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Autore: Selena Leroy    25/12/2018    1 recensioni
Non degnandolo più di uno sguardo, voltò il capo verso la finestra, osservando l'oscurità del cielo con aria meditabonda.
"Adesso devo andare, ho altre persone che mi aspettano" si congedò lo Spirito del Natale Futuro "Tuttavia voglio avvisarti di una cosa: tieniti pronto. Non sono l'unico che vedrai questa notte; lo Spirito del Natale Presente e del Natale Passato verranno da te molto presto" e concluse, con un sorriso sghembo "Sogni d'oro, Yusaku Fujiki"
Genere: Comico, Malinconico, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Akira Zaizen, Aoi Zaizen/Skye Zaizen, Yusaku Fujiki/Playmaker
Note: AU, Cross-over, OOC | Avvertimenti: nessuno
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25 DECEMBER – L’UOMO CHE RICORDO’ IL NATALE

 
Il letto che aveva nella casa dei suoi nonni era di una solidità che era seconda solo ai mattoni, tanto che non aveva mai capito come si potesse chiamare ortopedico un materasso che la schiena te la distruggeva, invece di correggerne la postura. Fu per questo che il primo segnale con cui dedusse di trovarsi altrove, non nella sua casa e non nella sua stanza, fu il sollievo di articolazioni che, almeno per quel giorno, non avevano poggiato rozzamente su una tavolozza che ne incrinava il sollievo del riposo - e a lui il buonumore.
Homura Takeru sorrise con gaudio, in quella sua mattina di Natale. Fu la prima cosa che fece, e quella che gli venne meglio.
Sulla sedia poco distante, il costume di Babbo Natale che aveva noleggiato copriva tutto lo schienale di legno semplice, mal celando le imbottiture che avevano svolto un ben magro lavoro, come lo specchio gli aveva suggerito. Tuttavia non se ne sarebbe lamentato, almeno non quando le risate dei suoi bambini ancora gli risuonavano nelle orecchie.
Takeru smise di sorridere. Perché quei bambini lui li adorava, ma tra di loro non c'era l'unico che avrebbe davvero voluto rendere felice.
Non lo avrebbe confessato a nessuno, tanto meno al diretto interessato, ma c'era stato un tempo in cui era diventato un tenebroso egoista. La presenza del ragazzo dagli occhi di giada era diventata più una denuncia, che un motivo di svago; incrociarlo anche solo per sbaglio significava tornare un po' più indietro, verso quei ricordi che lui si ostinava con tutto se stesso di dimenticare - o quanto meno fingere che non avessero avuto su di lui alcun effetto collaterale.
Non era uno sbaglio solo perché, a conti fatti, lui stava deliberatamente tagliando con una cesoia un legame che non poteva sopravvivere, a seguito di tanti No, ma soprattutto perché quelle forbici che stava maneggiando erano composte da ragazzi pronti a fare qualsiasi cosa per un attimo di autentica felicità. Anche barare col mondo, con se stessi e con le loro famiglie.
Erano stati loro a fargli conoscere l'ebbrezza della droga, i piaceri dell'alcool, la quiete di una sigaretta. Ne divenne ben presto dipendente, in una sfacciataggine che non rendeva conto nemmeno a quei due anziani coniugi che avevano accettato di prendersi cura di lui perché rappresentava tutto ciò che era rimasto del loro amatissimo figlio. Prendeva soldi di nascosto, li rubava quando ne aveva la disponibilità e li chiedeva in prestito quando il necessario bisogno di una nuova dose metteva da parte la sua dignità.
Non ricordava che bambino era stato, ma di sicuro stava diventando un pessimo adulto.
Tutto cambiò il giorno in cui Provvidenza, stanca dei suoi continui sbagli, decise di punirlo togliendoli tutto ciò che era rimasto della sua famiglia - i suoi nonni morirono in una fredda notte d'inizio inverno, uccisi probabilmente da quello che doveva essere un suo amico di vecchia data, incoraggiato dal suo odio a commettere un crimine capitale.
Fu quello l'inizio del cambiamento di Homura Takeru: poteva scivolare ancora più in basso, diventare un essere umano esecrabile e scaricare ogni sua responsabilità sull'incidente perduto, convinto che con tutto quello che aveva sofferto non aveva alcuna possibilità di avere una vita normale.
E invece aveva scelto la via più ardua, la più complessa: combattere contro i suoi demoni, quelli vecchi e quelli nuovi, e tornare ad essere un Takeru di cui i suoi nonni sarebbero stati fieri.
"Takeru, sei pronto?" disse una voce femminile, bussando leggermente.
Aoi Zaizen era fin troppo timida e fin troppo pudica per entrare nella stanza di un ragazzo, anche a condizione di averne ricevuto il permesso o l'invito, ma aveva abbastanza solerzia da incoraggiarlo a venire con lei a colazione. Con suo fratello maggiore, con tutti i bambini dell'istituto, gli insegnanti e i vari inservienti.
"Non ancora" rispose con onestà il ragazzo, che in effetti non si era nemmeno mosso dal suo comodo letto "Dammi cinque minuti e scendo"
 
Akira lo accolse con quei suoi rari sorrisi di gentilezza, quando egli varcò il grande arco che lo introduceva alla Sala Grande, come lui l'aveva rinominata quando aveva intravisto i grandi tavoli ospitanti un gran numero di vivande invitanti. Nel suo completo impeccabile, identico ai precedenti e nemmeno leggermente dissonante nonostante il natale avesse le sue esigenze, gli venne incontro con la mano protesa in segno di saluto.
"Sono riuscito a sfuggire ai bambini che vogliono mettermi una barba finta - la tua barba finta, quella che hai dimenticato sulla sedia ieri sera"
"Aia" ammise l'altro, colpevole "Confesso che non ne potevo più, mi stava prudendo la faccia. In effetti non ricordavo dove l'avevo messa"
"Adesso saprai che è nelle mani sbagliate, allora"
E risero entrambi, contenti di vedere la fantasia dei bambini sbizzarrirsi sugli adulti.
"Buon Natale, Akira" disse il giovane, con un sorriso.
"Buon Natale anche a te" fu la risposta che ne ricevette.
E poi vennero i bambini - e la povera Aoi con il viso barbuto, a invocare lo stesso augurio e a riceverlo in abbracci che comunicavano affetto, amore e vicinanza.
 
Stavano per apprestarsi al tavolo, lo stomaco che esigeva il dovuto compenso a tanta felicità, quando all'improvviso venne ad avvicinarsi un uomo. Takeru lo riconobbe come il portinaio della struttura, un certo Kitamura che, in quanto a bellezza, lasciava decisamente a desiderare.
"Scusi il disturbo, ma... ecco, è arrivato un visitatore" fu il suo messaggio, le mani strette tra di loro, il volto leggermente impensierito. La voce era stata flebile, e per tanto solo Akira, lui e Aoi avevano avuto la fortuna di sentirlo.
"Mandalo via, allora. Oggi è natale, avrò il diritto di godermelo senza lavorare" fu la risposta brusca del direttore - forse temendo che fosse qualche fornitore zelante venuto a riscuotere chissà quale debito.
"Ma non è... insomma, è venuto qui per venire a trovare i bambini" disse allora questi, con voce leggermente preoccupata. Kitamura, ricordava Homura, aveva lo sgradevole vizio di non saper gestire le situazioni, nemmeno quelle semplici. Era bravo solo ad obbedire.
"Ti ha detto almeno chi è, scusa?"
"Ah, si!" esclamò quello, che evidentemente se ne stava dimenticando "Il suo nome è Yusaku Fujiki"
 
Yusaku sentiva la mancanza di un sonno ristoratore - gli mancava il suo letto, le lenzuola che lo tenevano al caldo, il silenzio della sua stanza, la consapevolezza che bastasse aprire una finestra per non essere più totalmente rinchiusi in un angolo di mondo che poteva diventare la sua tomba.
Aveva dovuto fare violenza psicologica su se stesso per trascinarsi su un aereo dall'aria traballante, con piccoli oblò e ancor più piccoli scomparti, piccole sedie e piccoli tavolini, per servire piccoli pranzi che lo stomaco dei dissidenti, dunque il suo, mai avrebbero digerito ad una quota di altezza tanto alta.
Un minuscolo stanzino, dunque, senza via d'uscita, dove la sua claustofobia si era divertito a punzecchiarlo per tutto il tempo, e dove perfino il sonnifero si era dovuto arrendere, divenendo un blando sedativo per placare le sue furenti crisi di panico.
Quando, al suo ultimo risveglio, si era ritrovato tra le mani un biglietto di sola andata per Den City, Yusaku aveva riso - forse la prima risata autentica dallo scadere di quei tristi quindici anni. L'aveva trovato una bizzarria oltremodo strana, o comunque una prova eccessivamente tangibile per dei fantasmi che non avevano alcun volume storico o teorico per testimoniare la loro esistenza.
Forse per la prima volta nella sua vita, però, l'haker non si era fatto domande. Aveva deciso di prendere ciò che la vita gli offriva e di godersene i piaceri positivi. D'altronde, per anni aveva cercato spiegazioni ad ogni millesimo dettaglio della sua vita, e il risultato era stato un'inutile spreco di meningi e il preannunciarsi di sgradite rughe che gli avrebbero, di là con gli anni, rovinato il suo angustiato viso.
Quello che importava, dunque, era avere una destinazione, e per giunta una possibilità di arrivarvi per tempo. Non era ancora Natale, non erano ancora passati quei venti orribili anni.
E lui non aveva ancora perso la speranza.
Ma sarebbe stato un bugiardo se avesse nascosto l'ansia che gli divorava il petto quando era sceso dal trabiccolo volante, i dubbi passati che affioravano nel presente mentre percorreva vie note ma mutate nel tempo, verso quella che un tempo chiamava casa.
Accettare era facile, un po' meno lo era il perdonare. L'istituto che lo aveva fatto sentire in colpa per essere nato, la città che non gli aveva mai restituito i suoi genitori, Takeru che lo aveva abbandonato a se stesso.
Per un attimo, aveva perfino preso in considerazione l'idea di andarsene, o magari quella di farsi un altro biglietto per raggiungere Yuma ad Heartland, o altrimenti Yuya dai suoi genitori. Sarebbe stato comunque un bellissimo natale, e lui si sarebbe divertito - avrebbe accantonato per un attimo la sua misera esistenza.
Ma poi se ne era reso conto.
Stava nuovamente meditando su come scappare.
E lui non voleva farlo, non voleva dar credito a quella voce che lo faceva agire come un vigliacco.
D'altronde, sebbene non fosse atteso, non era stato lo stesso Takeru a chiedere di lui?
Se perdonare non era facile, se accantonare il passato era difficile, allora perché, semplicemente, non limitarsi a costruire dei nuovi ricordi, magari felici, nel futuro?
Perché non ricoprire il futuro di nuove promesse?
 
La risposta positiva lui la pervenne in un abbraccio. Quello in cui Takeru lo accolse, quello in cui vi si perse e quello che sapeva di lacrime ma anche di sorrisi.
"Ti chiedo scusa" stava per dire Takeru, e Yusaku lo intuì.
Ma lo prevenne.
"Buon Natale" disse, e si rese conto che quella era la prima volta, in ben quindici anni, che regalava un simile augurio.
"Bu-Buon Natale" rispose Takeru, singhiozzando "Non... non lo so perché tu sia qui, ma sappi che... che ne sono felice, e che mi dispiace per..."
"Non parliamone adesso" lo interruppe ancora Yusaku, con un sorriso.
Un sorriso che diceva "Sì, io voglio perdonare. Io ti voglio perdonare"
 
Takeru, che aveva smesso di credere in Dio già da molto tempo, si ritrovò a ringraziarlo inconsapevolmente.
"Sappi che sono così felice di averti qui, oggi!" e, tirandoselo dietro, aggiunse "Vieni, voglio presentarti qualcuno"
Dietro di lui, Akira e Aoi in primis, e i bambini dietro di loro, con un sorriso attendevano di accoglierlo nella loro alcova d'amore.
   
 
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