di Kyoto, in un giorno ormai perduto tra le pieghe del tempo, rappresentavano la bellezza destinata a svanire presto, un breve istante di ebbrezza.
Ai nostri piedi già si stendeva un tappeto. I fiori si staccavano dolcemente e senza rimpianti, sapendo che l’indomani sarebbero spuntate le gemme e le prime foglie, poi di seguito i frutti e le cicale nei caldi giorni d’estate.
Sotto di noi, la valle aveva l’aspetto del mare al tramonto, una bonaccia increspata appena dal passaggio del vento.   
Restammo a lungo in silenzio, e il mio piccolo cuore di gatto era lieto, eppure anche un po’ triste. Capivo, in quel momento, che anche per me - ben presto - sarebbe arrivata la fine, che ero ormai giunto al termine della mia settima vita. Ma sapevo anche che sarei rimasto nel cuore dell’umano con lo zaino, e anche in quello di Venturina.
Per una volta tanto, il Dio dei gatti avrebbe fatto un’eccezione, riservandomi il privilegio di vivere in due cuori, speranza e forza di entrambi.
I dispiaceri dell’una e i dubbi dell’altro si stavano sciogliendo, cadevano a terra anch’essi senza rumore: e si faceva spazio, tanto spazio dentro di loro per accogliere cose nuove.
Forse un piccolo spazio c’era anche per me.
 
  
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