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Autore: Cassie chan    20/12/2018    6 recensioni
ATTENZIONE: non tiene conto degli eventi del settimo libro...!!Sono passati alcuni anni dalla fine della guerra, ed Hermione Jane Granger vive estromessa dal suo mondo, quello della magia, a causa di una condanna ricevuta tempo prima. Fidanzata delusa, disoccupata cronica, cinica perenne, Hermione ormai dispera dell'arrivo del principe azzurro. Ma quando arriva, non è facile riconoscerlo nelle fattezze affascinanti ma DECISAMENTE irritanti di Draco Lucius Malfoy, specie se babbano anche lui... ma la vita è decisamente strana e può anche capitare che ci si imbatta in una piccola fiaba, proprio quando si credeva di vivere in un incubo...:) PUBBLICAZIONE CAPITOLO 51 : 14 LUGLIO 2020
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Genere: Comico, Commedia, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Ginny Weasley, Harry Potter, Lavanda Brown, Ron Weasley | Coppie: Draco/Hermione
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Dopo la II guerra magica/Pace
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'THE "HAVE A LITTLE FAIRY TALE" SAGA. '
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RIASSUNTO DEI CAPITOLI PRECEDENTI: Dopo cinque anni di separazione e una residenza forzata in Italia per difendersi da Dimitri Karkaroff e Astoria Greengrass, Hermione torna in Inghilterra in cerca di Draco assieme al figlio Alex di cui Draco stesso non sa nulla. Nel suo viaggio, Hermione viene aiutata da Dean, Pansy e Seth che la informano che Draco potrebbe essere ancora con Raissa Karkaroff. Una traccia per trovare Raissa risiede inaspettatamente in un incontro che Draco, incalzato da Adamar durante la sua prova, aveva fatto nell’aldilà: una donna di nome Tatia Krasova gli aveva chiesto di riferire ad Hermione il suo nome in modo che si ricordasse di lei, anche se Hermione, in quel momento, non la conoscesse. Sulle tracce di Tatia, che si rivela essere una profetessa, il cui nome era stato celato e nascosto da Raissa, Hermione e i suoi amici giungono all’ultima dimora di Tatia Krasova, in Finlandia, dove era sposata con un uomo di nome Ilai Radcenko. A casa di Tatia, Hermione trova una lettera destinata a lei dalla ragazza e scritta ben dieci anni prima e dove lei le dice tutto quello che le è accaduto. Tatia era un’amica d’infanzia di Dimitri e Raissa. Tatia da sempre dotata di un fortissimo potenziale magico, aveva da sempre attratto l’indole scientificamente curiosa dei fratelli Karkaroff, specialmente di Dimitri, che ne era ossessionato molto più che innamorato. Quando però Tatia ed Ilai si erano innamorati, Raissa aveva finito per uccidere casualmente Tatia e Dimitri le aveva fatto promettere di aiutarlo a fare sua una donna che suscitasse in lui lo stesso interesse che gli aveva provocato Tatia, altrimenti avrebbe rivelato ad Ilai il nome dell’omicida della moglie. Hermione quindi, conosciuta la verità, ritorna in Inghilterra con Ilai, Dean, Seth e Pansy, ma giunta a casa di Draco, scopre una cosa straziante: Serenity chiama Raissa mamma. Interrogando con il Veritaserum la bambina, scopre che Draco sta addirittura per sposare Raissa stessa; distrutta, Hermione decide di andarsene senza incontrare Draco e di partire per la Finlandia con Ilai, a cui la lega una complicità sempre più stretta. Ma, alla festa di paese dove è andata con suo figlio e i suoi amici prima di partire, ricompaiono i Karkaroff, compreso il presunto morto Dimitri. Quest’ultimo le ordina di uccidere Draco ed Ilai e lega Alex a sé stesso, di modo che qualsiasi cosa gli succeda, accada al bambino. I due spariscono con il bambino, con l’oscuro ultimatum di tre giorni per impedire che l’assimilazione diventi definitiva e che Dimitri non si suicidi, trascinandosi dietro anche Alex. Tornata a casa di Draco, Hermione distrutta ricambia il bacio diIlai, poco prima che Draco ricompaia nella sua vita. L’incontro tra i due non è idilliaco. Entrambi si sentono traditi l’uno dall’altra, in virtù dei legami intanto sorti tra Hermione ed Ilai, e tra Draco e Raissa. Le cose peggiorano, quando in modo rocambolesco e a causa dell’intervento dei Karkaroff, Draco scopre prima che Hermione gliene possa fare parola, che Alex è anche suo figlio. Il clima diventa ancora più complicato e ingestibile, quando Draco ed Hermione apprendono dall’Empatica Helder di essere finiti nell’occhio del ciclone di una guerra millenaria tra il demone Adamar e gli Empatici. Non potranno sconfiggere i Karkaroff e riprendersi il loro figlio, se non supereranno una prova imposta dal demone che testerà il sentimento che li unisce. Il loro amore, difatti, cinque anni prima, assieme alla creazione e distruzione dello Zahir e al ritiro dalla prova di Adamar a cui si era sottoposto Draco, ha scatenato una serie di eventi che li designa come unici possibili vincitori nei confronti del demone: solo loro possono invocare la Solutio damnationis, lo scioglimento della dannazione, ossia la distruzione di ogni potere concesso da Adamar nonché della sua stessa esistenza. La prova è però complicata, difficile, dura, e Draco ed Hermione disperano di potercela fare, visto come si è deteriorato il loro rapporto. La Solutio damnationis è però l’unico modo per sconfiggere Adamar, e liberarsi del potere dell’onniscienza dei Karkaroff, in modo da eliminarli. Nel piano di Helder, trovano posto tutti i loro amici, riuniti per salvare il piccolo Alex Malfoy. La prova potrebbe avere conseguenze mortali per il pianeta, oltre che per loro due e per Ilai Radcenko, che deve fingersi morto con un complicato meccanismo biologico ed empatico per ingannare i Karkaroff. Nonostante tutto, sebbene siano certi di non potercela fare e rassicurati sul destino dei loro figli qualora la prova vada male, Draco ed Hermione accettano di sottoporsi alla Solutio damnationis. Disperando di poter tornare vivi, in un clima di tregua indotto dalle circostanze, restano assieme per la loro ultima notte. Al mattino, a causa degli effetti del legame empatico tra lei ed Ilai Radcenko, Hermione scopre non solo i sentimenti dell’uomo verso di lei, ma anche di quanto questi inaspettatamente non siano a senso unico, cosa che la dilania. È in tale sentimento confuso che Draco ed Hermione incontrano il demone Adamar e la sua compagna di vita, Eva Dubois. La prova del demone è semplice: cancellati i tradimenti che hanno condizionato il futuro di Draco ed Hermione, il loro destino sarebbe stato completamente diverso e, secondo Adamar, avrebbero avuto quello che davvero desideravano. Adamar li blocca quindi in un altro mondo ed un’altra vita con una sola minuscola scappatoia per fuggire, un fantomatico “giungere palma a palma”: senza memoria del mondo reale, Hermione e Draco vivono due vite parallele assolutamente ignari che sia un inganno del demone. Più tempo passa, però, e meno avranno possibilità di tornare indietro. La vita di Hermione e Draco è quella più classica che si possa immaginare: lei è sposata con Ron e ha avuto Rose ed Hugo; lui invece con Astoria da cui è nato Scorpius. I due, a parte lo sporadico contatto al binario nove e tre quarti alla partenza dei figli per Hogwarts, non si sono mai incontrati. Hermione vive un matrimonio fatto di crepe profonde, è convinta però quasi che si tratti di qualcosa di normale. Una sera, alla Tana, Teddy Lupin e Victorie Weasley confessano alla famiglia di essere non solo innamorati, ma anche in attesa di un bambino, motivo per il quale hanno deciso di sposarsi presto. Ed è a quel punto che ricompare Draco, la cui famiglia ha riallacciato i rapporti con Teddy e che è pertanto interessata all’organizzazione del matrimonio. Hermione e Draco si rivedono quindi, e sebbene alle associazioni di idee con la loro vecchia vita, lei provi nausea e lui un dolore al petto, entrambi sono assolutamente ignari del loro passato. Hermione, distrutta dalla percezione della crisi del suo matrimonio, sfugge alle insinuazioni di Draco, sostenendo che fosse sua volontà anni prima di uccidere Silente, non essendoci riuscito solo per mancanza di tempo. Hermione, in colpa, vede Draco andare via furioso. Intanto, attorno a loro, forze misteriose si muovono: da una parte, sotto varie forme, l’onnipresente EvaDubois nascosta in mille fogge accomunate dal cameo della rosa bianca. Dall’altra parte, Isolde Crane, apparentemente solo compagna di studi di Ginny, la quale sembra conoscere qualcosa dell’intricata faccenda in cui si trova Hermione. Emblematico, anche l’incontro con la rediviva Tatia, in questo universo sposata con Dimitri da cui ha avuto una figlia di nome Charlotte: la veggente percepisce qualcosa di strano in Hermione. Specie nel fatto che lei indossi la sua stessa collana (quella che nel mondo da cui provengono, Tatia aveva donato ad Hermione nella lettera prima di morire e che Hermione aveva incantato per non perdere). La collana, in questo mondo, indica sempre il mare. Distrutta dal senso di colpa per la sofferenza che ha indotto a Draco con le sue accuse, Hermione accoglie il ritorno a casa per le vacanze natalizie della figlia Rose che le confessa di essersi innamorata proprio del figlio di Draco, Scorpius. La ragazzina, preoccupata della disapprovazione che il padre Ron potrebbe avere per Scorpius, chiede l’aiuto della madre che glielo promette calorosamente: la sera di Natale, però, durante un brindisi, Ron rimarca l’ostilità aperta verso la famiglia Malfoy, finendo per discutere pesantemente anche con Hermione, in aperta difesa di Rose che ne rimane molto ferita. Hermione va via dalla Tana e, in preda all’istinto più puro, finisce a casa di Draco, protetta dal Mantello dell’Invisibilità, per conoscere infine la verità sul tentativo di omicidio di Silente e rendersi conto se l’affetto della figlia, nonché di Teddy, siano ben riposti. Draco è completamente estraneo al clima di festeggiamenti della vezzosa e frivola moglie Astoria: è infatti chiuso nella stanza della madre Narcissa, gravemente ammalata. Nonostante Hermione indossi il mantello che la rende invisibile, Draco si accorge della sua presenza e i due hanno una lunga conversazione quasi amichevole, dove Draco ammette che non avrebbe mai ucciso Silente e Hermione, con sua somma sorpresa, non ha alcuna difficoltà a credergli, sentendo una continua fiducia nei suoi confronti che non riesce a spiegarsi. A suggello del momento, Draco ed Hermione si stringono la mano, giungendo senza accorgersene a trovare la scappatoia di Adamar, il fantomatico “giungere palma a palma” era un contatto delle loro mani, voluto da entrambi. Immediatamente nelle loro menti, ritorna un ricordo della loro vera vita: il momento in cui Draco usò la Legilimanzia su Hermione al Petite Peste, per cercare di scoprire se fosse a conoscenza di Serenity e di Helena. Il ricordo li sconvolge entrambi, ma soprattutto Hermione arriva automaticamente a pensare che Draco le abbia fatto qualcosa di male in un momento che non ricorda.

 

 

Capitolo 49: Disturbia, step three: about touch

 

25 dicembre ore 00,48

 

Hermione Granger, 36 anni appena compiuti, lo aveva chiamato subito ricordo, non sogno.

La certezza si era instaurata nelle ossa, vibrante come la corda di una chitarra al termine di un assolo. Vibrava tutto, ogni cosa tra pelle ed organi, come se facesse risonanza con qualcosa di lontano, perso, apparentemente irraggiungibile.

I sogni sono concentrati tutti in un solo attimo fosco come nebbia: esiste un occhio del ciclone immobile nel quale esistono in modo tangibile. Tutto il resto, attorno, viene dimenticato.

Nei ricordi, invece, a guardarli bene si vede altro: la mente registra implacabile, ripropone scongelate prospettive di eventi che non si erano guardati bene.

E lei aveva visto tutto: tutto quello che c’era attorno a lei.

Una serie di cose accatastate assieme che, proprio assieme, non significavano niente ed in questo magari poteva sembrare la lucida follia di un sogno.

I mobili della stanza erano bianchi, gli accessori neri. La televisione era accesa, con il volume al minimo, creava ombre azzurre sui muri come se volesse mangiarseli. Su un letto c’era il peluche di un coniglio rosa. Dalla finestra, proveniva il suono ritmico e regolare della pioggia. Sul comodino, un calendario segnava la data di una festa a tema azzurro, lontana tredici anni prima.

Tredici anni prima: nessun sogno era così preciso.

Ma nessun ricordo portava l’etichetta di quel momento. Nessuno.

Mai lei, Hermione Granger, era stata così a ventitré anni.

Capelli lunghi, annodati in una coda, leggermente bagnati sulle punte. Una maglia da calcio babbana rossa. Corporatura più esile, molto più magra di quanto ricordasse di essere stata a quell’età. Era sicuro che avesse pianto, gli occhi splendevano di pagliuzze verdi sconosciute, al contrasto con il rosso che macchiava il bianco.

Dentro, non era stata mai così fragile Hermione: farinosa, sabbiosa, friabile come un biscotto secco che, solo a guardarlo di sbieco, si sbriciola selvaggio.

E Malfoy, quello che in un lampo aveva ripreso a chiamare così, l’aveva sicuramente sbriciolata.

Con quella mano stretta sul polso, con quell’irruenza sorda, con quella violenza scoperchiante e spavalda: certo, ovvio, tutto vero.

Falso, invece. Era tutto falso.

Hermione Granger, 36 anni compiuti, fu certa d’improvviso di una sola cosa.

Era stata sbriciolata, fatta a pezzi, dagli occhi pieni di odio di Draco Malfoy.

 

 

Le mani. Le sue mani.

Di primo acchito, come un richiamo ancestrale e necessario, guardo solo quelle.

Sono mani sottili, dalle unghie corte eppure curate, attraversate pallide da un tessuto di vene e capillari: sono mani di neve, ghiaccio, furia e tempesta, capaci di seminare dolore e morte se solo lo volessero. Mi ha detto di non averlo mai fatto, di non aver mai ucciso.

Gli credevo. Gli credo. O non più?

Sono mani di uomo che spezzano, percuotono, annientano.

Sono le stesse mani che, poco fa, se ne stavano poggiate fiaccamente vicino a me.

Sono le stesse mani che io, preda dell’istinto più semplice, avrei stretto tra le mie, in modo da consolarlo dal dolore imminente del lutto per la madre: e sono le stesse mani di cui alla fine avevo conosciuto il calore denso, all’interno di quell’accordo non verbale che avevamo siglato complici.

Ora io guardo quelle mani e cerco di indovinarne le loro impronte sulla mia pelle.

Su quella tenera e sottile del polso, su quella più ruvida e tracciata della fronte, su quella pulsante e bollente del collo: ogni pezzo della mia epidermide, d’improvviso, suda inquieta e mi suggerisce nuove dimensioni del dolore che potrebbe avermi procurato, per poi cancellarmelo dalla mente. Il quadro è così vivido, e rosso, e nero, che mi fa male solo ad immaginarlo, mentre si sveste come un cappotto pesante quella primitiva ed istantanea fiducia che avevo avuto poco fa per lui. Come una molla, scatto subito alla bacchetta nascosta sotto il vestito, la impugno forte, sebbene le mie dita tremano raggelate. Torno a guardarlo quando sono certa che i miei occhi non siano più lucidi, ma fieri, socchiusi, minacciosi, mentre ripeto in un sibilo: “Che diamine mi hai fatto, Draco Malfoy?”.

La sua vista, d’un tratto, sgonfia un po’ del mio intento bellicoso, facendo tremolare la pelle dietro le ginocchia. Mi ero aspettata un sorriso tronfio, uno sguardo soddisfatto, un ghigno perfido, mentre mi sputava addosso l’inganno crudele a cui mi aveva sottoposta. In fondo, una parte di me si aspettava anche che, nel suo diabolico piano, rientrasse pure lo scarto pacifico di coesistenza che abbiamo appena vissuto. Mi renderebbe persino più tranquilla sapere che è stata tutta una farsa, piuttosto che credere sul serio che sia così naturale stargli vicino.

Invece, a restituirmi lo sguardo è un uomo confuso, disorientato, autenticamente sconvolto. Lo guardo senza capire per qualche secondo, la bacchetta che si abbassa piano dalla mia mano tesa prima ancora che io l’abbia premeditato. Non aveva già la migliore delle espressioni precedentemente, ma adesso se possibile, pare ancora più a pezzi di prima.

Continua a stringere in modo frenetico e convulso con le dita la camicia all’altezza del petto, come l’ho già visto fare spesso come in una sorta di tic nervoso, mentre i suoi occhi sono catturati dal pavimento come un magnete irresistibile. Sotto le palpebre, subitanee come fulmini sul mare, paiono passare centinaia di schegge di un dolore diverso che lo annienta, annichilisce, sconquassa, come a volerlo rivoltare dall’interno verso l’esterno, alla maniera di una pelle consunta da gettare via.

Ho intuito che ciò che è successo a me, è accaduto anche a lui.

Il ricordo.

Ma la sua reazione mi induce a pensare che abbia visto o sentito qualcosa di diverso da me, qualcosa di feroce, terribile, cruento. Quando torna a guardarmi, pare cercare qualcosa nel mio viso in modo disperato, è come se soppesasse la mia figura alla ricerca di qualcosa che non vada. Scivola sul viso, attraversa le braccia, giunge alle gambe coperte dalle calze leggere. Non c’è lascivia, desiderio, interesse.

Solo… terrore smisurato. Cosa diamine sta cercando?

Sta… cercando di capire se… sto bene?!

La domanda retorica a me stessa giunge così di sorpresa alla mia mente, da scoppiettare come un petardo acceso. Deflagra insolente tra i tessuti, svuotandomi della rabbia e dell’ansia. Mi attanaglia un senso crescente di vuoto freddo, implacabile, insormontabile, che inizia a congelarmi le piante dei piedi per poi risalire nel resto del corpo. Lo guardo allora instupidita, sciocca, nemmeno cosciente di cosa pensare o fare.

Mi trincero dietro la certezza che il ricordo sia di qualcosa che Malfoy mi ha fatto, solo perché mi è rimasto solo questo.

Non so dove altro porre i miei pensieri, dove nasconderli. D’un tratto, confesso a me stessa, per la prima volta in questa serata assurda vorrei essere a casa mia.

Non qui, non con lui.

Ovunque, ma non con lui.

Malfoy continua a guardarmi con una domanda negli occhi imploranti, a cui però io non so rispondere. Quando sembra capire che quel soccorso silente non arriverà, nel vedere la mia bacchetta sguainata si ricompone immediatamente con una velocità che mi sorprende, lasciandomi attonita. In pochi secondi torna sé stesso, apre le spalle, raddrizza la schiena. Mi sovrasta con la sua altezza, pare un principe delle fiabe intento a guardare una servetta. Le labbra si atteggiano al solito ghigno sarcastico, mentre gli occhi, che erano prima pozze azzurrissime di gennaio, si restringono malevoli, diventando più chiari, trasparenti.

Si spazzola distrattamente la giacca grigia come se fosse piena di pelacchi, mentre soggiunge sarcastico, rivolgendosi ad un inventato interlocutore: “E la Grifondoro dimenticò in quindici secondi netti l’impeto di convivenza civile natalizia… abbandonando persino quel raziocinio di cui è sempre andata tanto fiera…”, fa una studiata pausa ad effetto, poi prosegue dolciastro: “Non dimentichiamo che è la moglie di Weasley, ogni tanto pure le menti migliori vengono portate sulla cattiva strada…”. Completa la sua tirata con una finta occhiata di comprensione al mio indirizzo, cosa che mi fa saltare ancora di più i nervi, facendomi dimenticare completamente l’attimo di debolezza di poco prima. Riafferro la bacchetta puntandogliela contro decisa, cosa che non lo impensierisce affatto. Non cambia espressione nemmeno quando sputo fuori, urlando: “La vuoi piantare con le tue contorsioni semantiche, Malfoy?! Che cosa diamine vuoi dire? Tu… tu mi hai fatto qualcosa… l’ho appena ricordato...”.

Mi concentro per qualche secondo, riportando alla mente quello che ho visto. L’episodio, invece di perdere definizione, diventa ancora più nitido e preciso come se fosse qualcosa accaduto solo poco fa. Ha dei colori carichi, scintillanti, al punto che ogni altra memoria nella mia testa pare smunta e impalpabile. Lo rivedo nella mia testa continuamente, cercando di fissarmi tutti i particolari. Nulla, però, mi riporta alla memoria quel momento che pare assolutamente slegato da tutto il resto, come una specie di pezzo stonato nel puzzle della mia testa. Respiro a fondo, cercando di trarre quante più conclusioni possibili, le orecchie che mi ronzano e la nausea solita che non mi lascia in pace. Un vago senso di ansia comincia a salire tossico lungo l’esofago, specie quando cerco di interrogarmi oltre che sulla memoria in sé, sul motivo per cui sia tornata in mente a me e a Malfoy nello stesso identico istante.

E peraltro non in una maniera indolore, tipo scatto di consapevolezza improvvisa: no. Mi sono sentita squarciata a metà, come se mi stessero tirando da otto direzioni differenti. Vado avanti ed indietro mordendomi l’unghia del pollice, cercando di capirci qualcosa, mentre Malfoy mi risponde spavaldo, poggiandosi con la spalla al muro: “Se è per questo, l’ho appena ricordato anche io. Cosa quantomeno inusuale se sei la vittima di qualche angheria terribile da parte del sottoscritto: non sono così idiota da voler volontariamente dimenticare la soddisfazione che ne avrei provato. Senza contare che non me ne ricorderei mai contemporaneamente a te per darti questa bella occasione di urlarmi nelle orecchie come una straccivendola”.

Le parole di Malfoy non fanno una piega. Manco mezza.

Certo, potrebbe aver finto la sua rimembranza attuale, in modo da confondermi ancora di più.

Non certa di quello che provo per le parole di Malfoy, combattuta tra la proverbiale diffidenza e l’istinto sempre continuo a fidarmi di lui, cerco di ripensare alle immagini che ho visto.

Non era un sogno: troppo preciso, troppo netto, troppo carico di dettagli. Non c’era nulla di nebuloso, incerto, illogico. Le cose in sé sembravano perfettamente normali, tranne che non lo erano per me e Malfoy.

Ero in un appartamento sicuramente babbano, cosa che già mi fa ammattire, considerando che ero con Malfoy che non si avvicina alle cose babbane nemmeno se minacciato. Ero in una mise comoda, sembravo una che si sente a suo agio e questo è doppiamente strano visto che, ribadisco, ero con Malfoy. Che lui si sia intrufolato in un posto in cui mi trovavo io?

Ma che posto era? Non era casa mia, non era casa dei miei, nemmeno quella di Ginny ed Harry, enumerando le abitazioni più babbane che conosco.

Il mio stesso aspetto, poi, mi rende ancora più incerta sul fatto che si trattasse davvero di me: certo, ero più giovane e da un calendario appeso al muro ho capito che si trattava di un momento avvenuto tredici anni fa. Quindi, avevo 23 anni e a quell’età io stavo organizzando il matrimonio con Ron. Che nel ricordo, non è presente. Dove diamine era? Perché ero sola con Malfoy?

Ma anche il mio aspetto era diverso da come me lo ricordavo. Avevo i capelli più lunghi e più chiari, ero più magra, persino più atletica.

Passi che Malfoy possa avermi fatto qualcosa per poi indurmi a dimenticarlo, ma come potevo avere anche un aspetto così differente da quello che mi ricordo?

E poi… quella tristezza, quel dolore, quella voglia di abbandonarmi volutamente alla morte.

Quando mai sono stata così? Quando?

Ricaccio indietro con una sorta di vergogna quella domanda, tornando al presente e dando voce ai miei pensieri, dopo essermi ricordata della presenza di Malfoy che è rimasto lì in silenzio, a farmi ragionare tutto il tempo: “Era un ricordo, Malfoy… io… ho sentito tutto quello che provavo… avevo…ventitré anni… io non ricordo nemmeno di averti mai incontrato a quell’età”.

I miei pensieri e ricordi si attorcigliano come fili di un gomitolo, rendendomi sempre più confusa, mentre cerco inutilmente di trovarne un bandolo. Mi prendo la testa tra le mani tenendola assieme, sembra vittima di un forza centrifuga così potente che i miei pensieri schizzeranno presto in tutte le direzioni.

Malfoy, per nulla sconvolto, mi pare solo immensamente annoiato dalla vicenda ed anche dalla mia richiesta di spiegazioni, come se la cosa non gli importasse minimamente. Si limita ad un appunto scocciato: “Se è per questo nemmeno io… grazie a Merlino, Morgana e ad un’altra cinquantina di maghi e streghe di quarantotto generazioni”. 

La frustrazione mi attanaglia il fiato come una specie di fiera affamata, chiudendomi lo stomaco ed annebbiandomi la vista. Vederlo così calmo, rilassato, serafico, mi innervosisce ancora di più se mai fosse possibile. Così, senza controllo, erompo in un urlo sgraziato, ripetendo irrazionale: “Smettila! Stai mentendo!”.

Il grido mi lascia senza forze e senza fiato, come se avessi gettato fuori tutti l’ossigeno che mi serviva per respirare. Resto così con la mano premuta sul torace, nel centro esatto del corridoio che, in curioso gioco beffardo di onde sonore, pare rimandarmi indietro infinite volte la mia voce acuta e gracchiante, odiosa persino alle mie stesse orecchie come il verso di un pipistrello.

Mi preoccupo seriamente che qualcuno mi abbia sentito, passi per l’Incantesimo Insonorizzante per il piano inferiore, ma Narcissa Malfoy è ancora nella sua stanza a dormire dell’agonia, ma forse ben più vigile nell’udito di quanto io possa sperare.

Cerco di tingere i miei occhi di un’accorata richiesta di perdono per la mia scortesia e che giunga all’indirizzo di Malfoy, sebbene sappia che la mia sia la reazione più normale se ti cascano nella mente dei ricordi che non pensi di aver mai vissuto.

Lui, però, sembra non essersene nemmeno reso conto, la piega febbrile dello sguardo divenuto d’acciaio mi informa che è irritato, innervosito, sebbene esteriormente non ha mutato nulla nella mollezza della posa e nella rilassatezza dei tratti. Solo la mascella si indurisce mentre parla, facendo scivolare fuori le parole come se scottassero e volesse sbrigarsi a pronunciarle: “Certo… avevo dimenticato che sei tornata in possesso della tua adorabile moralità rosso-oro. Tregua finita…”. Un’ondata di calore vergognoso mi sale fulmineo ed inspiegabile alle guance, irradiando gli zigomi di porpora, mentre lui continua spavaldo, di nuovo inaccessibile come un castello di rovi: “Poco fa hai creduto in un attimo che non volessi assassinare Silente. Ora, siamo di nuovo diciotto passi indietro…”, non riesco a reggere il suo sguardo, pare una spada puntata alla mia gola. Gli occhi scivolano malamente in basso, mentre mi sento assurdamente in colpa per aver sospettato di lui, anche se razionalmente so di averne ogni diritto.

La mia testa, però, quando si tratta di lui, pare diventare una sorta di vocina di sottofondo.

Faccio pure fatica a capire che diamine dica.  

In realtà credo che sia sempre andata così. Lo incrociavo nei corridoi a scuola, ci insultavamo a vicenda, trattenevo dalla rissa inevitabile Harry e Ron, fingevo che fossi superiore e me ne andavo a testa alta, convinta di averlo sempre battuto. Lui poteva anche essere purosangue, ricco e facoltoso, ma dalla mia io invece avevo la media stratosferica e l’amicizia con l’eroe del mondo magico. Nonostante questo, però, quando me ne tornavo in classe e mi sedevo al mio posto, le sue irritanti parole mi tornavano nel cervello con scadenza regolare, sovrapponendosi a quelle delle varie spiegazioni. E così mi distraevo, mentre fantasticavo di scioglierlo nell’acido solforico oppure di trasformarlo perennemente in un furetto. Chiaramente, mentre discutevo di questi dubbi amletici, Harry mi diceva qualcosa o il professore mi chiamava, beccandomi disattenta. Riuscivo sempre a rimediare ovviamente, ma intanto il fastidio mi faceva torcere le mani dal nervosismo. Volevo fare la superiore e ci riuscivo perfettamente davanti a lui, ma invece dentro macinavo e macinavo fino allo spasmo.

E la mia testa, oggi come allora, diceva sempre il contrario di ciò che mi ritrovavo a fare.

Si aggiunge oggi, però, un’altra novità, qualcosa di sorto come un fungo e che guardo come se fosse velenoso.

Avevo la tendenza a sospettare di lui. Sempre, qualsiasi cosa facesse o dicesse.

Ora, ho la tendenza esattamente contraria.

Mi fido di qualsiasi cosa dica.

Mi fido di quegli occhi che ho idea che non mi mentirebbero mai.

Mi fido come se sapessi di poterlo fare, sebbene sappia che non è così.

Ed ora mi lambicco solo per trovare il modo per continuare a fidarmi di lui.

Lo trovo in un lampo, ma lo tengo nascosto, socchiuso nel cuore per non vederlo troppo davanti.

E’ una cosa inopportuna, ma non posso impedirmelo, mentre ripenso che ha ricordato anche lui, non poteva mentire su questo.

Trovo il motivo che cerco, mentre soggiunge caustico come a leggermi nella testa: “Buono a sapersi. Mi sento più a posto con la mia coscienza sporca senza la responsabilità della tua… fiducia…”. Accentua la parola con arroganza, calciando un invisibile piega del tappeto nel corridoio, mettendo nel gesto casuale una frustrazione che vorrebbe fingere di non avere. Quella constatazione, piccola e sciocca, mi accende lo stomaco di lucciole.

E ripeto quello che ho detto poco fa.

Lo dico già con voce diversa, soffusa, sussurrata, come un segreto da dimenticare. Arrossisco ancora, mi mordo il labbro inferiore, mi pare un’intimità assurda come essersi visti nudi.

Ed invece sono solo poche parole che il legno del corridoio mangia e sputa fuori come un respiro inudibile: “Fa che io possa fidarmi di te. Ed io ti difenderò sempre”.

La sua voce è gemella della mia, la sento sulla pelle come se mi avesse parlato sulla nuca, sulle clavicole, nella pelle interna dei gomiti, nella curva delle ginocchia.

Mi sussurra lieve, la delicatezza che non pensavo avesse: “Dimmi cosa vuoi, allora”.

Lo dico rapida, a voce più alta, così da rompere quella foresta di bisbigli.

“Voglio il favore che mi avevi promesso”.

 

 

Non aveva avuto bisogno di convincerlo, incantarlo, minacciarlo: nel silenzio del suo letto, il respiro regolare e grave del marito accanto, Hermione Granger, 36 anni appena compiuti, ripensava solo a quello. La mano sotto il cuscino, la testa sotto il lenzuolo come a nascondersi sotto una fortezza di stoffa, stava con gli occhi spalancati sul nulla, attonita come davanti ad una luce troppo forte.

Le labbra, pure, stavano dischiuse in attesa di un verbo o di un aggettivo che non fiorivano nella gola, seccandola e lasciandola riarsa come un deserto di stracci.

Draco Malfoy, dopo averle ingiunto di non metterci troppo e di non andarsene in giro a farsi i fatti che non erano propri, borbottando tra sé e sé, le aveva lasciato libero ingresso nella sua mente.

Così, dal nulla: e lei pensava solo che, se fosse successo al contrario, anche lei avrebbe fatto lo stesso. Senza nemmeno questionarci su.

Così, dal nulla.

Nel ricordo, nel sogno, in quello che dannazione era, pareva che lui avesse usato la Legilimanzia su di lei: senza bacchetta, con un Incantesimo non verbale.

Non si era concentrata sulla stranezza della cosa, ma aveva rifatto l’incantesimo che avevano appena ricordato, come una sorta di accordo segreto stretto senza che lo sapessero.

Perché Draco Malfoy, prima ancora che lei ne palesasse l’intenzione, aveva fatto un passo verso di lei, aveva sollevato il braccio e porto la mano destra con il palmo sollevato, il ghigno vaporizzato, tutto grigio attorno come se gli occhi fossero dappertutto, persino nelle pieghe del tappeto e nei tarli delle tende.

Ubriaca, ebbra di quello che avrebbe chiamato potere ed onnipotenza a vedere il nemico di sempre sconfitto ed obbediente, lo raggiunse in tre balzelli, come nei giochi da bambina che ora occhieggiavano sgraditi ad un momento che non aveva nulla della innocenza.

Lo seppero le sue dita quando si chiusero sulla pelle tenera del polso, lo seppe la mente che non riusciva a ricordare la formula per leggere i pensieri, lo seppe il ricordo che tornò vivido, grandioso, terribile, più reale di ogni cosa che avesse mai conosciuto.

Hermione Granger, 36 anni, si rigirò nel letto, pareva una distesa di spine bollenti. Nel buio la sua mano sembrava un buco nero pronto ad inghiottirla, bruciava come carne in suppurazione, pungeva di mille spilli acuminati. La guardava come se fosse un arto con volontà propria e che doveva assolutamente amputare per avere salva la vita.

La mano recava la colpa, conservava il calore delle vene del polso di Draco Malfoy.

La mente di Draco Malfoy era un inferno di porte chiuse.

Corridoi immacolati e deserti, pieni di voce attutite da porte chiuse. Alcune erano enormi, imponenti portoni dall’aria antica, di legno massiccio e scuro, chiusi da ferri e lucchetti sigillati. Altre erano piccole, minuscole, non ci passerebbe nemmeno un suo piede. Altre ancora, erano spalancate, ma al loro interno, c’era poco o nulla.

Scale a chiocciola, si arrampicavano in altezza dove nemmeno la sua immaginazione riusciva ad arrivare, tutto era un’eco di voci, rumori, odori sconosciuti che si mescolavano in vario modo.

A primeggiare, però, era un odore acre, intenso, da pizzicare le narici. Odore di legno bruciato.

La mente di Draco Malfoy, aveva scoperto Hermione Granger, puzzava di cenere.

Come se portasse i residui di un enorme incendio, un rogo mortale.

Ad essere bruciati, riarsi, sembravano i chiavistelli di un enorme portone. Si riconoscevano ancora pezzi consumati di motivi di rose incise ed intagliate nel legno chiarissimo che splendevano di luce propria. Ed una lettera mangiata dalle fiamme. J.

Conosceva Hermione Granger ogni incanto per rivelare inganni e manipolazioni della mente.

Ignorò il portone incendiato, come promessa tacita a Draco Malfoy, e li provò tutti.

La mente di Draco Malfoy rispondeva di buio, pece, vuoto, nero.

Non conosceva quel ricordo. Non le aveva mai fatto nulla. Non si erano mai visti negli anni passati.

Anzi, quel ricordo lo aveva turbato come nulla al mondo: aveva ricordato cosa aveva provato in quel supposto momento che non sapeva di aver vissuto.

Si era sentito sporcato, come se l’avesse violentata.

Come uno che tocca qualcosa di intoccabile e puro, di illibato e vergine, senza averne alcun diritto.

La Terra era tonda da piatta che era sempre stata.

Malfoy non le aveva fatto del male. E se fosse arrivato a farlo, se ne sentiva toccato e ferito in qualunque tempo, universo e ricordo, vero o falso che fosse.

Le lenzuola si annodavano attorno al suo corpo come serpenti armati di veleno, Hermione Granger le scrollò con il piede, il marito Ronald reagì con uno sbuffo del naso.

La consapevolezza fu amara, dolorosa. Era meglio che le avesse volutamente fatto del male.

Ruppe la promessa allora. Interrogò ancora la sua mente entrando, spalancando, aprendo, cercando. Fece di tutto, fallendo, per scoprire se il ricordo era di un mostro avaro della sua anima, e non dell’uomo terrorizzato e colmo di perdita che lui stesso si era visto con angoscia essere stato, chissà dove, chissà quando, chissà perché, chissà se.

Ruppe la promessa, e vide mattine di Natale, punizioni al sapore di ruggine, luci verdi assassine, mani all’odore di violetta, facce colte a mentire, aule di tribunale, libri di scuola scarabocchiati, cupcakes alla menta e cioccolato, sangue sui mobili.

E, d’un tratto, comparve il segreto.

Smisurato, terrificante: trattato però con il pudore lascivo delle cose banali, poco importanti, come una sorta di suppellettile di scarso stile che viene nascosta nella credenza.

Draco Malfoy aveva avuto paura del ricordo piombato nella sua testa all’improvviso.

Aveva avuto paura perché lui, nonostante tutto, in quel dolore pareva amare qualcuno.

Profondamente, intensamente, enormemente, in un modo così puro ed unico da arrivare a violare la mente pulita di Hermione Granger pur di difendere quel qualcuno.

Quel qualcuno che non era una madre, un padre, un figlio.

Quell’amore, puro ed unico, dentro quel ricordo, era stato amore per una donna.

E Draco sapeva di non amare nessuna donna così. Peggio: di non averne amata nessuna così.

Peggio ancora, inferno, segatura, sapore di rancido in bocca: Draco Malfoy non si era mai innamorato in vita sua.

Venne fuori il segreto, esplose prima ancora che lei, già esterrefatta, potesse fermarlo.

Come se avesse vita propria, come se cercasse sollievo ancorandosi ad un’altra mente.

Il fidanzamento tra Draco Lucius Malfoy ed Astoria Greengrass era nato come contropartita ad enormi debiti di gioco che Greengrass senior aveva verso i Malfoy.

Draco aveva sempre odiato Astoria, la detestava ancora, aveva cercato di tutto per sciogliersi da quel vincolo che i suoi genitori volevano onorare, unendo due delle famiglie più pure di sangue dell’Inghilterra. Le pensò tutte, non riusciva a sfilarsi dall’impegno.

Narcissa disse che lo avrebbe diseredato se avesse sposato un’altra donna.

Lucius disse che poteva tradirla come voleva, basta che l’avesse sposata.

Un mese prima del matrimonio, trovò l’espediente che pensava ideale. La fece sottoporre a visite mediche, paventando che non fosse più vergine.

Invece lo era. Ma era anche altro: sterile.

Poteva sciogliere il fidanzamento.

Prima che i suoi genitori intervenissero, voglioso di chiudere quanto prima la storia, andò dai Greengrass per rompere la promessa di matrimonio.

Compresero subito il suo intento. Lo imprigionarono. Misero sotto Imperius.

Lo costrinsero ad andare a letto con Daphne Greengrass, la sorella di Astoria. La resero più fertile con delle pozioni al sapore di rosa, rimase subito incinta.

Fu facile allora: o sposava Astoria, o il bambino spariva. Lo avrebbero ucciso seduta stante.

La sposò, non disse nulla a nessuno, l’onta del disonore troppo grande perché lo avevano ingannato, ricattato. E con la nascita del figlio, lo avrebbe potuto fare per sempre.

Disse ai suoi genitori che si era convinto, disse che amava Astoria, lo disse ovunque, tranne alla sua mente che sapeva di bruciato.

Protesse il figlio. Amò la madre. Divenne marito e padre.

Chiuse il segreto.

Per farlo riaprire poi, dopo anni, ad Hermione Granger.

A lei soltanto, in tutta la vita.

A lei soltanto che, tornando in sé, guardandolo, non seppe che cosa dire: finse di non aver visto nulla, disse che credeva che non gli avesse fatto del male, fuggì lontana nei fuochi di Natale.

A lei soltanto che, tornando a casa, perdonò il marito, consolò la figlia, baciò il figlio.

A lei soltanto che, nel letto, amò il marito come il primo giorno perché loro si erano amati, forse si amavano ancora, dentro si amavano sempre.

A lei soltanto che, dopo, non dormì mai.

Perché era stata lei soltanto. E perché Malfoy era il miglior Occlumante della sua generazione.

Aveva voluto che fosse lei soltanto.

 

 

7 gennaio

 

“La questione si è complicata abbastanza quando abbiamo scoperto che, sull’abitazione principale, era stato posto un usufrutto a beneficio della mia vecchia balia Magda… mi pare scontato, visto quanto le accennavo prima, che abbia posto degli Incantesimi Confondenti su mio zio Oliver per farsi firmare le carte… si maledicevano fino al giorno prima del suo ictus e poi le lascia l’usufrutto della casa?”.

“Certo, certo”.

L’uomo di fronte a me, capelli serici e ricci color del grano e due penetranti occhi azzurro polvere, continua a descrivere con ardore la situazione ereditaria della sua famiglia, sebbene io continui a vederlo come una specie di marionetta slegata: i suoi gesti dovrebbero significare qualcosa, ma non giungono ai miei occhi come dovrebbero, sono annebbiati e sfumati. Si perdono diluiti nello spazio circostante, come tempera annacquata.

Descrivo annoiata cerchi sulla pergamena davanti a me limitandomi a sporadici cenni di assenso, cosa che impensierisce persino Leda che, in un angolo, finge accuratamente di prendere appunti, mentre si concentra sull’autopsia dell’uomo di fronte a me alla scrivania, che le pare naturalmente piacente e ben vestito, caratteristiche che la porterebbero a copulare nell’arco di quindici minuti se dovesse aggiungere anche i convenevoli ed un’analisi politica della Brexit. Vedendomi però così sulle nuvole, si sente in dovere di prorompere in qualche commento fuori luogo e senza senso per dare un’idea professionale del nostro ufficio, cosa che le lascio fare in modo apatico ed inerte fregandomene altamente, mentre l’uomo sorride imbarazzato, grattandosi la nuca in modo nervoso. Mi getta un’occhiata implorante alla quale rispondo scrollando le spalle simulando rassegnazione, anche se ancora non ho la minima idea di che cosa abbia detto Leda.

Anche lei, nella mia testa, muove le labbra e basta, come un film muto.

Da quando sono tornata al lavoro, dopo la fine delle festività natalizie, ogni cosa ha perso la densità ed il peso consueto come se galleggiasse per aria, piena di elio: gli ultimi giorni di vacanza in famiglia, sono stati una specie di susseguirsi di giorni tutti intimamente identici, ricopiati l’uno sull’altra come se fossero stati tratteggiati dalla carta carbone. Persino il fatto che Rose fosse a casa da scuola, mi era diventata una sorta di consuetudine addirittura un po’ noiosa, nonostante lei mi fosse mancata così tanto nei mesi precedenti; con lei, che vedevo così poco e che si stava facendo grande di un’intuizione adulta, dovevo concentrarmi molto di più per non farmi beccare impreparata alle sue domande e richieste. Quando usciva di casa, non provavo con una vergogna fonda di inferno quel senso malcelato di delusione per la figlia che non aveva piacere a restare con sua mamma, ma il sollievo nascosto di potermi chiudere impenetrabile nella mia corazza.

Alla sua partenza, dopo averla stretta in un abbraccio di rassicurazioni e raccomandazioni all’odore di fresia, ho guardato il treno allontanarsi con il comando dello stomaco ad avvertire già bollente la spina della nostalgia, ma invece quello che si era fatto imperante in me era di nuovo la tenue rassicurazione di poter smettere di fingere.

Hugo, del resto, è troppo piccolo per avvertire un cambiamento dei miei stati d’animo se ciò non corrisponde a qualche deviazione della sua consueta routine che, invece, era rimasta inalterata nel susseguirsi di colazione, scuola, merenda, pranzo, compiti, tv, parco, film, cena, nanna.

Io e Ron non abbiamo parlato di ciò che è successo la notte di Natale, abbiamo relegato tutto nella solita dimensione fangosa del sottotesto di ciò che non capiamo davvero, ma che in realtà abbiamo ben compreso come qualcosa che potenzialmente ci potrebbe far schizzare in direzioni opposte e differenti come due pezzi di roccia dopo il Big Bang. Camminiamo per le stanze con attenzione, non sollevando nemmeno la polvere, in punta di piedi, come se sotto le assi del parquet fosse nascosto un esercito di mine antiuomo. Conosciamo parole soffuse, continui “grazie” e “scusa”, edulcoriamo l’amarezza in una melassa stucchevole di cortesia e gentilezza stereotipata.

È già accaduto naturalmente, è una fase che conosco bene e che segue naturalmente un litigio particolarmente violento di cui Ron si sente responsabile: il senso di colpa lo spinge ad una delicatezza fuori misura, comprensiva anche di una sorta di cautela manieristica verso tutto quello che mi riguarda. Mi chiede spesso come sto, si alza a prendere il sale, mi aiuta a mettere la giacca: di solito tutto questo dura fino a quando smetto di stare al gioco, e riprendo a punzecchiarlo o a scherzare con lui. Capisce che è tutto superato, ed allora si torna alla normalità.

Questa volta, però, ammetto di godere enormemente della situazione, anche perché si traduce nell’assenza di domande e nella mia permanenza autorizzata nella bolla isolante che mi contraddistingue al momento e che lui probabilmente scambia per mio sdegnoso rancore nei suoi confronti, cosa poi del resto nemmeno tanto scorretta o almeno più semplice da riconoscere e comprendere, anche per me.

Sarebbe impossibile spiegare il resto, la selva di quesiti senza risposta mi attanaglia così tanto la mente da tradursi in questa specie di nebbiolina lieve, impalpabile, sottile, attorno ai pensieri. Quando cerco di afferrarne uno, quello sguscia come le mosche volanti della visione periferica.

Ed allora mi celo nell’ottundimento, aggravato anche dalla mancanza di sonno: oltre al resto, difatti, ho cominciato da Natale ad avere anche difficoltà a dormire, cosa che non si risolve né con incantesimi, né con pozioni, né con valeriana e melatonina. In realtà, non è che io non riesca a dormire, anzi lo stato di torpore che mi avvolge finisce per diventare una sonnolenza continua che non mi lascia mai, costringendomi ad appisolarmi dappertutto, persino sui mezzi pubblici o sulla brandina dell’ufficio.

Il problema è ciò che accade quando sogno, cosa che succede ormai sempre senza tregua e senza sosta.

Ho deciso di farmi poche domande sul ricordo o presunto tale della sera di Natale, quello che sembra che io abbia recuperato così all’improvviso, ma che al contempo non ha alcuna aderenza logica con la mia vita: i quesiti restano senza risposta e hanno anche la sgradevole abitudine di riportarmi per associazione di idee a qualcosa che non voglio assolutamente rammentare.

Aveva le labbra bianche mentre mi chiedeva che favore volessi e mi ero chiesta per ore se fosse spaventato, terrorizzato. O se fosse nato così, eburneo come ghiaccio e diamante, senza sangue nelle vene, solo qualche goccia, purissima, di fronte alla quale io ero fumo, polvere, caligine.

Tendo perciò a chiudere quella specie di memoria in una parte molto lontana della mia testa, bollandolo con una serie di etichette innocue e scontate, sebbene nessuna di esse, quando mi fermo davvero a pensarci su, può rendere ragione di quello che mi è accaduto.

La mente, però, così testarda di giorno ad escludere quel pensiero senza risposta dalla mia sequela ordinata e ordinaria di pensieri, lo scarta come uno scomodo regalo durante la notte quando, vinta ormai dalla stanchezza, mi appisolo poco prima dell’alba e del suono gracchiante della sveglia.

Come una specie di film in proiezione esclusiva, mi viene riproposto il ricordo in tutte le sue fattezze assolutamente incomprensibili: ed ogni volta, puntualmente, acquista un colore più vivido, vivace, impossibile da ignorare. Pulsano le immagini sotto la trama delle palpebre chiuse, non dandomi riposo e costringendomi al risveglio.

Paradossalmente, se fosse solo questo, potrei anche sopportarlo.

La sensazione che sia la cosa più vera che abbia mai vissuto.

La cosa peggiore accade in quelle rarissime occasioni in cui, invece che svegliarmi di soprassalto madida di sudore, rimango in uno stato stopposo di sonno leggero. Le immagini vengono rapidamente sostituite da un’altra, ugualmente carica degli stessi medesimi colori accesi.

Impossibile da ignorare.

Un parco alla vigilia dell’estate, poche persone che camminano lente e noncuranti, non badando a me. Vento di scirocco che stormisce ai rami di magnolia, portando un odore fresco di promesse, struggente come qualcosa di appena nato, ma di così fragile da temere che non sopravvivrà nemmeno per diventare adulto. Cielo color carta da zucchero, sgombro di nuvole, fissato contro l’orizzonte come una cartolina, così bella da sembrare finta, studiata apposta per innescare la nostalgia dell’addio, come quando si viene cacciati dal Paradiso.

Un colore che non è mai esistito.

Dondolarsi, avanti ed indietro: dopo un po’ capisco che sono su un’altalena di corda, cigola fastidiosa, gli anelli di metallo probabilmente arrugginiti che grattano sul telaio.

Le sensazioni vengono piano, lente, come se mi svegliassi da un lungo sonno, sebbene tecnicamente io stia dormendo proprio in quel momento.

E riconosco il tessuto dei pantaloni di fustagno, rigido, fresco. Poi quello della camicia di lino, gonfiata sul retro dal vento, fluttua come una medusa. Ed infine il petto gonfio di un calore innaturale, incomparabile, meraviglioso, come una specie di falò che somiglia alle mattine di dicembre quando sei bambina ed aspetti Babbo Natale.

Qualcosa di così puro, ingenuo che, ancora, non so nemmeno se l’ho provato da piccola, figuriamoci adesso.

Lo si potrebbe chiamare un bel sogno allora: ne ha ogni nettezza e chiarezza.

Le sensazioni, però, vanno avanti, non si fermano qui, ad un attimo di perfetta serenità, lontano nella memoria così tanto da non essere ricordato.

D’improvviso, come una specie di miraggio iridescente, giunge nelle mie braccia un sorta di peso caldo, soffice, dall’odore di talco, margherita, arancia. I miei occhi sono terribilmente offuscati, come se fossi davvero addormentata anche nel sogno, e non riesco a distinguere bene niente.

Diventa tutto angosciante allora, come se avessi le palpebre incollate e facessi ogni sforzo per aprirle, ma quelle restassero serrate, appiccicate. Distinguo persino i miei movimenti nel letto, inizio a dimenarmi come se fossi stesa nella cenere e nel fuoco, i pensieri sbattono come mosche contro il vetro, spezzettandosi come se fossero sale e polvere.

Ma non mi sveglio ancora, mi artiglio al sogno con perseveranza come se ne andasse della mia vita, come se uscirne fuori decreterebbe immediatamente una specie di arresto cardiaco di tutto quello di cui sono fatta, come se così potessi squagliarmi, diventando cera rappresa.

Mi si mozza il respiro, nel sogno, nel vero: vado in apnea, non lo so. Mi pare sempre di morire, ma non accade mai.

Sotto gli occhi, passa oro liquido, penso agli occhi di un gatto e non capisco perché.

Vado oltre quella cortina brillante, il cuore mi si straccia come se fosse di carta bruciacchiata.

E lo vedo.

Tengo tra le braccia un bambino, probabilmente di cinque anni più o meno. È di spalle, dunque non lo vedo in viso, sento che sta dicendo qualcosa che non capisco, intendo solo “… e lui torna sempre a casa con noi!”, mentre si anima tra le mie braccia, gesticolando.

Vedo di lui solo la nuca, una polo azzurra, un paio di scarpe da ginnastica rosse di tela un po’ sporche di terreno… ed i capelli, lievemente arricciati sulle punte.

Biondi, mescolati a qualche sparso tono castano.

Lo stringo più forte, aggrappandomi a lui, piangendo, urlando: perché nello stesso momento in cui lo vedo meglio, accade che sento chi sia e, contemporaneamente, mi sveglio.

È mio figlio.

Ma non è Hugo.

Credo persino di sapere che si chiama Alex.

“La prossima volta a colazione, direttamente il saccarosio! Te ne preparerò una ciotola piena, va bene, Alex?". 

"Mamma io sono Hugo".

"Perché, che ho detto?".
"Alex".

Mi sveglio singhiozzando, non riesco a stare ferma a letto, mi alzo febbricitante, corro in bagno piangendo e tappandomi la bocca con la mano per non farmi sentire da mio marito. E dover dare delle spiegazioni che non ho.

Non dormo più, ovviamente: dopo quel sogno, per essere corretti, non dormo per giorni.

Mi porto dentro quella sensazione, si accuccia nello stomaco mentre sono al lavoro, mentre sorrido slavata a mio marito, mentre accarezzo i capelli rossicci di Hugo, mentre osservo la trama traslucida della luce del sole dietro le tende tirate.

Quella sensazione non se la liquida il pensiero dell’assurdità del mondo onirico. Non se la porta via ammansita la razionalità, non la mitiga il senso comune, nemmeno la scienza e la logica intervengono pietose a portare requie.

Resta la sensazione: e diventa quasi una certezza, paradossalmente idiota, priva di senso.

La consapevolezza amniotica di avere un figlio che si chiama Alex.

… che, invece, non ho. 

 

 

8 gennaio

 

La prima cosa che faccio, non appena metto piede in ufficio il giorno successivo, è chiamare Leda, ingiungendole di fissare un nuovo appuntamento con l’uomo del giorno prima, quello che, nel mio delirio psicofisico ed emozionale, ho bellamente ignorato per ore.

Il clima mattutino particolarmente gelido, infatti, mi sferza e punge nell’orgoglio spingendomi a reagire e ad essere efficiente almeno nel campo lavorativo: posso permettermi di essere svogliata ed assente a casa mia, ma non in ufficio. Ne va della mia reputazione.

Una nottata poi miracolosamente libera da sogni di qualsiasi natura, mi rimette al mondo al punto tale di ritenere tutto come una suggestione della mia mente che, di fronte alla prospettiva di comprendere che il mio matrimonio non se la passa bene, sceglie tutta una serie di strade secondarie per farmi pensare ad altro. La spiegazione non regge in molti punti, ma oggi per fortuna riesce a suonare quasi convincente: resta il nodo del ricordo o pseudo tale con Malfoy, ma il fatto che lui non se ne preoccupi, visto che è praticamente scomparso anche da casa dei Weasley, spinge anche me ad ignorarlo.

Resta addosso un sapore bianco e grigio, quello della sua mente e dei suoi pensieri.

Sa di neve quando apri le labbra al cielo per assaggiarla.

Non si è mai innamorato in vita sua: ci penso nei momenti più imprevisti, è come un ritornello dispotico. Alita sulle mie spalle come il rantolo asincrono di un moribondo.

Assomiglia, poi, ad un martellare quando penso che, al mondo, solo io so questo di lui.

Ed è una specie di percussione in fondo allo stomaco che non se ne va mai.

Scrollo il capo come fossi disturbata da un insetto fastidioso, cercando di cacciare via ogni distrazione, mentre Leda, entrando nel mio ufficio con il solito ancheggiare, mi annuncia che Mr. Latimore arriverà di lì a poco. Schiocca poi la lingua infastidita, strascicando le parole seccata: “Era già al Ministero… era venuto a prendere la moglie dal lavoro…”.

Alzo gli occhi al cielo, ci mancherebbe che non aveva puntato anche questo povero disgraziato, ci avevo visto giusto ovviamente.

Trascorro i minuti successivi leggendo finalmente e con attenzione le pratiche dell’eredità Latimore che, il giorno prima, mi erano danzate davanti agli occhi come segni incomprensibili. Sono così persa ed assorta che, quando Leda bussa la porta lasciando entrare con un sorriso suadente Latimore e con un’occhiata torva sua moglie, ho la vista offuscata e il collo che mi fa male. Mi affretto però ad alzarmi e a salutare l’uomo con il sorriso più franco che mi venga fuori, al punto di farmi dolere la mascella mentre gli stringo la mano con calore a mo’ di risarcimento emotivo per la mia inefficienza del giorno precedente.

“Accomodatevi, signori Latimore…” dico gentile, indicando le due poltrone del mio ufficio.

L’uomo sorride con gentilezza sedendosi, poi soggiunge educato: “Non c’è bisogno di tanto formalismo, le avevo già detto ieri che potevamo benissimo darci del tu”, non serve ricordare che ho rimosso ogni particolare della conversazione del giorno precedente, quindi mi stringo nelle spalle a disagio, bofonchiando torva e cercando al contempo di ricordare i nomi dei due: “Potete chiamarmi anche voi allora per nome… siamo quasi coetanei…”.

Mentre ancora mi lambicco il cervello alla ricerca dei nomi completamente eclissati dalla mia mente, la moglie ispirata mi guarda intensamente e completa soffiando con voce morbida: “Siamo Christopher… ed Helder”.

Grata, mi do pena di guardare meglio la donna che, nella mia ansia riparatrice da torti del giorno precedente, non ho nemmeno degnato di uno sguardo. Sebbene la mia supposizione sul nostro essere coetanee è indubbiamente corretta, viste le carte che ho letto e che riportavano la sua data di nascita, per un momento temo di essermi sbagliata. La signora Latimore, infatti, ha il viso fresco ed innocente di una ragazzina imberbe: pelle liscia e bianchissima, levigata, assenti persino le rughe d’espressione. Porta i capelli castani corti sotto le orecchie, cosa che, assieme ai jeans e alla felpa rossa, le danno un’aria sbarazzina da liceale in vacanza. Giocherella con espressione spensierata con una piccola fede d’oro giallo all’anulare sinistro e, ogni volta che incontra il mio sguardo, qualcosa la spinge a sorridere in modo automatico come se fosse una sorta di riflesso condizionato.

La cosa che, però, subito desta la mia curiosità sono i suoi occhi: quando era entrata e le avevo gettato un’occhiata distratta, ero certa che avesse gli occhi chiari, azzurri, come quelli del marito.

Ora invece essi mi appaiono distintamente castano chiaro, dorati sul fondo.

Li osservo a lungo, non capacitandomi del fatto di aver visto male; lei, in risposta, sorride ancora, costringendomi imbarazzata a voltare il capo dall’altra parte.

Trascorriamo l’ora successiva a dirimere la loro questione legale, naturalmente ieri si erano molto preoccupati sull’esito della cosa, avendo il marito scambiato la mia disattenzione per consapevolezza di non poter fare molto di che: il fatto invece che oggi sia l’emblema della perfezione e sfoderi leggi e decreti con la perizia tuttologica che mi contraddistingue, conforta molto Chris sull’esito positivo della vicenda. Mi dice in tono casuale che hanno già avuto delle generiche “grane” con la legge e che, di conseguenza, preferirebbe non essere coinvolto più di tanto in meccanismi di tale tipo. Ovviamente, sorvolo sul punto glissando con discrezione, anche perché con un’improvvisa ondata di ricordo, rammento che la moglie era la sola figlia di Broderick Bode, ucciso ai tempi della Seconda Guerra da Malfoy senior per la profezia su Harry.

Suo padre.

Lo costrinse a sposare Astoria, dicendo che poteva tradirla come voleva dopo le nozze.

Lui non ha mai amato nessuna donna in vita sua.

Mi libero di nuovo di quell’associazione molesta di idee sorta dal nulla. Probabilmente Chris Latimore allude a questo e a tutte le magagne legali accadute dopo l’omicidio.

Guardo di sottecchi Helder Bode che, però, ha assorbito l’eventuale allusione al tragico evento con un nuovo estenuante sorriso nella mia direzione: stavolta, con una nettezza che mi fa capire di non aver sognato, noto distintamente che, per un attimo, i suoi occhi scoloriscono come se fossero slavati dall’acqua. Da castani, diventano… grigi.

Sul suo volto, paiono attaccati come in un collage di ritagli di giornale.

Quel colore è così dannatamente unico che, con sgomento, mi chiedo se oramai io non lo veda dappertutto, persino negli occhi degli estranei.

Mi artiglio al bordo della scrivania come se fossi sospesa sul precipizio e cercassi di reggermi per non precipitare.

Ancora una volta, però, le iridi di Helder Bode cambiano colore: l’argento fonde nell’oro, diventano uno strano miscuglio lucente, uniti come un metallo dalla foggia inespugnabile e inconsueta, inesistente, come uno strano esperimento di alchimia. Il suo volto, per un attimo, perde l’aurea compostezza e va a fuoco, arrossisce, sembra quasi accaldata.

Ma in un battito di ciglia che sono costretta a concedermi, torna alla stessa serafica espressione di prima, gli occhi stavolta scuri, marrone profondo, quasi nero.

Christopher Latimore, in tutto questo, come se fosse stato punto da una vespa, intercetta il mio sguardo e lo rincorre all’indirizzo della moglie che gli restituisce un’occhiata innocente e tersa. Le spalle dell’uomo si afflosciano, fa un mezzo sorriso sghembo e scuote la testa al limite della rassegnazione, contribuendo ad aumentare la mia curiosità.

Poi riprende a parlare del loro caso, cosa che consente anche a me di tornare a concentrarmi sul lavoro, confortata anche dal fatto che le mie rare occhiate in direzione di Helder Bode confermano che le sue iridi restano castano scuro, non più celesti, grigie o dorate.

Una Metamorfomagus? La risposta non mi convince del tutto. Non ha nulla del modo di mutare che aveva Tonks e nemmeno di quello che ha Teddy quando decide di fare ricorso al suo potere. La trasformazione in loro era (ed è) più graduale, persino quando è involontaria, ed interessa tutto il corpo. In Helder Bode, è troppo rapida e veloce, senza contare che interessa solo gli occhi.

Il resto del suo aspetto è rimasto assolutamente inalterato.

Resto con quella domanda in testa per tutto il residuo della nostra conversazione, nonostante esteriormente sembri il ritratto della professionalità. Continuo a snocciolare strategie difensive, facendo domande e prendendo appunti, mentre il mio sguardo scivola involontariamente di tanto in tanto sul sorriso snervante di Helder Bode. Leggo sommariamente nelle carte che Chris mi consegna che lui lavora in un negozio di Grimmuald Place e che lei, invece, è un’Indicibile.

Questo in parte mi risarcisce dell’aura particolare che circonda la donna: tutti coloro che ho conosciuto e che svolgono quella professione, hanno sempre avuto qualcosa di bizzarro, inconsueto, singolare. E decisamente Helder Bode non fa eccezione, sebbene in modo semplicistico ha forse semplicemente ereditato la posizione del padre, quindi non dovrebbe essere così automatico che mi sembri una persona singolare.

Eppure, se con gli altri Indicibili che ho conosciuto, compreso Bode senior, la loro particolarità si poteva coniugare in un carattere tetro ed inquietante, con lei assume decisamente il tono opposto: sembra quasi fastidiosamente gioviale, allegra, perennemente in pace con sé stessa.

Finalmente, con una punta di sollievo che non riesco a negarmi mettiamo a punto gli ultimi dettagli e i coniugi Latimore si alzano dalle loro poltrone per congedarsi. Mentre però Chris Latimore si incammina verso la porta, Helder gli destina una sorta di sguardo obliquo a cui fa seguire una scrollata di spalle noncurante.

Chris risponde allora con un lungo e malcelato sospiro, annuendo brevemente con il capo, prima di salutarmi nuovamente ed inforcare l’uscita, mentre la moglie non accenna a seguirlo.

Mentre la guardo interrogativa, lei si limita ad accostare la porta che il marito ha lasciato aperta, tornando poi sui suoi passi e fermandosi davanti alla mia scrivania, cosa che contribuisce ad aumentare il mio già precedente disagio. Resta per qualche attimo immobile, in silenzio, spostando il peso da una gamba all’altra, come se stesse cercando le parole per cominciare un discorso che, fino a quando era nella sua mente, filava perfettamente, ma che ora probabilmente si è perso nei meandri dei suoi pensieri.

La osservo mentre si torce le mani con nervosismo poi, vogliosa di darci un taglio, mormoro secca: “Volevi… parlarmi da sola?”.

Helder, scossa da un suo ragionamento interiore, quasi sobbalza, fa una sorta di piccolo saltello come se fosse stata attraversata da una scarica elettrica. Si allunga la felpa rossa sulle mani prendendo ancora tempo, prima di sospirare con aria contrita: “Già… e qui viene la parte difficile. Chris dice che dovrei smetterla di impicciarmi in faccende che non mi riguardano. Ma… forse inconsciamente…”, fa una piccola pausa, guardandomi poi con intensità: “…quelli con me si convincono che tutto sia una nostra questione personale”.

Quelli come me.

Dunque in lei c’è effettivamente qualcosa di diverso: qualcosa che la candida come appartenente ad una determinata categoria, umana o magica che sia.

La osservo ancora con sospetto, cercando di trovare mentalmente la quadra del cerchio, ma mi arrendo immediatamente. Abbandonando le braccia lungo i fianchi, asserisco sconfitta: “Non credo di riuscire a seguirti”.

Helder mi guarda allora con evidente senso di comprensione, annuendo tra sé e sé: “Hai ragione… partiamo dall’inizio…”, si siede nuovamente sulla poltrona davanti alla mia scrivania, costringendomi controvoglia a fare altrettanto.

“Pensi che in me ci sia qualcosa di strano…” pronuncia stentorea, potente, senza alcuna inflessione di domanda, gli occhi che lentamente si riempiono di nuovo di scintille più chiare, risplendendo nella luce del primo pomeriggio come pezzi di agata. Rincara, sporgendosi lievemente: “Te ne sei accorta”.

Ancora, nessun accenno di domanda.

Solo una lapidaria affermazione.

La cosa mi fa raddrizzare sulla sedia, gelandomi la nuca: una tale precisione prelude ad una sorta di incantesimo che, so per certo, non mi ha assolutamente somministrato. Torno a guardarla con diffidenza ed una vena di timore che, in modo automatico, porta la mia mano a cercare la bacchetta nella mia tasca. La sua legnosa presenza mi rassicura al punto di riprendere a parlare, sebbene senta la bocca impastata: “Come… fai a saperlo?”, osservando poi i suoi occhi ancora chiari, molto più di prima, mi azzardo ad aggiungere: “Cosa… sei?”.

Un’Indicibile” replica lei velocemente, spavalda, sistemandosi meglio sulla poltrona in modo ozioso.

La risposta naturalmente mi irrita ed innervosisce, irrigidisco la mascella con un singulto autentico di fastidio: “Non è solo questo… non girarci attorno per favore…”.

Gli occhi di Helder hanno a quel punto una sorta di contrazione involontaria, come uno spasmo delle palpebre. Si fa piccola sulla sedia e sussurra melodiosa, a mo’ di scusa: “Toccata. Ammetto che mi piace parecchio pungolarti… la tua testa va in tilt se non capisci qualcosa. E’ divertente da osservare, credimi. I tuoi pensieri somigliano a delle girandole colorate che scoppiettano”.

Conclude il tutto stringendosi nelle spalle e guardandomi timida come se fosse una bambinetta scornata. Gli occhi si scuriscono di botto, come se accogliessero delle nubi dense.

Taccio e di nuovo mi coglie quel senso scomodo di imbarazzo, mentre sento i pensieri e le teorie rincorrersi nella mia testa come se fossero cavalloni impazziti dal vento, schiumano ragionamenti che, per paura che siano ascoltati dalla mia interlocutrice, metto a riposo in una stasi narcotica di silenzio che mi impongo con ferocia, causandomi un formicolio diffuso sulle tempie.

Ha alluso ai miei pensieri, come se li vedesse.

“Sei una Legilimante?” chiedo in punta di piedi, mordendomi l’unghia del pollice con nervosismo.

In realtà comprendo subito che la mia teoria è inesatta. Non esiste nessuno che permanentemente riesca a leggere i pensieri altrui, se non altro perché è qualcosa che, da ogni testo magico, viene riportata come una manovra che prosciuga le energie.

Fosse anche che avesse letto i miei pensieri con un incantesimo silente, oltre ad avvertire la sensazione di intrusione nella testa, avrei anche colto in lei qualche segnale di progressiva stanchezza. Invece, è fresca come una rosellina di campo.

E poi… che utilità doveva ricavare dai miei pensieri? Che diamine voleva sapere? Ripercorro velocemente le tappe della nostra conversazione alla ricerca di qualcosa che poteva destare il suo interesse, ma non trovo nulla di che, se non la trattazione legale del loro caso.

Penso che anche i miei pensieri fossero pieni di nozioni giuridiche, non insomma un romanzo illustrato di sommo interesse.

Ho pensato a Draco Malfoy una sola volta.

Decisamente il mio record al ribasso.

La constatazione mi fa sudare i palmi ed arrossisce il mio viso, Helder sembra ancora intuire qualcosa dal mio aspetto che, instancabile, la fa sorridere nella mia direzione.

Sono un’Empatica…” sussurra lieve in un solo respiro, inclinando la testa di lato “Può darsi che persino tu non ne abbia mai sentito parlare”.

Sobbalzo autenticamente sorpresa e la guardo con una nuova fiammata di curiosità sorda, puntellandomi sulla sedia come se fossi di fronte ad una specie di drago a tre teste o una celebrità. Ogni cosa del suo aspetto comunica una normalità quasi fastidiosa, banale. Ed invece è una creatura rarissima, qualcosa che, fino a questo momento, non credevo nemmeno che davvero esistesse.

Non ne so moltissimo, rammento solo delle nozioni sparse su un libro di testo del corso per la specializzazione per le professioni ministeriali. Si inserivano gli Empatici in un nutrito gruppo di esseri leggendari, destinandoli a particolari regimi legali. In quell’occasione, lessi solo che sentivano i sentimenti altrui come se fossero propri, bastava che guardassero anche una fotografia, si concentrassero per avvertirne l’energia mistica e potevano sentirne il cuore anche a chilometri di distanza. Erano un circolo ristretto dalle regole tramandate in modo esclusivamente orale, fuori dalla loro cerchia si sa poco quanto niente dei loro poteri ed anche di come siano organizzati.

Il silenzio si prolunga per molto, come se Helder Bode volesse darmi tutto il tempo di metabolizzare l’informazione e ricostruire ogni tassello delle mie conoscenze per avere un quadro preciso di lei. Ma, con frustrazione, termino la mia ricerca mentale in pochissimo tempo e commento con una punta di impotenza mortificata: “Ne avevo letto una volta… ma credevo che fosse una specie di leggenda”. 

Helder, contrariamente al mio senso contrito di malessere per la mia scarsità di conoscenze, pare invece colpita, quasi entusiasta: “La tua fama è decisamente meritata, Hermione Granger…”, sposta con una mano un fermacarte senza alcun apparente bisogno, prima di dire piatta: “Il mondo continua ad essere più carico di sorprese di quanto pensiamo, a quanto pare. Noi Empatici non siamo tantissimi, il nostro ordine conta poche migliaia di persone nel globo. Però… esistiamo. Decisamente. Ne sono la prova evidente”.

Collego velocemente il particolare che non mi tornava di lei, rendendomi conto quindi che non avevo immaginato nulla.

“Gli occhi che cambiavano colore… mi stavi… percependo?” completo non del tutto sicura di aver utilizzato il termine esatto. Non conosco ovviamente i poteri degli Empatici, ma il fatto che, per qualche sparuto secondo, i suoi occhi sono diventati molto simili ai miei, sembra dare ragione della mia tesi.

Lei sorride ancora incoraggiante e timida, aggiungendo: “Sì, scusami la violazione della privacy. Non avverto nulla di particolarmente preciso, non ho questo potere, quindi non credo di profanare nulla di eccessivo di chi viene a contatto con me. Riesco a sentire solo le sensazioni, i sentimenti. Li percepisco come se fossero miei. È una cosa che fa parte di me. Potrei controllarla, intendiamoci…”, sospira lungamente come se stesse affrontando un discorso già sostenuto, qualcosa che la tedia profondamente “…però dopo tanti anni è come… dover controllare il respiro, o il battito delle ciglia. Non ci pensi, no?”. Cerca assenso nel mio sguardo e, in un afflato di comprensione, annuisco piano senza sapere cos’altro potrei aggiungere di diverso.

Lei allora sembra cogliere la mia indecisione, forse la fraintende con una sorta di reticenza per il suo andarsene in giro a scandagliare gli animi umani quindi si affretta a replicare, incespicando sulle parole: “Potresti obiettare dicendo che la mia capacità riguarda però le altre persone… quindi, come dice Chris, sarebbe corretto porsi un freno e non sondare continuamente gli altri senza che nemmeno se ne rendano conto. Se però lui sentisse quello che sento io, capirebbe…”, si massaggia il collo con stanchezza, come se fosse improvvisamente affaticata, sebbene nessuna parte di lei rechi tracce di una qualche forma di fatica.

Torna quindi a guardarmi colpita, piegando un po’ la testa di lato, come se stesse cercando di imprimersi qualcosa nel cervello analizzando la mia immagine. Le restituisco uno sguardo torbido, fosco, mentre mi stringo nelle spalle.

“Chris capirebbe…” rincara quindi con un filo di voce “… se avesse sentito… te”.

La confidenza del pronome personale mi colpisce traditrice tra le costole, come una sorta di dardo fiammeggiante. Sussulto, trasalgo, ancora una volta spasmodicamente presa dall’esame delle mie sensazioni durante il nostro colloquio. Ma non ci trovo, di nuovo, niente di trascendentale.

Non legge i pensieri, quindi cos’altro può aver sentito di particolare in me?

Forse ero annoiata? Per uno sciocco momento, penso che possa aver sentito meno che abnegazione alla mia professione e che, per questo, voglia tipo fare rapporto al Ministro. Ma mi parrebbe una elucubrazione mentale davvero pessima. Senza contare che comunque sono stata professionale e precisa nel mio lavoro.

Con una subitanea illuminazione ricordo che, solo qualche settimana fa, anche la profetessa Tatia con la figlia Charlotte mi avevano fatto sentire “strana”, come se fossi una specie di fenomeno da baraccone, alla pari di un dinosauro che cammina per Londra.

E pensare che, alla scoperta della sua natura, credevo io di aver guardato così Helder.

Remissiva, mi abbandono allo schienale della sedia e do voce ai miei pensieri con aria stufa: “Qualche settimana fa, una Profetessa ha candidamente ammesso che ho un’aura strana. Grigia, ha detto. Ora un’Empatica… dovrei fare una sorta di screening preparatorio all’ingresso”.

Helder assorbe il mio commento sarcastico con una risata genuina che ha il significativo dono di alleggerire un po’ l’atmosfera, mentre commenta divertita: “Se per i casi umani con cui lavori, lo sei diventata tu… un caso umano, intendo… forse dovresti porti due domande”.

“Se sapessi quali domande pormi, lo avrei già fatto” bercio scocciata, massaggiandomi la tempia con il pollice, descrivendo linee circolari. Non penso di andarmene in giro con una sorta di insegna luminosa che mi candida a “individuo potenzialmente da studiare”.

Eppure, è la seconda volta che mi accade.

D’un tratto, con una colata gelida sulla nuca, metto nello schema tutte le bizzarrie che mi hanno colpito ultimamente: e se ci fosse davvero qualcosa di strano in me?

Mangiandomi l’interno della guancia con frenesia, allungo il calderone di pensieri, apparentemente dimentica di Helder. Il ricordo mai vissuto, il figlio mai esistito.

Non mi fermo a quello però: mulinano i pensieri e conto la strana distanza da mio marito, dai miei figli, dalla mia famiglia. E poi, con un tonfo sordo nel petto, arrivo alla parte peggiore.

Malfoy. Draco.

Sono corsa a casa sua nel cuore della notte di Natale.

Mi fido di lui più che di me stessa.

Conosco il suo segreto più profondo.

Non riesco a smettere di chiamarlo Draco nella mia testa.

Scrollo il capo, è ovvio che ogni strano personaggio che capiti a tiro mi vede avvolta da un alone di anormalità. Ci manca solo che mi spunti una coda da barboncino ed inizi a parlare in babilonese stretto, e siamo a posto. Magari adesso ci capirò qualcosa. Tatia Krasova mi ha incasinato la testa, magari Helder Bode me la snebbia un po’.

Chiedo perciò incerta ed esitante, ma con una sferzata di coraggio: “Cosa hai visto in me?”.

Lei mi studia ancora con profonda attenzione, pare cercare sempre le parole giuste per spiegarsi nella maniera migliore possibile. Probabile che, se il suo potere deriva dalla percezione delle sensazioni, non sia così semplice articolare tutto in parole intellegibili.

I suoi occhi, tinti di vaghi riflessi bronzei, corrono per un attimo fuori dalla finestra, ci incespicano sulle nuvole ritagliate dal cielo, come a cercarne un suggerimento tacito che non so se riesce a trovare.

Poi, tornando a me che inizio a spazientirmi, sorride brevemente ed asserisce rassicurante: “Non parlerò del tuo cuore. E nemmeno di quel tarlo che ti attraversa la mente”.

“Un… tarlo?” mi ritrovo ad aggrapparmi ancora all’orlo della sedia, le unghie grattano sul tessuto un po’ consumato sugli angoli e pendo dalle sue labbra come se fossi una supplice in attesa di assoluzione.

Non faccio ovvia fatica a capire di che cosa stia parlando. Anzi, di chi sta parlando.

La domanda retorica è solo il tentativo patetico di nasconderlo alle mie stesse volizioni, ai miei stessi pensieri. Quando invece so perfettamente che se ne sta lì, smisurato e spaventoso, a prendersi gioco di ogni singolo gesto, movimento e sguardo, che per somiglianza di contenuto mi riporteranno indietro.

Fino a quando non lo sa nessuno, se me ne dimentico, non è mai esistito.

Helder mi riserva ancora uno sguardo carico di insopportabile indulgenza, di una specie di dolcezza frammista ad una sincera pena, che corrode acre il mio stomaco. Però, nonostante cerco di farle capire con lo sguardo di non andare oltre, lei prosegue intraprendente, come se d’un tratto avesse perso ogni remora ultima di inibizione: “E’ qualcuno… che macera i tuoi pensieri. Non ho mai visto una definizione così calzante della lingua che batte dove il dente duole. E’ una specie di riflesso condizionato. Ci pensi in continuazione, persino quando non te ne rendi conto. Ci sono poche persone fatte per essere indimenticabili. Credo che lui… chiunque sia… sia una persona indimenticabile. Un tempo, persone così venivano chiamate Zahir”.

La gola mi si secca ancora di più, mi sento esaminata come se fossi imputata di un processo, prossima al rogo. L’incendio lo sento persino stagliarsi contro le mie membra, ne assaggio il calore mortale, ne suda ogni cellula del mio corpo, avvolge di spire terribili di cenere l’aria che respiro.

Helder non legge nel pensiero, me lo ha detto, lo so persino io da quel poco che conosco degli Empatici: altrimenti sarebbero Telepati o Legilimanti.

Sono solo sensazioni, eppure senza alcuna esitazione ha detto lui.

Cosa c’è nei miei pensieri per coniugarli subito al maschile?

Terrorizzata da qualsiasi corollario di quella constatazione, biascico immediatamente, la voce acuta e stridula, alzandomi in piedi nervosa: “Non è una persona indimenticabile. Non è nemmeno uno Zahir-qualcosa-o-come-diamine-si-chiama. E’ qualcosa che… non capisco”. Lo aggiungo con una repentina intuizione che rimette tutto in prospettiva. Rifacendomi alle sue parole precedenti, mi glorio felice di professare: “E’ una maledetta girandola colorata, come hai detto tu”.

“Dalle dimensioni lo definirei piuttosto l’intero spettacolo pirotecnico del 4 luglio” sogghigna Helder saputa, riservandomi l’ennesima occhiata ilare.

“Avevi detto di non voler parlare di questo” replico piccata, tornando a sedermi e distogliendo lo sguardo da lei.

Helder pare colpita dal mio riferimento alle sue parole precedenti, come se si fosse posta un limite che ovviamente non ha rispettato e ciò le dolga non poco. Quindi si affanna a proseguire monocorde: “Certo, sorvoliamo. Non so cosa fosse l’aura grigia che vedeva la Profetessa. Ma so cosa vedo io…”, fa una pausa studiata, ad effetto, a verificare che io sia ancora attenta e presente ad ascoltarla. Annuisco con il capo, sporgendomi per ascoltarla, mentre lei sussurra in un fiato sofferente: “Vedo… magia… nera. La più potente che abbia mai visto. So di che cosa sto parlando. Ho incrociato un Horcrux di Voldemort tanti anni fa, prima che fosse distrutto da voi. E certo, non era una passeggiata di salute sentirlo… ma aveva qualcosa di umano dentro. Di terribile, ma umano. In te, invece, ci sono le tracce di una Magia così oscura che… pare quella di un demonio. Non c’è niente dentro. Solo freddo, tenebre, potere smisurato”.

La rivelazione mi scompagina il respiro, mi pare che un’enorme iceberg ghiacciato mi si sia parato innanzi e io non abbia alcuna forza o potere per poterlo schivare.

Devo solo prepararmi all’impatto.

Penso automaticamente a mio marito, ai miei figli, alla mia famiglia, al tenerli tutti al sicuro. Il fatto che Helder parli di qualcosa peggiore di Voldemort, arresta il battito del mio cuore.

In nessuna mia fantasia necrotica di angoscia, ho mai concepito un male peggiore di quello. E’ una sorta di vertice massimo della malvagità, una vetta di depravazione per cui ogni criminale, ogni ladro, ogni assassino è da considerare strettamente e fortunatamente al ribasso.

Ora, invece, viene alluso a qualcosa di peggio, qualcosa che ha scelto me come vittima, qualcosa che mi si para nella testa in modo evidente per profeti ed empatici, ma che invece per me non ha alcuna tangente cognizione, cosa che mi lascia assolutamente priva di difesa.

Mi concentro sul mio respiro, veloce, ansante, irregolare, quasi a volerne trarre rassicurazione, ma non funziona ovviamente. E non funziona nemmeno quando, con una punta di sollievo nel fondo del ventre, noto persino che mi rassicura essere vittima di un incantesimo.

Perché forse significa che c’è davvero qualcosa che non va in me.

Il cauto senso di inoperosa gioia si stempera subito, considerando quanto resta senza risposta a questa prima rivelazione. Helder continua a guardarmi accorata, tentando inutilmente di tranquillizzarmi con lo sguardo, cosa che per inciso non ha alcun risultato.

“C-cosa potrebbe essere?” chiedo quando sono certa della fermezza della mia voce.

“Bella domanda…” risponde lei autenticamente costernata “Posso solo dirti che sei stata sicuramente incantata da qualcuno. Difficile è sapere come e da chi. C’è stato qualcosa di diverso in te negli ultimi giorni?”.

Il sollievo ritorna prudente, sbrilluccica come un lumicino nella nebbia spessa ed opaca.

Mi affanno a spiegare agitando le mani, un prurito negli occhi che metto a tacere con fastidio: “Non so nemmeno da dove dovrei cominciare. Ho… vissuto un ricordo. Quello che sembrava essere un ricordo. Che io non ho mai vissuto. E… talvolta…”. Mi fermo a disagio, incapace di proseguire, mentre metto a fuoco quella sensazione di strappo che avverto dentro di me, come una specie di taglio nel vivo, suppurante di strazio.

Helder mi incoraggia a proseguire, allunga una mano calda che copre la mia, artigliata sulla scrivania. Accetto la carezza con gratitudine, sospingo il groppone giù per la faringe e proseguo incerta, come se facessi fatica a ricostruire il pensiero e a presentarlo fuori di me stessa: “… sono convinta di avere un figlio che non ho mai avuto. Penso persino di sapere come si chiama. Credo…. credo che si chiami Alexander, come mio padre…”, i miei pensieri si ingarbugliano come se avessero una volontà propria, intricata e terribile di sfuggire al mio controllo. E’ la prima volta che ad alta voce esprimo quel pensiero, che do voce a quell’immagine, che pronuncio quel nome, e mi pare di sentirmene consumata dall’interno come cera di una candela.

Di notte, la nettezza di quell’immagine è sconcertante, posso persino ricostruire il profumo di quel bambino sconosciuto. Mi avventuro nel riconoscere il suono argentino della sua voce, mi azzardo a pensare che gli piaccia il colore azzurro, che mangerebbe solo brownies, che detesta le carote.

Di giorno, faccio fatica ad afferrarne una qualsiasi nozione, come se fosse una sorta di miraggio pigro: lascio ai sogni, come a briciole di Pollicino, di ridarmi il puzzle di questo bambino.

Di cui non conosco nemmeno il viso, ma a cui mi sento così legata da strapparmi le viscere.

Helder mi lascia perdere nei miei pensieri, prima che le chieda esausta, un peso sullo stomaco: “Può avere senso secondo te?”.

Lei ci riflette autenticamente su, non prima di avermi gettato un’occhiata in tralice che è quasi stucchevole, dolciastra, per la tenerezza che ci mette in modo istintivo, come a riconoscermi sempre la vittima di un feroce incanto che mi sta togliendo il senno. Il suo sguardo, paradossalmente, invece che innervosirmi mi rassicura moltissimo: pensare che ci sia un vero ed autentico problema, mi fa sentire a posto con la coscienza, mi permette di sentirmi meno colpevole se vado a comparare lo strappo al ventre per il bambino sconosciuto e i sentimenti che provo di amore infinito, immenso, per Rose ed Hugo.                                                                                                      

“Tutto può avere senso…” termina lei con decisione, guardandomi ancora con amarezza “La gente si è persa anni dietro incantesimi e fatture del genere. Creati apposta per minare la mente, per farti dubitare del reale, per portarti alla follia. Ciò che è più potente nell’animo umano è il rimpianto. L’anatema del se fosse. Maledizioni simili si insinuano come vermi nel pensiero e, lentamente, lo svuotano. Fino a quando non hai più cognizione di te stessa”.

Chi diamine può avermi fatto una cosa del genere? E perché?

Rincorro teorie e nomi per diversi minuti, assentandomi completamente. Devo scavare nella memoria e tornare ai tempi della guerra per trovare qualche sospettato convincente.

Soprattutto per qualcosa che non è difficile riconoscere, dopo un primo esame della questione. E cioè che, se davvero esiste un Incantesimo, non ha solo me come vittima, ma anche Draco Malfoy. Non l’ho più sentito e nemmeno visto, però quella specie di ricordo lo ha vissuto anche lui, c’era anche in esso. Probabile che, dopo gli siano successe altre cose strane come i miei episodi onirici.

Se però il nesso tra me e Draco Malfoy è piuttosto scontato, lo diventa meno quando cerco di andare a ritroso nella mente per individuare un eventuale responsabile.

I miei nemici non possono essere quelli di Malfoy, anzi realisticamente è l’esatto contrario. Se c’è qualcuno che sta maledicendo me, mi pare improbabile che lo stia facendo anche con lui, sostanzialmente perché, sebbene in termini più liquidi e meno netti, siamo dalle parti opposte delle ideali barricate in cui è diviso ancora il mondo.

Chi potrebbe voler fare del male ad entrambi?

“Cosa dovrei fare?” chiedo a corto di idee e risoluzione ad Helder. Per un attimo, riconosco dentro di me una sorta di spinta istantanea a mettermi nelle sue mani, pare un’eco dimenticata di consuetudine, sebbene non la conosca e sebbene sarebbe stato più naturale per me dubitare delle sue parole come prima cosa, invece che accettare la sua versione dei fatti come oro colato.

Invece, non ho il benché minimo dubbio che non stia dicendo menzogne, anche se sono la diffidenza fatta persona in altri contesti.

Mi basta guardarla negli occhi, anche quando diventano di un altro colore.

“Devi farti aiutare da chi ne capisce di più in queste cose…” dice convincente, facendo un enorme sospiro di impotenza malcelata “E purtroppo non sono io. Mettiamo anche che io abbia scoperto il sintomo… ma per la diagnosi ci vuole qualcuno di esperto. In Magia oscura”.

“E a chi potrei rivolgermi? All’Ufficio Auror? Al Ministro?”.

“Per quanto siano lodevoli soluzioni, Hermione, io andrei alla radice del problema. Cercherei prima di tutto di capire di cosa si tratta. E c’è solo una persona che può aiutarti in questo…”, penso a decine di persone a cui si possa star riferendo, ma Helder tronca sul nascere ogni mia riflessione, pronunciando sicura: “L’insegnante di Difesa contro le Arti Oscure di Hogwarts. E’ il più grande studioso vivente di incantesimi di questo tipo. Si chiama… Ilai Radcenko”.

Il nome accende subito una tremula spia di riconoscimento nella mia testa, mentre riavvolgo il nastro dei giorni natalizi che mia figlia ha passato a casa: alle copiose domande che le ho fatto sull’inizio dell’anno scolastico, naturalmente da brava adolescente è sempre rimasta laconica e reticente. E’ stata prolissa solo quando ha parlato dell’insegnante di Difesa contro le Arti oscure.

“E’ un grande, mamma!”, la cui difficoltosa perifrasi è stata solo che è un uomo abbastanza giovane e piacente, ma al contempo molto preparato e che ha dei metodi di insegnamento moderni e coinvolgenti.

L’entusiasmo pare, però, bipartisan: ne hanno parlato benissimo anche Albus, a conferma dei racconti di James dello scorso anno. Stessa cosa ha detto anche Ginny, quindi penso che dovrebbe essere assodato che sia esperto nella sua materia.

Annuisco all’indirizzo di Helder: “Credo che me ne abbia parlato mia figlia Rose”.

“Vedrai che saprà aiutarti…” mi tranquillizza Helder, tornando a stringermi la mano con calore, poi un’ombra le vela lo sguardo, rendendolo plumbeo, quasi nero “So per esperienza che è il migliore in queste cose”.

“Faccende da Indicibili?” concludo automaticamente, guardandola con curiosità.

“Sì, mettiamola così” sorride lei, alzandosi in piedi e facendo cenno di congedarsi. Mi lascia con una nuova serie di rassicurazioni, portandomi anche esempi di sue conoscenze che hanno avuto problemi simili e le cui vicende si sono concluse positivamente. Mi dà anche il suo recapito, dicendomi che per qualsiasi cosa, posso chiamarla per chiederle consiglio.

Mi dà un buffetto sulla guancia prima di uscire, ed è allora che risorge dentro una domanda enorme che mi oscura quasi la vista.

La afferro per un braccio, trattenendola con un singhiozzo che vorrei tenermi dentro, ma viene fuori lo stesso. Sussurro, timorosa di sentire qualcos’altro di terrificante: “Hai parlato del mio cuore… cosa… cosa hai visto?”.

Gli occhi di Helder tornano dello stesso colore dei miei, paiono brillare nella semioscurità come fulmini di ambra. La sua mascella si indurisce e sembra improvvisamente furiosa, sconvolta, attonita.

Poi si sgonfia, torna al suo sguardo normale, mi stringe la mano, cercando di comunicarmi qualcosa oltre le parole che, però, rimane sospeso anche quando esce, portandosi dietro un odore di mughetto e limone che resta impregnato nelle pareti.

Come le sue parole, nella mia testa.

“E’ una cosa che non ho mai sentito. Come soffocare con la terra un rogo enorme. Come se ti avessero svuotata con un cucchiaio, Hermione Granger. E’… atroce. Sei sostanzialmente… cava. Vuota. Pochi orpelli di emozioni, lasciati a penzolare, sospesi… attorno ad un vuoto. Hai una voragine dentro… dove prima c’era un amore grande”. 

 

 

20 gennaio

 

Il rumore della carta, mentre la straccio e frantumo in mille pezzi, suona come una specie di ulteriore beffa, come se si umanizzasse al punto di ridermi contro, addosso, ovunque.

Per sfogare ancora di più la rabbia e la frustrazione represse, afferro la bacchetta dal comodino ed incendio repentinamente i frammenti rimasti: sfrigolano sul parquet come schegge prima di annerirsi e diventare polvere.

Il gufo di casa, Dante, ancora un po’ affannato per il lungo volo nel cuore della sera ghiacciata di brina e per l’altrettanto istantaneo ritorno a casa, osserva i miei movimenti facendo frullare le ali marroni spazientito, in attesa della sua ricompensa. Meccanicamente, la testa ingolfata, mi alzo in piedi, le molle del materasso stridono come in un orrendo film dell’orrore. Raggiungo la piccola vaschetta di bocconcini sul davanzale, gli consegno il suo pasto e Dante vola via, descrivendo una voluta nel cielo grigiastro a mo’ di freccia nera che resto a guardare inebetita per un po’, il vento freddo sul viso.

Mi sveglia dal torpore il cigolare della porta della camera da letto che si apre, mi raddrizzo eretta e, rapida, mi chino alla specchiera simulando gli ultimi tocchi di un maquillage che non ho nemmeno cominciato.

Ron entra in camera con i capelli ancora lievemente umidi dopo la doccia, si chiude i bottoni della camicia attentamente, timoroso di saltarne qualcuno, guarda la mia schiena e resta immobile, congelato, un accenno di respiro trattenuto. Mi chiudo nelle spalle in silenzio, come se ogni minuto di attesa gli portasse alle narici l’odore della carta bruciata.

Poi, con evidente simulata nonchalance, si siede sul materasso, armeggia con il maglione e le scarpe e mi chiede tranquillo, la voce impostata: “Sei pronta?”.

Annuisco con il capo, sollevando il pennello del blush e sventolandolo come un vessillo militare: “Quasi… se sei già pronto e Hugo sta dando di matto, puoi anche precedermi”. Il cuore mi batte in petto in attesa della risposta, accelera quando lo sento alzarsi e venirmi alle spalle, non incrocio il riflesso del suo sguardo nello specchio, fingendo profonda concentrazione, mentre le dita tremolano un po’.

Il suo sospiro, greve, sordo, pesante, mi solletica la nuca scatenando i brividi sulle braccia, mentre in un afflato rapido e malinconico sussurra: “Certo”.

Sospiro anche io, concedendomi dei gesti più lenti e misurati, aspettando che inforchi l’uscita, mentre raggiunge nostro figlio che sta già saltellando in preda all’entusiasmo, facendo ballare le assi del pavimento della scala.

“Ho visto volare Dante fuori dalla finestra poco fa…” la voce di mio marito mi sorprende come la canna metallica di una pistola alla nuca, quando pensavo di essere già virtualmente al sicuro. Deglutisco la poltiglia acida e nauseabonda che mi chiude la faringe e mi aggrappo alla maniglia di un cassetto, aprendolo senza necessità alcuna e tirandone fuori un foulard azzurro che non potrei mai indossare adesso, essendo troppo leggero. Eppure fingo di guardarlo con interesse come se stessi decidendo se è adatto o meno all’occasione. Nella trama di fili di cotone e seta, cerco delle parole, cerco l’espressione adatta, la cadenza, il respiro disattento sfuggito per caso.

Atteggio la fronte ad una piccola riflessione, poi la spiano automaticamente come se la risposta alla domanda di Ron fosse fiorita adesso, inconsapevole, nel silenzio di una cosa poco importante. Aggiungo quindi scontata, dandogli ancora le spalle ed agitando la mano con indifferenza: “Lavoro, sempre lavoro… basta prendersi due ore libere e Leda va in panico”.

La bugia è talmente convincente che Ron riesce persino a riderci su, sebbene so persino dal suono che la risata fa alle mie orecchie che è un verso gutturale, statico, di mera cortesia. Mi saluta con un respiro di bacio sulla nuca, sebbene ci vedremo tra pochi minuti, pare sempre che mi dica addio, e si Smaterializza con Hugo per mano che, nel suo entusiasmo da bambino, non dismette per un secondo gli urletti alla “Sbrigati papà!”.

Non appena capisco di essere sola in casa, non appena prevalgono nel silenzio di nuovo i rumori sottili del legno che si assesta, la mia mano lascia cadere il pennello e il piumino della cipria, che atterrano sulla specchiera con un tonfo che risuona per mille e mille volte. Nascondo il tremore delle mani tra i capelli, mentre mi chino piegata e nascondo il viso tra le braccia: gli occhi restano spalancati e fissi nel buio che creo con il mio stesso corpo, mi concentro solo sul respiro e sul battito irregolare del cuore, isolando fuori da me stessa le lacrime che, minacciose, mi arrivano agli occhi e si mangiano già il mascara che ho messo distrattamente, irregolarmente, senza alcuna attenzione, solo per avere la scusa di restare qui ancora un altro po’.

Quella consapevolezza mi riporta in piedi, come se in modo confuso persino io sapessi che lasciarmi andare significa dare ogni volta di più l’alibi all’inedia di trascinarmi via, in basso, senza farmi più risalire. Cerco allora un vestito nell’armadio, faccio mente locale su dove sia finita la mia camicia glicine, sistemo il trenino rosso che Hugo ha lasciato in giro per la stanza, apro il portagioie sul comodino e ne tiro fuori due orecchini lucidi, d’oro giallo, a cerchio, che mi ha regalato Ron per il nostro anniversario. La tenerezza mi chiude la gola, mi spinge a fermarmi ancora immobile e a sedermi di nuovo sul letto, sfinita, spossata, come se nemmeno un altro singolo passo mi fosse minimamente possibile.

Ed è allora che il mio piede nudo, libero delle pantofole che ho lasciato sotto la specchiera, tocca con l’alluce un altro piccolo frammento di carta: si spezzetta nelle mie dita che lo raccolgono, ma non prima che io abbia letto di nuovo l’indirizzo del destinatario, il sangue che mi va alla testa lasciandomi esanime nel resto.  

Draco Lucius Malfoy, Malfoy Manor.

Stringo le labbra, sapere di essere stata probabilmente maledetta è stata una consolazione.

Dopo l’incontro con Helder, è stato come se ogni cosa si deformasse in preda ad un insperato respiro di sollievo: pareva tutto più tenue, più sussurrato, più combaciante tra sé e sé come se avesse trovato posto.

Per i primi giorni, non ho fatto altro che enumerare nella mia testa, come se fossero punti di una lunghissima lista, tutti i particolari di me che sembravano stonare da mesi, settimane, giorni, con la consolazione che Helder non aveva potuto fare alcuna stima sulla durata della mia maledizione. I bulbi vitrei nel buio delle stanze, contavo e ricontavo, smontando la mia vita pezzo per pezzo ed unendo come con i puntini della Settimana Enigmistica ogni traccia anormale, strana, difforme: la nausea, il fittizio ricordo, il sogno falso sul bambino.

Arrivavo poi, con febbrile rapidità e immediata consolazione, alla sensazione di estraneità con la mia famiglia, al rancore per Ron, alle trascuratezze per i miei figli, fino a giungere come in un piano inclinato a 90°, a quel subitaneo senso di fiducia per Draco Malfoy e a quella corsa forsennata a casa sua la sera della Vigilia di Natale.

Anche l’accenno orribile al mio cuore è diventato una specie di disco rotto che, con voce metallica, ripeteva la cantilena di una maledizione che era giunta persino a togliermi Ron dal cuore.

Una voragine dentro… dove prima c’era un amore grande: poteva essere solo questo.

Posso persino dire che, di primo acchito, la scoperta di essere stata fatturata mi ha reso allegra e vitale come non ero da mesi. Ho iniziato a prendere una pozione per evitare i sogni notturni, così da non rivedere più il bambino e non provare più quello straziante senso di distacco. Dopo qualche giorno, ho anche iniziato a fare delle ricerche, una volta messo a fuoco che essere stata maledetta non era qualcosa su cui rallegrarsi e che poteva comportare che mettessi a rischio le persone che amo.

Helder mi ha garantito il massimo aiuto possibile, da parte sua si è offerta di cercare qualsiasi informazione utile, ma io da sola nelle pause del lavoro o nell’attesa che la cena finisse di cuocere, ho iniziato in modo affannoso a spulciare libri, interrogare testi, fabbricare congetture, realizzare schemi. Non ho scoperto moltissimo, ci sono decine di maledizioni che potrebbero avere in comune parte dei miei sintomi. Nemmeno scandagliare il mio privato, ha portato ad un qualche sospettato: le piccole antipatie ed avversioni sembrano sempre troppo insignificanti per portare ad un incanto simile, definito peraltro più oscuro dei malefici di Voldemort.

Lì, d’altronde, la mia mente si incaglia: immaginare Voldemort è già sentire la mente invasa da acre fumo nero di tomba, morte. Immaginare qualcosa di peggio, è qualcosa che non oso nemmeno arrivare a concepire lontanamente.

Mi sono allora focalizzata su colui che Helder mi aveva indicato come probabile risolutore del mio problema: l’insegnante di Difesa contro le Arti oscure. Ilariy Nikolaj Radcenko.

Ogni parte del suo curriculum è parsa assolutamente impeccabile: sulla quarantina, di origine russa, diplomato a pieni voti a Durmstrang, estraneo a qualsiasi vicenda oscura, perfeziona i suoi studi con la conoscenza delle antiche scienze alchemiche durante un lungo soggiorno a Kathmandu, senza contare ricerche sulle maledizioni sciamaniche in Patagonia, sui demoni mistici in Giappone e persino sui principi più avanzati della fisica, quando per diversi anni vive a Boston e frequenta il Dipartimento di Fisica di Harvard. Vive in Inghilterra solo da qualche anno, continua le sue ricerche ed intanto si dedica all’attività accademica presso Hogwarts, che si è sempre ritenuta enormemente fortunata ad averlo come insegnante.

Radcenko, peraltro, in ulteriore ossequio ad una sua perfezione quasi palese, è un insegnante capace, coinvolgente, particolarmente a suo agio con bambini e ragazzi: pare che abbia rivoluzionato il modo di affrontare lo studio della Difesa contro le arti oscure, implementando lo stesso modo di fare molto operativo che aveva Lupin. Questo, inevitabilmente, ha portato ad un boom di iscrizioni ad Hogwarts anche di francesi e mitteleuropei.

Ho letto tutto con un feroce senso di invidia per mia figlia: avrei voluto averlo io un insegnante simile ai miei tempi. Tralasciando Remus, le mie esperienze non sono state certo così edificanti.

Con un senso perciò di deferenza, ho scritto, cancellato e riscritto una lettera per Ilariy Radcenko, chiedendogli un colloquio privato: delusa, ho ricevuto risposta da un tale Ivan Gargovich, che si è firmato come una specie di segretario particolare dell’insegnante e che ha asserito con il tono scocciato che permeava persino dalla carta, che il dott. Radcenko aveva l’agenda piena fino a luglio del prossimo anno e che quindi non era possibile fissare alcun incontro.

Mi ero già decisa a contattare il Ministero e smuovere un po’ le acque di miei vecchi agganci per poter aggirare l’ostacolo quando, una sera, mi è arrivata una nuova lettera da Hogwarts: avevo subito pensato a Rose, avevo stracciato la busta della missiva piena di preoccupazione ansiosa.

Ma invece a restituirmi lo sguardo è giunta una grafia lieve, precisa, allungata sulle lettere alte.

Essere un’ex Eroina del Mondo Magico ha sempre i suoi vantaggi: dopo aver letto il mio nome nella missiva ricevuta, Ilariy Radcenko si scusava per l’eccessiva abnegazione del suo assistente, chiedendomi in cosa potesse essere d’aiuto a me e al Ministero.

Naturalmente, ho constatato subito, l’accademico pensava di essere stato contattato perché potesse aiutarmi a risolvere qualche bega di lavoro: a patto di farmi promettere di essere particolarmente riservato, ho confessato che non si tratta di alcuna questione pubblica, ma invece di qualcosa assolutamente personale.

Temevo che a quel punto Radcenko mi rispondesse picche, ma dopo pochi giorni mi aveva scritto esortandomi a spiegargli cosa fosse successo e promettendomi che, se ne fosse stato in grado, mi avrebbe aiutato.

È cominciata così una lunga corrispondenza dove ho spiegato sommariamente il mio problema e la teoria di Helder sul fatto che fossi stata maledetta: sebbene non sia scesa molto nei particolari, Radcenko ha subito riconosciuto qualcosa che gli suonava come familiare, accennandomi a qualcosa che ha chiamato “tentazione del multiverso”, una teoria ancora embrionale su cui pare stia lavorando da qualche anno con un’altra studiosa, tale Eva Lancaster. La definizione “tentazione del multiverso” mi ha ovviamente incuriosito molto, ma il professore è rimasto molto vago a riguardo, rinviando il tutto ad un incontro ad Hogwarts dove avremmo potuto parlarne personalmente: essendo la teoria completamente inedita, anche le mie incuriosite ricerche successive non mi hanno fatto cavare un ragno dal buco.

Dopo un paio di ulteriori missive, Radcenko mi ha dato appuntamento ad Hogwarts il pomeriggio del 30 gennaio, approfittando di un momento di pausa delle lezioni e delle sue ricerche a causa di un convegno a Sofia che era provvidenzialmente saltato.

Ho letto la lettera con un saltello di contentezza, fino ad arrivare all’ultima riga prima dei saluti.

“Dimenticavo, Mrs. Weasley: mi ha accennato stringatamente che ad essere colpita dal maleficio pare vi sia anche un’altra persona. Non vi ha più fatto riferimento, non vorrei aver letto male. Però se mi conferma che è così, sarebbe bene che incontrassi anche costui o costei assieme a lei. Molti incanti di tale natura possono essere variamente legati tra di loro, e per me comprenderne la natura potrebbe essere impossibile se non ci sia anche l’altro elemento. Confido in questo.

Ilariy Radcenko”.

La frustrazione rabbiosa mi ha avvolto come una specie di miasma: in poche parole, volente o nolente, dovevo chiedere a Malfoy di venire ad Hogwarts con me quando, dalla famigerata sera di Natale, non abbiamo avuto più alcun genere di contatto, nemmeno mediato dai Weasley.

Il fatto di non averlo più rivisto, lo ammetto, mi ha all’inizio confortato parecchio, non avevo e non ho alcuna volontà di incontrarlo dopo aver scoperto il segreto del suo matrimonio. Mi è così rimbalzato in testa per giorni da avermi contuso il cervello. E non arrivo nemmeno a menzionare quella specie di abbandono che, senza premeditazione, avevo provato nei suoi confronti: convinta come sono che si tratti di una specie di ulteriore maleficio a mio danno, mi sono data pena di analizzare bene di che cosa si trattava, non presa più dal timore di scartare quella sensazione nella mia testa, la fiducia sterminata, istantanea, subitanea come quella ingenua dei bambini, ed io bambina, bambina così non sono mai stata, sono sempre stata diffidente, sospettosa, circospetta, e lui più di tutti mi ha sempre istillato nient’altro che dubbi, teorie, preconcetti, pregiudizi, perché lui era il cattivo, il male, il quasi assassino, il Mangiamorte, e non è cambiato niente, non è cambiato lui, non sono cambiata io, non è cambiato il mondo: ed invece no, se precipito nel vuoto, se vedo il buio avvicinarsi, se sento il vento nella mente sferzarmi le membra, so che a tuffarsi dietro di me, a salvarmi, a lottare perché io resti in vita, non c’è mio marito, Ron, Ronald Weasley, capelli rossi, lentiggini, orecchie che si arrossano quando è emozionato, occhi azzurri di mia figlia, odore di dentifricio alla menta piperita.

Non c’è mio marito.

Se penso alla fiducia, se penso al salto nel vuoto, a seguirmi per morire con me, c’è Draco Malfoy, Draco Lucius Malfoy, capelli biondi, labbra sottili arricciate, voce strascicata, occhi grigi che mi scavano sotto la pelle, cuore vergine e mai innamorato, odore di erba bagnata a settembre.

C’è solo lui.

Se non è un maleficio questo, e dei più perfidi ed infidi, non so quale potrebbe esserlo.

Con riluttanza quindi, sapendo che comunque la mia consulenza da Ilariy Radcenko poteva rivelarsi infruttuosa senza la presenza di Draco Malfoy, avevo deciso di scrivergli una lettera, impostandomi prima su un approccio soft per poi giungere al nocciolo della questione. Non conosco infatti Malfoy al punto di immaginare come reagirebbe se sapesse che, con lui bellamente inconsapevole, ho preso contatti per risolvere il nostro comune problema: anche se non lo avevo minimamente menzionato con Radcenko, poteva darsi che avrebbe considerato un’ingerenza che facessi indagini senza di lui, sebbene fosse coinvolto nella cosa.

Quindi, dopo aver cancellato e riscritto lo stesso scarno messaggio per diciotto volte, suscitando la reazione pettegola e scomposta di Leda che mi spiava da dietro lo stipite della porta, ho optato per una lettera neutra in cui, Grifondoro fino al midollo, lo informavo delle ultime decisioni riguardo al matrimonio di Teddy e Victorie e di cui voleva essere sempre tenuto al corrente, come pattuito in quella sera strana di Natale.

Il premio che ne avevo avuto, in compenso, era stato conoscere la sua mente fino al suo segreto più profondo. Qualcosa che era stata più una maledizione che un premio.

In calce, a fine lettera, aggiungevo casuale che avevo bisogno di parlargli in riferimento all’episodio della sera di Natale; non entravo troppo nei dettagli, così da tenere al sicuro la vicenda nel caso sua moglie aprisse la sua corrispondenza e, allo stesso tempo, speravo di indurlo a scrivermi in risposta per la curiosità.

Naturalmente, le cose non sono andate così.

Non solo Malfoy non mi ha mai scritto in risposta, ma tutte le mie lettere sono tornate esattamente identiche al mittente. Potevo pensare a qualche goffo disguido dei gufi, ma ogni busta è diligentemente aperta, sebbene dalla posizione della carta da lettera, deduco sempre che non è andato oltre le prime righe a leggere. Probabilmente, si limita alla data e a quei “Malfoy!”, sempre meno cauti, sempre più furiosi, sempre più carichi di rabbia in risposta al suo menefreghismo totale.

I miei istinti di omicidio e minaccia per via scritta, al ridursi dei giorni prima dell’appuntamento con Radcenko, si sono fatti via via sempre più violenti e selvaggi, fino a trattenermi bruscamente dal riempire la missiva di Artiglio del Diavolo o dal farmi nuovamente piombare in casa sua, stavolta munita di lanciafiamme.

Ovviamente, potrei anche andare da sola da Radcenko, ma, oltre a temere che così non riesca a capire quale è il problema, mi sconcerta che Malfoy sia così indifferente a quello che ci sta succedendo. Come diamine ha fatto a liquidare quella specie di ricordo con una scrollata di spalle?

Possibile che… ossessioni solamente me?

La domanda, diventata ampiamente retorica al prolungarsi del silenzio di Malfoy, ha cominciato ad inseguirmi come una fiera affamata: più constato che a lui non interessa niente della cosa, tanto da non avere nemmeno il tempo, la voglia o l’educazione di rispondermi, più temo che la sua reazione sia quella normale e che sia invece la mia quella sproporzionata.

Probabilmente, al contrario di quanto avessi pensato, lui non ha alcun altro sintomo. Perciò ha cancellato dalla sua testa il pensiero di quel momento, dandosi una qualche giustificazione mentale che lo ha calmato e rasserenato.

Lui non sogna nessun bambino biondo da chiamare figlio, non prova lo sgomento di provare maggiore intimità verso un miraggio, che verso il proprio vero bambino quando chiede una cosa e pare solo muovere le labbra a vuoto.

Lui non prova nessuna nausea sferzante, continua, che risale dalla bocca dello stomaco nei momenti più disparati della giornata, minacciando di rivoltarti dall’interno come se fossi un vestito consunto e rovinato.

… ma, soprattutto, evidentemente, per lui la sera di Natale è stata una sorta di strano episodio che va raccontando ridendo, alla moglie, agli amici, al figlio, parlando della solitudine di una povera idiota che non trova niente di meglio da fare che venire a casa sua, di notte.

Ed avrebbe ragione, diamine.

A quelle riflessioni, mi coglie allora un senso patetico di chiusura ermetica dentro me stessa, raggomitolata nella vergogna assurda di essermi messa in ridicolo davanti a lui. In ufficio, per strada, a casa, mi sembra di portare scritto sulla fronte l’onta terribile della mia fuga notturna. Credo che chiunque me lo possa leggere scavato nel viso, e rinfacciarmelo con crudeltà, smontandomi pezzo per pezzo. Evito lo sguardo del passante, della commessa, del dipendente ministeriale. Di Leda, di Dean. E poi di Ginny, di Harry, di Hugo.

Ed, infine, di Ron.

Lui che, ovviamente, dopo un po’ ha compreso che ci fosse qualcos’altro oltre alla mia semplice stizza per il litigio della sera della Vigilia. Ha iniziato a percepire che gli stessi lontana, che uscissi prima la mattina e rientrassi quando era già a letto, che mi chiudessi in bagno a restare immobile, ad occhi chiusi, la nuca sul legno della porta.

Però, come sempre è stato e come sempre sarà, attende in silenzio, una ruga continua ai lati delle labbra, mentre mi guarda sopra i bicchieri della tavola apparecchiata, nello spiraglio della porta rimasta accostata, nel riflesso all’indietro dello specchio.

Attende che io parli, mi spieghi, esploda.

Ed io lo faccio: ma non con lui.

Prendo di nuovo pergamena e piuma, scavo le lettere nella carta, incido e scolpisco, inveisco e minaccio.

Scrivo ancora a Draco Malfoy, aspettando di nuovo la busta aperta e la lettera non toccata, forte della ragione che mi danno le supposizioni di Tatia Krasova, Helder Bode ed Ilariy Radcenko.

Io ho un problema, Ron, non sei tu, sono io.

E già mi sento quelle frasi idiote da film stucchevole, già ti metto in una parentesi senza esponente dove condannarti, chiuso, a non capire, a non sapere, a non immaginare.

Perché non voglio che mi aiuti tu, mio marito.

Voglio che mi aiuti lui, e non so il perché.

In tutto questo, la cosa peggiore che potesse accadermi è, ovviamente, l’ennesima riunione famigliare, cosa che mi sarei evitata con un raffinato giro di scuse, se non fosse che si tratta del compleanno di Fred jr, da sempre la ricorrenza preferita di Hugo di tutto l’anno, persino più del Natale.

Al compleanno di Fred, infatti, suo padre George ha la precipua tendenza a provare tutti i Tiri Vispi Weasley ancora in fase di sperimentazione, coinvolgendo i nipoti in una specie di gara al massacro che si conclude quando qualcuno, tendenzialmente io, inizia ad urlare alla vista di una testa che rotola sulle scale di casa o di un enorme luccio che spara vernice argentata sulle pareti.

Se quindi già di umore normale, la festa di Fred mi ridurrebbe allo stremo mentale e alla voglia di gettarmi sotto un treno in corsa per risparmiarmi l’agonia, figuriamoci quanto possa essere entusiasta se sono in questo stato pseudo catatonico e se, come se non bastasse, imperterrita ho scritto nuovamente a Malfoy pochi minuti fa, ricevendo stavolta una busta nemmeno aperta, intatta come quando l’ho spedita.

Il mio senso di colpa di madre, però, che ha trascurato Hugo e continua a farlo in virtù di una foresta di fantasie sconvolte e polverizzate dalla mia ragione, mi impone alla fine di alzarmi in piedi e, meccanicamente, un passo dopo l’altro, comandarmi una serie di piccoli ordini semplici da portare a termine. Adesso, alzati dal letto Hermione. Finisci di vestirti, scegli qualcosa che ti fa sentire a tuo agio, ecco, camicia glicine e pantaloni grigi. Allunga la linea nera dentro l’occhio come se ci avessi messo cura a fingere uno sguardo più profondo. Indossa il braccialetto con le iniziali dei tuoi figli, accarezzale piano come se fossero la pelle dietro le loro orecchie, la sera, mentre dormono e li baci ignari nel loro letto. Annoda i capelli adesso, Hermione, tira indietro le ciocche ribelli.

Respira, a lungo, nella sciarpa grigia, fino a quando non sarai pronta.

Rimetti il sorriso sul viso, quello tirato che conoscono tutti, ma che nessuno oserà contraddire.

Ma soprattutto, Hermione, seppellisci il segreto: e cioè che, ormai, non sei più tu.

La moglie, la madre, la nuora, la professionista, l’amica.

Mettiti addosso quelle sembianze e gioca a convincere che siano le tue, anche se non è così.

Perché, in pochi attimi, sei cambiata così tanto da essere un’estranea per tutti.

Compresa te stessa.

 

 

Quando arrivo alla Tana, stranamente mi rendo conto che potrebbe persino essere una bella serata: per ovviare infatti ai nostri frequenti scatti nervosi e crisi isteriche per gli scherzi dei ragazzi, quest’anno George ha pensato bene di costruire una sorta di serra gonfiabile, insonorizzata ed a prova di infortunio, dove i nostri figli si possano divertire senza per questo condurci alla follia.

Appena arrivo vengo subito dirottata in casa, dove i miei suoceri e cognati sono seduti in salotto accanto al camino, che proietta ombre lunghe color rubino contro le pareti mentre l’aria si satura di odore di resina e ambra. Gli unici assenti sono Percy e Audrey e naturalmente Cora, sempre poco coinvolta nelle ricorrenze famigliari. Stranamente manca anche Harry, ma Ginny mi rassicura brevemente parlando di non meglio identificate magagne all’ufficio Auror. Intercetto lo sguardo di Ron non appena metto piede nella stanza salutando tutti, e con una nuova sferzata ostile di vergogna per il mio comportamento assurdo di questi giorni, decido di andarmi a sedere accanto a lui, azzardandomi anche ad allungare una mano per toccargli il braccio ed attirare la sua attenzione con un gesto di affetto. Ron mi restituisce uno sguardo acquoso, annegato in un sorriso luminoso: le sue dita si chiudono repentine sulla mia mano, serrando forte. Gli sorrido cauta in risposta, lasciando che mi attiri verso di lui e mi baci la tempia con dolcezza ritrovata.

Sempre più decisa a godermi la pace del focolare, accetto la tazza rossa sbeccata dove Molly mi serve un eggnog che, da esperienza decennale, so essere così alcolico da rendere infiammabile persino l’alito, senza contare che ha l’indice glicemico di un’intera pasticceria nel periodo dell’Avvento. Mi tengo persino in gola le rimostranze sul fatto che sia una bevanda natalizia e che, se Molly ci mettesse più attenzione, si potrebbe evitare di produrne in quantità tali da propinarcelo fino ad agosto. Rivolgo un sorriso riconoscente alla sua mano nodosa e lo sorseggio piano, in silenzio, godendomi le chiacchiere tra i miei parenti, trovando persino divertenti le battute, interessandomi agli aneddoti nuovi e ai pettegolezzi recenti.

Stasera è Fleur in vena di chiacchiere, agita le lunghe braccia magre come un mulino a vento, al ritmo della foga del suo discorso. Ha il viso rosso, chiazzato sulle guance lisce di seta, mentre ripete con la voce strozzata: “Quella commessa era… obscène!”.

“Ancora con questa storia, Flo?” la riprende incolore Bill, osservandola di sbieco e restituendo un’alzata di spalle all’indirizzo di George che, cautamente, deve aver chiesto spiegazioni.

Fleur, per nulla intimorita, agita i pugni in alto, aprendo la bocca e guardando Bill profondamente offesa, come se non credesse che lui non sia furibondo come lei. La osservo dal basso della mia tazza sbeccata, chiedendomi come faccia ad essere sempre così perfetta, persino in un momento di ira pura, persino con gli stivaletti ornati di pelo nero, persino con un maglioncino con la stampa di fiocchi di neve: io sembrerei una specie di pesce palla in posizione di combattimento.

Fleur, invece, agita la chioma bionda e travolge gli astanti di un profumo gentile di rosa, in tutto e per tutto ancora identico a quello della ragazzina mezza Veela che entrò in Sala Comune per il Torneo Tremaghi. Persino Ron la guarda ancora come quel giorno, imbambolato e infatuato, gli occhi che strabuzzano spesso; poi sbatte le palpebre, scuote il capo ed annienta la magia remota del sangue della moglie di suo fratello. Osservo la scena indifferente, preoccupandomi però di aggrottare le sopracciglia a fingere il fastidio che mio marito si aspetta, mentre Fleur con sussiego riprende: “Bien sur, ci mancherebbe che non lascio perdere, stiamo parlando di Diagon Alley, non di un negozietto di periferia qualunque, inconcevable!”.

Comprendendo di essere più o meno la sola a non conoscere l’episodio, viste le facce rassegnate dei miei parenti, mi affretto a chiedere compita, lo zabaione che mi incendia la gola e mi costringe ad un colpo di tosse: “Cosa è successo?”.

Bill precede la moglie che resta a bocca spalancata come un luccio all’amo, prima di scoccargli un’occhiata infastidita: “Victorie ha fatto un giro per Diagon Alley qualche giorno fa assieme a Flo, per farsi un’idea dei vestiti da sposa. Insomma, ne aveva addocchiato uno… ma…”. Bill sospira a lungo cercando l’ispirazione per continuare, probabilmente indeciso tra un tono neutro che farebbe innervosire Fleur ed uno estremamente drammatico che però sarebbe una forzatura.

A togliergli le castagne dal fuoco interviene Ginny che, con il consueto schiocco schietto di lingua, sciorina velocemente: “… ma quando ha chiesto se poteva essere allargato per il matrimonio a maggio, la commessa ha avuto una specie di crisi puritana e mistica, appena ha capito che Victorie è incinta”.

Naturalmente il viso di Ginny ed il fatto che rotei gli occhi come se fossero pale eoliche, mi porta automaticamente a soffocare una risata dentro l’eggnog, cosa che mi porta comunque ad un principio di asfissia, visto il contenuto alcolico dello stesso.

Connaissez-vous?” mi chiede accorata Fleur, convinta di poter ricevere da me una qualche forma di empatia comprensiva che, evidentemente, manca al resto della famiglia. Ron, quasi esortandomi a fingere una risposta qualsiasi, mi stringe la mano con le dita due volte come un segnale telepatico. Gliela stringo a mia volta, comprendendo il messaggio subliminale.

“Flo, il francese…” la riprende bonariamente Bill grattandosi la nuca “Dubito che alla vecchiaia mia madre diventerà bilingue”.

Molly fa un enorme cenno di assenso, borbottando qualcosa sottovoce che però non impensierisce minimamente Fleur che, agitando la mano in un nobile gesto da aristocratica decaduta, aggiunge ovvia, accentuando caricaturalmente le parole: “Capisci, Hermione? Era chiaro cosa volessi dire, Bill”.

Prima ancora che io però possa rispondere, Molly, probabilmente ancora irritata dall’uso reiterato del francese, saetta con voce acida: “Devi ammettere però che non è una cosa… ordinaria… che una ragazzina come Victorie sia incinta e che si sposi”.

Ginny, George e Ron, presagendo la stoccata sempre precisa per una faccenda che non è mai andata giù alla loro madre, si sbattono le mani sulla fronte con una così contemporanea e sincronizzata rassegnazione, da spingermi ancora ad una sincera risata che, di nuovo, annego nello zabaione, fingendo di prenderne un ulteriore sorso.

Dèchets, sciocchezze, pardon…” asserisce Fleur, incrociando le braccia con fastidio “La professionalità dove è finita in questo sciagurato paese? Era così… horrible… era semplicemente gelosa di Vicky… quella racchia…”.

“Per questo però non ti è servita la traduzione” commenta Ron, gettando un’occhiata traversa a Bill e George che, naturalmente, rispondono con uno sguardo di intesa.

“La vostra lingua ha il pregio di avere insulti più… pregnanti” risponde Fleur scontata ed altezzosa, sistemandosi una piega del maglione.

“Oh credimi…” riprende George compito e serio “Si è sentita la pregnanza”.

L’assoluta imperturbabilità di George si traduce in uno scoppio generale di risate, che contagia persino Molly e Fleur.

E’ un attimo così rilassato e spontaneo che, come una specie di filo rosso stracciato, mi sento congiunta di nuovo a tutta la mia famiglia. Mi sento di nuovo al mio posto, come se mi fosse appartenuto da sempre: tutti gli altri pensieri ruggiscono come folate di vento fuori dalla finestra, come la pioggia che cade a grandi gocce sui vetri, senza poter tangere l’interno. La mano che Ron stringe nella mia, è calda, morbida. Sa delle prime uscite dopo la guerra, quando tutto il mondo sembrava di nuovo nostro. Mi sembra un tempo adesso più vicino, profumato di una vita che resta ancora dentro di me, senza andarsene davvero. Senza andarsene via, come ho pensato nelle ultime settimane.

Con un pizzico di dolcezza strabordante nel petto, porto la sua mano alle labbra, ne bacio le nocche chiuse. Ron, sorpreso, mi sorride piano e mi accarezza il palmo con il pollice.

A quel punto, notando che il fuoco necessita di essere rintuzzato ed alimentato con nuova legna, George si alza per andare a prenderne dell’altra, sollecitando anche Ron e Bill ad aiutarlo. Mio marito lo raggiunge borbottando, non prima di avermi baciato ancora. Ginny a sua volta decide di mandare un gufo ad Harry per chiedergli quando ha intenzione di raggiungerci, mentre Molly sale al piano superiore per controllare Arthur che è a letto influenzato. Angelina va invece a controllare i ragazzi.

Resto pertanto da sola con Fleur che, come me, si avvicina al fuoco, cercando di ricavarne calore.

“Victorie, però, l’ha presa bene?” le chiedo con un sorriso, i riflessi delle fiamme rendono i suoi capelli pieni di riflessi di oro rosso “Come sta?”.

Très bien, Hermione…” mi sorride lei, sembra d’improvviso ancora più giovane “Merci, è molto felice. Non… non lo avrei mai detto. E’ forte, fortissima, la mia bambina”.

La sua voce ha un tono così dolce, da spingermi automaticamente a metterle una mano su una spalla con un sorriso: “Ne devi essere molto fiera”.

“Lo sono…” assicura lei sincera “E, per quanto sia davvero il figlio di tutti noi, sono molto fiera anche di Teddy. E’ un uomo, fatto e finito. E’ un tale… soulagement… sollievo… poterla affidare a lui”.

“Non te ne pentirai mai, credimi…” la rassicuro con forza, convinta della maturità di entrambi i ragazzi. Stanno affrontando una prova così grande come una tale resilienza da poterne rimanere solo ammirati. Ed anche io, a mio modo, come semplice zia, sono davvero fiera di loro.

Mi guardo attorno con curiosità, constatando di non averli visti per nulla: “Sono di là con gli altri? Non li ho nemmeno salutati”. Mi pare strano che, nelle sue condizioni, Victorie si sia unita ai giochi spericolati dei suoi cugini.

Fleur nega velocemente con il capo, aggiungendo: “Vicky si è stancata molto in questi giorni, si sono alzati all’alba per la tumulazione… e Teddy era molto triste, davvero… volevano stare per conto loro”.

La parola tumulazione, così stonata nell’atmosfera distesa del momento, mi rimbalza sul costato come una palla di cannone, in completo disaccordo con il tono assolutamente normale di Fleur, quasi scontato, banale, ordinario.

Balbettando, la testa ghiacciata, chiedo stupita: “La t-tumulazione?”. Il fuoco, contro le mie mani ghiacciate, pare d’improvviso rovente, come se me le squagliasse.

Fleur, non mutando di una virgola il tono di voce sbiadito, aggiunge con calma spiegando: “Sì, hanno preferito farla di mattina presto… non tutti lo sanno ancora, così hanno evitato… journalistes… Rita Skeeter vagava attorno come un avvoltoio… Mon Dieu! E’ davvero vero che gli insulti mi vengono meglio in inglese”. Accompagna le ultime parole con una nuova risata vezzosa che, alle mie orecchie, giunge troppo stridula, ferendomi i timpani. Sento una vampata di ghiaccio artigliarsi ulteriormente sulla mia testa, prima che un atroce sospetto raggiunga la parte cosciente dei miei pensieri.

Allucinata, senza ulteriori esitazioni, l’afferro per un braccio richiamando la sua attenzione, prima di domandarle con voce debole: “Fleur… chi è morto?”.

Mia cognata sgrana gli enormi occhi azzurri, destinandomi una lunga occhiata profonda, tersa come il mare d’estate. Soggiunge con indifferenza: “Lady Narcissa Malfoy… pensavo lo sapessi… ho scritto a Dracò questa mattina… era distrutto, ma è stato molto gentil… le sue sofferenze sono terminate, povera donna…”.

Lascio il suo braccio come se fosse appestato, capace di trasmettermi una malattia mortale. Eppure, il contagio già risale dalle mie dita, rincorrendosi nel sangue, marcendo i tessuti, mangiandosi il mio cervello. Un secondo, un respiro, ed ogni parola irosa delle mie lettere torna alle mie mani che le hanno scritte, alle sue che le hanno aperte, spiandole ed intravedendole in una stanza che sapeva di fiori e morte.

Ghiaccio, rivoli di sudore freddo scivolano sulla schiena, senza fiato chiedo assente, quasi incosciente di me stessa: “Lui… Draco… t-ti ha risposto?”.

Fleur mi destina uno sguardo fiacco, eppure spalancato di una meraviglia che le sbarra gli occhi come se fosse sotto una luce intensa: “Poche righe, rien de ça… tu… lo hai chiamato Dracò”.

Il suo appunto mi serra le spalle, mentre contorco le mani in grembo guardando il fuoco quasi completamente consumato: “Un r-riflesso i-incondizionato… m-mi dispiace davvero… i-in fondo…”, non so nemmeno io che cosa dire, cosa non dire, cosa rivelare, cosa nascondere. Le parole di consuetudine, i luoghi comuni, i convenevoli si frantumano nella mia bocca cessando di esistere, lasciandoci un sapore farinoso e nauseante.

Non trovando altro da aggiungere, mentre ancora gli arti paiono immersi dentro un lago a 0 gradi dove non posso nemmeno sperare di nuotare, mi alzo in piedi, sorrido a Fleur ed aggiungo casuale sotto il suo sguardo ancora incerto: “Vado a b-bere qualcosa… questo maledetto zabaione mi ha prosciugato la gola”.

Non riesco nemmeno ad impormi un passo disteso, cauto, trasudante normalità, così da non destare sospetti e domande: corro fuori, incespicando nelle pieghe dei tappeti e negli stipiti delle porte, il cuore in gola, mentre come la volpe che fugge i cacciatori, evito le voci, le risate, i passi della gente amata.

Esco in giardino senza cappotto, senza cappello o sciarpa. Piove, diluvia scrociando dal cielo, grandi pozzanghere simili a tombe si aprono nel terreno come enormi buchi neri.

Mi piego sulla ringhiera, aggrappata come una penitente di Quaresima, le pupille dilatate, il respiro corto come se non avessi fatto solo pochi passi di quiete domestica, ma deserti di tentazioni e rovi.

La mia testa è una savana di parole, una dopo l’altra, una dietro l’altra, una più mostruosa dell’altra: ad ognuna penso che sia la peggiore e che abbia finito di divorarmi, ma con solerzia ricordo la successiva, ricordo che quel giorno ero ancora più arrabbiata, ricordo che pensai che era solamente uno stronzo menefreghista, ricordo che sospettai di nuovo di lui, ricordo che supposi che gli faceva comodo non risolvere la nostra maledizione perché l’aveva lanciata lui.

Ricordo ogni singola lettera, sono spine sotto le unghie, chiodi alle costole, frecce nello stomaco.

… e tua madre moriva in quelle parole, sotto quella mia raffica di insulti.

Cosa avrai pensato? Mi avrai dato la fiducia di credermi ignara?

O, vittima del nostro rancore, avrai pensato che non mi importasse? Che considerassi più importante la nostra stupida maledizione e non il tuo dolore?

Mi avrai odiato, certo… perché quella sera, ti vidi scivolare contro quella porta, e non piangere affatto, ma anzi tenerti gli occhi rossi asciutti, tersi, scintillanti che magari così faceva meno male, straziava meno, diventava una cosa razionale a cui ovviamente dovevi rassegnarti con una specie di lasciva consolazione selvaggia ed insapore.

Mi hai odiato Draco?

Sono stata lo sfogo di tutto il resto, ad ogni lettera hai spaccato qualcosa? Un vaso, una cornice con una fotografia, una statuetta di cristallo?

Eri solo nelle stanze vuote, nelle stanze che arieggiavano e perdevano l’odore di tua madre?

Ti sei arrabbiato furibondo con un elfo domestico, imponendogli di lasciare tutto com’era? O ti sei chiuso a chiave in camera, guardando per ore le crepe del pavimento?

Ed in tutto questo, arrivava una mia lettera.

… all’inizio… le hai aperte tutte, Draco.

Forse… perché speravi che io…

Quel pensiero mi riporta in piedi, ansimante, trafelata. Non pare una supposizione, pare legge, dogma, verità. Non ho dubbi, reticenze, cautele, titubanze. Niente.

La pioggia mi bagna senza sconti, la ignoro e, con foga, corro sul retro della Tana. Afferro Leotordo, gli lego un messaggio alla zampa scarabocchiato in fretta per il mio ufficio: una semplice richiesta che mi ricordino gli orari degli appuntamenti di domani.

Qualcosa a cui rispondono subito, usando degli Incantesimi automatici.

Il respiro soffocato, il volto rosso, rientro in casa, gocciolando sul pavimento.

Non mi interessa, non mi interessa più niente ormai: formicolo come una tarantolata nell’attesa, torno nel salotto dove la mia famiglia è di nuovo riunita.

Ron mi guarda interrogativo, con gli occhi mi indica la sedia accanto a lui.

Ma la sedia rimane vuota, lo sguardo mi resta pietra fusa, sciolta nel fuoco che continuo a fissare, lontana miglia da qui. Aspettando solo un frullo di ali.

Che arriva, pochi minuti dopo.

Lascio che tutti vedano il gufo, lascio che tutti vedano che è diretto a me, lascio che tutti leggano la mia noia mentre ne leggo il contenuto, rimarcando scocciata: “Leda ha combinato un altro pasticcio. Devo andare in ufficio… immediatamente”.

Fingo la rabbia repressa dell’ennesima botta di incompetenza della mia segretaria e, dandovi enfasi, brucio la missiva nel fuoco del camino, incenerendo il semplice ricapitolo della mia agenda.

Devo andarmene subito da qui: subito.

Ho la mente incredibilmente sgombra, nessun pensiero: saluti frettolosi, qualche moto di protesta, un bacio di Ron, una serie di raccomandazioni materne, una battuta scherzosa.

Tutto scivola indifferentemente fuori dal mio campo visivo, annuisco a tutto senza nemmeno rendermi conto di cosa sto facendo o dicendo.

Non conta più nient’altro.

Nessun’altro: torno un attimo in me pensandolo, sull’uscio di casa, mentre Ron mi ha seguito e, con un afflato di cupa disperazione masticata sotto le palpebre, mi tiene per un braccio, guardandomi con un’ombra di lacrime negli occhi azzurri: “Non andare”.

“Non posso” mormoro, distogliendo il viso da lui, tornando alla pioggia, al cielo nero, alle nuvole bagnate di luna morta.

Scivolo dal suo braccio, corro sotto la pioggia, i passi amplificati dal silenzio.

Non conta nessun’altro: ora, adesso. E d’improvviso so che, non so quando, era così.

Ed è impossibile, come tutto.

Ma non mi importa. Nulla importa.

Né la pioggia, né il cielo, né le case illuminate dal fuoco, né le risate dei bambini, né i baci dei mariti: non conta più niente.

Sono tutte paccottiglie di poco valore.

Conta solo… che devo trovarlo. Devo trovare Draco. Ora, adesso.

Devo dirti ogni parola che ha cercato nelle mie lettere.

E che non ha trovato.

Devo essere con te. Ora, adesso.

… perché mi fido più di te che di me stessa.

E perché ogni goccia del mio sangue vuole che sia lo stesso per te.

Perché so che, non so quando, anche per te era così.

 

 

Non avrebbe saputo descrivere quella sensazione.

Per quanto interrogasse la memoria, per quanto vagasse alla ricerca di una similare emozione, Hermione Granger, 36 anni compiuti, non ne trovava nessuna simile nel suo bagaglio sentimentale: certo, rassomigliava a tantissime cose, ma nessuna era adeguatamente precisa, ognuna di esse lasciava fuori qualcosa, delimitandosi come manchevole, ingannevole, difettata.

A volerle proprio dare un nome l’avrebbe chiamata angoscia: non era nemmeno ansia che è qualcosa di meno palpabile e ha a che vedere con il cuore, con battiti furiosi, con respiri mozzicati che davano maggiormente di romanzo e poesia.

No: era piuttosto angoscia e si coniugava alla perfezione con il sudore che impregnava i vestiti, gemendo bollente sulle braccia, sulla pianta dei piedi. Risaliva dalla parte più bassa della schiena e, ad un quarto di pelle alla volta, guadagnava terreno erodendo la calma, la ragione, persino la coscienza, perché le pareva di camminare attraverso un sogno, liquido, sottile, nebuloso, dove ogni cosa era lentissima e le scorreva davanti senza che la potesse afferrare, mentre perdeva consapevolezza di sé ad ogni passo, come sotto l’azione di un narcotico che lentamente faceva effetto.

Ed in tutto questo lei sapeva fare solo una cosa.

Correre.

Credeva di non saper correre: non era mai stata propriamente un’atleta e, quando erano nati i suoi figli e si era trattato di recuperarli, i banalissimi incantesimi di Appello erano stati una manna dal cielo. Di natura aveva un’andatura veloce, un po’ saltellante, baldanzosa come la bambina che era stata: ma non sapeva correre, persino in guerra nella maggior parte dei casi c’erano state scope, draghi o Ippogrifi.

Invece, in quel momento, correva come se fosse inseguita dal diavolo in persona: non sentendo niente, nulla di diverso dall’angoscia gracchiante dentro le ossa di non sapere dove fosse.

Negli sprazzi rari che miracolosamente preservava di ragione, immaginava scenari raccapriccianti, era ferito, era morto, era triste, era altrove: e lei non era con lui. E allora, senza alcun retaggio di affetto che lo spiegasse, le pareva di impazzire, era lenta, lentissima, doveva sbrigarsi, doveva fare presto.

Doveva smaterializzarsi, rivolgersi alla Magia, sparire e riapparire come un coniglio in un cilindro.

Ma persino quei tre secondi di concentrazione erano troppo, non poteva fermarsi a pensare per il tempo sufficiente che non era altro che un tempo sottratto, rubato, scippato al momento in cui poteva dirlo al sicuro. Proseguiva quindi a piedi, trafelata, accaldata, galoppando sulle pozzanghere come un animale che, dopo una vita di lazo, conosceva la via libera.

Eppure diluviava, eppure aveva un aspetto orribile, eppure era zuppa fino al midollo, eppure il viso le si impastava di lacrime, mascara e pioggia: eppure non importava.

Avrebbe voluto pensare che quella era una bella novità, che il suo cervello facesse cortocircuito e, dissennata, conoscesse una dimensione puramente irrazionale di sé stessa, dilatata probabilmente dal senso di colpa per aver infierito su di lui quando era inerme e devastato. Se avesse creduto che fosse questo, non ci sarebbe stato niente di male.

Ma assieme all’angoscia, conosceva anche la scomoda certezza che questa, ad un certo punto della sua vita, fosse stata un’abitudine. Una consuetudine. Una ricorrenza. Un loop continuo nutrito di centinaia di episodi.

Perdere ogni controllo della ragione quando si trattava di lui, di Draco Malfoy.

E se ci pensava, era peggio: lei, più di Harry e Ron, era sempre stata profondamente obiettiva con Malfoy. Quando mai era stato così? Non era mai accaduto.

Ed allora era di nuovo tutto inedito: correre, cercarlo con il cuore in gola, terrorizzata di non trovarlo. Spiare le luci accese, le finestre spente, le porte chiuse, gli scuri accostati, e non trovarlo.

In un punto molle, incerto, dentro, sentire che, se non lo cerca lei, non lo cerca nessuno, evapora dal mondo, si liquefà e nessuno se ne rende conto se non lo salva lei.

E di nuovo i pensieri sono dorati: oro come di occhi di gatto.

In realtà, Hermione Granger, 36 anni, in quel momento pensava molto poco: e meno lo trovava, e meno pensava. Tutto questo lo avrebbe pensato dopo, ere dopo.

In quel momento, pensava solo che lui non c’era, non era lì ed annegava in quel pensiero.

Cercò in ogni posto dove pensava potesse essere, ogni posto che lui potesse chiamare casa.

Non lo trovò.

 

 

Quando mi Smaterializzo nella strada di casa, sono le due del mattino e non ha smesso un secondo di piovere. Le strade sono deserte, mezze allagate, abbandonate persino da tassisti e barboni. Risuonano solo tuoni ed echi di pioggia. Sollevo pigramente il viso verso il cielo chiudendo gli occhi e lasciando che, ancora, la pioggia mi cada addosso senza che provi minimamente a metterci un freno.

Del resto sarebbe abbastanza inutile: il cappotto nero è completamente fradicio d’acqua, senza parlare del cappello, della sciarpa e persino della mia camicia.

Sono talmente stravolta però che non sento nemmeno freddo, mi trascino senza alcuna fretta per i pochi passi che mi separano da casa mia. Non ho alcuna voglia di entrare, non ho nemmeno voglia di cambiarmi i vestiti zuppi, farmi un bagno, prepararmi una tisana.

Non ho voglia di fare assolutamente nulla, se non restare fuori sotto la pioggia persino per tutta la notte: il pensiero mi spaventa non poco, esaurito il sacro fuoco che mi animava fino a pochi minuti fa. Accelero quindi il passo, scuotendomi mentalmente e preparandomi ad una nuova serie di scuse, qualora Ron sia ancora sveglio. Non faccio altro che inventare scuse oramai. Non crederà mai alla storia dell’ufficio se mi vede in questo stato. Certo, posso asciugare i vestiti, posso rassettare i capelli, posso raccontare di Leda e del tormento che mi dà.

Incrocio il mio sguardo nel lunotto posteriore di una macchina parcheggiata, sono gli occhi che non posso nascondere più. Nel riflesso, con una fitta cupa di terrore, non riconosco il mio viso: è terreo, consumato, quasi scavato, magrissimo e trasparente tutt’un tratto. Le palpebre pesanti, gli occhi sono cerchiati, fatico a tenerli aperti. E sono vuoti, distanti, persi.

Solo perché non ho trovato Malfoy.

E perché non sapevo che era morta sua madre e l’ho assillato per giorni.

La cosa sembra minuscola a pensarla, ma è un tonfo continuo a percepirla. Ancora, non so che volessi da lui, se chiedergli scusa, se confortarlo, se controllare come stesse. Non lo so.

E, ancora, non mi interessa, fosse pure un effetto di questa maledizione. Non l’ho trovato da nessuna parte e tanto importa: Malfoy Manor, Ministero, laboratorio pozionistico, cimitero, casa di Zabini, casa della Parkinson, casa di Nott, casa di Goyle, casa dei Greengrass senior, persino casa di Bill e Fleur, qualora fosse andato da Teddy. Ho cercato in ogni posto che mi venisse in mente, ma non è da nessuna parte, sebbene al Manor c’erano sia sua moglie che suo figlio.

Protetta dal Mantello di Harry, trafugato ancora di nascosto, ho visto Astoria entrare nella camera della compianta Narcissa e ciarlare ad alta voce su come utilizzare quella stanza, ingiungendo ad un elfo domestico di “far sparire tutta la robaccia di quel cadavere ammuffito”.

L’ho Schiantata da sotto il Mantello, fuggendo due secondi dopo. Non penso che mi abbiano scoperto, ma anche se fosse, sarei persino capace di vantarmene a voce alta: è una donna orribile. Si merita ogni bernoccolo che le è venuto fuori.

Il panico nel non trovarlo, alla fine, si è accucciato in una specie di inerzia: ho passeggiato pigramente nel parco deserto, osservando la pioggia che tratteggiava i coni di luce tra gli alberi, finché con un enorme sforzo ho deciso di tornare a casa.

Quando arrivo di fronte alla mia palazzina, la osservo a lungo come se celasse una sorta di segreto, una macchina passa a tutta velocità, urtando una pozzanghera e finendo per infangarmi ancora di più i piedi. Ancora, non ci do minimamente peso, nemmeno per insultare lo sconosciuto pirata della strada. Ogni forza vitale pare succhiata via e drenata dal velluto nero della notte.

Le finestre sono tutte spente, nessuna testimonia che qualcuno sia sveglio: spero quindi che Ron sia a letto o, ancora meglio, che sia rimasto dai suoi, pronto a lamentarsi con i suoi parenti della sua sempre assente moglie. Non c’è alcuna acredine nel mio pensiero, spero davvero che sia così e non solo per non incrociarlo, ma anche perché merita uno sfogo qualunque alla malinconia indefessa che sembra essersi così acclimatata al suo sguardo ogni volta che incrocia il mio.

Allo stesso modo, spero con quella sorta di licenziosa condiscendenza che noi genitori riconosciamo all’infanzia, che nemmeno Hugo sia qui o che comunque non sia granché accorto ed impensierito della mia assenza. Imposto già il mio passo come fluido, silenzioso, quatto, sebbene sono certa che, se sono in casa, comunque finirò per svegliare almeno mio marito con tutte le mie manovre, dovendo quindi spiegare qualcosa per cui, come sempre da un po’, ho solamente scuse, bugie e frottole, nessuno straccio di verità.

La verità non la voglio sapere nemmeno io del resto: non c’è niente di sano e di normale in questa “cosa” in cui mi sono trasformata.

Attraverso la strada a passi lenti, aprendo con cautela il cancelletto di casa, cercando di non farlo cigolare nel silenzio completo: ovviamente, indisciplinato, esso stride come le unghie su una lavagna. Lo richiudo con rabbia, attendendo il clic metallico.

Percorro il breve vialetto, constatando che anche a casa di Harry è tutto tranquillo. Mi chiedo se lui è tornato in tempo per la festa di Fred, se Ginny gli ha detto che sono andata via per lavoro, se lui allora ha aggrottato la fronte con una vena di sospetto, o se invece è stato come sempre accomodante, giustificandomi e difendendomi all’indirizzo della platea famigliare.

Sospiro a quel pensiero, ed io gli ho rubato di nuovo il Mantello dell’Invisibilità.

E per cosa, poi?

Faccio appena in tempo a cominciare a pensare a come restituire domani il Mantello senza che i miei cognati se ne accorgano, che improvvisamente nel silenzio scrosciante della notte, noto qualcosa di diverso. Di strano, di stonato. Come una specie di presenza impossibile da ignorare che schiaccia tutto il resto contro le pareti, annichilendolo. I miei sensi si mettono subito a caccia dell’intruso, individuando un’ombra sotto il portico di casa mia che, al mio approssimarsi all’ingresso, si deve essere risollevata in piedi.

Con una punta di nervosismo, afferro la bacchetta dalla tasca del mio cappotto, non penso nemmeno per un secondo che si tratti di Ron, l’ombra è troppo alta perché si tratti di lui. E non è nemmeno nel suo stile attendermi sull’uscio; piuttosto sarà a letto, orecchie scarlatte, a fingere sbuffando di dormire. Potrebbe essere uno dei soliti ubriaconi che, da un pub vicino, poco lucidi e privi di freno si intrufolano nelle proprietà altrui. Non è certo la prima volta che ne Schianto uno.

L’ombra si muove ancora, scende un paio di gradini, rimanendo poi immobile, quasi in attesa, dandomi l’implicita conferma che aspetti proprio me e che quindi la sua permanenza nella mia proprietà non sia casuale.

Un calore condensato al basso ventre come la puntura arroventata di un’ape e fulmineo, istantaneo, come una specie di intuizione che non so da dove venga fuori, il braccio lascia cadere la bacchetta che atterra con un tonfo sordo in una pozzanghera, accanto alla corda che Hugo usa per saltare.

Il cuore mi batte in gola come se effettivamente mi fosse salito quasi alle labbra.

La pelle del mio collo si tende cercando di trattenerlo, pulsano gelide le vene bluastre, mentre gli occhi corrono lungo il viale d’ingresso che porta a casa mia. Non è molto lungo, poco distinguibile nel buio setoso di questa notte strana, resa ancora più avvolgente dalla mancanza di stelle e luna. Le nuvole continuano a borbottare.

Solo la luce di un lampione mi permette di distinguere qualcosa.

Un’ombra, solo un’ombra immobile, sotto il portico di casa mia.

Un’ombra che può essere tutto e può essere niente.

Un’ombra inghiottita dal buio.

Un lampo brusco la rende del tutto evidente ai miei occhi che pure ne avevano già intuito i contorni e i confini. Ma il lampo non ha nulla della delicatezza sobria del lampione, è uno squarcio aperto nella memoria e nel cuore che mi violenta i sensi, le membra e l’anima.

In un secondo mi dà un’immagine netta e precisa, poi l’inghiotte di nuovo nel buio misericordioso del lampione e della notte torbida.  

D’improvviso, sento tutto, torna ogni stralcio di sensazione seppellita nella narcosi della corsa: è una notte fredda, ghiacciata, solo un paio di gradi sopra lo zero. Gli abiti sono completamente bagnati, ho una ciocca di capelli zuppi che si è infilata nella nuca, sotto il cappello, gronda gocce d’acqua lungo la schiena, facendomi rabbrividire ad ogni respiro. Le calze nelle scarpe sono anch’esse bagnate, fanno un rumore strano quando cammino. Mi viene da starnutire. Ho il fiatone, si condensa in volute di vapore davanti al mio viso arrossato. Ho il naso gelido, le labbra ruvide si spaccano per il freddo. Sono esausta, nelle gambe i muscoli sono tesi fino allo spasmo, sembrano corde di un violino ben accordato, ad ogni movimento minuscolo mi trafiggono come lame di metallo. Tuona, lampeggia, il cielo vomita pioggia ininterrotto, crudele, rapace.

Sento daccapo tutto, come se fossi stata addormentata da quando Fleur ha parlato, sonnambula nella sua ricerca spasmodica in ogni angolo della città. L’assurdità della cosa mi si ripropone innanzi, vedo dall’esterno il mio aspetto e so che è terribile, indecente, vergognoso.

Il viso mi avvampa di calore, penso che sicuramente ho il naso arrossato dal freddo, i capelli a nido di vespa, l’aspetto di una derelitta: sento di nuovo la cura propriamente femminile di non sentirmi a posto, al meglio.

Alla fine sento anche la sua voce, rompe nel silenzio come un tuono, sebbene sia acuta, acidula, sgraziata. Non pare la sua. Ci conto ogni lacrima repressa dentro, le sento una ad una. Le distinguo in ogni oscillazione delle lettere delle parole, per come tremano, galleggiano, ondeggiano, si smorzano quasi. Ha la nettezza di un urlo, ma è solo un sussurro al cianuro, velenoso, amarognolo, tenuto a malapena fermo: “Eccomi, Granger, dannazione. Hai finito con le tue lettere?! Hai finito?! Eccomi, maledetta strega idiota. Eccomi, parla, parla maledizione. Che cosa diamine vuoi?”.

Draco finisce di parlare e chiude i pugni lungo i fianchi, mastica le labbra, non mi guarda più. Piange solo della pioggia che cade, la insegue con gli occhi, la sfugge socchiudendoli, la rincorre di nuovo tornando a me e la benedice per mettermi a distanza, muro d’acqua e vento.

Le sue parole arrivano alle mie orecchie soffuse, incerte, vittime addormentate di qualcosa che non capisco: ed anche se ci sento la rabbia, il dolore, la furia a cui vorrebbe destinarmi, di nuovo non importa. Forse sento d’improvviso che non è vero, sento che sta mentendo, sento che voleva solo una scusa: o forse sento che la privazione finisce, sento che è qui, Draco è qui, ce l’ho davanti, è qui, sotto il portico di casa mia, ed è bagnato dalla testa ai piedi, trema nel cappotto grigio, digrigna i denti, è qui, e ha ancora gli occhi asciutti e rossi, ha i pugni chiusi, le labbra bianche che si mangiano tra loro. È qui, ed è piccolo piccolo, come un ricordo lontano di un bambino biondo su un’altalena dentro un sogno, ha le spalle piegate, curve, si spezza, si accascia ad ogni respiro, si piega sul mio portico, è qui, la mia porta di casa è lì dietro, e dietro ci dorme mio marito, mio figlio, dormono tutti e due, e lui è qui, l’ho trovato, mi ha trovato, mi posso mangiare le parole che gli ho detto, me lo posso ingoiare una per volta, veleno e fiele, e prendermi un po’ del dolore suo, farlo mio, addormentarglielo nel petto, cucirmelo nelle ossa così se ne dimentichi un po’, sparisca, svanisca: penso tutto questo, in ordine sparso.

Ma penso solo una cosa, in fondo, solo ad una.

E’ qui, l’ho trovato: Draco è qui. E mi sveglio tutta a me stessa in quel pensiero, nel sollievo che è miele, balsamo, medicina. E svegliarmi significa solo che corro, di nuovo, daccapo, anche se sono pochissimi passi e, quindi, per il contraccolpo, gli faccio forse anche male.

Gli corro contro, addosso, gli corro incontro, distinguo solo per un attimo i suoi occhi grigi che si spalancano sgranati, perle e diamanti che si inseguono nella pioggia che scende: ma è un attimo, un attimo solo, un attimo minuscolo.

Lo abbraccio, lo stringo a me come se temessi che mi sfuggisse, come se temessi che me lo strappassero via, come se temessi che scappasse di nuovo, quindi la mia stretta è forte, soffocante, da mancare il respiro e farlo bloccare nel petto. Incrocio le braccia attorno alle sue spalle che tremano ancora un po’, è più alto di me, lo è sempre stato, e quindi affondo il viso nello spazio tra le clavicole, sotto il suo collo. Ha un odore buono, di pioggia e di erba bagnata, anche se piove dappertutto, niente ha questo profumo, penso che lo riconoscerei dappertutto, dovunque. Ed anche se come me è completamente bagnato, il suo corpo è caldo, incomparabilmente caldo.

Non assomiglia a niente di ciò che ho conosciuto fino a questo momento, eppure ha qualcosa di incredibilmente familiare, ridondante: le mie braccia sanno istintivamente la lunghezza della linea delle sue spalle, sanno stringerle e cingerle senza spigoli. Le mie dita sanno intrecciarsi tra loro sulla sua nuca, lasciando i gomiti tesi a mettere distanza che vorrebbe solo essere riempita, ma che lascia che lo faccia lui. La parte finale della mia schiena sa la forma delle sue mani su di essa, se mi spingesse contro di lui, anche se adesso non lo fa.

Sussulto, tremo, resto a respirare nel suo collo, in quel punto tenero dove sento echi del cuore, fischi del respiro, rimbombi della gola. Mi coglie una fiacchezza indolente che mi chiude gli occhi, come se la stanchezza della notte fosse tutta lì, adesso.

Draco resta rigido, immobile, come una statua di sale. Non accenna a nessun movimento, non fa niente, per un momento pare persino che non respiri. Vedo ancora con una parte della mia mente i suoi occhi aperti, spalancati, come due fari accesi nel buio. Come una sorpresa. Come una certezza. Quale delle due cose sia, non lo so nemmeno io. È lo stesso anche per te?

Temo che mi cacci da un momento all’altro, temo di disgustarlo, temo che mi scuota bruscamente e mi mandi via, e allora piango, singhiozzo nel suo petto quelle lacrime che non gli ho visto piangere. Mi affanno a spiegare, a spiegarmi, a farmi capire. La mia voce contro il suo petto è nuova, è vecchia, è antica, è un mistero sussurrato diluito dalla pioggia: sebbene pianga a grandi lacrime, è ferma, scolpita, altisonante. Bisbiglia direttamente alle costole, allo sterno, al muscolo palpitante che pompa il sangue.

“M-mi dispiace, mi dispiace Draco, mi dispiace. I-io, io non sapevo di tua madre, mi dispiace. Ti tormento da giorni, da settimane… e tu… e tu i-invece… nessuno… nessuno m-mi ha detto nulla. Nessuno. M-mi dispiace… m-mi dispiace. Solo stasera… solo s-stasera Fleur me lo ha detto… per c-caso… è stato un c-caso. E sono venuta… a c-cercarti… è tutta la notte che…”. Inghiottisco le ultime parole, l’improvvisa immagine di me folle, pazza, che corro a cercarlo sotto la pioggia in ogni posto che conosco, mi annebbia la vista cieca, occhi chiusi, palpebre serrate nel suo profumo.

Draco, che è rimasto inerte da quando l’ho stretto a me, ad un tratto si irrigidisce, raddrizza la schiena, diventa più alto, immenso, superiore. Promana qualcosa che, come un’onda rovente, mi fa vedere di nuovo dall’esterno, abbracciata, stretta a lui, in quel modo così saldo da non avere precedenti con nessuno nella mia vita che non conoscessi meno che a menadito.

Arrossisco furiosamente come una stupida adolescente, vittima del mio stesso annebbiamento, e ringrazio per poco di essere invisibile ai suoi occhi perché lui, con una delicatezza dolcissima che mi spinge di nuovo a sentire gli occhi pungere, mi stacca il viso da sé per potermi guardare negli occhi.

Le palpebre mi ballano sotto il peso della pioggia battente, ma lo vedo finalmente bene in viso: colgo ogni segno del dolore che gli taglia a fette l’espressione, deformandola e scavandola. Vedo quelle rughe più profonde, vedo i segni dei giorni in cui non ha mangiato, vedo il peso di quelle lacrime che non piange. Ma gli occhi no, gli occhi sono brillanti, vivaci, sembrano schegge d’argento. Hanno persino un fondo di malizia, mentre la sua mano resta ferma sul mio viso a trattenermi, un pollice sotto il mento a tenerlo alzato.

D’un tratto, mi studia, mi guarda come non ha fatto prima, come non so se abbia mai davvero fatto. Non così, non con quegli occhi che cercano, scavano, cercano ancora. Aggrotta le sopracciglia, si raggrinzisce lo spazio in mezzo agli occhi. Vede il trucco colato sulle guance, i capelli bagnati, le labbra raggrinzite che sanguinano, i vestiti completamente zuppi. La fronte si spiana, ripiana, liscia, e di nuovo gli occhi si spalancano, sgranano, gli sfugge un sospiro che casca sulla mia bocca, sa di menta e limone, inconsciamente socchiudo le labbra, me lo faccio scivolare in gola. Mi guarda ancora, pare non crederci ancora a quello che sta per dire, le dita roventi sul mio viso freddo hanno un fremito, solleticano quasi la pelle, mentre sussurra meravigliato, attonito, perso: “Sei venuta… a cercare me, Granger?”.  

Accentua quel me come se lo staccasse dal resto della frase, lo tratta da pronome ininfluente, indegno, miserrimo. Mentre lo pronuncia, la pressione gentile delle dita sulla mia guancia diventa più salda, gli occhi perdono quasi la presa dei miei, paiono lontanissimi.

Per un attimo, non riesco a rispondere, non riesco a dire nulla.

Resto immobile, occhi nei suoi, solo con la pioggia nelle orecchie.

Dentro, come un cercatore di tesori, mi riprendo il me che lui ha buttato fuori così, come se fosse una cosa poco importante: me lo incastono fisso in un margine nascosto di me stessa.

Poi allungo la mano a coprire la sua, ancora poggiata sul mio viso, ed annuisco piano con il capo.

Non riesco a vedere la sua reazione, sparisce davanti ai miei occhi.

Altre immagini sostituiscono la sua vista: ma non scompare.

E’ di nuovo lui, altrove.

Mi si stringe il cuore in una morsa ghiacciata e faccio quasi di corsa quei pochi passi che mi dividono da lui, afferrandolo per la manica del pigiama. Un volo folle e disperato, dove ogni cosa mi sembra possibile.

Posso curare le tue ferite, medicarle, fare in modo che tu senta meno male e che possa riprendere a sorridere. Sorridere di quel sorriso obliquo e imperscrutabile, eppure più sincero di quello facile di Ron o di quello prevedibile di Dean.

Posso starti vicino anche in silenzio, senza dire nulla, anche se sai quanto vorrei farti tante domande e avere tante risposte. Ma mi imporrò il silenzio se a te piacerà e ammanterò tutto il mondo di silenzio, se me lo dovessi chiedere.

Posso continuare tutta la vita a non pretendere niente di più che avere te accanto, nemmeno averti vicino se per te sia troppo, posso vivere così per sempre, anche avendo solamente te e Serenity e considerarmi comunque la donna più felice del mondo.

Posso prometterti tutto questo, oggi, adesso, domani, per sempre.

Ma ti prego, Draco, non piangere più… ti prego… stavolta ti capirò. Oppure lo stesso non ti capirò, ma ci sarò lo stesso.

Ti prego non piangere più…

“Draco...” lo chiamo piano, lui che resta a testa bassa, i suoi singhiozzi amplificati dal silenzio del ristorante.

Lo scrollo piano, cercando di richiamare la sua attenzione, ed è allora che, in un secondo velocissimo, che mi afferra a sua volta per il pigiama, aggrappandosi saldamente a me, ma con troppa forza. Infatti, scivola in ginocchio e io assieme a lui.

Mi ritrovo seduta per terra, lui che piange su di me, la testa china sulla mia spalla. Lo abbraccio di slancio, allacciandogli le braccia attorno alle spalle, sentendo che sto piangendo anche io, senza un perché, per il solo fatto che stia piangendo anche lui. Le sue lacrime scivolano sul raso del mio pigiama e vorrei che invece le assorbisse, le trattenesse fino a farle sparire, fino a cancellarle, fino a quando lui stesso non le senta più sue e torni ad insultarmi, a prendermi in giro, a fare qualsiasi cosa purché sia più felice, allegro di come è adesso. Non posso sopportarlo. Non riesco nemmeno a respirare se stai così. Ti prego, Draco.

 

 

Quando le immagini scompaiono, il contraccolpo stavolta è così intenso che mi pare di essere risucchiata via da una sorta di vortice, come se mi tirassero le braccia e le gambe in due direzioni differenti: mi aggrappo alla manica del cappotto di Draco, chiudendo gli occhi e cercando di frenare le vertigini e la nausea che, come da veneranda tradizione, mi sta sconquassando lo stomaco. Con la visione periferica che preserva un lieve spiraglio dalle mie palpebre socchiuse, vedo Draco che, a sua volta, si regge alla mia spalla, stringendola piano, affondando le dita nella trama umida dei miei vestiti, cosa che mi dà conferma che per l’ennesima volta ha vissuto anche lui la stessa cosa.

“E’ successo di nuovo…” bisbiglia la sua voce sofferta e incerta, travalicando di poco il suono della pioggia, le sue dita hanno un sussulto sulla mia spalla che si trasmette ai miei nervi, facendo formicolare tutto il mio braccio fino alla punta delle dita.

Quando giudico la mia testa abbastanza incardinata in sé stessa da non farmi perdere l’equilibrio, mi azzardo ad aprire gli occhi con cautela, respirando profondamente. Tutt’attorno non è cambiato niente, è ancora la stessa strada di casa, la stessa porta con la corona di bacche rosse ed il fiocco arancio, il vento culla la pioggia e la soffia sul mio viso di fredde frecce ghiacciate: eppure, stranamente, tutto pare slavato, sbiadito, come quando cala una patina appiccicosa sugli occhi e si deve sbatterli a lungo, più e più volte, per far tornare la visione limpida.

Pare tutto il retaggio rigido e offuscato di un’allucinazione, mi sembra di galleggiare sulla melassa.

Come già precedentemente era avvenuto, i colori e i suoni della visione o del ricordo o del maleficio o di quello che dannazione è, sono invece nitidi, intensi, vividi e, per effetto plastico, anche quello precedente che ho rivissuto la notte di Natale sembra acquisirne calore, splende più netto nella mia testa come una specie di puntino luminoso.

Non mi concentro sul suo contenuto adesso, sbatto di nuovo le palpebre per far sì che la lanugine visiva passi e tutto torni reale, concreto, tangibile come sempre è stato. Pare un’immagine sintonizzata male, come una specie di film dato su una rete televisiva dal pessimo segnale.

La sola cosa che, come prima, come adesso, come in ogni luogo, è chiara e distinguibile, è il viso di Draco Malfoy, lievemente abbassato sul mio, attento a scrutare ogni espressione del mio viso, compresi i tentativi di strabuzzare gli occhi e vedere in modo pulito.

Lo guardo a mia volta e la limpidezza nitida del suo sguardo mi riaggancia in me stessa, facendomi respirare daccapo.

“E’ successo un’altra volta…” ripete con voce sottile, la mano sulla mia spalla stringe un po’, rabbrividisco incerta e mi passo una mano nei capelli bagnati, lasciando la manica del suo cappotto. Nello sguardo che mi mette in disordine la testa, leggo un sottofondo subliminale che non faccio fatica a riconoscere in quelle iridi che quasi profumano, è la sola persona al mondo che ha uno sguardo che profuma di qualcosa.

Non sta pensando solo che è la seconda volta che ci succede questo strano fenomeno.

No.

Sta pensando che, anche in quel ricordo, ero con lui e mi prendevo il suo dolore, facendo di tutto perché non restasse solo a lui, ma venisse un po’ via con me.

Cerco di ignorare tutto il resto, mi sento troppo ingolfata per analizzare il contenuto delle immagini e farne delle supposizioni a riguardo: i miei occhi si incanalano diligenti al presente, al suo viso smagrito, agli occhi gravati dalle palpebre viola, ai vestiti che pendono bagnati e disordinati, come se li portasse da giorni.

Torno con la testa alle mie lettere, dove gli ingiungevo che non c’era nulla di più importante di questa maledizione che ci aveva colpito: adesso voglio che sappia in ogni modo che non è così.

Perciò, estrometto dalla mia testa ogni traccia della visione e dico convinta, sollevando il mento e guardandolo dritto in viso: “Adesso non dobbiamo pensare a questa… cosa… qualsiasi cosa sia… da quanto non mangi? E dormi decentemente?”.

Draco sbatte le palpebre, si stacca da me rapido e fulmineo, per poi fissarmi come se fossi una specie di bestia strana, il capo piegato di lato. La cosa mi intenerisce e mi riporta alla mente quella strega di sua moglie che ho Schiantato solo poche ore fa.

Provo di nuovo un’acuta soddisfazione al pensiero della Greengrass carponi sul pavimento, lui non sa nemmeno che cosa significa che qualcuno si prenda cura di lui. Astoria Greengrass può vincere il titolo di Moglie dell’Anno per sedici anni consecutivi.

Questo stupore ne è la prova evidente.

Il suo sguardo mi mette in imbarazzo, facendomi sentire a disagio e ricordandomi che sono ancora davanti alla porta di casa, con lui di fronte, mentre mio marito probabilmente è dentro con nostro figlio. E pochi minuti fa l’ho abbracciato e stretto forte, piena di sollievo per averlo trovato.

Distolgo lo sguardo da lui, allontanando i capelli bagnati dalla faccia e borbottando: “Se vuoi, se non è troppo per la tua regale Maestà… in ufficio… ho qualcosa da mangiare e… persino una brandina”.

“Dio, Granger…” mormora lui con la voce incolore che però si tinge di un lieve velo divertito “E’ un’offerta davvero allettante… sono così patetico al momento da accettarla… pensa un po’ te quanto questa sia davvero una circostanza eccezionale… di vita o di morte…”.

Mio malgrado, sorrido al buio, non riuscendo ancora a guardarlo in viso.

Prima di Smaterializzarmi seguita da lui, faccio in tempo a distinguere poche parole.

Gli sfuggono rapide, nervose, veloci, così che possa darmi modo di fingere di non averlo sentito.

“Sei disgustosamente buona… Hermione… vorrei esserci abituato…”.

Sorrido di nuovo, nello strappo che mi lacera all’altezza dell’ombelico.

Le consonanti e le vocali del mio nome, nella sua voce, sono un suono inedito.

Ma, di nuovo, sapevo perfettamente come le avrebbe pronunciate, prima ancora che lo facesse davvero.

E quel modo di pronunciare il mio nome, non penso lo dimenticherò mai.

 

 

Hermione Granger, 36 anni, lo aveva guardato tutta la sera come se fosse un alieno, come se fosse una specie di extraterrestre biondo che si muoveva tra le sue cose, apparendo estraneo alle cose più comuni come se non gli fossero mai appartenute, come se vivesse in una dimensione diversa e distante dove quelle cose fossero pratiche indistinte di vetusti costumi dimenticati.

Il tratto distintivo del viso, sotto quel dolore e pena che erano come uno spesso cerone che ricopriva i lineamenti soffocandoli, era un continuo ed ingenuo stupore meravigliato: stranamente silenzioso, prosciugato dal lutto l’eloquio sarcastico e velenoso, la seguiva con gli occhi grigi frastornati per i passi che lei disseminava nell’ufficio, fingendo indifferenza e normalità, quando invece sentiva la nuca, la schiena, il cuoio capelluto, perforati e punteggiati da quello sguardo di acciaio.

Seduto nella piccola brandina che lei utilizzava per riposarsi qualche ora a pranzo, affondava quasi nel materasso che non era null’altro che una sfoglia di lana rancida; impettito, con la schiena diritta a testimoniare un perdurante senso di distacco dalla situazione, Draco Malfoy non mollava mai però quegli occhi di tempesta rappresa, puntati sui gesti di lei.

Spontanei, immediati, naturali, come se le appartenessero da sempre, come se ci fosse nata dentro senza alcuna premeditazione o scatto di volontà.

Se ne accorgeva anche lei, di istinto, mentre gli riscaldava della zuppa che aveva preparato per il giorno dopo e pensava in modo automatico che, grazie al cielo, non ci aveva messo le carote, dato che chissà per che motivo era certa che le odiasse.

Forse lo aveva captato ad Hogwarts, ma era un mistero perché lo ricordasse ancora.  

Quando si voltava a guardarlo, Draco Malfoy tratteneva una sorta di spasmo al centro esatto del torace, chiudeva freneticamente le falangi sottili sul colletto della camicia che portava sotto il maglione, come a liberare la gola da un improvviso calo di ossigeno.

Gli indicò il piccolo bagno se avesse voluto farsi una doccia, e di nuovo la sorprese l’intimità di quella domanda come se non fosse che per anni si erano bellamente ignorati: lui, grato, accettò e lei, con eguale gratitudine, ringraziò mentalmente che non commentasse a riguardo.

Gli asciugò gli abiti umidi con la bacchetta mentre era sotto l’acqua, comprendendo che avrebbe rifiutato qualsiasi indumento avesse tirato fuori e che avesse sospettato essere di Ron. Tirò fuori una coperta di lana che Molly le aveva portato quando aveva scoperto che si addormentava spesso in ufficio. Finì di riscaldare la zuppa e prima di appoggiarla sul tavolo accanto alla brandina, si sincerò che non fosse troppo bollente o troppo fredda o troppo salata, come avrebbe fatto con suo figlio. Si sedette lontana, distante, a gambe incrociate sul pavimento, fingendo di leggere dei documenti, così che lui non traesse eccessivo intralcio dalla sua presenza, qualora ogni tanto si ricordasse di come si era ridotto per essere lì, con lei.

E qualora volesse piangere: sicuramente non voleva essere visto in quello stato.

Difatti, doveva aver pianto sotto la doccia, lontano dalla sua vista: diede la colpa con un moto sbiadito di sarcasmo a quel “bagnoschiuma da mezza sterlina che sembra acido muriatico”, ma Hermione sapeva che non era per quello che aveva gli occhi rossi, gonfi. Accettò l’insulto alzando solo gli occhi al cielo, non doveva aver pianto fino a quel momento, era felice che comunque si fosse riuscito a lasciar andare.

“Era la sola donna che io abbia mai amato… e che mai amerò…”.

Lo disse così, come una specie di fulmine a ciel sereno: quando Hermione Granger, attonita, distolse lo sguardo dal documento che comunque non stava leggendo, Draco Malfoy stava mangiando la sua zuppa, serafico, apparentemente come se non avesse mai parlato.

Avrebbe detto solo questo su sua madre: e lei avrebbe trattenuto ogni parola che voleva rispondergli per rassicurarlo, per dirgli che aveva ogni destino per poter amare ancora.

Sapeva che non era così e, giunti a quella inconsueta confidenza, era eutanasia non mentire. La moglie era una stupida sciocca vanesia, da cui non avrebbe potuto divorziare per non perdere suo figlio. Era anche sterile, quindi non poteva avere da lei alcuna figlia da ergere a donna della sua vita. Non aveva sorelle, cugine, probabilmente nemmeno amiche, se quella sera era lì.

E comunque, travalicando le madri, le mogli, le sorelle e le figlie, difficilmente poteva dare etichette di amore assoluto ad un’altra donna, visto che pareva non essersi mai innamorato prima, sebbene sicuramente non gli fossero mancate amanti di qualsivoglia tipo.

Provò ancora quel sentimento inesauribile di tenerezza, compassione, pena, come una specie di guizzo caldo che si contorceva nello stomaco. Non fece nulla, però, sapeva che non avrebbe accettato nient’altro di tale senso nei suoi confronti.

Non voleva ispirare pietà, non aveva voluto mai farlo.

“Credo che accada quando… ci tocchiamo…”, stavolta fu lei a sorprenderlo, le parole vennero fuori da sole per combattere quel silenzio fondo, intenso, rotto solo dalla pioggia contro i vetri. La supposizione si era annidata nel tessuto del cervello come un tarlo benefico, nato apposta per distrarla da tutto il resto, compreso il nuovo ricordo fasullo.

Draco Malfoy strinse le palpebre in un moto di riflessione, poggiò il piatto vuoto di nuovo sul tavolino e annuì piano, pensosamente, con il capo. Aggiunse poi, casuale, soffice, l’impronta innegabile di quella nuova intimità che smussava le parole delle frasi: “… succede quando ci tocchiamo le mani… ci siamo sfiorati anche in altri momenti… ma non è successo”. Le restituì uno sguardo curvo, storto, obliquo, piegato dalle palpebre che ancora la scrutavano, la sezionavano, la analizzavano come un mistero buffo.

Lei si strinse nelle spalle, annuì, voltò il viso dall’altra parte: certo, ovvio.

Quando lo aveva abbracciato, non era successo nulla.

Lui suggerì di sperimentare subito la nuova teoria, lei ebbe una sorta di moto istintivo di ribellione che la fece arrancare alla ricerca di una scusa, dicendo che era tardi, che erano stanchi, che lui doveva riposare, che ne avrebbero avuto tutto il tempo.

Per tutta la risposta Draco Malfoy, da qualche ora un po’ più simile a sé stesso di quanto non fosse stato da qualche giorno a quella parte, si alzò in piedi, le si sedette di fronte sul pavimento, il volto enigmatico e privo di espressione. Le porse deciso il palmo della mano, ingiungendo severo: “Muoviti Granger… sono in cordoglio… non ho tempo per sopportare la tua ritrosia”.

Hermione Granger, 36 anni, guardò quella mano bianca, dalle dita affusolate, immacolata come se fosse fatta di neve, le pareva di guardare il serpente che, nel giardino dell’Eden, offriva la mela ad Eva: pareva una tentazione marcia, proibita, eppure la vedeva dolcissima, inerme, una specie di sfizio goloso da togliersi velocemente e non pensarci più.

Si ricordava adesso, senza nemmeno volerlo, la grana di quella pelle, il suo calore, lo spazio preciso tra le dita, l’odore pulito che sarebbe rimasto sulla sua: e con un afflato selvaggio che avrebbe definito la risposta alla sua provocazione, tese il braccio, il viso aggrottato in un’espressione di sfida, e poggiò la propria mano sulla sua, non lasciando un secondo i suoi occhi grigi, terribili, inesausti.

Lui fece in tempo solo a sospirare, a socchiudere lievemente gli occhi, a racchiudere nella sua mano, più grande, le dita affusolate di lei. Ed accadde, ancora.

 

“La smetti?!” urlo, rossa in volto per la rabbia e la vergogna “Basta, mi sono stancata… dirò a Seth quello che mi pare e piace!”. Mi giro bruscamente su me stessa per scendere le scale, ma, come era prevedibile, vengo fermata da Malfoy. Mi afferra per il polso, costringendomi a girarmi di nuovo. Sta ancora ridendo, riduco gli occhi a due fessure, volendo fulminarlo sul colpo. Non lo guardo in volto, mi farebbe innervosire troppo, i miei occhi trovano la mano che stringe ancora il mio polso. Non mi sta facendo male, non mi dà fastidio, è solamente… appoggiata… lui sembra accorgersi del mio sguardo e si stacca da me, sbattendo per un paio di volte le palpebre.

 

Si staccarono ancora, come se fossero fuoco e ghiaccio, respirando a fatica. Ed ancora Hermione Granger ebbe la scomoda sensazione che più le visioni fasulle le entravano nella testa, più il mondo circostante perdeva definizione, consistenza, pareva un cartonato di ombre.

“Bene… dunque basta che non ci tocchiamo più le mani…” concluse Draco Malfoy con ferocia, alzandosi in piedi e tornando alla brandina, non guardandola più.

Lei rimase immobile, seduta ancora per terra, la mano ancora tesa verso un vuoto che era la schiena che lui le dava, disteso, il volto contro il muro.

Come poco prima, alla Tana, anche adesso non riusciva più a restare un secondo di più in quella stanza, i cui colori, odori e rumori si diluivano come tempera nell’acqua. Vide il suo riflesso nel marmo del suo ufficio e, finalmente, dopo ore in cui si era concentrata solamente su di lui, tornò a sé stessa, agli occhi stanchi ed infossati, alla mancanza di sonno, allo stomaco vuoto, ai vestiti che le si erano alla fine asciugati addosso facendola tremare di freddo, ai capelli spettinati e crespi, a Ron che non sapeva dove fosse, ad Hugo che tra qualche ora avrebbe fatto colazione senza di lei.

Rimise addosso il cappotto, il cappello, la sciarpa grigia, non lo guardò nemmeno, uscì dal Ministero nella notte che iniziava a cedere il passo all’alba.

Una caffetteria era già aperta, lasciò un messaggio in segreteria a Ron scusandosi, bevve un lungo caffè nero bollente, mangiò una girella alla cannella, ignorò ogni affacciarsi dei ricordi falsi nella sua testa e non fece più alcuna supposizione a riguardo.

D’altronde aveva ragione, bastava non toccarsi più le mani: nel chiarore grigiastro, osservò le sue dita contrarsi e riaprirsi come un fiore carnivoro.

Rientrò in ufficio quando era certa che Leda fosse già arrivata e che, di conseguenza, Draco Malfoy aveva lasciato il suo nascondiglio di comodo per tornarsene a casa sua.

Chiese alla segretaria di non passarle alcuna telefonata per qualche ora, si chiuse a chiave, si distese esausta sulla brandina, un braccio a pesarle sugli occhi, mentre respirava con la bocca, come in apnea, per non sentire il profumo lasciato di lui che era un continuo schiaffo, molesto, alla sua stupida ingenuità di averlo voluto aiutare.

Quando si voltò su un fianco, la mano urtò la superficie liscia e candida di un foglio di carta.

Non voleva farlo, non voleva: eppure, cieco il mondo, quando nessuno poteva vederla, sorrise, si tirò diritta in piedi, sperò. E si fidò, di nuovo, di lui.

Non sapeva fare altro.

 

Non mi importa nulla di queste visioni, Granger, e non mi importa nulla di cosa dicono la profetessa, l’empatica e pure il professore di Hogwarts. Sono un fottuto scherzo idiota di qualche imbecille: e di conseguenza, visto anche il mio stato mentale precario al momento, mi piacerebbe davvero sorvolarci su.

Posso vivere senza sapere che cosa diamine siano: non è importante.

Ma, stranamente, quello che penso io è sempre il contrario di quello che pensi tu, Granger: guarda, non lo avrei mai detto, conoscendoci.

Ed anche quello che fai tu, Granger, è il contrario di quello che farei io.

E tu stanotte hai fatto quello che nessuno hai mai fatto per me proprio perché, grazie a Merlino, non sei come me.

Ti devo almeno questo e poi saremo pari, dannata strega.

Se per te è così importante, verrò con te ad Hogwarts.

E verremo fuori da questa storia.

Prendilo come il favore che ti dovevo: e se obietti dicendo che ti sei già fatta una scarozzata non gradita nella mia testa, ti Schianto all’istante.

DM

 

Anche lui si fidò, di nuovo, di lei.

A quanto pare, anche lui non sapeva fare altro.

 

 

 

NOTA FINALE: Come sempre, grazie a chi è ancora qui e a chi c’è sempre rimasto.

Il capitolo 50, salvo imprevisti, sarà pubblicato il 3 marzo 2019.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

                                                                                                                                                       

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

   
 
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