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Autore: shilyss    21/12/2018    22 recensioni
Nella Parigi d’inizio secolo, la famosa e indipendente scrittrice Edith Cushing è ancora vittima dei suoi fantasmi. Uno su tutti ha gli occhi blu e il viso sfregiato. Ma se non si trattasse affatto di uno spettro? Ricordo che sir Thomas Sharpe venne a prendermi a casa. Era all’ingresso, seduto su un divano; tra le mani stringeva il cappello a cilindro, l’ultimo fregio d’una passata ricchezza, di una vecchia eleganza. Mi convinse a seguirlo, afferrò il mio cuore increspando le labbra sottili in un sorriso accennato. Il mondo si sciolse e così le mie resistenze.
[Edith/Thomas]
[ ♦ Storia Seconda Classificata al contest "Tutti pazzi per i musical!" indetto da Mari Lace sul forum di EFP e Vincitrice del "Premio Malinconia." ♦ ]
Genere: Angst, Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Edith Cushing, Thomas Sharpe
Note: Movieverse, What if? | Avvertimenti: nessuno
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Sotto quali cieli ci ritroveremo

 

In sleep he sang to me
In dreams he came
That voice which calls to me
And speaks my name
And do I dream again?
For now I find
The Phantom of the Opera is there
Inside my mind

(The Phantom of the Opera, Nightwish)

 

 

L’ho lasciato andare. È qualcosa di cui mi pento ogni giorno.

Apro gli occhi, sbatto le palpebre e cerco di ricordare se l’ho sognato o meno. M’infilo sotto le coperte, raccontandomi la storia che si stenderà al mio fianco come nella notte lontana alla stazione di posta. La neve aveva ricoperto ogni cosa d’un bianco mantello e nell’irrealtà di quel paesaggio di sogno, fuori dal tempo, ci incontrammo. Thomas mi lanciò un’occhiata; per una sera, una soltanto, dimenticò il passato e i molti peccati a cui era incatenato e fu mio – fui sua.

 

Vivo nell’illusione di un suo ritorno, circondata da carte che parlano di lui e di quello che è stato. Un assassino, un mostro, il degno complice di una donna fuori di sé – eppure com’era bella, Lucille, in tutta la sua follia. Possedeva il fascino e la grazia di certi insetti nati per uccidere.

Anche le mie mani sono rosse, adesso. La chiamano autodifesa, dicono che non potevo fare altro. Stordita dai medicinali e zoppicante, non mi restò altro da fare che fermare la sua furia e salvarmi. Mento, ovviamente. Invento. Sono una scrittrice, è la cosa che mi riesce meglio raccontare storie. Lo faccio da sempre, da quand’ero bambina: intreccio cupe trame piene zeppe di fantasmi e lascio che il filo si srotoli svelando l’intrigo, l’inganno, l’oscura magia che ha fatto nascere la maledizione che si spezzerà solo all’ultimo capitolo. Se solo la vita fosse un romanzo! Se ne possedesse la linearità, la perfezione, la struttura che alla fine si ordina in uno schema preciso, ogni cosa sarebbe più semplice, credo. Invece quest’esistenza è un continuo sperare e mentire e provare a dimenticare. Se dovessi usare una metafora, direi che è un sentiero buio e tortuoso, dove spesso, nonostante tutti i nostri sforzi, siamo costretti a tornare pieni di sgomento sui nostri passi. Io, più di tutti, passo notti intere a scrivere e a riscrivere la stessa storia regalandole ogni volta un finale diverso, ma ugualmente tragico. Lo scopo è cancellare qualsiasi traccia, perpetuare la finzione, camuffare la realtà dietro la fantasia.

 

Le persone che hanno letto il mio primo successo credono che Crimson Peak sia autobiografico. Solo perché ho usato la prima persona e chiamato la protagonista col mio stesso nome, ritengono che ogni evento, battuta, nefandezza, sia reale. Sarebbero disposti a mettere la mano sul fuoco e a giurare che il libro non sia solo un romanzo, ma una testimonianza. Io e il mio editore abbiamo deciso di non smentirli. Fa bene alle vendite alimentare quest’aura di mistero e dipingere me come l’eroina che sono stata, sì, ma solo in parte. Il punto è che la letteratura è finzione. È la valvola di sfogo di uno spirito particolarmente sensibile, la versione edulcorata e corretta dei sogni e delle speranze che animano il nostro cuore, ma anche delle paure, degli odi, delle incomprensioni. Un gioco dove i ruoli si invertono o si confondono, arrivando fino a sparire. Ecco perché, forse, non dovreste credere a tutto quello che ho scritto.

Ho permesso che fuggisse rinunciando ad averlo al mio fianco perché nemmeno il mio patrimonio avrebbe potuto impedire che un tribunale lo condannasse a pendere da una forca. È stata una scelta presa in fretta, suggerita da Alan che aveva tutto l’interesse di questo mondo affinché lui se ne andasse, ma che non poteva certo lasciarlo ferito com’era[1]. Gli occhi di Thomas erano blu e mi chiedevano muti dove fosse lei, Lucille. L’aveva affrontata confessandole di amarmi? La reazione di mia cognata, l’odio che le illuminava lo sguardo mentre mi inseguiva, mi suggerivano di sì, che le avevo rubato Thomas definitivamente, per sempre. Ma come poteva non essere così?

Lei rappresentava il passato da dimenticare: era l’ombra di una madre troppo severa, di un padre brutale e violento. Nella piega serrata delle sue labbra che raramente si curvavano in un vero sorriso, c’era il lento e umiliante peregrinare per l’Europa e il mondo in cerca di una dote, di un finanziamento, di un’occasione che, essendo sempre negata, andava creata, conquistata. Predata. Io, invece, ero il futuro. La possibilità di essere qualcosa di diverso dal vessato rampollo aristocratico costretto a vivere in una casa che, degli antichi fasti, possedeva solo una vaga traccia. La speranza.

 

Sì, gliel’ho portato via, alla fine. Solo che ho dovuto rinunciare al suo sguardo blu che mi fissava come se potesse leggere fin dentro il mio cuore, alle labbra sottili che ho baciato troppo poco, all’odore della sua pelle. Colpa degli infiniti peccati di cui si era macchiato. Alla gente del paese e agli investigatori che ce l’hanno chiesto, io e Alan abbiamo risposto di comune accordo che il corpo di Thomas era rimasto nella soffitta di Allerdale Hall. Coloro che hanno alzato lo sguardo, si sono trovati davanti a un immenso rogo.

Nel mio romanzo, Allerdale Hall non si è accartocciata sotto il fuoco, ma è rimasta lì dov’è, imponente e terribile. Continuava a essere ciò che è sempre stata: l’ultimo rifugio di spiriti senza tempo, la dimora delle anime perdute, la casa di Thomas e Lucille, prigionieri della loro follia perché, in fondo, i fantasmi sono questo, eventi destinati alla fissità del loro ripetersi come fossero insetti rinchiusi nell’ambra. Mia cognata avrebbe continuato a suonare le sue ninne nanne tristi al pianoforte e Thomas si sarebbe consumato nella speranza vuota di inventare qualcosa di utile. E così avrebbero trascorso l’eternità intera. Questo ho raccontato a voce e su carta e, come molte cose, l’inchiostro ha posto un sigillo sulle mie parole donando loro un’autenticità che, in verità, non possedevano affatto. La menzogna è diventata in tal modo reale e Crimson Peak è stato preso per un romanzo autobiografico perché, in mezzo alla finzione, c’è una traccia flebile di realtà.

Sir Thomas Sharpe era il mio baronetto inglese dagli occhi d’un blu chiarissimo il cui spirito appassionato comprendeva il mio in una maniera totale, assoluta. Ho raccontato di come fosse morto per salvarmi, del modo in cui, vinto dall’amore, abbia deciso di abbandonare il vortice di follia in cui era immerso assieme a Lucille per salvare la vita a me e Alan. Può un’azione sola cancellarne mille altre nefande? In un romanzo sì, senz’altro. Il sacrificio d’amore estremo si lega al pentimento e l’antagonista spietato si trasforma, nel momento supremo della morte, in un veicolo di grazia, in un antieroe sfortunato dal sorriso triste. Che finale meraviglioso è stato, per il libro!

I miei lettori hanno amato Sir Sharpe e la sua anima annerita, ma in un certo qual modo, pura. E sono rimasti altresì colpiti dal fascino della sua fiera sorella, perduta, fino all’ultimo respiro emesso su questa terra, in una gelosia e in un rancore troppo profondi per essere spiegati a dovere persino da me, che passo le giornate a raccontare d’altri mondi e di storie. Cosa succederebbe, però, se conoscessero la verità? Se raccontassi che il mio bel marito inglese è da qualche parte, nel mondo? Sarebbero altrettanto indulgenti con lui, o invocherebbero a gran voce la forca? E io, io come potrei giustificare ai miei lettori e alla gente di amarlo ancora e sempre, nonostante tutto?

 

Perdonare no, non è possibile. L’immagine dell’obitorio di Buffalo mi tormenta ogni giorno, ricordandomi come la mia anima, quanto a purezza, non sia da meno dei fratelli inglesi.

In che modo atroce agisce il cuore, se non riesco a smettere di desiderarlo al mio fianco, se quella notte nella neve mi perseguita ancora? Ho fissato su carta mille volte le emozioni provate quell’unica volta, eppure non sono riuscita a liberarmene mai, nemmeno per un istante. Pare sia impossibile, per me, esorcizzare l’amore, rinchiuderlo dentro un quaderno assieme a paure, speranze, desideri, ricordi. Rimane lì, nel mio petto e, quando sono molto fortunata o troppo disperata, a seconda del lato da cui si voglia guardare la cosa, Thomas mi fa visita mentre dormo e canta il suo amore per me, abita i miei sogni, promette e giura che ci incontreremo ancora. Ho sempre pensato si trattasse di una speranza ingiusta e vana, ma ieri sera qualcosa è cambiato.

 

 

Non ho più voluto avere una casa, dopo Crimson Peak.

Sostengo di preferire l’impersonalità degli alberghi, il placido ritmo dettato dalle cameriere che rifanno la stanza senza guardarmi. Ridendo dico che desidero girare il mondo e conoscere storie nuove e l’unico modo per farlo, temo, è viaggiare e incontrare quante più persone possibili. È per questo che Alan mi ha lasciata andare, alla fine. Una vita da nomade non era ciò che faceva per lui, perché l’amore va curato come un giardino. Vivere senza radici, cambiare città ogni stagione, trascorrere le serate nei salotti letterari dando scandalo come Colette, non era ciò che il mio solido spasimante e amico di una vita desiderava per sé, per noi. L’ultima volta che ci siamo visti, anzi, mi ha rimproverata per la vacuità delle mie amicizie, fatte d’artisti sconsiderati che eccedono con le sigarette e l’alcool. In verità, io credo che Alan sappia molto bene perché voglio vivere libera e senza legami: non sono mai riuscita a sciogliermi da quelli che ho stretto e sento, dentro di me, che se andassi avanti, se ci provassi davvero e m’incanalassi in quella che dovrebbe essere l’esistenza di una brava donna del Novecento, Lucille in qualche modo avrebbe vinto. Invece, l’ho sconfitta.

Ho preso il cuore di Thomas e le ho tolto la possibilità di rimanergli accanto come presenza impalpabile perché lui è da qualche parte nel mondo con un altro nome e lei, invece, vaga nella brughiera e urla disperata in quella parte del Cumberland dove, una volta, si ergeva Allerdale Hall che si tingeva di rosso. A unirmi a Lucille, tuttavia, è anche altro. Nessuna delle due può e vuole dimenticare lo sguardo quasi trasparente di Thomas, ma se lei è un’ombra fatta di ricordi impressi come immagini su un dagherrotipo, io cerco di ingannare i miei giorni ubriacandomi di parole, libri, discorsi. Non ho mai amato le occasioni sociali: balli e feste non destano in me che ilarità e incentivano un senso di superiorità senz’altro ingiusto e scorretto, ma terribilmente umano. No, non sono perfetta: come tutti gli scrittori – come tutte le persone, non sono esente da meschinità e bassezze e, spesso, pecco di superbia.

 

L’Opéra[2], però, è diversa e quella di Parigi ha un che di eccezionale. Merito del suo teatro, presumo. Lo spettacolo era di quelli che avrebbero sciolto qualsiasi cuore in un mare di lacrime e parlava d’un amore tormentato musicato da quel compositore italiano tanto acclamato, Verdi. Avrei dovuto piangere per l’amore infelice di Alfredo e Violetta[3]; forse l’ho fatto e quel magone che mi stringeva il petto si è davvero risolto in stille salate che mi hanno rigato le guance. Non lo ricordo. Forse ho tolto gli occhiali e ho scoperto di avere le ciglia umide, forse ora il mio cuore batte troppo forte per ricordare con chiarezza ciò che è stato dopo. È possibile anche che, a forza di raccontare della sua morte, l’immagine di Thomas sia per me sbiadita a tal punto da essere diventata comunque un fantasma. Fantasticare che si trovi nelle Indie Occidentali o a Singapore, figurarmelo a San Pietroburgo o a Oslo o in Australia non vuol dire forse sfumare la sua figura in luoghi che per me sono solo nomi? Il mio viaggiare di città in città, ostinandomi nel mio pellegrinaggio, non ha la medesima funzione di una sua ricerca senza sosta? Io e Lucille continuiamo ad avere più cose in comune di quanto non sarebbe lecito possedere. È la mia nemesi e per questo la comprendo: provo pietà per la sua mente sfaldata, per l’amore stritolante e venefico in cui ha costretto il mio baronetto dal viso affilato e bello. Credo di averlo rivisto, dopo l’Opéra.

I boulevard di Parigi luccicavano per la pioggia insistente che si era abbattuta sulla città fino a pochi minuti prima, la Tour Eiffel troneggiava sulla Senna incuneandosi nel cielo come una promessa di libertà e progresso. Fissandola, mi sono chiesta che ne sarà delle mie storie di fantasmi e mostri, quando la superstizione abbandonerà per sempre le nostre menti e ogni cosa dovrà essere spiegata con una formula matematica. Allerdale Hall è una rovina tetra che si staglia nella brughiera inglese, i suoi fantasmi vagano disperati in mezzo all’erica e al vento. Chi crederà alle mie storie? Chi crederà che ho rivisto Thomas Sharpe, l’altra notte? Indossava una maschera che gli copriva metà del volto, ma identico era il modo di stringere la mano, troppo simile la voce arrochita, distinguibile la lieve cadenza inglese che si sforzava invano di camuffare con un francese perfetto. Mi ha chiesto di ballare un valzer e io l’ho fatto. Un ballo in maschera è uno di quei divertimenti a cui in genere rifiuto caldamente di partecipare, ma l’invito veniva dal suocero del mio editore parigino in persona. Manifestare un’improvvisa emicrania dopo l’Opéra sarebbe stato certamente plausibile, ma poco cortese. In verità, è una scusa che avrei potuto inventare benissimo, ma nel palco vicino al mio avevo intravisto un’ombra nota, conosciuta. Fisico alto e slanciato, capelli neri, viso nascosto dall’oscurità. La mia memoria si è improvvisamente risvegliata, o forse è stata l’immaginazione, a tradirmi. A pochi metri da me c’era un uomo dalle movenze eleganti e note. La mia schiena si è tesa, il respiro è diventato rapido.

La scrittura è finzione, inganno. È l’ipotesi plausibile e verosimile di quello che potrebbe essere, ma non è. Per inseguire un’ombra, mi sono stretta nel collo di volpe che copriva la scollatura del mio abito e sono andata a un ricevimento di cui, altrimenti, non mi sarebbe importato nulla. La strada scintillava per la pioggia appena caduta e, nella mia testa, sono tornata a Buffalo. Ricordo che sir Thomas Sharpe venne a prendermi a casa. Era all’ingresso, seduto su un divano; tra le mani stringeva il cappello a cilindro, l’ultimo fregio d’una passata ricchezza, di una vecchia eleganza. Mi convinse a seguirlo, afferrò il mio cuore increspando le labbra sottili in un sorriso accennato. Il mondo si sciolse e così le mie resistenze.

 L’abito che stasera ho indossato per andare all’Opéra non assomigliava affatto a quello che sfoggiai allora. È diverso per tessuto, foggia, colore persino. Mi chiese di ballare e io accettai la mano che mi porgeva sotto gli occhi sorpresi della madre e della sorella di Alan, di mio padre, della Buffalo che contava. Danzammo reggendo una candela accesa. Vorrei dire che quello fu il momento in cui m’innamorai dell’inglese dallo sguardo blu quasi trasparente, ma mentirei, se lo facessi. Era avvenuto prima: quando, alzando appena gli occhi chiari dai miei fogli dattiloscritti, mi aveva chiesto serio se fossero un’opera di finzione. Le nostre anime si allinearono; il destino che ci avrebbe condotto fino a questa notte era appena stato deciso.

Di quel romanzo, il primo che scrissi, non rimane che qualche appunto. Alcuni capitoli vennero gettati nel camino da Lucille. Prima di uccidermi, desiderava piegarmi e umiliarmi: i miei sforzi artistici ne pagarono il prezzo. Una parte del testo, tuttavia, si salvò dalla furia omicida di mia cognata: conservo ancora con religiosa premura le bozze superstiti che portai via in fretta da Allerdale Hall, mentre Alan appiccava il fuoco alla dimora per celare ogni traccia del nostro inganno. Non ero certa che l’incendio si sarebbe propagato con la dovuta furia. C’era stata la tempesta di neve e Crimson Peak era davvero una dimora immensa. Eppure, questo è quello che avvenne. Il fuoco mangiò ogni cosa attecchendo in ognuna delle stanze marce e grondanti argilla. Dentro di me, ho sempre pensato che i fantasmi ci abbiano aiutati a rendere cenere quella dimora. Forse erano stanchi di rimanere imprigionati al suo interno; meglio vagare liberi per la brughiera, che rincorrersi nei corridoi tetri di quella casa ormai morta.

 

Il suocero del mio editore è un uomo stravagante, eclettico, dai gusti raffinati. È sempre in cerca della meraviglia, di qualcosa che sia in grado di stupirlo e sorprenderlo. Viaggia molto – persino più di me – e intrattiene una fitta corrispondenza con molte delle personalità più in vista della nostra società. Tempo fa, mi presentò un medico viennese che mi parlò a lungo di come, nell’animo di ognuno di noi, si celino impulsi separati che interagiscono l’uno con l’altro nei sogni; questi ultimi non significano sempre ciò che sembrano, tutt’altro: hanno una parte latente e una manifesta[4]. Il suocero del mio editore ama la scienza e le invenzioni, ma è affascinato anche da ciò che gli uomini non possono ancora spiegare: i fantasmi di cui scrivo, per esempio. Ecco perché ritiene che sia un’ospite che arricchisce il suo salotto. La festa in maschera dopo l’Opéra è stata l’ennesima dimostrazione del suo spirito appassionato, istrionico, vivace. E io ho partecipato per inseguire un’ombra, solo per questo.

 

L’ho cercata in mezzo alla folla ciarlante, l’ho inseguita tra i bicchieri colmi di champagne e le risate. Fisico asciutto, postura elegante, capelli neri e una maschera a coprirgli il viso. Poteva essere semplicemente un uomo che gli assomigliava – dicono che ognuno di noi ha un doppio, da qualche parte – ma il modo in cui stringeva il bicchiere e il sorriso laterale che gli increspava la mascella affilata erano i suoi, di sicuro. Ho descritto ogni suo gesto in troppe pagine perché potessi dimenticarmene, ma scrivere equivale a sognare, alle volte. A costruire un mondo immaginario che sopperisce o amplifica la realtà in cui viviamo. Potrei avergli regalato quelle movenze determinate solo nella mia testa, inventandole di fatto o, peggio ancora, le mie osservazioni potrebbero essere falsate dalla volontà inconscia, come dice quel medico austriaco, di rintracciare un collegamento, un nesso.

Sir Thomas Sharpe era di nuovo davanti a me.

Mi guardava reggendo un bicchiere, ma i suoi occhi erano celati dalla maschera che indossava. Se non l’avesse portata, avrei potuto avere la conferma dei miei sospetti, osservando l’inevitabile cicatrice che Lucille gli aveva lasciato sulla guancia, ma così non è stato e lui non l’ha tolta. Era in disparte e osservava l’imponente pianoforte a coda che troneggiava nella sala, forse domandandosi se le dita da lady di Lucille avrebbero saputo creare armonie belle come quelle del pianista che stava suonando quel momento. Mi sono avvicinata per guardarlo meglio, per scoprire la linea affilata e decisa della mascella, per rintracciare un segno che mi indicasse la sua vita di esule fuggiasco, scappato grazie all’intercessione mia e di Alan.

 

Durante questi anni, ho pensato molte volte al fatto che, forse, il mio baronetto era morto da qualche parte. La vita solitaria del fuggiasco si adatta bene a uno degli eroi romantici dei miei romanzi o dei grandi narratori che mi hanno preceduta e che mi seguiranno, ma non necessariamente è la condizione ideale per tutti gli uomini. Thomas era uno spirito sensibile e appassionato, un inventore visionario stritolato in una situazione che detestava, ma da cui non poteva né riusciva a fuggire. A volte parlo di lui al presente, perché sono convinta che sia ancora vivo da qualche parte, altre, invece, al passato. In fondo, la magnificenza del personaggio che ho creato sta proprio in questo: nella sua morte nobile, da eroe, che redime, nel suo unico e ultimo gesto estremo, i crimini orrendi che ha compiuto.

Vedete, Thomas Sharpe era colpevole come sua sorella. Era lui che ingannava e seduceva ereditiere dalla bellezza sfiorita promettendo loro un amore eterno e romantico; era sempre lui che consentiva a Lucille di servire loro il tè avvelenato che le avrebbe condotte a una morte lenta e insospettabile. Il pentimento e il successivo sacrificio della vita avrebbero nettato l’anima scura di mio marito da ogni impurità e peccato, ma sfuggire alla forca e alla giustizia lo ha reso simile ai fantasmi che abitavano Crimson Peak: eventi destinati a ripetersi, insetti intrappolati nell’ambra. Ma ora, quale chimera o sogno avrebbe dovuto inseguire, il mio inventore geniale? Risparmiandogli l’impiccagione, a cosa lo avevamo condannato? Senza Allerdale Hall da salvare e Lucille, Thomas sarebbe diventato un uomo inquieto in cerca di uno scopo.

 

La prima volta che danzai con Sir Sharpe, indossavo un abito d’un rosa chiarissimo. Quello che portavo l’altra sera, invece, aveva la stessa sfumatura del sole al tramonto, perché anche la mia anima è tormentata, adesso. Mi sveglio la notte e sono lì, nella neve, a guardare le mie dita macchiate di sangue, i capelli sciolti sul viso, le lacrime che offuscano ancora di più la mia vista già incerta. Avrei dovuto odiarlo, quell’uomo elegante in disparte accanto al pianoforte e, invece, mi sono avvicinata a lui approfittando della confusione che aleggiava nella sala, come una farfalla attirata da un fiore. L’amore ci costringe davvero a compiere gesti terribili, Thomas.

Abbiamo ballato e io ero certa fosse lui, a stringermi. Gli ho chiesto sotto quali cieli avesse trovato rifugio, in questi anni in cui ci siamo cercati, inseguiti. Non mi ha risposto, il valzer è stato troppo breve e, quando la musica si è interrotta per permettere alle coppie di sciogliersi e riformarsi, sono stata distratta dalle domande di un ammiratore e l’ho perso.

 

 

Forse avete sentito anche voi la voce secondo cui io sia pazza. C’è chi sostiene che il mio continuo viaggiare senza sosta per le città d’Europa sia una caccia a un fantasma spirato da anni che cerco in altri volti, sorrisi, sguardi. A volte, lo penso anch’io. Ci sono giorni in cui credo che sir Thomas Sharpe è morto chissà dove – e allora, che la terra ti sia lieve, amore mio – altri, invece, in cui la diceria, spesso quasi senza fondamento, dell’esistenza di un uomo sfregiato dai modi da aristocratico e dal passato oscuro mi raggiunge e mi spinge a fare i bagagli e a partire. Il mio editore sostiene che alla festa ho ballato con un uomo d’incredibile intelligenza e arguzia che aveva conosciuto proprio lì, al palco dell’Opéra. Colpito dalla profondità di certe sue considerazioni su La Traviata, lo aveva invitato al ballo in casa del suocero. Ma il mio amore perduto e maledetto gli ha lasciato un nome falso e un indirizzo che non corrisponde a nulla e ora sono qui, a struggermi di nostalgia, a cercarlo in ogni angolo di Parigi.

Ho spedito la mia domestica personale in tutti gli alberghi della città, per raccogliere informazioni su un uomo sfregiato e gli occhi blu dai modi eleganti, distinti. Ho allertato le stazioni di posta e quelle del metrò[5]. Io stessa sono uscita, nonostante la pioggia, per cercarlo. Desidero solo toccare le sue mani, baciare le sue labbra, ascoltare la sua voce. La sua anima è macchiata, ma la mia non è da meno. Posso perdonare quello che mi ha fatto? No, mai, ma lo amo ugualmente e il tempo, che dovrebbe lenire il mio cuore e far sfumare il suo ricordo, anziché concedermi la grazia dell’oblio, lo alimenta in modo feroce.

 

 

Ogni giorno passato senza di te, Thomas, è sprecato, è vano. Desidero aprire gli occhi e trovarti accanto a me al mattino, addormentarmi sul tuo petto ascoltando il tuo respiro. Fondermi in te, con te. Ti inseguo in ogni pagina che scrivo, ti cerco in ogni sguardo che incrocio. Piove di nuovo, e io chiedo all’autista di raggiungere la stazione in fretta, perché ti hanno visto aggirarti con un bagaglio leggero nell’atrio, poco meno di un’ora fa. È sotto questo cielo che ci ritroveremo?

In molti sanno della mia ossessione: le cospicue mance che lascio in giro per la città, mi permettono di avere occhi e orecchie dappertutto. Thomas, sto arrivando.

 

Una scena simile si è già verificata, e non solo nella mia testa. A Napoli e a Dublino mi sono ritrovata a correre a perdifiato per inseguire una figura che ti assomigliava, ma stavolta, ne sono certa, sarà diverso – deve esserlo! – o il mio cuore si spezzerà ancora. L’atrio della stazione è gremito di persone, il treno è in partenza. Potrei essere arrivata troppo tardi. Il pensiero lacerante mi attraversa la mente, lo stomaco si contrae in uno spasmo violento e improvviso. Non posso perderti ancora, Thomas. Ti inseguii anche a Buffalo, ricordi? Corsi nell’albergo che ospitava te e Lucille e trovai le vostre stanze vuote, ma quella era una magnifica trappola che avevate allestito solo per me, mentre adesso la nostra partita è contro il fato, la ragione, il tempo. Ti cerco e non ti vedo e intanto il capotreno invita i viaggiatori a prendere i loro posti, ad accomiatarsi dal cielo grigio di Parigi. Attorno a me la gente si dice addio o arrivederci sfiorandosi le labbra in baci dolci o passionali, mentre io giro come impazzita nel tentativo di scorgere la tua figura altera ed elegante tra la folla. Potresti essere su un altro treno o già seduto nel tuo vagone. Il vapore avvolge i binari, la notte è scesa su questa città magnifica e romantica divisa dalla Senna e, a un tratto, ti vedo, Thomas.

 

Cappotto scuro con il bavero alzato a nasconderti il viso, capelli neri leggermente arricciati, ombra slanciata fatta di contorni e buio contro la luce grigia dei lampioni della banchina, un piede quasi sul predellino del treno. Urlo il tuo nome – quello vero – corro verso di te. Thomas, Thomas!

Esiti, incerto se salire sul vagone e sparire nell’ennesimo viaggio che ti porterà lontano da me, oppure, finalmente, svelarti, fare pace col tuo passato pieno di ombre. Sarebbe il momento giusto per voltarti, amore mio. Ho il respiro corto, sollevo con le mani i lembi della gonna per raggiungerti prima che il vapore del treno in partenza e gli altri passeggeri ci separino. Vedo la tua ombra slanciata e diritta bloccarsi, fare spazio ad altri viaggiatori che, a differenza di noi, non hanno alcun conto in sospeso.

Eppure, potresti ancora non essere tu. Te l’ho detto, questa scena si è già verificata: conosco il peso della delusione, il dolore che spezza il cuore. Vorrei che oggi fosse diverso, lo spero con ogni fibra del mio corpo. Thomas. Ti raggiungo, sotto le mie dita sento la lana robusta del paltò nero. Ti afferro il bavero sollevato, ti costringo a guardarmi.

Alle volte, il tempo si ferma, si cristallizza. Siamo come insetti intrappolati nell’ambra desiderosi di ripetere eventi passati, innamorati in cerca dell’altra metà del nostro cielo, e non importa quanto questo possa essere oscuro e tetro.

“Edith…”

Come sono blu i tuoi occhi! Mi fanno dimenticare lo sfregio che ti segna lo zigomo affilato, offuscano la tua voce che mi ha chiamata e, sebbene sia poco meno che un sussurro, sovrasta il rumore amplificato della stazione. Il treno sta partendo, l’ultimo squillo nervoso avvisa i viaggiatori che occorre partire, ma io sfioro le tue guance e anche tu mi stringi. Sei tornato da me! Ci baciamo e le rotaie iniziano a muoversi lentamente, la folla forse ci guarda, forse s’allontana. Ci baciamo, e non è un sogno né un miraggio. Le tue labbra sfiorano le mie e sono dolci, ma c’è una disperazione assoluta nel modo in cui ci cerchiamo, tocchiamo, consoliamo. L’incertezza del primo, esitante contatto – siamo davvero noi? – lascia spazio alla nostalgia che ci ha graffiato il cuore, alla mancanza che ha dilaniato il nostro spirito, ai sogni che abbiamo inseguito per anni in cui uno era lo spettro irraggiungibile dell’altra.

Ci separiamo per un breve istante, ma siamo ancora avvinghiati in un abbraccio serrato da cui non vogliamo né riusciamo a scioglierci.

“Avevi promesso che non mi avresti mai cercato,” dici, e con una mano mi sfiori i capelli come se fossi una cosa preziosa perduta e ritrovata.

Sorrido, mi metto in punta di piedi per cercarti di nuovo le labbra e assaggiarle, assaporarle, sentirne il gusto. Hai davvero creduto che potessi dimenticarti e mantenere fede a una promessa così ingiusta? Non ne sono stata capace, amore mio. Mai.

Un altro bacio. “Lo so, ma è successo.”

 

Fine

 

 

Note Autore:

Cari Lettori,

Questa shot ispirata al Fantasma dell’Opera parte da un what if megagalattico: cosa sarebbe successo se il colpo inferto da Lucille a Thomas non fosse stato letale. Ho immaginato che Alan e Edith avrebbero permesso a Thomas di fuggire e nascondersi. Per occultare ogni traccia, Allerdale Hall sarebbe stata bruciata e sir Sharpe avrebbe potuto nascondersi in mezzo ai paesani imbacuccati che vengono in soccorso dei due americani. Qualunque tribunale in qualsiasi tempo avrebbe condannato a morte sir Sharpe per i molteplici omicidi commessi/consentiti (e non pensiate che i nobili, specie se poveri in canna come gli Sharpini, fossero immuni dal potere legislativo: ho fior di testi a casa che smentiscono questa idea romantica). Dunque, per avere un Thomas in carne e ossa, era conditio necessaria che questi fosse creduto morto. Il resto è raccontato nella shot che spero sia di tuo gradimento, o lettore.

Ho scelto di ambientare la scena a Parigi per creare un collegamento con l’originale romanzo Il fantasma dell’opera, che ha ispirato le ambientazioni gotiche della shot e, soprattutto, era alla base dei prompt affidatimi per la stesura della storia (colore blu, frase della canzone dei Nightwish citata in apertura e tradotta nel testo e la maschera iconica del personaggio). Altre curiosità sono presenti nelle note sparse. Gli spettacoli all’Opéra Garnier iniziano sovente alle 19,30 e finiscono intorno alle 22,30. Basandomi anche sui romanzi ottocenteschi letti, ho supposto che la gente ricca, che non doveva andare a lavorare alle cinque del mattino, avrebbe potuto tranquillamente organizzare un ballo dopo l’Opera o un altro tipo di spettacolo (cfr. a tal proposito, Dumas ne “La dama delle camelie”). Nel testo sono presenti dei richiami al film: in particolare, il dialogo tra Thomas e Edith ricalca l’ultimo, tragico, tra il baronetto e la sorella. Sullo stile. La voce di Edith cambia interlocutore durante la storia, dividendosi idealmente: nella prima parte, che ripercorre gli eventi fino a quel momento, il racconto è fatto a degli immaginari ascoltatori/lettori; nella seconda, per rendere l’inseguimento di Edith più cupo e disperato, ho preferito che lei si riferisse direttamente a Thomas perché tutto scompare, attorno a lei. Nel testo, affinché fosse più enfatico, ho volutamente lasciato delle ripetizioni (ogni/ogni, forse/forse, tua/tua/tua) volte a suggerire l’effetto dell’ossessione che Edith nutre per il marito. Spero che questi barbatrucchi vi siano piaciuti. Le parole sono meno di cinquemila.

Shilyss



[1] Una voluta forzatura al canone: la ferita che Lucille infligge a Thomas è mortale. Qui si suppone che sia stata grave, ma non letale.

[2] Ho scelto di adottare la dicitura francese e quindi non Opera ma Opéra: L’Opéra Garnier fu costruita dall’omonimo architetto e inaugurata nel 1875. Qui è ambientato il famoso romanzo Il fantasma dell’Opera di Leroux.

[3] Il riferimento è a La Traviata di Verdi, basata a sua volta su un romanzo di Dumas. Nei prossimi giorni (Natale 2018 per pura casualità all’Opéra faranno proprio La Traviata.

[4] Il medico viennese è ovviamente Sigmund Freud. La teoria citata da Edith è quella espressa ne L’interpretazione dei sogni, che uscì nel 1899.

[5] La metropolitana di Parigi venne inaugurata nel 1904. Le vicende di Crimson Peak si svolgono tra il 1899 e il 1901, mentre la collocazione temporale di questa shot è databile intorno al 1908 (prevede che Edith Cushing sia già un’affermata scrittrice).

   
 
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