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Autore: NPC_Stories    25/12/2018    2 recensioni
Il Solstizio d'Inverno nel Faerûn non è sentito quanto il Natale nel nostro mondo, ma qualche tradizione ce l'hanno anche loro. Daren e Dee Dee però vivono in un dungeon, dove le stagioni non hanno molto significato.
***
Nota: personaggi originali, la storia si svolge dopo Lezioni di sopravvivenza - Primo livello.
Genere: Fantasy, Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
- Questa storia fa parte della serie 'Forgotten stories of the Forgotten Realms'
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NdA: Questa oneshot potrebbe non avere molto senso per chi non ha letto Lezioni di sopravvivenza - Primo Livello, perché ha luogo fra la fine di quella storia e l'inizio di Lezioni di sopravvivenza - Secondo livello.




1363 DR: L’alba del Solstizio d’Inverno


Dee Dee era così stanca. Era strano per una mezza vampira sperimentare una sensazione così comune come la stanchezza, la sua natura soprannaturale l’aveva dotata di grande forza e resistenza, ma il suo mentore drow riusciva comunque a farla arrivare esausta alla fine di ogni giornata.
Di sicuro il fatto di vivere in un immenso e letale dungeon non aiutava. Non era proprio un ambiente sereno e rilassante. Dee Dee sapeva che il suo addestramento procedeva sotto l’occhio attento di un insegnante che conosceva bene il posto, eppure nulla le toglieva dalla mente il sospetto che quel giorno una o due volte avesse rischiato la vita per davvero. Si stava allenando ad evitare le trappole mortali dell’Undermountain, e sembrava che quelle bastarde si ricaricassero in automatico dopo un periodo di tempo casuale; a volte la ragazza aveva perfino l’impressione che cambiassero di posto da sole. O forse, semplicemente, ogni trappola aveva più di un punto d’innesco.
“Fono diftrutta” mormorò, trascinandosi verso la sua tenda. Sentiva lo sguardo di biasimo del suo compagno alle sue spalle, non aveva bisogno di voltarsi per vederlo: lui non approvava che lei usasse quella tenda. Diceva che era inutile in un dungeon, dove non c’erano né sole né pioggia da cui ripararsi, anzi era dannosa perché le impediva di vedere i pericoli in avvicinamento. Dee Dee gli aveva detto più volte che se ne fregava altamente delle sue rimostranze, e aveva tutta l’intenzione di continuare a fregarsene. La tenda le serviva perché la dhampir aveva costantemente freddo, soprattutto durante il sonno. Era un problema di circolazione sanguigna. E d’altra parte non c’erano grandi pericoli nell’enorme stanza in cui si erano accampati: ci pensava il drolem a tenere lontani i seccatori e i mostri.
Il drolem, un gigantesco golem di carne draconica, era uno spettacolo ributtante. Dee Dee all’inizio lo trovava spaventoso; ora si era abituata a quella vista e lo giudicava soltanto brutto, sgraziato, un abominio. Cucire insieme pezzi di cadavere, anche se di drago, e infondergli la vita con la magia era un’azione che a lei rammentava troppo la necromanzia. A Daren, invece, il drolem piaceva. Non era ben chiaro chi lo avesse creato, forse lo stesso arcimago pazzo che aveva rivendicato il dungeon, ma era una bestia innocua. Se ne stava sempre lì, accucciato sulla botola che proteggeva (o almeno, Daren sosteneva che ci fosse una botola sotto l’enorme fondoschiena del golem, ma Dee Dee non l’aveva mai vista), e non mostrava mai segni di aggressività a meno che qualcuno non cercasse di attaccarlo o di avvicinarsi alla famigerata botola.
Dee Dee scostò un lembo della sua tenda per entrare, ma la voce del drow la fermò sulla soglia.
“Non bevi sangue da due giorni interi. Non è strano che tu sia esausta.”
La ragazza si bloccò come una statua di sale. Certo, erano due giorni che non beveva sangue. Non c’era bisogno di puntualizzarlo, lo sapevano entrambi. In quei due giorni non aveva trovato nessuna preda, nemmeno un misero goblin o un ratto. Se Daren aveva rimarcato l’ovvio, poteva voler dire solo una cosa: le stava dicendo che doveva bere, e siccome non c’erano prede in vista e lei era troppo stanca, si stava offrendo di procurarle del sangue.
“Io… non fi trovano molte prede qui intorno.” Mormorò Dee Dee, come in tono di scuse. Se lui aveva deciso di aiutarla, quella mancanza di prede gli avrebbe creato dei problemi. Avrebbe dovuto spingersi fino a cunicoli più remoti, sfidando un maggior numero di trappole.
“Probabilmente è colpa tua.” Ipotizzò lui, ma nel suo tono c’era una nota di rispetto, forse anche di orgoglio. “Gli abitanti del dungeon hanno iniziato ad evitare questa zona perché hanno paura di finire dissanguati.”
“Mi difpiace.” Mormorò Dee Dee.
Il drow sospirò in tono esasperato, come se quell’atteggiamento sommesso lo infastidisse. “Non devi dispiacerti, è così che vanno le cose! Andrò a caccia per te. Non è un male, oggi è il solstizio d’inverno. Molti miei simili stanno andando a caccia, anche se non qui nel sottosuolo.”
Dee Dee venne scossa da un brivido, pensando alle implicazioni di quelle parole.
“Vanno a caccia in Fuperficie? A… a caccia di elfi?
Daren per un attimo restò così confuso da non sapere cosa dire, ma recuperò in fretta. “Uhm, no. No, intendevo… gente della mia stessa religione. Vanno a caccia di bestie pericolose.” Si strinse nelle spalle, come se la cosa per lui non avesse molto senso. “Sai, è, come… una tradizione. Le religioni hanno sempre tradizioni un po’ sciocche.”
“Non mi hai mai parlato della tua religione.” Notò la dhampir.
“Scusa tanto se sono affari miei.” Ribatté lui, in tono falsamente accomodante. Dee Dee sapeva che la stava prendendo per i fondelli. “Perché parlartene? Non mi pare che tu abbia un gran bel rapporto con la religione.”
La ragazza non aveva nulla da ribattere a questo. In effetti, la prima volta che era venuta in contatto con delle persone profondamente religiose, si trattava di paladini di Lathander… e l’avevano quasi uccisa, perché la reputavano troppo simile a un vampiro vero. Uno di loro però l’aveva salvata ed era diventato il suo migliore amico, ma anche lui era morto a causa del suo stesso fanatismo, in un combattimento eroico contro un lich. Se non fosse stato per la sua cieca devozione, forse non sarebbe morto. Poi, per continuare in bellezza, un sacerdote di Lathander aveva sottoposto Dee Dee ad orribili esperimenti per determinare se fosse o no una creatura vivente, e infine da quando era scesa nell’Undermountain alcuni cultisti pazzi avevano cercato di sacrificarla a Cyric e poi lei stessa aveva salvato un’altra vittima dai chierici di Selvetarm, due divinità malvagie. Decisamente ne aveva fin sopra i capelli delle religioni.
Adesso, scoprire che anche Daren era seguace di una divinità l’aveva sorpresa e preoccupata in egual misura. Ma forse per lui la fede non era così importante. No, era troppo pragmatico per essere un fanatico… e poi non aveva mai cercato di fare proselitismo, anche questo ai suoi occhi lo rendeva sostanzialmente un laico.
“Andrai a caccia per la tua divinità?” Gli domandò, tastando il terreno.
“Cosa? Stanco come sono? Col cavolo, non penso che alla mia dea freghi qualcosa se quest’oggi ammazzerò qualche mostriciattolo in suo nome, in ogni caso è una pratica stupida in un dungeon come questo. Ha senso, capisci, se c’è un mostro che minaccia un villaggio. Allora è comprensibile. Ma venire qui e poi lamentarsi che ci sono dei mostri è come stabilirsi in una fogna e poi lamentarsi che c’è puzza.”
Dee Dee simulò un paio di colpi di tosse, per coprire una risatina. “Adoro le tue metafore cofì raffinate” fece una smorfietta schifata, ma per scherzo.
“Andrò a caccia perché tu ne hai bisogno.” Riprese lui, rispondendo alla sua domanda iniziale. “Che alternative abbiamo? O questo, oppure dovrai bere da me.”
Dee Dee rifletté velocemente, mentre lui controllava che le spade fossero ben agganciate alla cintura e si preparava a partire.
“Forfe dovrei bere da te.” Propose di getto, fermandolo prima che si allontanasse. “Voglio dire… fai che odio chiedertelo, ma odio ancora di più l’idea che ti fucceda qualcofa di male perché fei troppo ftanco per affrontare un pericolo.”
Quella richiesta così improvvisa lo prese in contropiede: era vero, lei odiava essere costretta a bere il sangue del suo compagno d’avventure e alleato, perché quello che indeboliva uno dei due poteva esporre entrambi al pericolo. Daren però rifletté seriamente su quella proposta. I suoi riflessi erano rallentati per la stanchezza, vero, ma era convinto che sarebbe riuscito comunque ad evitare le trappole e a catturare qualcosa. Da quando viveva con Dee Dee però non aveva più solo la responsabilità per la propria vita, ma anche per quella della ragazza: le aveva sempre detto di non sottovalutare l’Undermountain e i suoi pericoli, quindi ora sarebbe stato molto diseducativo se si fosse comportato con leggerezza. Le avrebbe dato un messaggio sbagliato.
D’altro canto, il loro accampamento era un luogo riparato e abbastanza sicuro: anche se lei l’avesse indebolito prendendo un po’ del suo sangue, poteva permettersi di essere debole, non correvano pericoli immediati. Avrebbe potuto riposare per tutto il tempo necessario.
“D’accordo allora. Vieni qui.” Il drow si slacciò il mantello e piegò la testa in modo che il lato sinistro del suo collo fosse ben esposto alla vista.
Dee Dee non se lo aspettava, perché di solito lui le porgeva il polso, ma non se lo fece ripetere. Succhiare il sangue avrebbe dovuto essere un gesto intimo, si trattava del consumare l’essenza vitale di un’altra creatura (in questo caso, perfino consenziente), ma farlo mordendo le vene del polso era quasi impersonale, era una cosa che esprimeva a chiare lettere il desiderio di mantenere una certa distanza. La ragazza preferiva succhiare dal collo; di solito si aggrappava alla sua “vittima” per sostenersi o per impedire che si allontanasse, e questo rendeva tutto due volte più bello. Sentire il calore di un’altra persona, il rimbombo del suo cuore, poter mantenere un contatto fisico, era… confortante. Era la cosa più simile ad una coccola che Dee Dee potesse sperare di avere. Da quando Valaghar, il suo migliore amico, era morto, non aveva più goduto di molto contatto fisico. Non c’era mai stato nulla di inappropriato fra lei e l’umano; la dhampir aveva solo tredici anni quando lui l’aveva salvata e presa con sé, erano diventati subito come fratello e sorella. Però il loro era un rapporto molto fisico, viaggiavano sullo stesso cavallo e lui la teneva sempre fra le braccia, e quella sensazione di essere sostenuta e protetta le mancava terribilmente. Non aveva mai avuto un abbraccio o una carezza da bambina, viveva con sua madre e il suo clan di vampiri senza cuore, ma con il suo amico paladino aveva finalmente trovato una vera famiglia, la vera felicità. Quando lui era morto le era sembrato che tutto il calore e l’affetto fossero spariti per sempre dalla sua vita.
Daren era così diverso. L’aveva protetta, anche a costo di mettersi in pericolo, e Dee Dee sospettava che lui in qualche modo si fosse affezionato a lei, ma non lo dimostrava in nessun altro modo. Era sempre freddo, sarcastico, la spronava a migliorare trattandola male e sembrava che non vedesse l’ora di vederla diventare indipendente per liberarsi di lei. Durante il giorno Dee Dee non aveva tempo di pensare, era sempre troppo impegnata o troppo stanca, ma la notte quando si trovava sola con i suoi pensieri scopriva di sentirsi sempre più triste e abbandonata.
Fu con questo spirito che accolse quell’inaspettato regalo e si avvicinò al drow, mettendogli una mano sulla spalla per cercare sostegno.
“Grazie. Dimmelo, fe ti faccio male.”
“Sono un drow” la derise lui, con il suo solito sorrisetto noncurante “il mio popolo ha portato il concetto di tortura a vette che le altre razze non possono nemmeno sognare. Non credo che tu riusciresti a farmi sentire dolore nemmeno se ci provassi.”
La dhampir ignorò le sue vuote vanterie. Ormai la sua mente reagiva in automatico, quando lui assumeva quel tono lei non registrava nulla di ciò che diceva. Aveva imparato a distinguere il tono delle sgradevoli e inutili ciance da quello per gli odiosi ma utili insegnamenti.
Il messaggio era chiaro: aveva il permesso di mordere. Non desiderava altro, ormai era abbastanza vicina da sentire il profumo del sangue, anzi poteva quasi sentire il rumore di quel liquido paradisiaco che scorreva nelle vene della sua vittima.
Si attaccò al collo del drow, con tutta la cautela e il contegno che la sua sete bruciante le consentiva.
Il primo sorso era sempre sconvolgente, era come venire al mondo, come tornare a respirare dopo una lunga apnea. Non riusciva mai a contenersi all’inizio, il primo sorso doveva riempirle la bocca, doveva saturarle i sensi. Il secondo poteva essere un po’ più calmo e lento. A quel punto, trattandosi di un suo amico, sarebbe stato giusto fermarsi. Era difficile, perché due sorsi erano a malapena sufficienti e la sua sete domandava di più, ma avrebbe dovuto fermarsi.
Daren poggiò un braccio dietro la sua schiena e la strinse leggermente, come per dirle che andava bene così. Dee Dee registrò quel gesto in modo non del tutto conscio, ma la fece sentire così… accolta, accettata, nonostante la sua natura mostruosa. Prese un terzo sorso, lungo, soddisfacente, assaporando il dolce sangue dell’elfo scuro. Al quarto cominciò a sentirlo: un retrogusto lievemente acido, che le fece capire che era il momento di smettere. Il sangue di drow all’inizio era buonissimo, ma dopo poco le dava la nausea, era una cosa che aveva imparato a sue spese. Daren le aveva detto che i drow hanno nel sangue una lontanissima traccia di contaminazioni demoniache e altre schifezze, ma non era sceso nei dettagli.
Meno male che il suo sangue non è buono come quello di un elfo chiaro, pensò con un pizzico di vergogna, staccando le labbra da quella pelle nera come la notte. Altrimenti non so se sarei riuscita a fermarmi.
Alla fine l’estasi del sangue si ritirò, lasciandole di nuovo la mente sgombra e il corpo rilassato, appagato. Tornò ad essere consapevole di ciò che le accadeva intorno, e si accorse che si era aggrappata a Daren senza accorgersene. Lui non l’aveva allontanata, anzi, aveva ancora un braccio dietro la sua schiena.
“Stanotte hai di nuovo fatto incubi” mormorò lui. Sembrava un argomento tirato fuori dal nulla, ma Dee Dee sospettava che lui avesse bisogno di giustificare quel contatto prolungato.
“Mi difpiace fe ti ho difturbato.” Balbettò, perché non sapeva che altro dire. Non si aspettava quell’osservazione, di solito non parlavano dei loro problemi personali.
“Non scusarti, non puoi controllare i tuoi incubi. Ma ho notato che li hai più di frequente da quando ci siamo imbattuti in quel demone servo del dolore, ha forse rinfocolato qualche memoria spiacevole?”
Dee Dee fu molto colpita che lo avesse notato. Settimane prima avevano combattuto contro una creatura demoniaca che sfruttava le debolezze e il dolore delle persone per paralizzarle e ucciderle, e la ragazza era troppo inesperta per resistere a quel bombardamento emotivo. Le crudeli illusioni del demone le avevano riportato alla mente i peggiori ricordi della sua infanzia, quando viveva in una città di lich, vampiri e altri non morti. All’epoca aveva visto orrori indicibili, ma le azioni che la tormentavano di più erano quelle che aveva compiuto lei stessa.
“All’inizio non… quando mi hai lafhato con i defmodu, non avevo fpeffo incubi. Laggiù mi fentivo accettata, ero parte di una comunità, anche fe ero folo un’ofpite. Ma da quando fiamo di nuovo folo io e te, mi fento come fe… come fe non ci foffe niente fra me e l’orrore. Come fe foffi completamente fola.”
Daren rimase a lungo in silenzio. Dee Dee non sapeva cosa aspettarsi, ma decise di godersi quella specie di abbraccio finché fosse durato.
“Mi dispiace di non poterti aiutare. Di solito utilizzo un piccolo incantesimo che aiuta a resistere alla paura, ma ultimamente i tuoi incubi sembrano farsi beffe dei miei tentativi.”
“Cofa?” Dee Dee fece un passo indietro, per poterlo guardare in faccia. “Tu… di folito tu mi aiuti? Con un incantefimo?
Daren si strinse nelle spalle.
“Ma fei completamente imbecille?” continuò lei, troppo stupefatta per essere cauta.
“Prego?”
“Non mi hai fentito, poco fa? Ho ricominciato ad avere incubi perché fono da fola davanti ai miei orribili ricordi, non c’è neffuno che mi faccia fentire come… come fe aveffi un qualche valore, come fe valeffe la pena lottare per la mia falute mentale, come fe meritaffi di effere parte di qualcofa! Perché non mi dici femplicemente Dee Dee, voglio che tu ftia bene, o magari perfino Dee Dee, ci tengo a te? È cofì difficile?”
“Oh, davvero?” Daren fece a sua volta un passo indietro, guardandola con fastidio. “Che ne dici di Dee Dee, sono mesi che ti faccio da balia, oppure Dee Dee, avrei di meglio da fare ma se ti mollassi adesso non sono certo che sopravviveresti, quindi spreco il mio tempo per te, perché ehi, mi piace fare cose senza motivo, mi piace flagellarmi le palle per stare dietro a persone di cui non mi frega un cazzo!? Ti sembra plausibile questo, principessina? Perché io ho chiuso con quelle altre stronzate. Se vuoi qualcuno che ti dica ti voglio bene allora trovati un halfling.”
Calò un silenzio pesante.
“Non voglio qualcuno che me lo dica.” Mormorò Dee Dee, dopo quasi un minuto. “Voglio qualcuno che lo penfi. Che mi voglia bene. Io non poffo fapere fe tu me ne vuoi o no.”
“Quindi secondo te a me piace davvero flagel…”
“Non lo fo!” Lo interruppe Dee Dee, esasperata. “Mi hai raccolta quando non ci conofhevamo affatto, non potevi volermi bene, ma ti fei accollato quefto compito comunque, quindi non ho la minima idea fe tu ora provi qualcofa per me o fe lo fai folo per fenfo del dovere. È fempre quefto il problema, con le perfone buone. Non fai mai fe è una queftione perfonale.”
Persone buone? Sul serio, ragazza, a volte non so come ti vengano certe idee.” Allacciò il suo sguardo a quello dell’elfa, imponendole di prestare attenzione. “È vero, non ci conoscevamo. Ma fin dal nostro primo incontro ho capito che tu eri una delle persone più forti che avessi mai visto. L’ho capito quando hai accettato la mia sfida, anche se ti avevo detto che se tu avessi perso io ti avrei uccisa. Non so se hai avuto paura della morte, ma so che hai creduto in te stessa. Dov’è quella fiducia adesso? Ne avresti bisogno, se ti senti una persona di poco valore.”
Dee Dee sospirò, passandosi una mano sul viso.
“Non lo fo. Quando il demone mi ha colpito con le fue illufioni, ho vifto… ho riviffuto una cofa orribile che ho fatto.”
“Dee Dee, se pensi che le cose orribili che abbiamo fatto in passato ci rendano completamente indegni, allora perché cerchi qualcosa da me? Ho fatto cose peggiori di qualunque cosa possa aver fatto tu.”
“Davvero? Hai uccifo una perfona amica, che fi fidava di te?”
Di nuovo quel silenzio pesante.
“No. Ma non posso credere che lo abbia fatto tu. Non volontariamente.”
“Ha importanza? L’ho fatto comunque. La mia natura moftruofa…”
“Non è colpa tua.”
“Ma l’ho uccifa! Clariffe era folo una bambina, il padrone di mia madre me l’ha data perché imparaffi che gli umani fono cibo. Io non volevo farle del male. Aveva… aveva un cofì buon profumo, il fuo fangue mi chiamava, e quefto mi faceva fentire un moftro. Per la prima volta non mi fentivo una vittima, ma una belva. Non volevo farle del male, era cofì innocente, aveva paura di tutto tranne che di me. Fi fidava di me. Ma mi hanno tenuta per giorni legata fotto la luce del fole, fenza cibo né fangue, la mia mente è andata alla deriva nel dolore e nella fete e quando me l’hanno meffa davanti di nuovo io... lei... io l’ho...”
Dee Dee chiuse gli occhi con forza per impedirsi di piangere, ma qualche lacrima le sfuggì lo stesso. Non pensava di avere il diritto di piangere. Lei era il carnefice, non la vittima.
Daren non la pensava allo stesso modo.

La ragazza si sentì improvvisamente costretta, come in una morsa, e aprì gli occhi allarmata. Il drow si era avvicinato e ora la teneva fra le braccia in modo un po’ strano, come qualcuno che non sa come si fa.
“Che… che cofa fai?”
“Stavi barcollando.” Spiegò lui, in tono del tutto credibile. “Ho pensato che stessi per crollare a terra.”
“Non ftavo barcollando.” Protestò lei.
“Certo che sì, io non abbraccio la gente. Stavi barcollando, è l’unica spiegazione logica.” Insisté lui.
Dee Dee non protestò. Si appoggiò al guerriero, godendosi quel sostegno inaspettato.
“Forfe non mi merito il tuo fupporto, ma ti ringrazio comunque.”
“Eri una bambina, ed eri una vittima.” Protestò Daren con un certo paternalismo, come se stesse parlando a una persona con problemi di comprensione. “Smetti di colpevolizzarti per quello che hai fatto! Pensi forse che se tu ti fossi rifiutata di uccidere quell’umana, sarebbe sopravvissuta a lungo? In una città di non morti? O pensi forse che l’avrebbero lasciata andare via?”
Dee Dee spalancò gli occhi, colpita da queste parole.
Era vero. Era tutto così dolorosamente sensato, cristallino.
Clarisse non sarebbe mai sopravvissuta.
Era condannata dal momento stesso in cui era stata rapita e portata a Warlock’s Crypt con la sua famiglia umana. Le sue sciocche fantasticherie di poterla tenere, proteggere, di poter avere un’amica, erano sempre state assurde. Clarisse sarebbe stata uccisa, oppure sarebbe morta di sete in quel luogo dove l’acqua era contaminata da scarti di pozioni magiche, o sarebbe morta per la semplice concentrazione di energia sacrilega che avvelenava l’aria.
“Mi dispiace, ma devi smettere di pensare a lei come a una tua vittima.” Continuò Daren. “So che l’hai conosciuta e hai empatizzato con lei, ma non c’è mai stata una speranza. Non sei stata tu a condannarla.”
“Non ci avevo mai penfato.” Ammise Dee Dee sottovoce. “Non ho mai confiderato altro che il mio punto di vifta. Quello che io avevo fatto.”
“Ti hanno spinta a farlo, sciocca. Metti due umani su un’isola deserta, senza cibo e senza possibilità di fuggire, e prima o poi uno dei due ucciderà e mangerà l’altro. Ciò che hai fatto è nella natura di qualsiasi essere vivente, non serve essere un mostro per soccombere al richiamo della fame.”
Dee Dee ricambiò la stretta, grata per quelle parole consolatorie. Era la prima volta che qualcuno riusciva a farla sentire meglio, ad alleggerire il fardello della sua colpa. Non aveva mai osato confessare a Valaghar quel suo crimine. Finora non lo aveva mai detto a nessuno.
“Grazie. Davvero.” Mormorò. “Poffo… poffo barcollare ancora un po’?”
Daren le passò una mano sulla testa, poi sulla fronte, come se volesse sentirle la febbre. “Mi sembri molto pallida, oggi. Puoi barcollare per tutto il tempo che ti serve.”

Riposarono solo qualche ora. Daren stava insegnando a Dee Dee a fare la reverie, la forma di meditazione che gli elfi usano al posto del sonno. Nessuno gliel'aveva mai insegnato, ma la ragazza stava scoprendo che le veniva naturale. Non sempre ci riusciva; quando era troppo stanca, cioè quasi sempre, si addormentava prima di riuscire a raggiungere il giusto stato di concentrazione, ma quella sera aveva appena bevuto sangue, quindi si sentiva in forze.
Dopo solo quattro ore di riposo erano entrambi pronti per nuove avventure, anche se il drow era ancora un po’ affaticato a causa della mancanza di sangue.
Quel mattino si spostarono verso sud e poi verso est, fino a tornare nella grande grotta naturale abitata da pipistrelli giganti. In quel modo stavano tecnicamente uscendo dal dungeon dell’Undermountain, perché la caverna naturale non faceva parte del complesso di gallerie e sale scavate dai nani secoli prima.
“Dove andiamo?” Sussurrò Dee Dee, perché non riusciva a darsi una spiegazione.
Daren le fece solo cenno di tacere, perché non voleva rischiare di attirare l’attenzione delle pericolose bestie che vivevano in quella zona.
Girarono intorno al perimetro della grotta, da ovest, dove in alcuni punti c’erano dei camminamenti di roccia. A volte dovettero aggrapparsi alla parete e fare arrampicata libera, anche se per quasi tutto il tratto c’erano piattaforme calpestabili o cornicioni. Si trovavano a diverse altezze, ma qualche anima previdente aveva lasciato delle corde che le collegavano l’una all’altra.
Alla fine raggiunsero un cunicolo laterale, molto più in alto rispetto alla porta segreta che dava accesso al dungeon. A Dee Dee sembrò di scorgere una flebile luce che proveniva dal fondo di quella galleria.
“Ora mi puoi dire dove ftiamo andando?” Riprese la dhampir, visto che non c’erano più mostri nei paraggi.
“Fuori.”
“Come, fuori? Perché?”
“È la notte del solstizio d’inverno.”
“Non era ieri fera?”
Daren rise brevemente. “Vuoi dire cinque o sei ore fa? In Superficie questa è la notte più lunga dell’anno, dura più di quindici ore.”
Dee Dee rimase a bocca aperta. Aveva viaggiato in Superficie per anni, sapeva delle fluttuazioni stagionali delle ore di luce e di buio, ma non aveva mai fatto calcoli o misurazioni.
“E perché fiamo qui?”
Finalmente raggiunsero l’uscita. Il cielo notturno sopra la foce del fiume Dessarin si spalancò davanti a loro, sorprendendoli con la luce di migliaia di stelle. La volta celeste era tersa, profonda e fredda come il ghiaccio; quell’inverno si preannunciava secco, forse troppo freddo per la neve.
Daren guardò quel panorama mozzafiato per un paio di secondi, in silenzio, poi stese il suo mantello sull’erba scricchiolante per il gelo e si sedette lì, per terra, sulle pendici di Monte Waterdeep.
“Siamo qui perché voglio raccontarti una storia.” Rivelò finalmente, facendo cenno alla ragazza di sedersi sul suo mantello, accanto a lui. “Tu mi hai raccontato i tuoi incubi, quello che il demone ti ha mostrato. Penso di doverti raccontare che cosa ha mostrato a me.”
Dee Dee si strinse nei suoi abiti pesanti e nel suo mantello di pelliccia; faceva ancora più freddo che nell’Undermountain, ma la curiosità era più forte del disagio. Si sedette.


Trentun anni prima, da qualche parte nelle Terre Centrali Occidentali

Quell’anno aveva nevicato, e tanto. Daren arrancava affondando in quel manto candido fino alle ginocchia.
Di norma un drow sarebbe riuscito a camminare perfino sulla neve senza lasciare tracce, ma il guerriero era gravato dal peso della sua armatura, tre spade, uno zaino e un ragazzino che se ne stava aggrappato alle sue spalle come una scimmietta.
“Siamo arrivati?” Domandò il bambino, sfregandosi gli occhi sensibili con una mano. Anche se era notte, il chiarore delle stelle si rifletteva sulla neve in modo molto fastidioso.
“Ti sembra per caso che siamo arrivati? Vedi un villaggio, hm? Vedi della gente?”
Il piccolo drow sussultò per quella risposta brusca e per un po’ riuscì a rimanere zitto. Nella sua breve vita aveva imparato subito che non era il caso di far arrabbiare gli adulti.
Tuttavia, un’oretta dopo, la noia e la frustrazione lo costrinsero a parlare di nuovo.
“E adesso siamo arrivati?”
“Quando saremo arrivati, Ryltar, lo saprai di sicuro. Lo saprai perché io dirò Oh, grazie al cielo! Adesso finalmente Ryltar si toglie dalle palle! Hai altre domande?”
Il ragazzino ci pensò per un momento. Nonostante le sue risposte sarcastiche e spesso cattive, questo adulto non lo aveva mai picchiato. Forse non era pericoloso fargli altre domande.
“Quanto manca?”
“Poco. Dobbiamo solo arrivare sull’altro versante di queste colline, chiamate Artigli di Troll, e oltrepassare un fiume. Mal che vada, arriveremo domani.”
Frugò nella scarsella e gli passò un paio di biscotti, per farlo stare buono. Per un po’ funzionò.

L’alba li sorprese ancora in viaggio. Daren avvolse la testa del ragazzino in un pesante panno nero, in modo che la luce non ferisse i suoi occhi, e continuò nella sua marcia verso est. Avere il sole in faccia non era il massimo, nemmeno per un drow che si era abituato alla luce solare da molti anni, a causa di tutta quella luminosità che si rifletteva sulla neve e la faceva risplendere. Sostarono per alcune ore sotto una grande quercia; riposare nella neve non sarebbe stato un gran problema, entrambi erano protetti da un incantesimo che li schermava dal freddo estremo. Daren però non osò chiudere occhio, perché quelle colline erano notoriamente infestate dai troll.
Il tempo passò, lentamente ma tranquillamente. Poco prima di mezzogiorno ripresero il cammino e in poco tempo arrivarono al fiume principale della regione, chiamato con poca originalità Acque Tortuose. Guadare quel fiume non era uno scherzo, perché la corrente era così veloce e inquieta che quell’acqua non ghiacciava praticamente mai, e chiunque provasse ad attraversare il letto del fiume di solito veniva trascinato via. Daren però aveva la capacità di levitare, e quel fiume per fortuna non era molto largo. Una bella rincorsa e un salto gli diedero slancio sufficiente ad attraversare quel fiume levitando, senza nemmeno bagnarsi i piedi. Il peso aggiuntivo lo tirò presto verso terra, ma ormai erano passati.
Nel pomeriggio arrivarono ad una piccola macchia di alberi.
“Oh, grazie al cielo! Adesso finalmente Ryltar si toglie dalle palle!” Recitò Daren, come aveva promesso.
Il ragazzino scese dalla sua schiena con entusiasmo, toccando terra senza nemmeno lasciare impronte nella neve. Era curioso per natura, e quelle persone buone che l’avevano liberato dalla schiavitù gli avevano promesso una vita migliore. Lui non aveva motivo di dubitare, nessun drow prima d'ora l’aveva mai trattato con gentilezza.
Daren intravide del movimento dietro gli alberi davanti a loro, e controllò che la sciarpa che gli copriva il naso e la bocca fosse ancora al suo posto. Si calò un po’ meglio il cappuccio sulla fronte. Adesso, i suoi occhi grigi come l’acciaio erano l’unica parte del suo volto esposta alla vista.
“Fermatevi e dichiarate le vostre intenzioni!” Intimò una voce femminile e melodica.
Daren conosceva quella voce. Dietro la sua maschera improvvisata non riuscì a trattenere un sorriso.
“Percorro la via segreta. Il mio nome non può essere pronunciato sotto la luna.” Recitò la formula di rito, ma poi aggiunse: “È sempre un piacere vederti, Turshana.”

Daren e Ryltar vennero accolti con gioia nel villaggio nascosto nel cuore del querceto. Turshana, una sacerdotessa mezza-drow, li scortò personalmente fino alla modesta struttura che usavano per gli ospiti.
“Sono passati due anni dalla tua ultima visita, Incognito. La piccola Iredia ogni tanto chiede ancora dov’è il suo “zio”. Potresti passare più spesso.”
Daren sorrise ancora, e lei lo intuì dal suo sguardo, ma non poteva fare quella promessa.
“Sai che mi piacerebbe. Ma sono un Incognito, non posso stringere rapporti di amicizia con altri seguaci di Eilistraee. Il tuo splendido villaggio è un faro di speranza per tutti noi, ma il mio lavoro è segreto.”
“Mi piacerebbe che col tempo il nostro villaggio diventasse un esempio di integrazione nel mondo di Superficie.” Sospirò lei, declinando quel complimento. “Per adesso alcuni villaggi umani nelle vicinanze sanno qualcosa di noi, ma non osano avvicinarsi. Mio marito Dren, che come sai è umano, viene ben accolto dappertutto; sta parlando in nostro favore, ma ci vorrà del tempo. Un giorno i nostri figli non avranno alcun timore a mostrarsi, e nemmeno gli altri drow e mezzi-drow che vivono in pace qui con noi.”
“Ma molti di loro sono bambini, giusto? Non è troppo pericoloso esporli alla paura degli umani? La gente spaventata fa cose terribili.”
Turshana annuì e accarezzò distrattamente i riccioli neri di Ryltar, che camminava al suo fianco. Il bambino sembrava affascinato da quel luogo, in particolare dagli alberi. Forse era un retaggio del sangue di sua madre, che dai suoi racconti sembrava un'elfa della luna.
“Sì, ed è per questo che stiamo procedendo per gradi.” La sacerdotessa sorrise come se questo discorso le avesse appena fatto venire una buona idea. “Stanotte sarà la notte del solstizio d’inverno, la più lunga dell’anno. Condurrò la grande caccia. Gli umani stanno fondando un villaggio dall’altra parte delle colline, laddove il fiume Acque Tortuose incontra la Via del Commercio. Ho sentito che sono stati disturbati da attacchi di troll. Andremo a dare la caccia a quei troll, in modo da conquistare la benevolenza dei nostri vicini umani… e anche semplicemente perché è giusto. Vuoi unirti a noi?”
“Resterà qualcuno a proteggere il villaggio?”
“Certo, resterà Dren. E Zishan, il ragazzo che ci hai portato sei anni fa.”
“Ma è un ragazzino!” Protestò il guerriero drow, spalancando gli occhi.
“Ha quattordici anni. Sì, è un ragazzino, ma è anche uno stregone. I suoi poteri sono fioriti in fretta, ed è in grado di lanciare i più basilari incantesimi di difesa. Inoltre, se ci fossero minacce gravi, può creare illusioni di luce che richiamino noi guerrieri e sacerdotesse.”
“Potreste essere a molte miglia di distanza, per allora.”
“Stai dicendo che vuoi restare qui, Incognito?”
Daren esitò. Finalmente erano arrivati davanti alla casetta che l’avrebbe ospitato, ma lui rimase sulla soglia per un lungo momento.
“Solo se dovessi pensare che le difese del villaggio sono insufficienti. Sai che ho rispetto per tuo marito, ma è un uomo solo.”
Turshana sorrise di nuovo, e il suo sorriso sembrò farsi beffe delle sue spiegazioni.
“Iredia ha sentito la tua mancanza. E anche Zishan. Lo capirei, se anche tu avessi sentito la mancanza dei bambini. Hai fatto un lungo viaggio per portarli qui.”
Il guerriero s’irrigidì, a disagio.
“Non ho detto che sentivo la loro mancanza.”
“No, certo.” La mezza-drow gli voltò le spalle, cominciando ad allontanarsi con il loro più recente acquisto, il piccolo Ryltar. “Però adesso non l’hai negato.”

Iredia aveva cinque anni, ed era ancora più chiacchierona di come Daren la ricordasse. La piccola drow non era nata schiava; era la figlia di una spia che aveva cercato di infiltrarsi fra le sacerdotesse di Eilistraee della foresta Ardeep. Aveva portato con sé la bambina per rafforzare la sua rivendicazione di essere fuggita in cerca di una vita migliore, perché quale madre snaturata avrebbe messo in pericolo una creaturina per portare avanti un inganno?
Per la cronaca, una sacerdotessa di Lolth l’avrebbe fatto, anzi l’aveva fatto. Sempre che Iredia fosse davvero sua figlia. La spia era stata scoperta ed era riuscita a fuggire, lasciandosi dietro Iredia. La foresta Ardeep però era troppo pericolosa per una bambina, quindi l’avevano affidata a Daren perché la portasse da Turshana. Era incredibile che dopo due anni la bambina si ricordasse ancora di lui, ma appena lo vide si attaccò a una delle sue gambe e cominciò a chiacchierare.
Zishan invece era sempre stato un ragazzo tranquillo. Aveva otto anni quando Daren l’aveva portato al villaggio, e già allora aveva l’animo di un adulto. Molti stregoni tendono a montarsi la testa quando iniziano a sviluppare poteri magici, ma a lui non era successo. Era molto devoto verso il villaggio, anche se non era devoto in senso religioso. Ma non importava molto, perché era un maschio. Non gli era chiesto di riporre una fede perfetta nella dea, non sarebbe mai stato un chierico. Daren passò un po’ di tempo a parlare con lui e con il marito di Turshana, rimasero a scambiarsi racconti fin quasi all’imbrunire.

Al calare delle tenebre le sacerdotesse e quasi tutti i maschi partirono per la grande caccia. Daren scelse di non andare con loro.
Non l’avrebbe mai ammesso, ma aveva sentito davvero la mancanza dei bambini. Non tanto per quello che erano (sopportarli non era sempre facile), ma per quello che rappresentavano: il futuro, la speranza, forse anche la dimostrazione che perfino lui era riuscito a fare qualcosa di buono, che perfino un Incognito poteva essere parte di uno schema più ampio e votato al bene. A volte gli pesava essere escluso dalla vita dei suoi simili, drow che come lui avevano scelto una via diversa. La maggior parte delle volte era contento di essere un solitario, ma c’erano delle notti in cui sentiva la mancanza di un gruppo di persone da poter rivendicare. Certo, c’erano gli elfi, che gli avevano concesso un’impossibile fiducia e la loro preziosa amicizia; ma erano elfi, non drow, e c’erano molte cose che non avrebbero mai capito.
Daren rimase a fare la guardia per tutta la notte, perché quel villaggio per lui era prezioso. Ogni istante in cui scandagliava il territorio in cerca di possibili minacce, sentiva che stava facendo la cosa migliore. Nessun nemico si avvicinò alla querceta quella notte, l’unica cosa degna di nota era che i villaggi umani della pianura sembravano punteggiati di falò.
“Dren, che cosa significano quelle luci?” Domandò, indicando un punto lontano vicino all’orizzonte.
“Quello è il villaggio di Soubar. Sono i falò del solstizio.” Spiegò il ranger, stringatamente.
Daren rimase in silenzio in attesa di spiegazioni, ma l’umano si era già allontanato. I loro giri di ronda seguivano percorsi diversi, ed evidentemente il vecchio non voleva deviare dalla tabella di marcia.

Turshana tornò poco prima dell’alba. Erano riusciti ad abbattere un folto gruppo di troll, mettendo al sicuro il villaggio di Trollclaw Ford almeno per qualche tempo.
Daren decise di provare a chiedere a lei.
“A che cosa servono i falò nelle città umane? Sono per tenere lontani i mostri o qualcosa del genere?”
La donna si prese il suo tempo per rispondere, con lo sguardo perso nei ricordi della sua giovinezza.
“Mia madre era umana e deve avermene parlato, quando ero piccola, ma non ricordo molto perché ho dovuto lasciare presto il suo villaggio. Questa è la notte più lunga dell’anno e gli umani temono il buio e le sue incognite, quindi sperano che accendere i falò possa dare forza al dio dell’alba, è un gesto beneaugurante. Rimangono tutti svegli per veder sorgere il sole, e quando finalmente l’alba arriva c’è una grande celebrazione, come una festa. Poi si attende che i falò si spengano naturalmente, e ogni famiglia porta a casa un pezzo di carbone come portafortuna per l’intero anno. Ma quello che importa davvero è l’alba. Rappresenta la speranza, significa che il mondo non è caduto nelle tenebre. La lunga notte rappresenta l’inverno: vedere l’alba significa che tornerà la primavera.”
“La luce è speranza?”
“La luce per loro è vita. Ricorda che al buio non ci vedono, sono facili prede per i mostri e per gli animali notturni, e il grano e i frutti della terra possono crescere solo grazie al sole. Ma anche per noi la luce è speranza. La speranza che il nostro popolo possa tornare a vivere in pace sulla Superficie.”
Turshana lo guardò per un paio di interminabili secondi, e nonostante il suo viso fosse coperto, Daren ebbe la sensazione che potesse leggergli nell’anima.
“Resta con me a vedere l’alba. Condividi questa speranza.”
“Non amo particolarmente il sorgere del sole.” Declinò lui, con gentilezza. “La luce del giorno è forte e spietata, mette in mostra i nostri difetti. Preferisco la notte, è più contemplativa.”
La sacerdotessa sorrise, ma stavolta era un sorriso amaro.
“I tuoi difetti? Certo, immagino cosa pensi di me. Sono una mezza umana, per i tuoi canoni sono anche giovane, e sono sempre vissuta in Superficie. In questo mio villaggio, quasi tutti sono… innocenti. Bambini o giovani che vivono in Superficie fin da piccoli. Tu sei l’unico vero drow nel raggio di molte miglia, tu hai visto gli orrori del nostro popolo, e magari hai anche… fatto cose di cui ora ti penti.”
“Togli il magari, non è un segreto per nessuno.”
“E quindi ora ti chiedi che cosa ho da offrire io, con la mia esperienza così diversa. Io ti rispetto, Incognito, perché sei nato nell’oscurità e hai compiuto una scelta così nobile. Ma quello che offro è la speranza. Il futuro. Un futuro in cui sempre più drow siano come me: estranei alla cultura dei nostri avi, innocenti. Inconsapevoli di cosa abbia significato vivere per millenni in esilio sotto terra. Un futuro come questo ti disgusta tanto?”
Daren subì quella domanda così cruda come se la sacerdotessa gli avesse appena dato uno schiaffo.
“Non mi disgusta. Sarei lieto di vedere più bambini come Iredia, del tutto intoccati dalla crudeltà dei loro antenati. Il futuro che prospetti mi… non lo so. Mi fa sentire vecchio, e inutile, e probabilmente sbagliato, perché rappresento la vecchia guardia: sono un drow che non può liberarsi del tutto dei suoi condizionamenti passati. Ma non desidero che altri vivano come me. Preferisco che le prossime generazioni siano felici.”
“Allora abbandona le tue remore e rimani a vedere l’alba con me. Forse mette in luce i nostri difetti, ma anche il nostro coraggio nell’accettarli.”

Daren rimase con lei a vedere il sorgere del sole. Trovò che fosse fastidioso come al solito, ma l’importante non era l’alba in sé. L’importante era condividere quel momento con un’amica, anche se un Incognito non avrebbe dovuto.


Oggi, poco prima dell’alba, sulle pendici di Monte Waterdeep

“È una ftoria molto bella.” Commentò Dee Dee, dopo un lungo momento di silenzio. “Quindi anche tu hai degli amici?”
“Li avevo.” La corresse il drow, cancellando in un attimo il suo sorriso. “Sei anni dopo questo nostro ultimo incontro, un drago verde è calato sul villaggio e ha massacrato tutti quanti. È questo che il demone mi ha fatto rivivere.”
La dhampir rimase a bocca aperta, sconvolta.
“Ma… ma… perché mi hai raccontato di loro? Perché i dettagli? I loro nomi, i loro” deglutì, cercando di trattenere le lacrime “i loro caratteri. Perché farmi provare ftima e defiderio di conofherli? Non potevi dire folo… che avevi degli amici e che fono morti?”
“Perché” Daren aveva una voce rigida, come se faticasse a parlare, e Dee Dee si chiese se fosse arrabbiato o addirittura triste “anche se la loro morte mi ha spezzato il cuore, anche se mi mancano le loro voci e le loro risate, non è la loro morte ad essere importante. È la loro vita. Ogni volta che racconterò questa storia pronuncerò i loro nomi, ripeterò le loro parole, renderò giustizia ai loro caratteri. Sei stata tu a ricordarmelo.”
“Io?”
“Ogni volta che parli del tuo amico paladino, Valaghar, io vedo quanto è stata forte la sua influenza su di te, e quanto continua ad esserlo. Tu soffri per la sua morte eppure riesci ancora a trarre insegnamenti dalla sua memoria. È quello che avrebbe voluto Turshana: lasciare un’impronta per il futuro. Io sono felice di averli conosciuti, nonostante il dolore per la loro morte. Ognuno di loro era speciale, anche i bambini. È giusto ricordarli anche se fa male, ed è per questo che sono riuscito a farmi forza quando il demone mi ha rovesciato addosso quelle immagini terribili. È meschino ricordare qualcuno solo per la sua morte, quando in vita ci ha dato tanto. Prima di incontrarti lo avevo dimenticato, quindi ti devo ringraziare.”
Dee Dee boccheggiò per qualche momento, senza sapere cosa dire.
Alla fine si sedette un po’ più vicina a lui, e non per il freddo.
“Reftiamo a vedere l’alba?”
“Solo se non ti fa male” propose lui.
La dhampir scosse la testa. “La luce fioca non mi fa niente.”

Rimasero lì seduti finché il cielo cominciò a rischiararsi e il sole fece capolino da dietro le lontane Colline Forlorn, a oriente.
Dee Dee non lo disse, ma le era mancato stare a guardare l’alba. Lo faceva sempre, con Valaghar.



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Nota: Turshana e Dren non sono miei personaggi. Sono stati creati da S.K. Reynolds per narrare il background di una spada consacrata a Eilistraee, in questo articolo che ormai si trova solo sulla wayback machine.

           

   
 
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