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Autore: ghostmaker    23/12/2018    4 recensioni
[Storia partecipante al contest “Senza tempo” indetto da mystery_koopa sul Forum di EFP].
La guerra tra le Repubbliche di Genova e di Venezia per il predominio commerciale nel Mar Mediterraneo stava continuando quando, durante la battaglia di Curzola (7 settembre 1298 d. C.), i genovesi catturarono circa settemila veneziani. Marco Polo, uno di questi prigionieri, fu rinchiuso nelle carceri di Palazzo San Giorgio a Genova e lì conobbe Rustichello da Pisa. Marco Polo raccontò a quell’uomo la sua esperienza alla corte del Kubilài Khan, sovrano mongolo del Catai (l’odierna Cina), e i suoi viaggi con dovizia di particolari, ma alcune parti che Rustichello da Pisa trascrisse dalla viva voce del veneziano si persero, così, per poco più di duecento anni dopo la visita di Marco Polo, nessun cittadino proveniente dall’ovest vide quel luogo che lui chiamava Cipango.
Genere: Avventura, Drammatico, Guerra | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Medioevo, Giappone feudale
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CIPANGO, L’IMPERO NASCOSTO





Come ti ho raccontato Rustichello, Kubilài Khan[1] mi diede l’opportunità di vivere nel suo palazzo, di viaggiare come suo ambasciatore in modo da poter visitare luoghi stupendi del suo impero, mi gratificò nominandomi governatore di Lin’an, la vecchia capitale della dinastia Song[2], e mi permise di conversare con lui come fossimo tra pari, ma ogni volta che certi suoi ambasciatori nominavano il popolo del Cipango[3] il suo umore cambiava drasticamente, i suoi occhi diventavano feroci e non risparmiava male parole anche verso di me che, in verità, non conoscevo nulla. Confidando nell’amicizia, seppur temendo di finire con la testa mozzata, chiesi a Kubilài di raccontarmi cosa fosse successo proprio nell’anno in cui arrivai a Cambuluc[4]. Egli, con stizza crescente, mi narrò anche le vicende precedenti raccontandomi che nel 1269 d.C. aveva mandato degli ambasciatori nel Cipango per offrire a quel popolo la possibilità di sottomettersi senza l’uso delle armi e che il loro capo militare aveva rifiutato qualsiasi proposta. Deciso e irremovibile, nel 1274 d.C. Kubilài intraprese una spedizione militare per invadere il Cipango che però fallì miseramente per colpa di un violento uragano, tanto potente da distruggere circa 600 navi. Nel 1279 d.C. riprovò la stessa tattica diplomatica e questa volta finì anche peggio perché il capo militare del Cipango fece decapitare tutti gli ambasciatori del Catai all’interno della sua capitale. Ancora oggi non so dire se fosse stato solo un caso, ma proprio mentre mi raccontava gli avvenimenti il comandante della flotta navale, una delle persone su cui Kubilài confidava ciecamente, si presentò nella grande sala annunciando che poteva garantire un’invasione utilizzando anche la flotta navale del Goryeo[5]. Il viso del Khan sembrò illuminarsi tanta era la sua contentezza per quella notizia ed io, emozionato dall’idea di viaggiare verso un nuovo paese sconosciuto, ne approfittai chiedendogli di poter affiancare gli ambasciatori che avrebbe mandato per tentare ancora una volta di trovare un accordo di pace. Lui mi fece capire che riteneva la mia vita importante e mi disse di essere consapevole che una nuova ambasceria non avrebbe cambiato la situazione ma io insistetti convincendolo che tentare un nuovo approccio mandando una persona di un popolo straniero avrebbe potuto portare dei vantaggi inaspettati e così, nel febbraio del 1281 d.C., partii a bordo di una nave insieme con altri ambasciatori che parlavano la lingua del popolo che avrei incontrato.


Giunti sull’isola notai i volti atterriti dei miei compagni di quando videro delle grandi mura di pietra, alte circa tre metri, che erano state costruite tutto intorno alla baia di Hakata[6] e delle quali non sapevano nulla. Io invece temevo altro perché, nonostante la nostra nave indicasse chiaramente l’arrivo di ambasciatori, ad accoglierci trovammo un vero e proprio esercito pronto a combattere. Uno dei soldati si avvicinò senza impugnare un’arma, fece un inchino e, in seguito, iniziò a parlare con gli ambasciatori di Kubilài ed io mi accorsi che riuscivo a comprendere molte parole che quell’uomo stava pronunciando perché assomigliavamo molto alla lingua parlata nel Catai[7], anche se alcune espressioni mi apparivano molto più articolate. Mi sorprese anche vedere con i miei occhi che la descrizione fisica che Kubilài mi aveva fatto di questo popolo, era volutamente errata, forse per il disprezzo che provava verso questi uomini. Lui disse che quelle persone erano tutte uguali ma era una bugia; certo il loro viso poteva apparire più ovale e la carnagione più chiara, erano sicuramente simili per il colore scuro dei capelli e degli occhi ma, come ogni essere umano, avevano delle caratteristiche proprie come ad esempio la forma più o meno grande del naso. Il soldato smise di parlare, i miei compagni ambasciatori ed io lo seguimmo attraverso una serie di cunicoli ben nascosti e presidiati da guardie armate e in quel modo attraversammo il muro raggiungendo, infine, uno spiazzo nel quale era piazzata una grande tenda al centro e altre più piccole tutte intorno. Notai la presenza di molte guardie all’entrata della tenda più grande e compresi senza chiedere che ci stavamo dirigendo al primo incontro con il loro capo militare. Dalla tenda, degli uomini uscirono senza indosso l’armatura e ci guardarono in modo tutt’altro che amichevole, poi, dopo pochi istanti, apparve il comandante che si presentò a noi indossando un armatura pulita e che mentre camminava mostrava un portamento fiero e orgoglioso. Gli ambasciatori di Kubilài attesero un cenno della mano di quell’uomo prima di iniziare a spiegare il motivo della loro presenza ma lui, da subito, sembrò più attirato da me e non mi tolse gli occhi di dosso fino al momento in cui uno degli ambasciatori formulò l’offerta di resa. L’uomo urlò una frase che non compresi, ma mi bastò ciò che fecero le guardie per capire che eravamo nei guai. Fummo legati con delle corde, ci fecero inginocchiare davanti al loro comandante mentre dietro di noi si disposero dei soldati con le spade già sguainate. Il terrore dei miei compagni era visibile e compresi che la mia scelta di visitare questo paese mi sarebbe costata la vita così iniziai a tremare e mi sentii paralizzato quando le urla dei miei compagni, colpiti alla schiena, si spensero in un istante. Attesi la fine pregando e questo mio gesto istintivo incuriosì il comandante che fermò il soldato che stava per eseguire la mia condanna. L’uomo si avvicinò e mi parlò nella lingua del Catai.
«Che cosa stavi bisbigliando?»
«Stavo pregando il mio Dio» risposi ancora tremante.
«Tu non sei uno di loro; sei forse un prigioniero?»
«No signore, nasco in un luogo chiamato Venezia, sono un ambasciatore della Serenissima[8] e in nome del Papa visito luoghi lontani come il Catai e come il vostro che nessuno nel mio paese conosce».
L’uomo rimase in silenzio qualche istante e poi domandò con un tono molto sprezzante: «Siete una spia del Khan?»
Dovevo immaginare ciò che poteva passare nella mente di un comandante militare ma cercai di mantenere un profilo basso senza spiegare niente del mio vero ruolo in questo viaggio.
«No signore, sono solo un viaggiatore e voglio soltanto conoscere il vostro popolo, le vostre usanze e poi ritornare a casa per raccontare alla mia gente lo splendore dei posti che avrò visitato».
L’uomo mi fissò a lungo, i suoi occhi scuri sembravano penetrare dentro la mia mente alla ricerca della bugia che gli stavo tacendo, ma non gli diedi modo di dubitare poiché, sotto un certo punto di vista, ciò che dissi era la realtà così egli fece un segno al suo sottoposto che immediatamente mi alzò in piedi e mi portò all’interno di una delle piccole tende, dove rimasi legato in attesa di conoscere il mio futuro.

Attesi poco tempo in quella tenda perché un soldato, con mia sorpresa, mi slegò dalle corde e inchinandosi m’indicò l’uscita. Camminai lentamente temendo che fosse solo un gesto gentile prima di essere ucciso ma il soldato, comprendendo la mia paura, si mise davanti a me, mi scortò fino alla grande tenda e aprì lui stesso l’entrata. Lì, il comandante mi fece segno di inginocchiarmi davanti ad un tavolo molto basso sul quale era imbandito un pranzo a base di pesce crudo e riso in quantità. Egli fece la stessa cosa, iniziammo a mangiare senza dire una parola ma notai che i suoi sguardi verso di me erano completamente diversi dal nostro precedente incontro. Mi sorprese la sua domanda diretta. «Viaggiatore, come vi chiamate?»
«Marco Polo».
«Raccontatemi della vostra Venezia».
Raccontai tutto della mia repubblica e ogni tanto lui m’interrompeva facendo delle domande specifiche quando parlavo di cose che nel Cipango non esistevano come ad esempio le gondole. Finimmo il pranzo e il comandante, senza che gli avessi fatto una sola domanda, si presentò.
«Il mio nome è Hōjō Tokimune; sono lo shikken[9] del principe Koreyasu-shinnō, Shōgun[10] del nostro impero e servitore dell’Imperatore Go-Uda. In questo momento ricopro le cariche di primo ministro e di comandante del bakufu[11]».
Tokimune si stava mostrando come persona affabile e disponibile al dialogo ma capivo che tutti i nostri discorsi erano soltanto l’antipasto a domande più specifiche e inerenti alla mia relazione con il Khan del Catai e, infatti, dopo aver sorseggiato un liquore caldo, espresse direttamente ciò che stava pensando.
«Sono sincero e non userò frasi inutili; ciò di cui abbiamo conversato non cambia la vostra situazione Polo, siete ugualmente sospettato di essere una spia e ciò mi porta a chiedervi la verità sulla vostra presenza qui».
Pensai che fosse inutile mentire ma tenni per me le strategie per la guerra che in modo confidenziale Kubilài Khan, al quale dovevo la mia fedeltà, mi aveva confidato.
«Il Khan del Catai, considerandomi persona di fiducia, mi ha soltanto affidato questa missione di accompagnatore degli ambasciatori in modo che foste convinti delle sue richieste per una resa senza il bisogno di una guerra. Ho accettato perché non amo la guerra e credo che solo in pace si possano trovare soluzioni importanti per i problemi che possono intercorrere tra due paesi diversi, ma allo stesso tempo vicini».
Ancora una volta Tokimune mi osservò attentamente e capì che non avrebbe mi estorto molto altro oltre a ciò che avevo detto fino a quel momento così, cogliendomi alla sprovvista, disse sorridendo: «Sappiamo che il vostro viaggio come ambasciatori è stato fatto soltanto come proforma, dopotutto io avevo già fatto uccidere gli ambasciatori arrivati in precedenza, così come sono a conoscenza che il Khan è già pronto a invadere le nostre terre con due forze armate; una proveniente dal Catai e una dal Goryeo che si incontreranno in qualche luogo sul mare per poi raggiungere la baia. Ciò che non sa il Khan è che le nostre spie ci hanno informato su ogni movimento delle vostre navi quindi mi chiedo quale sia il vostro ruolo Marco Polo in questa faccenda perché non credo che la vostra Venezia sia interessata a una guerra così lontana dalla propria terra».
Risposi sicuro. «È ciò che ho detto, niente di più e niente di meno».
«Credo che sappiate molte altre cose ma sono certo che nelle vostre parole non ci siano menzogne e che voi non siate una spia ma semplicemente ciò che mi avete detto: un viaggiatore. Ho deciso di accompagnarvi io stesso alla scoperta del nostro paese così che possiate compiere il vostro viaggio senza temere la nostra l’ostilità verso gli stranieri e ho pensato che il primo luogo che dobbiate vedere sia il palazzo imperiale. È stata una piacevole conversazione, Marco Polo».
E da quel giorno non fui mai più legato, anche se fui sorvegliato a ogni mio passo.


Una mattina non tanto fredda iniziai il mio vero viaggio alla scoperta di questo nuovo paese e compresi immediatamente che non si sviluppava su un’isola singola ma che il Cipango era formato da quattro grandi isole, infatti, per raggiungere Kamakura[12] attraversammo il mare mantenendoci vicino alle coste. Approdati nella baia, iniziammo a camminare e lungo il percorso, passando attraverso dei piccoli villaggi, rimasi colpito dalla tranquillità e dall’armonia che vigeva tra la gente che incrociavamo, ma notai i popolani irrigidirsi quando incrociavamo la loro strada con alcune persone che indossavano una specie di pantalone molto largo sulle gambe e che portavano, legate in vita, due spade di diversa lunghezza. Questi personaggi, come lo stesso Tokimune, sfoggiavano un’acconciatura alquanto strana perché la loro fronte era rasata mentre il resto dei capelli, molto lunghi, erano uniti e legati a formare una coda che poi si ripiegava sulla sommità della testa creando uno strano ciuffo. La reverenza che mostrava l’intero villaggio verso queste persone mi chiariva che si trattava di personalità importanti, ma, anch’essi, al passare dello shikken Tokimune, dovevano inchinarsi in segno di rispetto. Il comandante notò la mia curiosità e spiegò senza indugio chi fossero quegli uomini così importanti. Essi erano chiamati saburai[13] e facevano parte della casta più importante dopo di quella riservata all’imperatore e ai suoi famigliari e dopo quella dello shikken, Tokimune mi disse che quegli strani pantaloni si chiamavano “hakama”, il modo di acconciare i capelli era chiamato “chonmage” e le loro spade erano la “katana”, quella più lunga, e “wakizashi” quella più corta. Tokimune mi fece notare che anche lui vestiva in quel modo quando non indossava l’armatura di guerra e sorrisi quando mi chiese se trovassi così strano quell’abbigliamento.

Tutte le persone che incontrammo durante il tragitto erano di bell’aspetto e molto civili con tutti gli uomini della nostra carovana e mi interrogai sul motivo per cui i loro imperatori avessero deciso di chiudere il paese a qualsiasi popolo straniero però, guardandomi intorno, compresi che il loro timore fosse giustificato. La presenza di molto oro utilizzato per ricoprire le statue, la varietà di perle di grande valore, sia di colori sia di grandezze diverse, e la presenza smisurata di pietre preziose avrebbe fatto gola a chiunque, soprattutto a Kubilài che, utilizzando la scusa dell’espansione del suo impero, avrebbe sicuramente preferito saccheggiare un paese ricco come questo piuttosto che perdere tempo in commerci nei quali avrebbe dovuto spendere per regalarsi un qualsiasi oggetto prezioso.


Giunti finalmente al grande palazzo imperiale rimasi affascinato dall’architettura semplice, ma allo stesso tempo sfarzosa, utilizzata per la costruzione di quest’abitazione che aveva l’intero tetto ricoperto d’oro. Le grandi camere che attraversammo erano anch’esse rivestite con oro spesso due dita e con lo stesso metallo prezioso erano ricoperte anche le finestre, le mura e ogni oggetto su cui posavo gli occhi. Chiesi a Tokimune di incontrare l’imperatore ma non me lo permise senza spiegarne il motivo invece mi portò in una sala, anch’essa stracolma d’oro e pietre preziose, dove feci la conoscenza del principe Koreyasu-Shinnō. Egli era lo Shōgun ma compresi che si trattava di un ragazzino ancora troppo giovane e inesperto per comandare l’esercito ed era, di fatto, il motivo per cui Tokimune lo rappresentava come shikken sul campo di battaglia. Il principe ascoltò il suo ministro con molta attenzione mentre io, per ordine dello stesso Tokimune, rimasi inginocchiato davanti a Koreyasu senza poter alzare lo sguardo verso di lui. Cercai di comprendere di cosa stessero parlando ma era troppo poco tempo che frequentavo le persone del Cipango per capire pienamente un discorso complesso, così attesi che fosse Tokimune a parlarmi.
«Il nostro venerato Shōgun comprende che voi non siete un portatore di morte come gli ambasciatori del Khan e vi permette di soggiornare nella grande città di Kamakura fino a quando l’esercito invasore non sarà definitivamente sconfitto».
«Dite al principe che sono onorato che mi abbia concesso questo privilegio ma non posso abusare della vostra ospitalità».
Tokimune si avvicinò a me chiarendo la mia situazione. «Marco Polo, un rifiuto in questo momento equivale a essere ucciso come una spia. Fino a che la guerra con il Catai non sarà conclusa, dovrete rimanere qui e dimostrare che siete nel nostro paese proprio per il motivo che mi avete detto in privato: viaggiare per conoscere nuovi popoli e nuove città».
«Ho compreso che sarò libero di muovermi ma non di partire».
«Esattamente; personalmente vi garantisco che nessun saburai avrà per voi un atteggiamento ostile o parole inadeguate. Ora alzatevi mantenendo lo sguardo fisso a terra, inchinatevi e rimanendo in questa posizione indietreggiate senza voltarvi fino alla porta della sala» disse Tokimune con tono pacato ma molto deciso.


Nel mese seguente, rassegnato a questa mia libertà condizionata al rimanere chiuso in una delle stanze del palazzo, iniziai a raccogliere informazioni riguardo alle gerarchie nel Cipango e scoprii quanto la loro struttura sociale assomigliasse fortemente all’impostazione feudale dei Paesi governati da regnanti in Occidente. In teoria era semplicissima la scala del potere: all’apice vi era l’imperatore che consultava per primo lo Shōgun, in altre parole, il capo militare, e in seguito, lo shikken, capo del governo e poi, poiché la sua parola aveva maggior valore di tutte le altre, si sarebbe comportato come meglio credeva seppur consigliato in altro modo. In realtà la situazione in quel momento era ben diversa. Scoprii che l’Imperatore Go-Uda aveva soltanto sette anni e che quindi era più che altro un sostituto di suo padre, Kameyama, imperatore che lo aveva preceduto, che per pura convenienza, e non per spirito religioso, si era trasferito in un monastero Buddhista da dove manteneva il controllo del paese nella forma chiamata “governo del chiostro”[14] e nello stesso istante, anche il principe Koreyasu, ancora giovane, era sostituito dallo shikken Hōjō Tokimune che gestiva lo shogunato come reggente provvisorio. In pratica Go-Uda e suo fratello Koreyasu erano soltanto seduti in posti importanti senza avere nessuna possibilità di gestire il governo. In un certo mi ricordarono la situazione in cui si trovava la Serenissima, meno complicata, ma allo stesso tempo intricata dove il Doge Lorenzo Tiepolo doveva fare i conti con il Cancellier Grande Corrado Ducato[15].

Deciso a ottenere più libertà per vedere altri luoghi di Kamakura mantenni sempre un comportamento adeguato alle norme che mi erano state imposte e questo mio fare fu compreso dal principe Koreyasu che ordinò di lasciarmi camminare tra la popolazione e mi permise di visitare luoghi sconosciuti. Ovviamente non potevo stare da solo così mi fu messa a disposizione, per meglio dire mi fu imposta, una guardia personale di due saburai ma non reclamai mai per questa sorveglianza e, anzi, la trovai anche interessante perché potevo conversare con loro, mi rendevano la vita tranquilla e accontentavano ogni mia richiesta. Fui libero di visitare l’intera capitale ma in giugno qualcosa cambiò e capii che Kubilài aveva iniziato l’invasione. Dovetti cambiare la mia dimora perché non mi erra permesso vivere in una delle lussuose stanze del palazzo reale durante una guerra, ma mi diedero comunque altro agio facendomi soggiornare proprio nella casa dello shikken. Adachi, moglie di Tokimune, era molto cordiale e il piccolo figlio di dieci anni, Sadatoki, mostrò molta curiosità verso di me facendomi anche partecipe dei suoi studi. Le persone comuni mantennero con me un rapporto di reciproca gentilezza ma le mie camminate verso la montagna posta dietro alla città furono vietate, i miei due “custodi” saburai, pur con rispetto, m’impartivano ordini precisi su cosa fare e dove andare ma, nonostante queste piccole privazioni, continuavo a essere un privilegiato e, addirittura, mi raccontarono cosa stava succedendo nella guerra.

In due mesi il Cipango subì grosse perdite nello stretto di Tsushima[16] combattendo solo contro l’esercito proveniente da Goryeo, il quale aveva scansato l’ostacolo della barriera di Hakata utilizzando l’unico varco non fortificato posto lungo la penisola di Shiga. Le staffette militari riportavano quasi ogni giorno la successione delle battaglie. I soldati del Cipango affrontarono i mongoli a viso aperto sulle spiagge nonostante gli invasori fossero numericamente superiori e con attacchi notturni, nei quali piccole imbarcazioni si agganciavano alle lunghe navi mongole, pochi saburai salivano a bordo dei vascelli nemici, uccidevano più soldati possibili senza timore della morte che li avrebbe quasi sicuramente colti in quelle azioni. Ascoltavo con ammirazione le gesta di questo popolo così fiero della propria nazionalità ma sapevo che la guerra era soltanto all’inizio perché nessuno parlò di navi provenienti dal Catai fino al 12 agosto. Quel giorno a Kamakura giunse la notizia che la flotta proveniente dallo Yangtze aveva raggiunto le navi del Goryeo e solo in quel momento vidi una certa rassegnazione alla sconfitta tra la popolazione ma nessuno si lasciò travolgere dalla disperazione, ma anzi, tutti insieme rivolsero delle preghiere ancora più accorate ai loro dèi ai quali chiedevano un aiuto divino.
L’improvvisa mancanza di notizie fece temere il peggio ma il 17 agosto, con un ritardo di due giorni, ci fu raccontato cosa accadde il 15 agosto 1281 d.C. Poche ore dopo che le flotte del Catai e del Goryeo si congiunsero, apparve una piccola nube all’orizzonte che, nelle ore seguenti, crebbe fino a provocare un violento uragano che investì, con tutta la sua potenza, lo stretto di Tsushima per due giorni. Gran parte della flotta mongola naufragò con tutti i soldati ancora sui ponti, altre navi si arenarono scaraventate a riva dalla tempesta mentre i pochi soldati mongoli già sbarcati furono uccisi sulle spiagge dai saburai che, senza nessun timore, affrontarono la forza dei venti. Quel terribile uragano, com’era già successo anni prima, salvò il Cipango dall’orda di Kubilài Khan e la popolazione diede un nome a quella forza elementare che li aveva protetti: “kamikaze” che significava “vento divino” perché ogni persona si convinse che gli dèi avessero partecipato alla guerra insieme ai soldati in modo da distruggere la grande armata mongola.

La guerra era definitivamente finita quando Tōhō Tokimune ritorno al palazzo reale e pensai che mi avrebbero fatto partire, ma lui disse che non poteva garantirmi un viaggio di ritorno rischiando una loro nave e neanche mi consigliava di navigare con un’imbarcazione mercantile perché in quei mari sarei stato preda dei pirati. Mi chiese di attendere perché era certo che il Khan, alla fine, avrebbe sferrato qualche attacco per invadere dei paesi vicini al Catai e che in quel momento sarei stato quasi al sicuro da qualsiasi spiacevole incontro sul mare.

In realtà, l’obbligo di rimanere a Kamakura non m’infastidì perché dopo la vittoria del Cipango mi diedero nuovamente la possibilità di muovermi in tutta la città e nei paesi vicini senza essere neanche essere scortato così colsi quest’occasione e chiesi di incontrare i personaggi più importanti. Fui ammesso alla corte dell’imperatore Go-Uda e scoprii che nessun essere vivente, che non fosse un servitore autorizzato dalla famiglia imperiale, aveva la possibilità di vedere il volto, ma anche solo di sentire la voce dell’imperatore. Mi accontentai di sentire ciò che il suo rappresentante mi traduceva, anche se cercai di sbirciare attraverso le fessure dei paramenti che nascondevano l’imperatore bambino.
Tōhō Tokimune, nonostante tutti gli impegni, continuò a frequentarmi e divenne un amico e fu lui stesso a organizzarmi l’incontro con quello che, a tutti gli effetti, governava l’impero: Kameyama. Andammo nel monastero buddhista e notai i tanti saburai che chiedevano consigli e ordini al vero imperatore poi, attesi il momento di poter parlare con lui. Kameyama ci accolse con spirito soave, rimase con noi qualche ora e poi si dedicò alle faccende da monaco credente e ammetto che non riuscì a convincermi della sua aspirazione da prelato neppure dopo aver parlato con lui.

Viaggiai per molti giorni scoprendo altre meraviglie di questo luogo, vidi grandi statue ricoperte d’oro poste all’interno di templi altrettanto sfarzosi e continuavo a chiedermi se fosse vero che questo popolo aveva chiuso le porte agli stranieri perché in ogni luogo apparivano statue buddhiste. Anche le ceramiche assomigliavano molto allo stile Chien dei Song e all’esterno di una piccola città vidi alcune statue molto somiglianti a quelle viste descritte da altri viaggiatori occidentali che avevano visitato le regioni che furono un tempo dominate dall’impero Gupta[17]. Troppe cose, modificate leggermente, assomigliavano a oggetti conosciuti in altri luoghi, così, passai del tempo studiando la lingua scritta del Cipango poi chiesi a Tokimune di poter visionare gli scritti degli storici del suo paese. Presi in mano alcuni testi e notai immediatamente che la scrittura in ideogrammi era identica ai “kanji” scritti nel Catai, imparai a leggere anche gli ideogrammi autoctoni come “l’harakana” e il “katakana” e finalmente scoprii, attraverso la lettura di alcuni testi, che secoli prima del mio arrivo questo popolo aveva avuto un commercio totale con il Catai.

In epoche antiche il Cipango era chiamato Regno Yamato[18] e sotto la guida della regina Himiko, tramite commerci e scambi intellettuali, assorbì ogni conoscenza della cultura del Regno Wei[19], tra le quali la scrittura con i “kanji” e la religione buddhista[20] proveniente dal Catai attraverso il Goryeo. Gli scambi culturali tra il Cipango e il Catai, attraverso la Dinastia Tang e la Dinastia Nara, continuarono per seicento anni[21] fino a quando, nell’anno 894 d.C., il cinquantanovesimo Imperatore del Cipango Uda chiuse le relazioni diplomatiche di reciproca assistenza.

Compreso che non stavo sognando iniziai a concentrare la mia attenzione verso quelle arti che mostravano segni indicativi della civiltà del Cipango. Le sculture quindi, oltre a mostrare una rilevante influenza del Catai, presentavano lo sfarzo riconducibile alla Dinastia Heian[22] che aveva preceduto proprio la Dinastia di Kamakura. Visitai anche luoghi nei quali lo stile pittorico della dinastia Tang, proveniente dal Catai, era ancora visibile come concezione, ma era anche stato modificato dal popolo del Cipango attraverso una scuola chiamata “yamato-e” nella quale si evidenziava la maggiore attenzione per le linee del disegno, per il colore, per la narrazione e per i dettagli.

Nel mio viaggio di ritorno a Kamakura scoprii anche cose che soltanto nel Cipango erano state create con abnegazione e grande stile. Tra tutte emergevano due arti specifiche: la cura nella creazione del vestiario attraverso una produzione tessile impeccabile che donava agli indumenti una profonda eleganza di stile e di colori, come ad esempio il “kimono” che ogni persona dei ceti più agiati indossava non solo nella propria casa ma anche passeggiando nei centri urbani più piccoli; la dedizione e la fatica che ogni armaiolo promulgava nella produzione delle armi da combattimento utilizzate dai saburai, come per quelle spade che si portavano sempre appresso e che avevano delle lame tanto affilate da staccare la testa dal corpo umano con un taglio netto e preciso.

Alcuni saburai pronunciavano spesso la parola “bushido”[23] ma non avevo ancora chiesto spiegazioni attirato più dalla cultura e dai paesaggi che incontravo nel mio viaggio fino a quando, in un bosco, situato in prossimità di un grande villaggio, assistetti a un fatto che in qualche modo mi sconvolse. Un saburai, vestito con un kimono elegante, era inginocchiato su una specie di tappeto mentre un altro, vestito nello stesso modo, era alle sue spalle con la katana sguainata. Chiesi a Tokimune se quello che stavamo vedendo era l’esecuzione di una condanna a morte; lui mi spiegò che l’uomo inginocchiato aveva la colpa di aver abbandonato, per paura dell’uragano, i suoi compagni durante l’ultima battaglia svolta sulle spiagge di Tsushima poi, con calma assoluta, aggiunse che era stato proprio lui a rammentare a quella persona che il suo gesto aveva disonorato la propria famiglia e che per salvare in propri consanguinei dall’espropriazione di ogni bene aveva una sola possibilità. A quel punto, l’uomo inginocchiato poteva scegliere la morte per mano di un soldato oppure eseguire il seppuku[24]. Ancora non capivo bene questa motivazione ma rimasi a osservare ciò che stava accadendo in silenzio. L’uomo inginocchiato impugnò un coltello che i saburai chiamavano “tantō” e lo spinse nel proprio corpo trapassando gli intestini da sinistra verso destra mentre la persona dietro di lui, pochi secondi dopo, sferrò un colpo preciso con la katana in modo da staccargli la testa senza dolore. Rabbrividii e chiusi gli occhi ritenendo macabra questo tipo di giustizia nella quale un uomo sfregiava il corpo di un altro già morente ma Tokimune mi spiegò che il taglio della testa era fornito da una persona che fosse intima all’uomo che si era suicidato la quale, colpendo con precisione, non permetteva che il volto del defunto si deformasse per colpa del dolore della ferita all’addome. Tokimune scese dal cavallo e s’inchinò in direzione dell’uomo decapitato poi, guardandomi negli occhi, mi disse con massima tranquillità che l’uomo con la katana era il figlio maggiore dell’uomo inginocchiato.

Arrivammo a Kamakura e Tokimune mi disse che l’imperatore Go-Uda aveva accordato il permesso per farmi finalmente vedere l’unico tempio Buddhista nel quale non potevo mettere piede. Arrivammo al Kōtoku-in[25], l’unico tempio in cui l’oro e lo sfarzo non erano contemplati tanto che era stato costruito con del semplice legno. Capii, appena entrato, perché quel posto era riservato a poche persone, quando vidi un’enorme statua di bronzo di Amitabha Buddha. Era alta circa quattordici metri e larga qualcosa più di due metri, i suoi occhi, seppur socchiusi, incutevano timore reverenziale, e nonostante per me si trattasse soltanto di un altro idolo, ne rimasi folgorato tanto da dovermi sedere a terra. Stravolto dalla bellezza di quel monumento, rimasi in silenzio e solo quando uscimmo dal tempio Tokimune mi raccontò che quella stata era stata costruita nel 1252 per volere del fratello maggiore di Kameyama, imperatore prima di lui.


Per tre anni, viaggiai in tutto il paese scoprendo grandi meraviglie che nessun uomo proveniente da ovest aveva mai potuto vedere. Un giorno di febbraio Tōhō Tokimune, che si era ammalato gravemente durante i nostri viaggi, mi disse che Kubilài Khan stava iniziando una guerra con il regno indipendente del Vietnam e che quindi, sfruttando quest’avvenimento, avrebbe potuto prepararmi un’imbarcazione veloce, sequestrata a dei pirati di Goryeo, in modo da farmi raggiungere il Catai senza il rischio di imbattermi in altri vascelli pirata che, durante una guerra, non si sarebbero mai avventurati in mare, ma prima di salutarmi, mi fece una domanda.
«Marco Polo, ho continuato a viaggiare con te e mi sono sempre chiesto che cosa sia il Cipango. Vuoi spiegarmelo prima di partire?»
Lo guardai sorpreso. «Come che cosa è! È il vostro impero!»
Nonostante il dolore al petto Tokimune scoppiò in una grande risata e, cercando di smettere, disse più allegro che mai: «Sei qui da tre anni, hai letto tutto quello che potevi, hai visto grande parte del nostro paese e ancora non hai imparato che il nostro impero si chiama Nippon!»

Nell’anno 1284 d.C. raggiunsi Cambuluc e Kubilài, che ormai mi credeva morto, mi accolse con tutti gli onori ringraziando i suoi dèi per avermi riportato salvo alla sua corte.










Note.
  1. Uso il nome Kubilài perché l’ho trovato scritto più spesso come nome dell’imperatore che come Kubilài o con le forme in lingua originale.
  2. La dinastia Song regnò in Cina dal 960 d.C. al 1276 d.C. quando la capitale Lin’an, l’odierna Hangzhou, fu conquistata da Kubilài Khan. I Song resistettero fino al 1279 d.C. quando subirono la sconfitta definitiva nella battaglia di Yamen.
  3. Cipango è uno dei nomi utilizzati da Marco Polo (insieme a Zipangu) per riferirsi all’isola giapponese.
  4. Cambuluc è uno dei nomi utilizzati da Marco Polo (insieme a Khanbaliq) per riferirsi alla capitale dell’impero mongolo/cinese (l’odierna Pechino).
  5. Goryeo (o Koryŏ) era l’antico nome del Regno di Corea fondato nell’anno 918 e diventato vassallo dell’impero mongolo/cinese nell’anno 1270.
  6. La baia di Hakata è situata nella parte nordoccidentale della città di Fukuoka.
  7. Il Catai (o Ch’itan in trascrizione cinese) era l’impero costruito da Kubilài Khan e Marco Polo lo indicava per rappresentare l’intera superficie cinese mentre nella realtà si trattava della regione settentrionale della Cina.
  8. Appellativo con cui veniva indicata la Repubblica di Venezia.
  9. Lo Shikken era il ruolo del primo ministro (e capo del governo) che nel Periodo Kamakura era monopolizzato dal clan Hōjō.
  10. Lo Shōgun, letteralmente “comandante dell’esercito” era un titolo ereditario conferito ai dittatori militari che governarono il Giappone (1192 - 1868 d.C.).
  11. Il bakufu (shogunato) o “governo della tenda” indicava il governo militare dello Shōgun in omaggio alle tende in cui vivevano i samurai durante le campagne militari.
  12. Kamakura era il nome della capitale durante il Periodo storico omonimo (1185-1333 d.C.). La città esiste tuttora.
  13. Saburai era il nome con cui erano chiamati i samurai fino circa al 1600 d.C.
  14. Il governo del chiostro (o sistema Isei) era una specifica forma di governo nella quale l’imperatore, pur abdicando, manteneva il proprio potere che però creava una divisione nella popolazione tra i fedeli al potere ordinario e il potere del regnante.
  15. Seguendo l’ucronìa Marco Polo nomina il Doge e il Cancellier Grande Tiepolo e Ducato perché sono i due uomini in carica nella Repubblica di Venezia quando inizia il suo viaggio verso il Catai (1271 d.C.) e quindi non può sapere che Tiepolo è deceduto mentre Ducato è stato sostituito proprio nel 1281 d.C.
  16. Lo stretto di Tsushima è la parte orientale e più ampia del canale a est dell’isola omonima che è di fatto uno stretto canale che divide il Giappone dalla Corea.
  17. L’impero Gupta è stato un impero politico dell’antica India governato tra il 240 e il 550 d.c. dalla dinastia omonima fino all’invasione degli Unni.
  18. Regno Yamato (250 - 710 d.C.).
  19. Regno Wei (antica Cina settentrionale, 220 - 265 d.C.).
  20. Probabilmente nel 587 d.C. il Buddhismo divenne la religione ufficiale.
  21. Storicamente sembra accertata la commistione tra la cultura giapponese e quelle cinesi della Dinastia Tang seguita dalla Dinastia Nara che sviluppò un sistema amministrativo, una scrittura, una religione e delle arti specifiche. Questo “codice”, in alcune sue parti, è stato mantenuto attivo in Giappone fino l’anno 1185 d.C.
  22. Il periodo Heian durò dal 794 al 1185 d.C. e la capitale, Heian-kyo, è l’attuale Kyōto.
  23. Nel Periodo Kamakura, il bushido (via del guerriero) indicava ai saburai una condotta precisa ma non fu codificato fino al Periodo Edo dei Tokugawa (1603-1867 d.C.).
  24. Il seppuku era la pratica di darsi la morte come espiazione di una colpa commessa in modo da sfuggire al disonore.
  25. Oggi il Kōtoku-in non esiste più perché è stato spazzato via da uno tsunami a seguito del terremoto di Nankai avvenuto nel 1498 d.C. La statua di bronzo che vi era contenuta, da quel momento, è rimasta sempre all’aperto.

N.d.A.
- Ringrazio mystery_koopa che mi ha dato l’opportunità di sistemare, a livello grammaticale, questa storia.
  
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