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Autore: yonoi    23/12/2018    10 recensioni
Il principe Alberto Vittorio di Sassonia Coburgo Gotha fu nipote della regina Vittoria del Regno Unito, secondo in linea di successione al trono dopo suo padre, re Edoardo VII: tuttavia, non salì mai al trono, morendo di febbri il 14 gennaio 1892 dopo una vita riservata ma al tempo stesso discussa e costellata di ambiguità. Di dice che il giorno del funerale la sua promessa sposa, Mary di Teck, abbia deposto la sua corona nuziale di fiori d’arancio sulla bara del principe.
Ma cosa sarebbe accaduto se Alberto Vittorio, chiamato familiarmente il principe Eddy, fosse sopravvissuto alla pandemia influenzale che imperversò in quell’epoca in tutta l’Europa, sposando Mary di Teck e diventando regnante? E quanto c’era di vero nelle dicerie che per tutta la vita accompagnarono il principe Eddy?
Prima classificata al contest "Senza tempo" indetto da mystery koopa sul Forum di EFP.
Genere: Drammatico, Romantico, Storico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: What if? | Avvertimenti: Tematiche delicate | Contesto: Età vittoriana/Inghilterra
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La Guardiana della famiglia

 

 
 
 
            “Siamo fatti della materia
Di cui son fatti i sogni:
e nello spazio e nel tempo di un sogno
è rinchiusa la nostra breve vita”
 
(W. Shakespeare, “La tempesta”)
 

         1. La Signora dagli occhi rossi

 
            Residenza reale di Sandringham House, Contea di Norfolk, 14 gennaio 1892
 
            Il parco della tenuta era immerso in una caligine che saliva direttamente dalla terra come fosse il respiro di un corpo vivente, disteso tra le aiuole e, più oltre, nel folto della riserva di caccia reale: una foresta corroborante e silenziosa, dimora di fagiani, di lepri e volpi guardinghe.
        Nella notte invernale, la condensa del freddo s’impigliava tra i rami e la luce lunare  emanava una tenue fosforescenza: quei drappi di nebbia trasformavano gli alberi in velieri incagliati in un mare immaginario, fatto di prati ondulati, di colline basse e selvagge.
           Folate di foglie secche si accalcavano fin sulla soglia del cottage: le finestre erano occhi chiusi dietro a lunghissime tende, e l’intera dimora pareva immersa nel sonno e totalmente disabitata. Solo, di tanto in tanto, un lume scivolava fioco dietro alle tende, un fuoco fatuo o il segno di una presenza umana.
            In quell’ora estrema, malgrado l’apparenza di totale abbandono la residenza era affollata come mai prima d’allora.
           Nelle stanze più interne, raccolte dalle tende e dall’ovale giallo, tiepido delle candele, e fin nei corridoi non raggiunti dal fuoco vivo dei caminetti, una folla silenziosa vegliava le ultime ore del principe Eddy, nato Alberto Vittorio: nipote della regina Vittoria del Regno Unito, secondo nella linea di successione al trono.
            Fuori, l’unica voce era quella del vento che imperversava nei prati aperti e s’insinuava lungo i sentieri: poi ritornava indietro e urtava contro gli spigoli netti dell’edificio, formando mulinelli di rabbia.
            In notti come quelle, diceva il popolino, i folletti e gli spiriti andavano a passeggio a cavallo del vento, a far scherzi agli incauti che avevano la sventura di venire a trovarsi sul loro cammino.
         Ma per le strade del villaggio che sorgeva oltre i confini della tenuta non si aggirava un’anima, e il vento ruzzolava furibondo e impetuoso senza incontrare ostacoli: soltanto una colonia di gatti randagi si faceva coraggio a frugare nell’immondizia di un vicolo. Per il resto la febbre regnava per le strade con i suoi occhi rossi, il tremito delle mani e il sangue che bolliva e scaldava anche l’inverno.
           L’epidemia che stava consumando tutta l’Europa come un moccolo di candela giunto agli estremi era una lunga falce che passava a guado i torrenti, attraversava le campagne ed era giunta fin lì: in quel remoto paese non lontano dal mare, dove in estate giungevano l’odore della salsedine e le strida dei gabbiani che inseguivano i mercantili.
            La signora dagli occhi rossi non faceva differenze: gli uomini morivano nelle grandi città, scaldati dai camini ma gelati dal sudore e, paradossalmente, arsi fin nelle ossa; morivano nelle campagne, nei villaggi di case addossate l’una all’altra come pecore spaventate; nelle cascine isolate dove faceva tappa il calesse del medico, e che arrivasse in tempo oppure troppo tardi, dopo aver constatato i sintomi restava ben poco da fare. Morivano a strati nelle fosse dei cimiteri, tutti con gli occhi rossi che bruciavano le ciglia, anche quand’erano chiusi: e tutti somigliavano, nell’ora della morte, alla loro signora dalla carne consunta e la pelle tirata, gialla, sopra alle ossa.
            Anche il principe Eddy non faceva eccezione: e l’unica parvenza di vita sul suo volto già per natura pallido giungeva, in quel momento, dai bagliori del fuoco acceso nel caminetto.
          Il crepitio dei ciocchi era l’unica voce che andava e veniva, borbottando dietro agli arazzi e alle tappezzerie. Il resto era silenzio, rigido nelle spalle di Vittoria del Regno Unito, costernato sul volto della giovane fidanzata, la principessa May: la data del matrimonio con il principe Eddy era stata fissata per il mese di febbraio di quello stesso anno. Ma la signora dagli occhi rossi, la malattia che volava sulle ali del vento, la febbre che struggeva gli uomini come candele, era giunta prima di lei.
           Quell’ospite inattesa, a cui nessuno desiderava aprire le porte ma che entrava ugualmente nelle case dei ricchi e tra la povera gente, si era insinuata fin negli appartamenti reali: col suo strascico di inutili medicamenti, lenzuola fradice di sudore e deliri dell’ultima ora.
         Inesorabilmente aveva aggirato tutti i rimedi, le cure e gli artifici dei medici reali, che ora attendevano solo di compiere l’ultimo ufficio con la stesura dell’atto di morte: per questo, di tanto in tanto, tastavano il polso sempre più flebile dell’ammalato, stringendosi nelle spalle una volta di più.
            L’ultimo tepore sulla mano già fredda di Alberto Vittorio, per tutti il principe Eddy, veniva dalla stretta con cui May si ostinava a tenerlo stretto a sé: nata Mary di Teck, figlia della prima cugina della regina Vittoria, sedeva al capezzale col volto e l’abito bianco, come una sposa abbandonata sull’altare.
            Forse pensava all’abito scintillante di nozze, frutto di lunghi mesi di cucito e di prove, che ora giaceva in una cassapanca avvolto dalle essenze di fiori d’arancio, e là sarebbe rimasto. Per lei, la veste prossima sarebbe stata quello del lutto, come da tradizione per il tempo necessario a sanare le ferite del cuore. E forse il cuore non si sarebbe rimarginato mai più, proprio com’era accaduto a Vittoria del Regno Unito, in lutto stretto dai giorni dell’ultima malattia del principe consorte: Vittoria l’aveva amato fin dal tempo della sua adolescenza, quando Alberto di Sassonia le era stato presentato durante un ricevimento. Quella sera stessa aveva scritto di lui, entusiasta, nel suo diario.
        Secondo l’etichetta, poiché Alberto era inferiore per rango, era stata Vittoria a inoltrare la domanda di matrimonio: durante la celebrazione aveva inaugurato la tradizione delle spose in abito bianco, colore ritenuto fino ad allora di malaugurio da quando Mary Stuart, la regina decapitata, lo aveva indossato in occasione delle sue nozze.
           Dopo oltre vent’anni di condivisione, di vita privata e pubblica e nove gravidanze, Alberto di Sassonia era venuto a mancare: Vittoria aveva continuato ad amarlo al di là della morte, sigillando la corporatura imponente in abiti vedovili, ed esiliandosi nella nostalgia del passato.
           La fedeltà alla memoria conservava le sue vestigia anche presso l’antico castello di Windsor, dove Alberto di Sassonia era passato all’altra vita immerso nell’atmosfera ovattata della Blue Room: la stanza di malattia interamente rivestita di tappezzerie azzurre, arredi e tendaggi in tinta.
            Dopo la sua morte, Vittoria del Regno Unito aveva dato disposizioni affinché la Blue Room fosse sigillata intatta, alla maniera di uno scrigno consacrato al ricordo. Nella stanza di malattia la vita dell’estinto doveva continuare come se la morte non avesse mai osato varcarne la soglia: fiori freschi e ghirlande, rinnovati freschi ogni giorno, sfiorivano nell’oppressione di quelle stanze chiuse, mentre una brocca d’acqua calda e fumante era regolarmente posata sul lavabo.
         L’orologio era fermo all’ora della morte, e il bicchiere utilizzato per assumere l’ultima dose di medicina continuava a gettare la propria ombra sul comodino del defunto.
            Molto probabilmente, il medesimo destino sarebbe spettato all’alcova su cui il principe Eddy, quella sera, era in procinto di abbandonare questo mondo per inoltrarsi nei domini della signora dagli occhi rossi, a ventotto anni compiuti: la stessa eternità, che non doveva conoscere oblio né corruzione, li attendeva entrambi.
            Nel caminetto, rintuzzato a intervalli dalla mano di una serva che era poco più di un’ombra, il fuoco continuava le sue acrobazie, e il suo bagliore era l’unica parvenza di vita sul volto del morente e su quello dei presenti: oltre a Vittoria e May, Alberto Edoardo principe di Galles, primo nella linea di successione al trono, la sua consorte Alessandra di Danimarca e il loro secondogenito, principe Giorgio. I genitori del prescelto dalla signora dagli occhi rossi e il fratello minore componevano una sorta di fondale angoscioso, inquadrato da un arazzo a intrecci floreali che dava all’appartamento il nome di Room in Bloom.
            Tra le cortine del baldacchino il canonico Hervey, cappellano dei principi di Galles, accompagnava l’anima del morente senza parole, leggendo da un libricino.
          Al capezzale si avvicendavano con premura ma senza fretta i medici personali di Vittoria del Regno Unito, e a rispettosa distanza tre infermiere preparavano bacinelle d’acqua calda, destinate ad alleviare il sudore dell’ammalato e, a breve, a ripulire il corpo dalle scorie dell’agonia.
            Nei locali adiacenti, più vicini o distanti secondo un ordine d’importanza che s’era imposto naturalmente, nello stesso silenzio vegliava un’altra folla di addetti alla casa.
           La governante insieme alle giovani cameriere, maggiordomi e preposti alle scuderie e ai giardini, fino agli ultimi fittavoli del villaggio tendevano le orecchie al minimo rumore: fosse una porta che si accostava, un fruscio cauto di passi o addirittura un ultimo respiro proveniente da quelle stanze remote.
            Dopo un tempo che nessuno fu in grado di misurare, sulla soglia della Room in Bloom si materializzò dapprima un’ombra, di seguito l’anziana che si era occupata di mantenere vivo il fuoco del camino: non disse una parola, ma si diresse verso lo specchio che occupava un’intera parete dell’anticamera. Lo coprì con un drappo e spalancò le finestre.
          Il seguito fu un’eco di quei gesti misurati, eppure carichi di una gravità definitiva: a partire dalle sale più vicine alla Room in Bloom, fino all’ultimo vestibolo che portava alle scuderie, gli specchi furono coperti da spessi panni neri, e le finestre aperte nella notte invernale: sguinzagliato come un cane rabbioso per le stanze, il vento iniziò subito a correre da ogni parte.
           Spinti da quel fragore che creava correnti, frenava e tornava indietro in una bolgia di lamenti, i presenti si sentirono liberati dal peso del silenzio, e autorizzati finalmente a dire la loro:
            “In fondo, è stato un bene: non sarebbe mai stato in grado di regnare.”
            “Esiste una Provvidenza anche per l’Inghilterra.”
            “Provvidenza o giustizia. La febbre che lo possedeva era di tutt’altro genere, e i medici di Sua Maestà lo sapevano bene.”
            “Voi invece sapete che al riguardo non esistono prove, soltanto dicerie.”
            “A volte le prove sono le stesse voci che corrono.”
            “Il principe non è morto.” Queste ultime parole, mormorate a bassa voce, sortirono l’effetto di far voltare tutti verso l’oscurità dell’ultimo corridoio, quasi a ridosso del portone d’ingresso. A parlare era stata una bambina pallida, che si riparava a stento dal gelo sotto a un vecchio mantello e una cuffia sdrucita. La cuffia, in particolare, doveva essere il lascito di una donna adulta, perché calzava fuor di misura al piccolo viso: un pugnetto di gote che suggerivano in tutto e per tutto l’idea di essere febbricitanti.
            Sotto al mantello che, a ben guardare, pareva piuttosto una gualdrappa da scuderie, l’abito troppo leggero appariva tinteggiato malamente di nero, come usavano i poveri che non potevano permettersi un nuovo guardaroba per il tempo del lutto: si tingeva alla meglio quello di tutti i giorni, e in questi casi il lutto finiva per durare finché durava l’abito.
            Nessuno sapeva chi fosse la bambina con la cuffia, che era accompagnata da una serva di poco più giovane e ugualmente dimessa: non appena ebbe pronunciato quelle parole così fuori luogo e palesemente assurde, la sua accompagnatrice la tirò accanto a sé, nascondendola nella penombra. Ma la gravità del momento e del tono con cui aveva espresso quel breve pensiero, finirono per attirare l’attenzione di tutti su quella strana creatura:
            “Tu chi sei, ragazzina?” Il silenzio assoluto che era caduto a un tratto, insieme a una sensazione improvvisa di gelo, aveva levato la parola di bocca a tutti i presenti. La voce che ora interrogava la fanciulla proveniva da un angolo ancora più riposto di quel corridoio buio, simile a una galleria sotterranea.
          “Il principe non è morto”, ripeté la bambina avanzando di un passo, fino ad apparire nella debole luce che entrava, insieme al vento, da una delle finestre: “sembra, ma non lo è.”
            Aveva occhi chiari, resi lucidi da una misteriosa chiaroveggenza: intorno a lei, diffondevano un inquietante chiarore. Fuori dalla finestra, veleggiava una nebbia dello stesso colore.
            Sottovoce, la bambina riprese la parola, invitando i presenti a tendere l’orecchio:
            “Non sentite che si allontana?”
           “Chi? La febbre maligna?” di nuovo la voce di prima, intraprendente solo perché si trovava a debita distanza. Tutti, a quel punto udirono un battito di mani: un ritmo scandito come per accompagnare una danza o forse un lamento, e un fruscio di passi che percorreva i giardini con una rapidità prodigiosa, fino a scomparire nella foresta.
           “La Guardiana della famiglia” precisò a quel punto la piccola veggente “era venuta per piangere la morte del Principe Alberto, ma la febbre lo ha lasciato proprio in questo momento. Per questo lei ora torna da dove è venuta.”
         Stavolta, lo sconosciuto interlocutore della bambina - che si appurò in seguito essere semplicemente uno degli stallieri - non trovò il coraggio per chiedere chi fosse questa Guardiana, e soprattutto come facesse la piccola a sapere che la morte del Principe, in realtà, era solo apparente.
            Passarono alcune ore. Al di là di quel pronostico che nessuno ebbe il coraggio di riferire, tanto pareva assurdo, il principe Alberto Vittorio incominciò a mostrare i segni tipici del trapasso, senza possibilità di equivoci né ombra di dubbio.
            Nel fermento dei preparativi funebri nessuno diede peso alle parole della piccola veggente, liquidandole come semplice effetto di suggestione: si venne a sapere che la bambina, tale Georgina figlia di padre ignoto, era sopravvissuta chissà come alla febbre che, nell’inverno di Londra, aveva falciato interi quartieri assieme alla miseria.
           Secondo alcuni si trattava di una parente della serva che, quella sera, l’aveva condotta per mano. Ma alle domande dei più curiosi, la serva in questione si era limitata a rispondere che Georgina era figlia di una sua conoscente, che la madre era morta lasciandola sola al mondo e lei non se l’era sentita di lasciarla in orfanotrofio. L’aveva portata a Sandringham sperando di riuscire a trovarle un lavoro, e contava di riuscirvi perché Georgina era laboriosa e assennata, anche se probabilmente i postumi della febbre dovevano averle fatto girare qualche rotella: perché con tutta la serietà di questo mondo la bambina sosteneva di vedere gli spiriti come fossero in carne e ossa, le anime dei defunti e ogni sorta di cose che più si stava a sentirla e più ci si spaventava.
          Erano in molti a credere, del resto, che senza gli opportuni accorgimenti ci fosse il rischio i morti continuassero a gironzolare per la casa: per questo, nelle ore immediatamente successive al decesso di Alberto Vittorio, a partire dalla stanza che ospitava la salma fino alle scuderie, le finestre furono spalancate per consentire all’anima di raggiungere l’al di là senza restare intrappolata in qualche stanza.     
            Per lo stesso motivo, tutti gli specchi vennero prontamente coperti: in segno di lutto, ma anche perché si credeva che la loro superficie fosse in grado di catturare le anime trapassate mentre ancora si trovavano in casa, disorientate per il distacco prematuro. Un panno nero posto a oscurare il riflesso serviva ad impedire che il defunto rimanesse nei paraggi più del dovuto.
          Una volta convinto ad abbandonare Sandringham House, grazie all’efficacia dei rimedi tradizionali, il principe Alberto Vittorio avrebbe trovato una nuova dimora nel castello di Windsor, presso la cappella dedicata a San Giorgio: dove molti regnanti l’avevano preceduto insieme alle loro consorti, nell’eternità dei monumenti funerari vegliati da statue piangenti e imponenti angeli alati.
           Vittoria del Regno Unito aveva già dato le opportune disposizioni per la costruzione di un imponente sarcofago, che riproducesse le fattezze del nipote a grandezza naturale. Un’opera del genere avrebbe richiesto un lavoro di mesi, ma di fatto lo scultore non ebbe il tempo di dare un solo colpo di scalpello: durante la veglia funebre, un insolito trambusto fece accorrere i servi nella stanza del principe Eddy, dove la camera ardente era stata allestita con profusione di fiori e di sali per coprire il fetore aspro della malattia.
           I primi ad accorrere si trovarono di fronte a uno spettacolo impressionante: a quanto pareva, malgrado le finestre completamente spalancate l’anima del defunto non era partita in volo, ma aveva preferito tornarsene nel corpo dove aveva dimorato fino a ventiquattr’ore prima.
           I servi della casa rimasero sbalorditi, immobili sulla soglia: la visione che apparve dinanzi ai loro occhi si fissò così fortemente nella memoria che anche a raccontarla a distanza di anni pareva di riviverla come fosse accaduta allora.
         Seduto sul giaciglio che ancora recava l’impronta sudata del trapasso, emergendo da una trapunta di ghirlande, fiori ed erbe aromatiche, il principe Alberto Vittorio stringeva a sé colei che aveva continuato a vegliarlo senza riposo, stringendogli la mano e senza mai allontanarsi dal suo capezzale. Tra le braccia del suo amato, la principessa May sorrideva radiosa, come una sposa sull’altare delle sue nozze.
 
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           Dopo le prime sgomente reazioni, dopo gli accertamenti dei medici reali che decretarono ufficialmente - ove ce ne fosse ancora il bisogno - di trovarsi di fronte a un caso straordinario di morte apparente, la vita a Sandringham House riprese il suo corso, pur con le necessarie cautele per consentire al Principe un adeguato periodo di convalescenza.
          Della sua esperienza ai confini tra la vita e la morte, il principe Eddy non parlò mai: nessuna rivelazione varcò la soglia degli appartamenti reali, nessuna confidenza fu affidata alle orecchie discrete della principessa May. Dal punto di vista di Vittoria del Regno Unito, l’intera vicenda trovò la più logica spiegazione nell’incompetenza dei sanitari:
           “Non sapere distinguere un vivo da un moribondo, qui sta l’enormità di tutta questa faccenda.”
        I medici reali ribadirono che, alla stesura dell’atto di morte, il cuore del principe Eddy aveva cessato di battere da più di sessanta minuti. Dalle constatazioni eseguite col più moderno stetoscopio a loro disposizione risultava l’assenza di attività cardiaca, e ogni altra evidenza aveva confermato la cessazione del respiro e di risposta agli stimoli.  
            “La Vostra Maestà del resto era presente, e ha potuto verificare che ogni accertamento è stato eseguito con perizia e senza ombra di dubbio.”
            “Chissà cosa avrete sentito, con quei vostri imbuti di legno.”
            Vittoria del Regno Unito liquidò la questione ricordando il vecchio adagio secondo cui il paziente campa di più e meglio se non incontra mai il medico: dichiarò il caso chiuso con tanta decisione che nessuno si prese l’impiccio di riferirle ulteriori stranezze, tanto meno le parole pronunciate da quella bambina che sosteneva di vedere gli spiriti, ma forse per certe cose ci azzeccava più dei dottori.
          Nei giorni successivi, la data delle nozze tra il principe Alberto Vittorio e Mary di Teck fu confermata ufficialmente: accantonati i preparativi per le esequie, nonché il progetto per il monumento sepolcrale, furono avviati quelli per i festeggiamenti. 
           La convalescenza del principe Eddy ebbe un decorso ordinario, senza scosse e clamori, come se l’ammalato si stesse riprendendo da una banale indisposizione: il suo carattere schivo e l’inguaribile timidezza, che facilmente veniva scambiata per disinteresse nei confronti del mondo intero, non registrarono alcun mutamento.
           Quell’evento inspiegabile di cui era stato protagonista sembrava non averlo neppure sfiorato: al punto che non solo tra il personale di servizio, ma addirittura tra i membri della famiglia reale si cominciò a ironizzare sul fatto che tra il principe Eddy redivivo e Eddy sul catafalco non c’era veramente nessuna differenza.
            La poca considerazione che si aveva di lui partiva dall’alto, dal carattere determinato di suo padre, Alberto Edoardo principe di Galles, che era l’opposto speculare del figlio. E risaliva al tempo faticoso della sua infanzia, quando le ore non passavano mai e la mente di Eddy divagava spontaneamente: finendo per trovarsi sempre da un’altra parte quando il canonico Dalton, suo precettore, lo destava dal mondo dei sogni per interrogarlo.
         Cosa sognasse Eddy invece di seguire le lezioni di storia, grammatica e latino, neppure lui in realtà avrebbe saputo dirlo: a un’eventuale domanda, molto probabilmente avrebbe risposto che quando ci si sveglia i sogni fuggono via, e nessuno può trattenerli.
           Da principio si pensò che a impedirgli di seguire le lezioni fosse una sordità incipiente, possibile eredità di sua madre, Alessandra di Danimarca: all’esito di approfonditi accertamenti non risultò alcun difetto, a riprova del fatto che non c’è peggior sordo di chi non voglia ascoltare.
           Questo era per lo meno il parere di Dalton, che considerava Eddy un’autentica spina nel fianco.
          Con la sua voce monocorde che già di per sé conciliava il sonno, il precettore sfogava la sua frustrazione durante i colloqui con l’augusto genitore del suo svogliatissimo alunno:
            “Questo ragazzo è pigro” esordiva il canonico, salvo poi precisare:
            “Non solo è negligente, il che sarebbe solo una questione di disciplina. Oserei dire che lo stato ordinario della sua mente è un sonno così profondo che pare quasi impossibile riuscire a destarlo.”
            Analoghe osservazioni riguardavano il profitto del principe Giorgio, fratello minore di Eddy e allievo parimenti insipiente. I due studiavano assieme: nel caso di Giorgio, la mediocrità si attestava nei limiti della norma. Di Eddy, invece, si diceva più o meno apertamente che era proprio il cervello a mancare all’appello. 
            In molte occasioni, questi giudizi trancianti vennero pronunciati alla presenza dei due ragazzi: Giorgio chinava il capo mortificato, mentre Eddy pareva del tutto indifferente, come se quelle parole non lo riguardassero affatto. In realtà dentro bruciava, moriva di umiliazione.
          “Tu non hai amor proprio” rincarava la dose il principe di Galles, e l’unico risultato che riusciva a ottenere era che quel po’ di autostima che si nascondeva sotto alla cappa di timidezza del figlio, si assottigliava sempre di più. Sentendosi incompreso, a maggiore ragione Eddy si rifugiava nel suo universo fantastico, e la logica conseguenza era che i suoi voti colavano a picco senza rimedio.
            L’unica ad intuire quel circolo vizioso fu la nonna Vittoria, che in breve proibì al canonico di sfogare le sue paturnie in presenza dei nipoti:
         “Carissimo reverendo, se lo metta ben in mente: se un allievo non impara, di qualsiasi allievo si tratti, la colpa è del precettore che non sa come insegnare.”  
            Di certo Eddy era un sognatore, e molto probabilmente non possedeva le qualità necessarie a un regnante. Ma Vittoria del Regno Unito avvertiva una particolare sintonia col nipote: dietro alla sua presunta lentezza mentale scorgeva un tratto di purezza, che nessuno dei suoi numerosi figli e nipoti possedeva. Eddy era un carattere dolce, persino affascinante nella sua estrema riservatezza.
           Fu solo dopo una lunga e accidentata ricerca che la nonna riuscì a scovare qualcosa in grado di interessarlo. Un giorno si trovavano a percorrere i corridoi della biblioteca di Windsor, con Eddy che si divertiva ad arrampicarsi sulle scale appoggiate agli scaffali, col rischio di cadere e rompersi l’osso del collo: Vittoria riuscì ad attirare la sua attenzione mostrandogli un prezioso volume illustrato.
           Mentre entrambi erano intenti a sfogliare le pagine, con grande disappunto della Regina apparve chiaro che Eddy, a undici anni compiuti, faticava ancora a scandire le sillabe: ma l’altra scoperta, ben più entusiasmante, fu che il libro suscitò nel ragazzo un fascino irresistibile.
            Le pagine erano impreziosite da tavole che mostravano le terre selvagge dell’India, una giungla di tigri con occhi di smeraldo e pantere a riposo sui rami degli alberi. Lungo gli argini di un fiume lentissimo e senza fine, processioni di elefanti scortavano principesse accovacciate su baldacchini variopinti.
            “Voglio andarci, in questo posto” disse Eddy sognante, senza riuscire a staccare lo sguardo da quel mondo incredibile che si stava svelando dinanzi ai suoi occhi.
          “L’India è colonia inglese” aveva risposto compiaciuta la nonna, “ci potrai andare quando sarai più grande, e soprattutto quando avrai imparato a leggere.”
            Il piccolo Eddy prese quella promessa alla lettera: nessuno seppe mai se a smuoverlo fu il desiderio di recarsi al più presto in quei luoghi misteriosi, oppure il semplice fascino dei racconti di avventure. Fatto sta che, di lì a breve, imparò a leggere speditamente.
            L’occasione era troppo ghiotta perché Vittoria rinunciasse a prendersi una rivincita nei confronti di Dalton:
            “Ha visto, reverendo? Nella necessità, occorre sempre aguzzare l’ingegno.”
            In preda a una vera e propria febbre della lettura, il principe passò ben presto alle storie di folletti, fantasmi e di paura. Facilmente impressionabile e dotato di una fervida immaginazione, trascorreva notti insonni per buona parte immerso col naso dentro ai volumi: per il resto con gli occhi spalancati nel buio che si riempiva di voci, di immagini evanescenti, di ombre e di domande.
            Fu in quel periodo che, dopo una lunga e dolorosa malattia morì lady Forster, una delle più affezionate dame di compagnia della Regina Vittoria. Sua Maestà aveva da poco ricevuto la notizia in via confidenziale, quando Eddy la raggiunse nei suoi appartamenti recando un grande volume, che aprì dinanzi a lei per mostrarle un’illustrazione.
            La figura su cui il nipote richiamò la sua attenzione rimase a lungo impressa nell’animo di Vittoria, già turbato dalla notizia appena ricevuta, come una delle immagini più spaventose che avesse mai visto.
            Quasi si dispiacque di avere spinto il nipote nel mondo fascinoso e impervio delle letture. La biblioteca reale custodiva sì dei tesori, ma anche volumi non adatti ai bambini: in ogni caso, quel trombone di Dalton avrebbe dovuto vigilare più attentamente sul genere di libri che finivano tra le grinfie del suo pupillo.
        La tavola in questione, intitolata “La banshee” raffigurava una donna vestita solo delle sue ossa e da una sorta di sudario insanguinato: i capelli scarmigliati le ricadevano disordinatamente sul volto, i cui tratti erano ridotti alle mere cavità di un teschio scarnito. Al posto degli occhi due ombre, un’altra ombra era il naso e la bocca appariva deformata in un grido.
           “Perché occupi il tuo tempo a guardare queste cose?”
           Profondamente impressionata, Vittoria ritenne opportuno redarguire il nipote:
          “Ecco perché di notte non riesci a prendere sonno, e poi durante il giorno ti addormenti a lezione. Il canonico è di nuovo insoddisfatto del tuo rendimento, il che significa altri guai in vista con tuo padre.”
           “Nonna, voi conoscete la Guardiana della Famiglia?” il piccolo Eddy era troppo eccitato dalla scoperta per far caso a tutto il resto, comprese le possibili punizioni paterne. Seduto al tavolino accanto a Sua Maestà, aprì quel volume che era quasi più grande di lui, e cominciò a leggere:
          “Tra gli abitatori del regno delle fate, la banshee appartiene alla categoria degli spiriti solitari. La sua presenza è legata ai casati di antica origine, presso le quali suole manifestarsi in occasione della morte di uno dei suoi componenti, specie se si tratta di un personaggio illustre. Per questo è anche detta la Guardiana della famiglia. Il suo lamento funebre, accompagnato dal battito ritmico delle mani, è un annuncio di morte imminente.”
            Ce n’era già a sufficienza perché a Vittoria del Regno Unito i capelli si rizzassero dritti sotto alla cuffia:
            “Queste sono leggende delle contee d’Irlanda, semplici superstizioni da contadini. Senza contare che tu sei troppo grande per credere alle favole.”  
            “Nonna, avete mai udito il canto della Guardiana?” I grandi occhi celesti del principe Eddy erano pieni di timore, ma anche di un’irrefrenabile curiosità.
            Vittoria ebbe un moto di esasperazione: si trovò quasi a rimpiangere il tempo non lontano in cui il Eddy si limitava a inseguire le nuvole durante le sue lezioni.
            “Io l’ho udito l’altra notte”, proseguì il giovane principe, “l’ho udito poco prima che lady Forster morisse. L’orologio della torre aveva appena terminato il rintocco di mezzanotte, quando ho udito quel pianto e il battito delle mani che andava e veniva, e girava attorno alle mura. Mi sono affacciato alla finestra della mia camera, ma era molto buio e non ho visto nessuno.” 
          “Ci credo che non hai visto nessuno, figliolo: sono tutte fantasie, queste storie ti hanno messo la confusione in testa e tu chissà cos’hai creduto di sentire.”
            Vittoria era spazientita e anche inquieta. In realtà la notizia della morte di lady Forster, avvenuta nel lontano castello di Balmoral in Scozia, era giunta da poco e non era stata ancora resa nota agli altri membri della famiglia.
            Come sempre accadeva quando non sapeva come trarsi d’impaccio, decise di tagliar corto e di chiudere immediatamente la questione:
            “Adesso basta, Eddy: consegnami quel libro. Ti proibisco di continuare con queste letture, che non sono adatte alla tua età e ti portano solo scompiglio e allucinazioni.”
            Dopo aver consegnato a malincuore il volume, Eddy tornò a immergersi nei racconti di viaggi ed esplorazioni, e di quella fosca vicenda non si parlò mai più. 
 
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           Baia di Darmouth, Devonshire, 1877
 
            Di fatto, il desiderio di Eddy di conoscere il mondo trovò il suo compimento ben prima dell’età adulta. A tredici anni compiuti, insieme al fratello Giorgio e al canonico Dalton, s’imbarcò per volontà di suo padre sulla nave da addestramento della Royal Navy Britannia.
          Il principe di Galles era convinto che un vigoroso tirocinio in Marina fosse fondamentale per educare i figli alla disciplina: evitò di aggiungere “utile soprattutto a svegliare i dormienti”, solo perché la Regina Vittoria era presente.
            A bordo della Britannia, Eddy portò con sé il proprio bagaglio di impacci, timidezza e difficoltà a rapportarsi con gli altri. La prima lezione che imparò suo malgrado fu che tra la quiete protetta della sua amata biblioteca e il mondo in carne, ossa e cannoni della Britannia c’era una differenza più grande del mare che si apriva nella baia di Dartmouth, sulla Manica.
          Dartmouth offriva un paesaggio di varia umanità: porto attivo fin dall’epoca delle Crociate, era un mosaico di vicoli e scalinate di pietra, severe costruzioni sorrette da colonne, marciapiedi che correvano in discesa fino all’orizzonte azzurro del porto.
            La banchina era un crogiuolo di attività lecite e furfantesche: c’erano i magazzini all’ingrosso del pesce e i banchi per lo smercio al dettaglio, affollati di compratori e mendicanti che contendevano gli scarti a colonie di gatti. L’odore era insopportabile, e le secchiate d’acqua che alcune energiche popolane gettavano di tanto in tanto sul marciapiede, contribuivano solo a mandarlo più in là, fin sulla soglia degli empori di articoli coloniali: qui si vendevano lo zenzero e la cannella, il tabacco e il thè di Darjeeling, spezie di tutti i colori in grandi sacchi aperti, che a passarci vicino veniva da starnutire.
            Abituato alla tranquillità degli appartamenti reali, all’ordine rigoroso imposto dall’etichetta, Eddy era frastornato: non aveva mai visto un simile formicolio di gente indaffarata, occupata a contrattare, litigare o ondeggiare qua e là in preda ai fumi dell’alcool. Le navi attraccavano per consegnare la merce o provvedere al rifornimento di carburante: il molo era un andirivieni di scaricatori e marinai con le spalle piegate sotto al peso dei carichi, su e giù dalle passerelle dei pescherecci, delle navi militari, dei mercantili dalle stive immense. Le taverne dei vicoli erano affollate di carbonai e manovali, militari in libera uscita, donne in abiti sgargianti, borseggiatori che approfittavano della ressa per muoversi indisturbati.
            Nel negozio di coloniali, visitati dai due ragazzi con Dalton perennemente alle calcagna, parrocchetti verdi e gialli gonfiavano le penne dentro a eleganti gabbie di ferro battuto, pappagalli giganti guardavano di traverso e parlavano a segno come cristiani. Zanne d’avorio di dimensioni colossali, pelli maculate di leopardo e di zebra, persino un’enorme tigre impagliata diedero a Eddy un assaggio di quelle terre esotiche che avrebbe tanto desiderato visitare.
            Aveva ancora negli occhi le visioni dei suoi romanzi quando uscì dal negozio, passando dalla penombra alla luce viva del marciapiede: sempre seguito da Dalton col naso nel fazzoletto, che starnutiva per via delle spezie.
            Quel momento di temporanea distrazione non passò senza conseguenze: il principe Eddy si sentì urtare con violenza e fece appena in tempo a vedere un ragazzetto che fuggiva a gambe levate.
            Istintivamente portò la mano alle tasche e scoprì che portafoglio e orologio avevano preso il volo, tra le grinfie di quel furetto che aveva visto solo di spalle ma non poteva avere più di cinque o sei anni.
            L’imperturbabile Dalton, invece, non si era reso conto di nulla: soltanto a tarda sera, nei locali dell’accademia, realizzò di esser stato vittima a sua volta di un borseggio: spariti la tabacchiera, l’orologio da taschino, il portafogli e persino il fazzoletto da naso, che gli era indispensabile forse più di tutto il resto.
            Mentre il canonico imperversava furibondo, invocando tutti i diavoli dell’inferno sulla gente del porto, e sui bobbies che si facevano prendere per il naso da quei ladruncoli che s’infilavano dappertutto, Eddy era pensieroso.
            Un fatto in particolare l’aveva impressionato: la vista delle baracche a ridosso dei magazzini di carbone, catapecchie di legno da cui aveva visto uscire marmocchi a frotte, donne con altri piccoli tra le braccia e attaccate alle gonne. Pareva che quelle baracche contenessero un’umanità senza limiti di numero e di miseria. A un tratto, attirati dal muggito di un mercantile all’attracco, una folla di uomini si era affrettata fuori da quei tuguri: erano giovani ma anche anziani malandati, e tutti correvano a frotte verso la banchina, per aggiudicarsi il diritto di provvedere allo scarico.
           In quello stesso momento, dal lato opposto del molo un’altra folla stava accorrendo, sicché era nata una contesa che immediatamente era passata alle vie di fatto.
           A quel punto erano intervenuti i poliziotti, ma la rissa era andata avanti per un pezzo: era ancora in corso quando il canonico Dalton, che si era attardato a far scorta di tabacco, era riuscito a riacciuffare i due rampolli reali e a trascinarli via da quell’increscioso spettacolo.
           Per la prima volta da quando era stato affidato alla sua tutela, il principe Eddy aveva tempestato il precettore di domande, ovviamente non riguardanti la storia dell’Inghilterra o le declinazioni latine, bensì la scena sanguigna a cui aveva assistito.
           Di fronte alle risposte evasive di Dalton aveva cavato fuori una grinta inaspettata, tale da lasciare il canonico stupefatto:
           “Quando io sarò re” aveva dichiarato ad alta voce Eddy, con i toni vibranti di un giuramento solenne, “non ci saranno più i poveri: ci penserò io a dare ad aiutare tutti, e non dovranno più vivere in quelle orrende baracche.”
           Il vecchio canonico aveva sorriso. A suo parere, ben peggiore della miseria di tutti i porti del mondo era l’idea che un giorno quel ragazzetto, così scarso di volontà e di cervello, potesse salire al trono. Quella sarebbe stata la vera tragedia, e c’era da augurarsi che Sua Maestà la Regina e il principe di Galles campassero in eterno, perché un danno del genere non avesse mai a verificarsi.
           Tuttavia, la fermezza con cui il principe Eddy era riuscito a esprimere un suo pensiero, per la prima volta da quando era al mondo, era piaciuta a Dalton: il principe di Galles aveva ragione a dire che la Marina forgiava uomini forti. E sì che il corso di addestramento vero e proprio non era ancora iniziato.
           Una volta salpati dal porto di Dartmouth, quando le esercitazione cominciarono sul serio,  iniziò anche il calvario per il principe Eddy. Chi si forgiò in quel tempo, anche se non nel senso che intendeva suo padre, fu il principe Giorgio: impegnato a tempo pieno a difendere suo fratello, e anzitutto se stesso, dalle angherie feroci degli altri cadetti.
           Come accadeva in tutte le caserme del mondo, i più anziani vessavano le reclute nei modi più bizzarri, persino fantasiosi. Rimanere rinchiusi dentro a una cassa per ore, finché non si riusciva a liberarsi da soli. Trovare una coda di topo nella minestra, essere costretti a cercare la chiave della propria cabina frugando la Britannia da cima a fondo, a costo di passare la notte sul ponte: tutto faceva parte di un percorso iniziatico che era ampiamente tollerato dai superiori.
            Si poteva mettere fine al tormento soltanto dimostrando di non essere un debole, e la via più breve per dimostrarlo era spuntarla in una rissa di almeno tre contro uno.
            Non erano previste eccezioni, né sconti: come recitava un vecchio adagio dell’accademia, sulla Britannia si salpava da pivelli e si tornava da uomini.
            Pivello per eccellenza, per vocazione e forse anche per scelta, il principe Eddy era il bersaglio prediletto da quella torma di aristocratici ben consapevoli dei loro privilegi, primo tra tutti quello di maltrattare gli inferiori: e più inferiore di Eddy, a bordo della Britannia e a dispetto della sua ascendenza regale, non c’era proprio nessuno.
            Giorgio si difendeva, imparò a fare a botte e a menare certe sventole da voltare la faccia a individui grandi il doppio di lui. Ben presto conquistò il posto che gli spettava nella scala gerarchica del Royal Naval College, mentre Eddy si limitava a incassare: sicché il suo destino fu di salpare da pivello e di tornare tale e quale, anzi persino più timido e incapace.
          Come sempre accadeva nei momenti di crisi, Eddy trovò rifugio tra le pagine dei suoi libri: tutto il suo tempo libero lo trascorreva nella cabina sotto coperta, a leggere e a lasciarsi cullare dal rollio dolce della Britannia. Contrariamente alle abitudini dormiglione che aveva acquisito a corte, e allo scopo di ritagliarsi momenti di solitudine, all’alba era già sul ponte: sgattaiolava a prua e ascoltava il canto del vento, vedeva il sole sorgere disegnando un scia di luce sul mare, un crepitio tra le onde.
           Durante il passaggio dello stretto di Gibilterra, Eddy incontrò i delfini: costeggiando le bianche scogliere, che formavano un orizzonte di ali pronte ad alzarsi in volo - erano infatti innumerevoli i gabbiani che di là si levavano, all’inseguimento dei pescherecci - la Britannia aveva diminuito la velocità di crociera. Fu allora che l’oceano dalla parte di prua ebbe un fremito, e dinanzi agli occhi stupefatti di Eddy prese la forma di un guizzo, di una capriola, e di un’infinità di grida festose: i suoni dei delfini erano vocalizzi prolungati e gioiosi, come di bimbi che giocassero a rincorrersi, e colmi di un’armonia che era pura forza vitale.  
            Un intero branco impegnato in volteggi e balzi sull’acqua accompagnò a lungo il tragitto della Britannia. A Eddy che gettava minuzie di pane e aringhe sotto sale, i delfini offrirono il meglio della loro natura scherzosa: salti al volo e sorrisi che ben potevano dirsi da un orecchio all’altro, spruzzi d’acqua salata che nel sole dell’alba parevano diademi.
            Di tutto il suo periodo di addestramento in Marina, il principe Eddy ebbe cura di conservare solo i ricordi migliori: la danza dei delfini, il mistero del mare aperto, le colonie di pesci che spesso si scorgevano sotto al pelo dell’acqua.
            Contemplando la natura si sentiva in armonia con il mondo: per questo era anche disposto a sorbirsi le interminabili lezioni di nautica, a imparare quegli assurdi termini marinareschi, a sopportare le molestie degli altri cadetti. I quali a un certo punto, rendendosi conto che le loro trovate ai danni del principe Eddy si risolvevano nel il più totale disinteresse, persero il gusto del gioco e decisero di lasciar perdere.
 
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