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Autore: A_Typing_Heart    22/12/2018    0 recensioni
Auris. Vengono chiamati così coloro che nascono con la macchia dorata sull’ombelico, il segno inequivocabile di un potere sovrannaturale dentro di loro.
Discriminati e temuti per lungo tempo, la strada degli Auris sembra essere solo quella di diventare eroi e proteggere l’umanità, Civil Heroes.
Ma mentre Mukuro vede rivelata suo malgrado la sua natura ed è costretto a percorrere un cammino pericoloso e complicato, un gioco di poteri ancora più grandi è messo in moto dalla Ruota...
Genere: Azione, Sentimentale, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Shonen-ai | Personaggi: Byakuran, Kyoya Hibari, Mukuro Rokudo, Tsunayoshi Sawada
Note: AU, Cross-over, OOC | Avvertimenti: Violenza
Capitoli:
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Nell’ombra, il bambino fissava i soldati che passavano davanti alla sua cella. Lo faceva ogni giorno da quando si trovava lì, e da che si ricordava era sempre stato lì, nel sito militarizzato 3270.

Il suo carceriere attuale si chiamava Haxley: era un uomo con le mani ruvide, gli occhi freddi e un accento pesante. Aveva un odore pungente di sudore misto a deodorante che ricordava un acquitrino e un alito da fumatore, ed era sempre sgarbato con lui.

Si scostò appena dalla feritoia per il vassoio per non farsi accorgere mentre spiava l’uomo che lasciava il suo posto di guardia per la consueta fumata, poi incollò la guancia alla porta seguendolo fino in fondo al corridoio. Con una flessione delle sopracciglia quasi impercettibile si ritirò per sedersi sulla sua brandina.

Il deserto era gelido di notte, quindi il soldato spense la sua sigaretta strofinandola contro il muro di cemento grezzo e si affrettò a rientrare dopo solo qualche tiro. Gli anfibi appesantivano il passo e l’eco nel corridoio spoglio. L’uomo alla guardiola non commentò la velocità della sua fumatina e gli riaprì la porta facendogli un cenno con la testa.

«Ehi, Haxley, hai fame?»

Haxley aveva già superato la porta e tornò indietro di un passo per notare che il suo commilitone aveva un panino avvolto nella carta e delle patate fritte in un cestino.

«Da dove arriva quella roba? Di sicuro non dalla mensa.»

«Cosa pensi, che l’abbiano consegnata a domicilio da Reno? Ne ha portati Walker quando è rientrato dal permesso due ore fa, s’è fatto riempire una borsa termica.»

«Dio benedica quel gran figlio di puttana» commentò sentitamente Haxley, e prese il panino e le patatine. «Non voglio debiti coi canadesi, ma per questa volta…»

L’altro soldato rise di gusto e si mise a sintonizzare la piccola televisione per cercare un canale con segnale stabile.

«È del Maine» gli fece notare per l’ennesima volta.

«E che ho detto io? Canadesi.»

Il soldato scosse la testa e Haxley superò la porta chiudendosela alle spalle. Provato da troppe settimane di pessimo cibo della mensa scartò l’hamburger e ne prese il più abbondante boccone che riuscisse; poco gli importava che fosse appena tiepido e ignorò persino i detestabili sottaceti. In quel momento gli sembrava che non esistesse qualcosa che si accompagnasse meglio a carne e formaggio.

Sfilò davanti alla fila di celle fino a raggiungere il suo tavolo malconcio e la sua sedia scomoda, e su quell’umile trono divorò il cheeseburger come fosse stato lui il prigioniero affamato. Con l’ultimo boccone ancora sotto i denti e la salsa sbavata sulla faccia tentò di sintonizzare anche la sua televisione portatile per poter vedere la partita dei Dallas Cowboys.

«Avanti, piccola» incalzò l’apparecchio. «Fammi vedere quanto sei brava…»

Lo schermo si colorò di immagini e il suo buonumore salì ulteriormente riconoscendo familiari figure in bianco e blu su fondo verde.

«Cazzo, dev’essere il mio giorno fortunato… forse dovrei piazzare una scommessa sulla partita.»

Sedette più comodo possibile con il cestino di patate in grembo ascoltando i commenti del prepartita. Da un momento all’altro la voce del cronista gli rimbombò nella testa assordandolo: si tappò le orecchie e nel gesto brusco il cestino di patatine rovinò a terra. Pochi secondi dopo era tutto di nuovo normale e Haxley si accorse del disastro sul pavimento.

«Di nuovo lui» ringhiò, e si scaraventò via dalla sedia. «EHI, SACCO DI MERDA!»

Si diresse alla cella più vicina e colpì la porta con un pugno furioso.

«Te l’ho detto l’altra volta, sacco di merda! Non fare i tuoi giochetti del cazzo con me, o vengo lì dentro e ti gonfio la faccia a calci!»

Il bambino con gli occhi scarlatti lo fissava dalla finestrella, senza un’espressione sul volto e come sempre non parlò. L’assenza di reazioni era intollerabile per un uomo dello stampo di Haxley, che tempestò la porta di pugni nel vano tentativo di strappargli almeno un sussulto.

«Ehi, Haxley!» fece la voce allarmata del commilitone in fondo al corridoio. «Che succede?»

«Niente… niente» replicò l’uomo, fissando l’impassibile bambino dietro la porta. «Niente, lo stronzetto del diavolo sta facendo uno dei suoi giochetti da pezzo di merda.»

«Devo chiamare il colonnello?»

«Non serve… ora se ne starà buono.»

Haxley tornò al suo tavolo, ribollente di furia frustrata, poi ebbe un’idea degna di un sostenitore convinto del nonnismo qual era lui. Si affrettò a raccattare la patatine nella vaschetta e tornò alla porta della cella, con un sorriso storto.

«Ehi, Sashko… Sashko

Il bambino girò la testa. Per la prima volta la sua faccetta espresse un accenno di stupore nell’essere chiamato per nome.

«Dai, è una buona giornata oggi. Voglio essere gentile con te.»

Posò la vaschetta di patatine davanti alla feritoia per i pasti.

«Ti piacciono le patate, no? Piacciono a tutti» fece lui, tentando di ingolosirlo. «Facciamo un patto: tu te ne stai buono e io ti do queste patate da mangiare. Ci stai?»

Sashko si alzò dalla brandina a terra, sistemandosi l’orlo del camice grigio che indossava prima di avvicinarsi. Osservava il cibo con vivo interesse e Haxley fu sicuro di aver vinto.

«Ho la tua parola allora?»

Il bambino annuì senza guardarlo e il soldato gli spinse le patatine dall’altra parte, dove avide manine se ne appropriarono. Soddisfatto di quella rivincita e pregustandosi la partita in tranquillità tornò al suo tavolo, dove rimase ad entusiasmarsi per un quarto di gioco.

Poi, successe di nuovo qualcosa. Il suo campo visivo divenne completamente nero per qualche attimo prima di tornare normale, divenne nero, poi tornò, e ancora si oscurò. Una rabbia cieca quanto i suoi occhi in quel momento esplose dentro di lui; si alzò scaraventando via la sedia e marciò fino alla porta della cella. Il bambino fissava la finestrella e poté incrociare il suo sguardo.

«Piccolo schifoso, te la sei cercata!» gli urlò contro, e con le mani che fremevano aprì le due serrature metalliche della vecchia porta e la spalancò. «Ti stacco quella cazzo di testa, brutto–»

Un altro momento di buio e Haxley cadde in ginocchio, ciondolò e si accasciò di lato nel momento in cui la sua testa smise di rotolare nel corridoio. Sashko, ansimando, tentò di toccarsi la schiena che gli faceva così tanto male ma non ci riuscì, e con l’affievolirsi del dolore rinunciò a raggiungerla e si strinse le braccia all’altezza dei gomiti.

Osservò il corpo di Haxley, con il sangue che sgorgava a fiotti dal collo, e poi la testa fuori dalla porta. Con i piedini nudi scavalcò le gambe del soldato e uscì dalla cella con circospezione, ma non vide nessuno e non sentì grida o allarmi. Si accovacciò accanto alla testa con gli occhi ancora aperti osservandola con vivo interesse; girava la testolina bruna a destra e a sinistra, rimuginando. Alla fine, la raccolse tenendola dall’orecchio e la portò con sé avviandosi verso la porta in fondo a quel corridoio, da dove veniva un buon profumo.

*

Un altro sorvegliante di Sashko era il soldato Randall. Non era aggressivo e brusco come Haxley, ma era così impettito e parlava in modo così pomposo che il bambino lo trovava il più buffo degli individui della base.

J.T. Randall infatti aveva tutte le ragioni per sentirsi orgoglioso e mostrare con fierezza il badge di accesso dell’esercito: era un soldato dal curriculum brillante, che un tempo si era sentito svilito dall’essere proposto per un misero incarico di guardiano in una remota base militare nel Nevada. Poi, una volta istruito sulla vera natura del luogo e della sua mansione, aveva preso quel lavoro molto seriamente e, nei limiti della segretezza impostagli, si vantava con tutti di avere grandi responsabilità.

Tuttavia Randall, come Haxley, non era preoccupato dai suoi prigionieri: non credeva che indulgere in una partita a carte con i compagni, guardare un film durante il turno di guardia o l’appoggiare il fucile leggermente fuori portata potesse originare il caos e abbattere la tragedia sul mondo come l’apertura del vaso di Pandora.

Quando uscì dal bagno allacciandosi la cintura non pensava che fosse una sera diversa dalle altre duecentoventisei che aveva passato lì, e i suoi pensieri erano tutti rivolti all’imminente permesso che stava per ottenere e alla fidanzata che l’aspettava in tempo per il suo compleanno.

«E mangerò davvero bene» borbottò a se stesso, di ritorno alla sua guardiola. «Barbecue, appena ritorno… con torta di zucca e gelato, patate fritte, maionese e poi finalmente sesso

Dolci fantasie della sua sensuale Jessica lo distrassero dalle scene del film d’azione sul piccolo schermo, facendolo sorridere istintivamente; allungò la mano e recuperò una lattina di caffè nero freddo dal cassetto della sua scrivania. Dalla sua ultima missione in Giappone non era ancora riuscito a fare a meno di farsene spedire periodicamente da conoscenze del luogo. Era una delle ultime e le scorte tardavano ad arrivare, per questo quando a un tonfo seguì uno schizzo di qualcosa sulla sua faccia e sulla lattina si arrabbiò più di quanto fosse sua natura.

«Ehi– Haxley, che cazzo…?»

La sua ira sfumò in paura e le sue imprecazioni in un grido quando capì che cosa fosse stato a schizzare contro di lui: la testa di Haxley aveva sbattuto contro le sbarre e il sangue aveva spruzzato il pavimento, la scrivania, il suo viso e i suoi vestiti. Gridando senza senso il suo nome si precipitò a raccogliere il fucile nell’angolo, si scapicollò nel corridoio imbracciandolo e andò al punto in cui era caduta la testa. Era allarmato, ma proseguì con la circospezione di un soldato navigato: se c’era la sua testa doveva sincerarsi di dove fosse il resto del corpo; e se sopra ci avesse trovato una testa che rideva di lui era ben pronto a farle saltare tutti i denti a pugni.

«Haxley» chiamò mentre avanzava. «Se è uno scherzo del cazzo dillo ora, o ti sparo a vista!»

Non ottenne risposta, ma non se l’aspettava davvero. Che il suo collega avesse preparato una testa simile alla sua, il sangue e un trucco per lanciarla solo per fargli uno scherzo macabro era eccessivo anche per un tardivo Halloween, e Haxley era sprovvisto di senso dell’umorismo.

Si bloccò nel corridoio, sentendo un brivido lungo la schiena. Come avrebbe potuto quella testa essere lanciata da tanto lontano nel corridoio da permettere ad Haxley o qualcun altro di nascondersi dietro la postazione del guardiano in un attimo? Seppe allora di aver già superato l’autore del macabro gesto.

Non fece in tempo a voltarsi. Gridò mentre qualcosa gli squarciava la schiena da sotto in su con tanta forza da sollevarlo da terra, il fucile esplose alcuni colpi consecutivi per riflesso delle dita, e quando J.T. Randall toccò il pavimento era già morto. La sua testa atterrò subito dopo il resto del corpo.

Sashko mise i piedini a terra e il suo sottile gemito fu l’ultimo rumore nel corridoio. Con profonde fitte di dolore alla schiena e il sangue che gli colava lungo le gambe barcollò più in fretta che poté – il sangue rendeva scivoloso il pavimento - fuori dalla porta lasciata aperta.

*

Sul fare del giorno, in una stanza a molte miglia dal Nevada, un telefono dallo squillo discreto suonò nel buio. Il rumore fece inquietare la figura nel letto, che dopo essersi voltata da un fianco all’altro emerse dalle coperte per affrettarsi verso lo scrittoio con un’andatura zoppicante.

«Reiner» disse l’uomo, con la voce ancora impastata.

«Colonnello Reiner, qui Mauden… signore, si tratta di un’emergenza.»

«Lo voglio sperare per te, qui sono le cinque del mattino, Mauden.»

«Mi scuso per questo, signore» replicò lui impaziente. «Ma abbiamo una falla sulla nave, signore.»

L’espressione seria che si dipinse sul viso del colonnello diceva che aveva colto un senso più profondo di quelle parole.

«Quale nave?»

«Sashko, signore.»

L’uomo si raddrizzò appoggiandosi allo scrittoio.

«L’avete ricondotta al porto?»

«No, signore… noi… al momento, non sappiamo quale sia l’attuale posizione della nave.»

Il colonnello digrignò i denti e prese i pantaloni accuratamente piegati con un gesto stizzito.

«Chi è stato? Chi l’ha fatto uscire? O mi darai la testa del responsabile o le prenderò tutte, Mauden!»

Seguì un silenzio imbarazzato, poi con una voce malferma Mauden parlò.

«Veramente, signore… è… Sashko ha già provveduto, signore. Tutti i soldati di guardia sono morti… e… quasi tutti con la testa staccata dal collo.»

«Che cos’hai detto, soldato?» scandì l’uomo, incredulo.

«Tutti, signore. Due soldati erano tornati alticci dal loro permesso e non si sono svegliati quando è stato dato l’allarme… tutti gli altri che hanno cercato di riprenderlo sono morti.»

Reiner rinunciò al goffo tentativo di vestirsi con una mano sola e si afflosciò come un sacco vuoto sulla sedia davanti allo scrittoio. In quanto uno dei pochi a conoscenza delle reali applicazioni e portata del progetto Solomon Reversed comprendeva che per quanto affranto Mauden non aveva la più pallida idea della piaga che avevano lasciato uscire dalla base.

«Per quanto sia pericoloso, ha pur sempre il corpo di un bambino» fece allora, più controllato. «Non può attraversare il deserto del Nevada di notte come fosse un prato fiorito. Chiama truppe dalle basi più vicine, metti una taglia per trovarlo nei centri abitati, ma trovalo. Io parto immediatamente.»

Aspettò a malapena una risposta e agganciò la cornetta. Si alzò con difficoltà ma con uno schiaffo sbloccò il muscolo danneggiato della sua gamba per vestirsi più velocemente possibile, mentre rifletteva con aria grave sul da farsi. Preso il bastone, il cappello e una leggera valigia di effetti di prima necessità aveva una scaletta ben chiara delle azioni da intraprendere – com’era non sorprendente per un uomo con la sua esperienza militare – ma non poté non rammaricarsi che tra tutti i soggetti della base 3270 fosse sfuggito al controllo proprio quello.

*

La nave rollava appena nelle forti correnti del Pacifico, data la stazza imponente. Percival percorse il ponte corridoio infilando la vestaglia, con la mente che correva a dozzine di scenari che potessero giustificare la convocazione del capitano a quell’ora tarda. Non arrivando a niente si affrettò a raggiungere il ponte superiore, quasi deserto.

Il capitano stava ammirando un cielo stellato brillante, libero dall’inquinamento luminoso delle città, seduto su una tovaglia a quadri. Accanto a lui era inginocchiata la sua compagna, con capelli del suo stesso azzurro luminoso ma molto più lunghi. Tra di loro caramelle sparpagliate, frittelline in un piatto, una ciotola di frutta tagliata e una bottiglia: sembravano nel pieno di un picnic notturno.

«Oh! Percival, non stavi dormendo, vero?»

«No» le rispose lui avvicinandosi. «Stavo per andare a letto quando ho pensato di scrivere una lettera a mio fratello. Stavo scrivendo quando Arthur mi è venuto a chiamare.»

Il capitano si girò per rivolgergli un gran sorriso.

«Non c’è bisogno di quella faccia seria, Percival… vieni a sederti. Io e Lyria stiamo aspettando la cometa.»

«Credevo che sarebbe arrivata tra due giorni. Sei sicuro di poterla vedere questa notte?»

«Oh, sì. La sento avvicinarsi» replicò lui, come annunciasse un temporale da tuoni lontani. «Siediti, dai. Abbiamo un po’ di tè al mango qui, e cibo a sufficienza. Non devi perdertela, non passerà per i prossimi centootto anni, dopotutto.»

Percival scrutò il profilo del capitano mentre prendeva posto a un angolo della tovaglia. Non era una novità che se ne uscisse con criptiche affermazioni e ben poche trovavano una spiegazione logica, ma d’altronde aveva davanti una delle creature più potenti al mondo… e anche una delle più misteriose, per quanto lo riguardava.

«Che cosa c’è di speciale in questa cometa, a parte la sua rarità?»

«Oh, è unica nell’universo… in quest’epoca si chiama Solomon, ma un tempo la chiamavano Sharui Avakti, “la lacrima della dea”. Qualche popolo credeva che fosse il punto visibile della ruota del destino, e che vederla significasse che un ciclo era stato concluso.»

Gran sapeva di essere misterioso nell’accennare a certe cose e gli dispiaceva non poter essere totalmente cristallino, ma anche se aveva creato un intero equipaggio per perseguire un nobile scopo non riteneva fosse saggio rivelare loro tutto ciò che lui sapeva.

Sorrise a Percival, che lo guardava senza neanche provare a nascondere l’irritazione che i suoi segreti gli provocavano.

«Dopo il suo passaggio ci sarà un bel po’ di lavoro… questa cometa crea sempre un grande scompiglio quando attraversa il cielo. In un certo senso è davvero la ruota del destino: rimescola le carte del genere umano, si può dire, e cambia il corso della storia… non c’è motivo di pensare che non farà lo stesso anche questa volta.»

Lyria, che teneva il bicchiere di tè con entrambe le mani, annuì con un vago sorriso e gli occhi puntati sul firmamento.

«Non state esagerando? Transiterà per una sola settimana e darà un po’ fastidio agli Auris, tutto qui. Come può questo cambiare il corso della storia?»

Gran si grattò il mento, ma non era in cerca di una risposta quanto invece del modo di formularla.

«Prova a seguirmi» fece dopo un po’. «Metti che ci sia da qualche parte, in una città qualsiasi del mondo, un Auris potente quanto te. Metti che sia giovane e molto spaventato dal suo potere, e convinto di volerlo nascondere per tutta la vita.»

Puntò l’indice verso il cielo.

«Però proprio mentre quel ragazzo vive in questa convinzione Sharui Avakti fa il suo corso, si avvicina alla Terra e scatena il suo potere mandandolo fuori controllo. Tutti scoprono chi è, quanto talento ha… allora un Ribelle e un Civil Hero cercano di persuaderlo a diventare come loro.»

Percival emise un verso scettico, ma aveva capito che cosa intendesse dire: il passaggio della cometa in quel caso avrebbe causato la nascita di un grande eroe che salvava vite o di un Ribelle che avrebbe potuto anche causare immani disgrazie, avendo in entrambi i casi impatto sulla società del paese e forse del mondo. Mettendola in quel modo, per quanto ipotetico, era sensato dire che una cometa poteva cambiare la storia.

«Ho afferrato… ma noi troveremo quello che stiamo cercando, con la cometa?»

«Non c’è dubbio.»

Gran sorseggiò il tè guardando il cielo, ma non aggiunse altro. Lyria invece colse la perplessità di Percival davanti a tanta sicurezza.

«Proprio perché la Sharui Avakti causa tanto caos sappiamo di trovarlo in questa epoca… lui c’è sempre quando passa la cometa!»

Percival non aveva bisogno di chiedere: si era unito all’equipaggio da abbastanza tempo da aver sentito il suo capitano parlare della sua missione svariate volte e sapeva che con “lui” intendevano la creatura che deteneva in sé il Principio della Ruota, il potere innato e unico di condurre qualsiasi cosa al cambiamento, innalzandola alla gloria imperitura o affossandola nella miseria più assoluta senza alcuna ragione di merito.

Avrebbe voluto chiedere se la cometa fosse in qualche modo in grado di rivelare loro dove la Ruota si trovasse, ma mentre stava per aprire bocca Lyria emise un gridolino sorpreso e indicò un punto molto più vicino all’orizzonte di quanto si aspettassero. Sharui Avakti, la lacrima della dea, sembrava una sottilissima linea rossastra, come un graffio sulla pelle del cielo. La vista di quella piccola luce dipinse un’espressione dolce e triste sul viso di Gran e anche Lyria sorrise in modo malinconico, il che non era affatto consueto per lei.

«Che nostalgia…»

«Sì» convenne Gran. «È una visione nostalgica… sembra quasi di tornare a casa dopo tanti anni.»

Percival li guardò prendersi per mano mentre guardavano la piccola scia rossa tagliare il cielo del tropico del Capricorno. Sentendosi di troppo decise che fosse meglio andare a finire quella lettera e fece per alzarsi, ma Gran lo trattenne: aveva posato la tazza e con la mano destra gli aveva afferrato il polso.

«Aspetta ancora un po’, Percival… tra poco la cometa diventerà azzurra.»

«Uhm? Cambia colore?»

«Oh, sì… muta dal rosso all’azzurro durante tutto il suo percorso orbitale…»

«E suppongo che chiederti come tu faccia a saperlo sia da sciocchi» buttò lì Percival, con amaro sarcasmo.

«Non essere così melodrammatico, Percy» fece lui, posando la testa sulla sua spalla. «Non è certo la prima volta che l’umanità vede quella cometa e l’ha descritta con cura ogni volta. Basta sapere dove cercare.»

Era una risposta ovvia e si pentì di aver parlato al capitano in modo così sgradevole a causa della sua frustrazione. Restò con loro, anche se sedeva particolarmente rigido.

«Cambia colore per una reazione di tipo chimico o elettromagnetico?»

«I motivi tecnici potrebbero essere tanti, compresi quelli che hai citato… ma credo sia soltanto perché a lei piace giocare.»

Lyria emise una risatina allegra. Nessun altro parlò, neanche quando la cometa, dopo essersi ingrandita mentre scalava la volta celeste, divenne azzurra. Tutti e tre pensavano, riflettevano, ognuno sul suo principale scopo e rimuginando sui loro timori.

Dopotutto, da qualche parte, la Ruota stava per riprendere a girare.

*

«Capisci che va fatto, vero, Breaker?»

«Sì, certo.»

L’uomo con gli abiti bianchi e i capelli dello stesso colore si fermò nel corridoio dalle piastrelle grigie e aprì la porta di metallo davanti a loro, prima di voltarsi a guardare il ragazzo. I suoi occhi viola chiaro riflettevano la luce scarsa del corridoio con una rifrazione che li faceva sembrare cangianti.

«Hai tutto quello che ti serve?»

«Sì, Emperor-sensei… ma non c’è bisogno di tanta serietà» disse il ragazzo, sorridendo con calore. «Si tratta solo di avere un po’ di pazienza… e io ne ho!»

Il ragazzo passò davanti all’uomo in bianco per poggiare la sua borsa in fondo alla brandina. Emperor dal canto suo era a disagio, come fosse un padrone che si vede costretto ad abbandonare il suo animale domestico.

«Allora ti lascio. Vado a vedere come sta Restless.»

Il ragazzo perse il sorriso, ma annuì.

«Domattina ti farò sapere le sue condizioni.»

«Grazie, Emperor-sensei.»

Lui fece per richiudere la porta di metallo, ma esitò quando l’aveva quasi completamente accostata.

«Breaker, quel tuo cagnolino… se serve, magari io potrei…?»

«L’ho lasciato ai ragazzi… se ne prenderanno cura al posto mio.»

«Ah… bene. Vedo che hai pensato a tutto. Allora buonanotte.»

«Buonanotte, sensei.»

Emperor chiuse la porta, ma non se ne allontanò. Sentì il ragazzo al suo interno aprire la zip e canticchiare a bocca chiusa. Non avrebbe mai smesso di stupirsi della tempra di alcuni dei suoi allievi.

Prese la targhetta di cartone infilata nel supporto d’ottone sulla porta, che recava la scritta “archivio studenti”, e con la penna che si era portato dietro dall’ufficio vi scrisse dietro il nome del nuovo inquilino. Soddisfatto della riuscita su un cartellino tanto piccolo intascò la penna, infilò la targhetta girata e si avviò lungo il corridoio, lasciando scorrere lo sguardo viola sulle finestre e sul cortile fiocamente illuminato. Le luci rosse davano un aspetto sinistro al piazzale dell’accademia, ma servivano da monito agli studenti per ricordare che era severamente vietato uscire con il buio fino a nuova disposizione del loro preside.

Scese le scale senza fretta. L’effetto della cometa iniziava prima del previsto, ma questo era un bene per Restless: le capacità curative amplificate dei soccorritori avevano di certo già rimediato i danni arrecati da Breaker. Non era preoccupato per lui dato che era già in ripresa quando aveva allontanato Breaker dal dormitorio.

Dovrei andare lo stesso?

Non era al suo studente che pensava, ma al magazzino sotterraneo, quello sulle cui scale stava puntando lo sguardo sebbene da quella distanza lo vedesse a malapena. Sapeva che entrarci sotto l’influenza della cometa poteva essere pericoloso… se non addirittura disastroso. Lo sapeva, ma qualcosa dentro di lui lo chiamava. Sentì un formicolio che dal basso ventre salì fino al petto come la schiuma di una bibita agitata. Senza fronteggiare né la ragione né la paura scese a passo più svelto e uscì nel cortile.

Le luci rossastre erano ancora più spettrali viste dal basso, come grandi, inquietanti occhi rossi che lo fissavano mentre camminava dove a chiunque altro non era permesso. Percorse ancora un lungo tratto di strada dopo aver lasciato il piazzale e arrivò in cima alla rampa che scendeva al magazzino numero sette, all’apparenza identico ai molti altri magazzini della scuola interrati nel suo vasto campus. Impaziente, scese alla porta di robusto acciaio temperato, inserì le credenziali necessarie, si lasciò scansionare la retina da uno scanner la cui luce verde fece ancora una volta mutare il baluginio dei suoi occhi lilla in uno sprazzo dorato. Alla fine, con un misto di paura ed eccitazione data dal pericolo, guardò le due porte stagne aprirsi una di seguito all’altra.

La stanza era come la ricordava l’ultima volta che ci era entrato, ormai diversi anni prima: una sala lunga ma con la parete in fondo coperta di pannelli di cassette di sicurezza grandi abbastanza da poterci stipare bauli, disposte su nove righe numerate e venticinque colonne.

Lo sguardo passò sulla cassetta nella fila sette, in alto a destra, che gli apparteneva. Al suo interno i resti di un passato che l’aveva reso celebre, ma anche molto infelice. Scorse la colonna fino a terra, dove trovava la fila zero con la prima cassetta segnata dal doppio zero e ancora una volta lo colpì il medesimo pensiero di circostanza.

Non mi spiego perché numerarle da destra a sinistra alla giapponese e poi scrivere i numeri delle colonne dal basso verso l’alto…

Gli sembrava che il suo amico Kikyo una volta avesse provato a dargli una risposta, ma in completa onestà non la ricordava più. O era stata una risposta sciocca data per dire qualcosa, o lui era molto distratto.

Digitò i tre zeri per aprire quella cassetta, e una fredda voce artificiale gli chiese di dichiarare quale fosse il contenuto. Ulteriore precauzione per chi avesse provato ad appropriarsi dei segreti di qualcun altro, ma dato che la cassetta era sua non c’era alcun problema… se non fosse stato che la voce gli mancò.

«Avanti, Ran, dillo… dillo e mi vedrai di nuovo.»

Emperor rabbrividì al suono di quella voce e, come se si fosse appena svegliato dal sonnambulismo, si chiese che cosa diavolo stesse facendo là dentro. Annullò l’operazione con un tasto e cercò di ricordare come fosse la procedura per non registrare quell’operazione sospesa nel registro interno.

«Ah, non fare così, Ran, combatti… non fare il coniglio, non lasciarlo vincere!»

«Sta’ zitto!» sbottò Emperor, che stava sudando freddo per l’agitazione. «Non parlare, o giuro che do fuoco a tutto il magazzino!»

«Kufu… sono anni che minacci invano di farlo» disse la voce beffarda. «E comunque, non stavo parlando con te, ma con Ran. Non ti intromettere nei discorsi di altri, sii educato, quanto meno.»

«TACI!»

Riuscì a cancellare l’accesso di quella sera dal registro attività mentre la voce ridacchiava, bassa e profonda. Senza neanche osare un’occhiata da quel lato del magazzino girò i tacchi e uscì spedito, tirando un sospiro di sollievo soltanto quando le due porte stagne si richiusero.

Devo essere pazzo ad avvicinarmi a quella cosa infernale…

Nell’aria fredda sentiva il sudore che gli inumidiva la fronte e il collo. Aveva ancora il fiato corto quando salì qualche gradino e sentì la voce ben nota chiamarlo.

«Byakuran!»

Nella luce rossastra che avvolgeva il cortile la figura di Night Hound appariva demoniaca: il cappotto nero come ali a riposo, i lunghi capelli turchesi erano una massa fluida color viola-blu, e il suo viso pallido era reso più affilato e crudele dalla luce impietosa.

«Ah… sei tu.»

«Che cosa facevi qui?»

Dato che era appena risalito dalle scale di un magazzino ad alta sicurezza sarebbe stato stupido negare, ma dato che nemmeno l’amico di lunga data conosceva tutto ciò che vi nascondeva dentro non poteva essere sincero con lui.

«Controllavo che fosse tutto in ordine. Mi era parso di vedere qualcuno in cima alle scale quando sono andato a chiudere Breaker nella cella.»

«Davvero?» fece lui sorpreso, e lanciò un’occhiata alla doppia porta. «Ed è tutto a posto?»

«Sembra di sì. Forse una delle guardie si è solo fermata a controllare che non ci fosse nessuno in fondo alle scale.»

«Capisco. Sì, è possibile» convenne Night Hound. «Mad Horse ha dato disposizione di pattugliare con più cura il cortile interno, nel caso ai ragazzi venisse in mente di sgattaiolare fuori.»

«Ottimo consiglio» replicò Byakuran mentre un cipiglio di rimprovero gli si formava sul viso. «Peccato che qualcuno lo dovrebbe informare che vale anche per il suo pupillo.»

Night Hound si voltò seguendo la linea del suo sguardo e come lui arrivò alla coppia che si avvicinava lungo la strada di mattonelle di cotto. Mad Horse era senza maschera e in abiti civili, con gli scompigliati capelli biondi resi rosati dalla luce falsata. Accanto a lui il suo allievo che non risentiva quasi dell’atmosfera scarlatta: con il costume rosso fuoco e i capelli corti e scuri era solo la sua pelle a cambiare colore.

«Horse, “coprifuoco per gli studenti” significa tutti gli studenti, anche il tuo» lo rimbeccò appena fu abbastanza vicino da distinguergli il sorriso sornione.

«Che ti dicevo, Kyoya?» fece lui ignorandolo del tutto. «Sono sempre viola!»

«Mhh… che strano» commentò sottovoce Kyoya, grattandosi il mento mentre fissava Wing Emperor.

«Di che cavolo state parlando?»

«Gli occhi, degli occhi, Emperor!» sospirò Mad Horse indicandoseli. «È un po’ che ci faccio caso, ma i tuoi occhi hanno una rifrazione strana… nella luce della sera sembrano più chiari, a quella del sole più viola, e allo scanner sembrano dorati… e anche adesso restano lo stesso viola brillante. Ti si riconosce a distanza.»

Byakuran, che ovviamente notava di rado il colore dei propri occhi, ne fu sorpreso e guardò Night Hound in cerca di conferme o smentite. Lo vide annuire.

«Beh, sì. È vero» ammise lui con una certa riluttanza. «E in realtà li ho visti diventare quasi blu a volte. Color indaco, all’incirca.»

Non sapeva come interpretare quell’ennesima stranezza della sua persona, ma decise di ignorarla puntando i suoi occhi – di qualsiasi colore fossero in quel momento – su Mad Horse e il suo allievo.

«E siete usciti in pieno coprifuoco per venire a vedere di che colore fossero stavolta?»

«No, certo, ti abbiamo solo incontrato strada facendo…»

«Quale strada facendo?»

«Ahah… è un interrogatorio?» fece Mad Horse nervoso. «Ho solo pensato di tenere compagnia a Kyoya stanotte… vuole stare sveglio ed essere informato regolarmente delle condizioni di Restless.»

«Mi dispiace, sensei. Non pensavo che fosse un problema» si scusò Kyoya con un accenno di inchino. «Se volete che rispetti il coprifuoco nel nostro dormitorio farò come dite voi.»

Servile come al solito.

Byakuran sospirò e gli diede un colpetto sulla spalla.

«Va bene, vai. Horse, niente giochetti, capito? Niente uscite notturne, niente allenamenti scarica-nervi, o altre scemenze del genere. Il coprifuoco vale per tutti, anche per i classe S.»

«Sì, Capitano, mio Capitano~»

«Allora toglietevi da qui alla svelta.»

«Buonanotte, Emperor~»

«Buonanotte, sensei, grazie.»

Kyoya fece un rapido inchino a Emperor e Night Hound prima che Mad Horse lo trascinasse lungo la strada. Avevano l’aria di chi sta pianificando una marachella e l’aspetti con gioia infantile, ma Byakuran non aveva alcuna prova e poteva solo sperare che la paura della sua reazione – il grande fondamento della disciplina che aveva imposto – bastasse a fargli mantenere quell’impegno.

«Che cosa mi dici, Kikyo?» fece allora, guardando l’amico. «Che ne pensi?»

«Ah… scusa, Byakuran, ma ho già preso il farmaco…»

Night Hound aggrottò le sopracciglia mentre chiudeva gli occhi e stringeva la radice del naso con le dita.

«Nel pomeriggio non riuscivo più a ignorare gli odori di tutti e di qualsiasi cosa. Quel surplus di impulsi olfattivi quasi mi impediva di concentrarmi su suoni e immagini e mi aveva già fatto venire un’emicrania pazzesca.»

«Davvero?»

«Sì, è stata una cosa improvvisa» fece lui riaprendo gli occhi. «Ho pensato fosse meglio prenderlo prima di rischiare lo shock sensoriale.»

«Saggio, ma non mi aspetto nulla di incosciente da parte tua.»

Byakuran diede una pacca amichevole sul braccio dell’amico e si avviò verso l’edificio centrale dal quale era arrivato. Non poteva dire di non essere stato fortunato: il fatto che avesse già assunto il farmaco gli aveva anche impedito di sospettare o scoprire per certo che aveva mentito sulla sua visita al magazzino numero sette. Sì, si era preparato molto tempo prima un’esca da usare per impedire di svelare il terribile segreto della cassetta 000, ma il rischio esisteva comunque e sarebbe esistito finché non si fosse deciso a sbarazzarsene anziché custodirlo.

E dopo quasi quindici anni che tentava di convincersi a liberarsi da quella catena dubitava di riuscire mai a farlo davvero.

«Suppongo che io e te potremo proseguire l’attività senza contenerci» osservò Night Hound quando furono soli nell’ascensore. «Certo, io sono un po’ inutile… forse riducendo il dosaggio…»

«Il dosaggio va bene» lo contraddisse Byakuran in tono incolore. «La Sharui Avakti si farà più forte quando apparirà nitidamente nel cielo, quindi domani con la stessa dose dovresti essere in grado di usare il tuo naso come fai di solito.»

Perso nei suoi molti pensieri alla vigilia di un giorno tanto importante e di una settimana così intensa non fece caso allo sguardo confuso che l’amico gli lanciò.

«Sha… intendi la cometa Solomon, no? Come accidenti l’hai chiamata?»

Byakuran guardò Kikyo in silenzio solo per dipingersi sulla faccia la medesima espressione costernata, che si fece via via più punteggiata di orrore.

«Ah… non… non ne ho idea. Chissà che cavolo ho sentito e ho mischiato questa volta» fece Byakuran, e si massaggiò la fronte. «Perdonami, sono veramente esausto. Sto dando i numeri.»

«È un qualche mantra, quella parola?»

«Sì, sì, infatti» mentì prontamente lui, e sgusciò fuori dall’ascensore all’ultimo piano. «Scusa, Kikyo, ma ho davvero bisogno di dormire. Chissà dove finiremo se domani inizio a dire e fare cose senza senso.»

«Sì, capisco perfettamente.»

In effetti Kikyo trattenne a fatica uno sbadiglio e stiracchiò le braccia.

«Filerò anche io a letto immediatamente.»

«Ottima idea, la copierò.»

«Allora buonanotte, Byakuran.»

«Buonanotte.»

Kikyo gli fece un incerto sorriso e sbadigliò di nuovo avviandosi in fondo al corridoio, verso la sua stanza. Byakuran attese di vederlo sparire all’interno prima di entrare nella sua, la terza porta a sinistra dall’ascensore.

Puntò dritto all’armadio e lo spalancò, vi affondò le mani dentro alla ricerca di vestiti nascosti sotto una pila di costumi e abiti di colore bianco, ma quando li trovò non li indossò.

Fissò lo sguardo sulla parete spoglia come se vi ci fosse scritto qualcosa di interessante e molto lentamente vi si accostò e posò i palmi, l’orecchio e il petto contro il muro. Fece un profondo respiro e spalancò le ali.

Le sue ali bianche e luminose riempivano la stanza e premevano contro le pareti e il soffitto. Sotto l’influenza della cometa sentì nettamente il suo potere aumentare a dismisura; anche a distanza di parecchi uffici riuscì a sentire il battito del cuore del suo amico, la tensione muscolare rilassarsi, il respiro rallentare e le sue cellule aumentare e diminuire specifiche funzioni mentre scivolava verso il sonno. Sapeva che stava per addormentarsi, ma non riuscì a distogliere l’attenzione dalla moltitudine di impulsi che sentiva nel corpo. Gli pareva di poter sentire, se solo vi ci fosse concentrato, il livello di attività di ogni cellula; forse all’apice del passaggio della cometa sarebbe arrivato a sentire la vita stessa pulsare in ogni cellula non solo sua, ma di ogni persona di quell’edificio…

Ahh… questo potere così grande…

Byakuran graffiò leggermente il muro serrando le mani a pugno.

Usarlo a questi livelli… non è difficile credere che dia davvero dipendenza, è una sensazione inebriante…

Faticò a staccare il viso dal muro e lasciò vagare i suoi occhi lilla vacuamente sulla mano; le sue dita tremavano appena.

«Ah… percepire la vita in questo modo… sembra di essere un dio…»

«Vorresti esserlo, Ran?»

La voce profonda nella sua mente era poco più di un sussurro, ma lo spaventò a sufficienza da farlo tornare in sé: le sue ali scomparvero, la sensazione di piacevole formicolio svanì insieme alla sua percezione amplificata. Si ritrovò con il fiato corto e la fastidiosa sensazione di sudore ghiacciato sulla pelle.

Accidenti… devo stare attento, potevo andare anche io in shock sensoriale…

Sospirò per regolarizzare il respiro e si passò la mano dietro il collo, scoprendo con sorpresa che il suo costume dalla schiena scoperta era già slacciato in quel punto. Si accigliò cercando di ricordare se avesse cominciato a spogliarsi prima di controllare se il suo amico fosse andato a dormire.

«Forse sono state le ali» ipotizzò in un sussurro, anche se poco convinto.

«Forse no~»

Si girò di scatto per scandagliare la stanza, ma era vuota. Sospirò e cercò di calmarsi. Sapeva che l’aspettava una settimana problematica e che era appena diventata più complicata. Si spogliò con la sgradevole paranoia di essere osservato e si rivestì in abiti civili gettandosi continuamente occhiate furtive alle spalle.

Riuscì a rilassare la muscolatura e l’animo soltanto una volta messe un paio di strade tra sé e il muro di cinta dell’edificio.

*

Il viottolo nei pressi del ponte era poco illuminato, ma piuttosto vivace. Byakuran era contento di esserci arrivato anche solo per essersi allontanato dalle luci rosse del coprifuoco e dalla sensazione di essere guardato a vista.

Lasciò che l’automobile blu scura ripartisse prima di attraversare la carreggiata e raggiungere il marciapiede di fronte. Una donna dai lunghi capelli neri e lisci e occhi a mandorla molto accentuati dall’eyeliner sbuffò il fumo di una sigaretta mentre lo guardava passarle vicino e mise in mostra dallo spacco dell’abito una lunga gamba sensuale.

«Cerchi compagnia, tesoro?»

Byakuran si fermò e la guardò fisso. Era una bella donna, sia i suoi capelli che la sua pelle erano lisci e lucidi, ma vederla fumare gli diede un presagio difficile da elaborare in modo logico. Allungò la mano per toccarle il braccio e non appena le sfiorò la pelle ebbe conferma dei suoi sospetti.

«Dovresti smettere di fumare» le disse con una sfumatura di rimprovero. «Non ti resta molto se continui così.»

«Eh? Ma che vuoi, rompipalle?» sbottò lei strattonando il braccio. «Vai, togliti dai piedi!»

La donna si allontanò da lui per appoggiarsi stizzita a un palo della luce e non lo degnò più di uno sguardo. Byakuran la guardò a lungo, come se volesse imprimersi i suoi lineamenti nella memoria perché non l’avrebbe più rivista; distolse gli occhi soltanto quando si sentì sfiorare la spalla delicatamente.

«Ciao!»

Era felice di vedere la ragazza con i capelli biondi, ma il sorriso che gli aveva suscitato si spense subito alla vista dei lividi e della ferita sul labbro, nascosti solo in parte dal trucco.

«Cos’è successo, Demi?»

«Oh… niente… un ubriaco mi ha preso per la sua ex mentre ero con un altro uomo» fece lei in tono leggero, come parlasse di un laccio di scarpa spezzato dall’usura. «Sei venuto per Amber? Non c’è, è andata dal dentista. Per qualche giorno non può lavorare.»

Gli dispiacque un po’ di non poter vedere Amber prima della settimana infernale che lo aspettava, ma durò molto poco. Sfiorò il viso di Demi con una carezza leggera.

«Non fa niente. Tu vai benissimo.»

Demi fece una risatina a labbra chiuse e gli prese la mano con fare intimo.

«Di sopra?»

«Di sopra.»

«Seguimi!»

Camminarono mano nella mano per un bel pezzo del viottolo e nel mentre altre donne in attesa scambiarono un sorriso o un cenno con l’uomo dagli occhi viola.

Salite le scale esterne di una palazzina Demi usò la chiave per fargli strada in un confortevole bilocale con un ampio letto con le lenzuola di un color giallo acceso. L’intera stanza era decorata da tende e oggetti in toni accesi di giallo e arancione: riflettevano con la massima sincerità l’allegria e l’energia che contraddistinguevano Demi.

«Ah, è bello caldino qui dentro, vero?» chiese lei mentre gli toglieva di dosso il cappotto. «Sei silenzioso oggi, qualcosa non va? Giornata pesante?»

«Pesante è dire poco…»

«Non preoccuparti, ora c’è Demi qui con te a farti sentire meglio!»

La ragazza passò le mani sul suo petto sopra la maglia e si alzò in punta di piedi per baciarlo; sentì sgradevole la ferita sul suo labbro e ancora più ripugnante l’eco che gli arrivò dal corpo di lei: oltre ai lividi sul viso aveva molte altre brutte lesioni.

Devono averla imbottita di antidolorifici per farla stare in piedi in queste condizioni…

Interruppe quel bacio e la bloccò quando cercò di dargliene un altro.

«Non baciarmi, stai sanguinando dal labbro.»

«Oh, mi spiace… ma non preoccuparti, okay?» fece lei con un certo disagio. «Demi farà lo stesso tuuutto quello che ti piace~»

«Può darsi… ma più tardi.»

Byakuran si sfilò la maglia e nel farlo fece cadere anche il berretto dai capelli bianchi. Senza rispondere a nessuna domanda spogliò Demi con delicatezza, studiò le sue ferite a vista e con le mani. Erano molto gravi, in condizioni normali non sarebbe riuscita neanche a camminare con lesioni simili.

«Stenditi sul letto e chiudi gli occhi.»

«Uh? Che vuoi fare?»

«Non farà male» le fece, rassicurante. «Mi conosci… sai che non sono quel tipo di uomo.»

La giovane bionda si sdraiò supina dopo un’iniziale riluttanza e chiuse gli occhi, le braccia spalancate, lasciandosi inerme con fiducia. Byakuran coprì quei due passi di distanza, salì sul materasso sopra di lei e le coprì gli occhi con la mano mentre le depositava un bacio leggero poco sopra il seno.

Adesso.

Per la seconda volta quella sera le ali bianche si spalancarono; fu difficile trattenerle a una dimensione che non urtasse qualcosa nella piccola stanza. Demi emise un gemito stupito inarcando appena la schiena, ma non si sottrasse e non cercò di spostare la mano per guardare. Quando Byakuran tolse la mano dal suo viso e la baciò sul fianco sia le ali bianche che i molti lividi sulla pelle chiara di lei erano scomparsi. Demi, accortasi della sparizione delle ferite vistose nei punti meno facili da truccare, era sbalordita e senza parole.

«Ma… ma…»

«Possiamo cominciare come al solito?»

«Eh?… Ah…»

La giovane diede un’altra occhiata perplessa alle braccia e alle gambe e si sfiorò il labbro mentre il suo cliente si sdraiava sulla schiena affondando la testa nel cuscino. Con un rinnovato buonumore e un sorriso ancora più smagliante di prima si voltò verso di lui.

«Sicuro di non volere qualcosa di speciale? Per esempio, Demi che fa tuuutto per te, come se fossi un re?»

Byakuran annuì con aria distratta, con un pensiero preciso che gli girava nella mente con tanta insistenza da frustrare i primi approcci di Demi. A quel punto decise di mettere alla prova le sue ali mentre la cometa Solomon ascendeva allo zenith della sua orbita.

«Demi, senti… quella ragazza con quei capelli così lunghi… quella con quell’abito blu.»

«Ah, Fuyumi-chan? Ti ho visto parlare con lei prima… poverina, cerca di lavorare, ma sta così male che ormai non la vuole nessuno, sai, i clienti si sono dati la voce tra loro.»

«Credo di averla fatta arrabbiare.»

«Yue-kun, anche Demi è molto arrabbiata! Continui a pensare a un’altra!»

«Scusami, ma… mi chiedevo se tu potessi convincerla a venire qui con noi.»

La ragazza biondina lo guardava come fosse un alieno mutaforma in piena trasformazione.

«Tu che vuoi due ragazze insieme? Stai bene, Yue-kun?»

«Sto bene, ma… possiamo dire che oggi è un giorno speciale. Direi… che potrebbe essere unico nella mia vita.»

Demi parve confusa da quella vaga spiegazione e recuperò tentennante i suoi abiti, ma poi si studiò la pelle integra e parve capire le sue intenzioni, perché divenne frettolosa e corse fuori dall’appartamento.

Rimasto solo, Byakuran si mise seduto sul bordo del letto lasciandosi andare a un sospiro.

Sto facendo la cosa giusta?

Guarire persone ferite è sempre una cosa giusta.

Sì, ma… continuare a fare questo, a essere un loro cliente… io dovrei fare qualcosa, salvarle da questa vita, non fare come tutti quegli altri uomini…

Sì, questo è disgustoso. Non è degno della figura di Wing Emperor e sistemarsi la coscienza con una cura quando serve è esattamente come essere un medico che dispensa pillole alle ragazze dopo averne approfittato. È immorale, è ripugnante, e tu lo sai.

Byakuran si stropicciò la faccia con le mani nel tentativo di non dare retta a quella voce che sentiva nella testa, quella sua coscienza così rigida, autoritaria e intransigente che così spesso lo rimproverava per ogni singolo comportamento meno che “perfetto”. Essere un giovane uomo ed essere il simbolo dell’eroismo, della purezza, della legge e della difesa dei deboli era profondamente stressante per i contrasti che generava.

Rimase seduto lì, a bearsi dell’oscurità dietro le palpebre e dell’eco lontana delle voci e delle auto in strada, crogiolandosi nel silenzio – seppure, lo sapeva, denso di disappunto – della sua inflessibile coscienza finché la porta non venne di nuovo aperta. Incrociò lo sguardo con la bella donna dai capelli mori, che lo fissò con disgusto come se stesse anche lei giudicando la sua condotta di vita.

«Sei Fuyumi, vero?» esordì lui, raddrizzando la schiena. «È il tuo vero nome?»

«Che te ne importa?»

Non ha ancora digerito quello che le ho detto prima.

«Non è un problema se non vuoi dirmelo. È un bel nome, comunque.»

Byakuran allungò la mano verso di lei. Per diversi secondi lei la guardò e lo fissò in volto senza decidersi ad avvicinarsi al letto o a prendere la mano che le veniva tesa.

«Come fanno tutte le ragazze qui, puoi chiamarmi Yue. Non è il mio vero nome, come immaginerai. Forse ora, senza il berretto, mi hai anche riconosciuto… se è così, ti chiedo di tenere il mio segreto, Fuyumi.»

L’espressione della donna era così tesa che Byakuran ne colse che l’aveva riconosciuto e non sapeva come comportarsi dopo avergli risposto bruscamente prima.

«Perdonami per averti parlato così indelicatamente… ma pensavo che potrei fare qualcosa per te…»

La sua espressione si indurì immediatamente.

«In cambio di che cosa? Questo è il mio lavoro e non posso non guadagnare. Non siamo liberi professionisti.»

«Non mi fraintendere, ti prego. Posso pagare il tempo di tutt’e due… so come stanno le cose per voi. Lo so bene.»

Alla fine Fuyumi si decise a muovere qualche passo e a prendere la mano che le tendeva. Stringendola Byakuran la tirò appena per farla sedere sul letto; vista da vicino aveva splendidi lineamenti e occhi, ma si notavano le tracce di una malattia che andava prolungandosi.

«Resta con noi… so che posso farti sentire meglio.»

Fuyumi gli lanciò un’occhiata incuriosita e altezzosa al tempo stesso; una messinscena più per Demi che per un uomo che al momento attuale la comprendeva meglio di chiunque altro.

«Solo questo?»

«Beh, per questo… e perché sei una donna splendida.»

Fuyumi spostò i suoi lunghi capelli neri in un guizzo di vanità, facendo loro catturare la luce con bagliore violaceo.

«Allora… Yue, hai detto? Allora Yue, cosa ti piace fare? Io non ti conosco ancora.»

«Te lo spiego io!» intervenne Demi. «A Yue-kun piacciono sempre le stesse cose, è uno abitudinario!»

«Non dirlo come fosse una cosa noiosa» protestò debolmente Byakuran. «La routine è una cosa confortante quando hai una vita piena di imprevisti…»

Ma nessuna delle due donne l’ascoltò, prese già a dare e ascoltare istruzioni che riepilogavano le solite serate di Byakuran in quel vicolo cittadino. Con un sospiro si rimise sdraiato sul letto e fu lieto che Demi ricordasse di spegnere quasi tutte le luci sparse nella stanza: gli bastò guardare Fuyumi togliere il suo abito blu per sentirsi arrossire. Aveva un corpo più alto e snello, ma lo stesso seno generoso di Amber che a Demi mancava e che a lui, in completa onestà, piaceva moltissimo.

Per quanto fosse un amante della routine, dei momenti riposanti e si crogiolasse volentieri tra il familiare e il prevedibile, quando scambiò il primo bacio con Fuyumi dimenticò completamente che dividere il letto con due donne era un’esperienza nuova per lui e vi si abbandonò con la stessa pace delle altre volte. Niente più pensieri turbolenti riguardo il lavoro, le circostanze eccezionali, il protocollo di contenimento, la voce nella testa e la cassetta di sicurezza. Per lui quelle ragazze erano molto di più dell’insieme di corpi attraenti e giochi erotici usati sapientemente: sapevano disconnetterlo da ogni sua preoccupazione per una lunga ora di libertà dalle vestigia di Wing Emperor.

*

Quando Byakuran aprì gli occhi nella penombra della stanza seppe che aveva sforato l’orario concordato. Voltò la testa verso la sveglia sul comodino, che Demi definiva “tassametro”, e scoprì di aver passato in quella stanza più di due ore.

Devo sbrigarmi a tornare… meglio che non sappiano che sono stato fuori proprio stanotte.

Demi non era nel letto e lo spiraglio di luce sotto la porta del bagno gli suggerì che stesse per farsi la doccia; venne subito confermato il sospetto dal rumore del getto d’acqua. Guardò invece Fuyumi, addormentata accanto a lui e coperta soltanto a metà. Gli ricordava una statua greca per la sua bellezza e l’armonia delle sue forme. Cercò di sfilare il braccio da sotto di lei senza svegliarla, ma fu inutile: aprì gli occhi già vigili e lo trattenne afferrandogli il gomito.

«Ah… sei sveglia…»

Senza replicare lei si alzò e gli fu sopra a carponi in un secondo.

«Fuyumi, devo tornare… si è fatto tardi per me.»

«Mi hanno detto che cosa fai… mi hanno detto di Sumiko, per esempio.»

Byakuran preferì non replicare alla sua affermazione per non esporsi. Nella luce scarsa che proveniva dalla finestra scorgeva solo forme vaghe del suo viso, ma la vide sorridere.

«I tuoi occhi brillano nel buio, Wing Emperor. Come la speranza.»

«Che cosa vuoi, Fuyumi?»

«Portami via di qui.»

Byakuran sospirò. Non che non volesse aiutarla, ma nel pieno del passaggio della cometa avrebbe avuto tanto di quel lavoro da non avere tempo tanto per lo svago quanto per le sue attività umanitarie.

«Questo è un periodo delicato… voglio dire, questa settimana–»

Si bloccò a metà frase sentendo qualcosa strisciare sulla sua pelle, qualcosa di vivo; sussultò quando capì che quello che si stava avvolgendo intorno al suo braccio era un piccolo serpente e che quello veniva dalla chioma scura di Fuyumi. Una chioma che si stava trasformando in decine di serpenti, facendola apparire come una gorgone.

Byakuran riuscì a malapena ad elaborare la situazione prima che la terrificante visione svanisse e i serpenti tornassero innocue ciocche di meravigliosi capelli scuri.

«So… che cosa succederà questa settimana» sussurrò lei. «Per questo… portami via, Wing Emperor.»

«Sei un’Auris.»

Fuyumi non rispose e non annuì; non ce n’era bisogno. Byakuran prese la sua decisione.

«Vestiti, Fuyumi… ti porto al sicuro.»


 

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