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Autore: LatersBaby_Mery    29/12/2018    16 recensioni
Dopo aver letto numerose volte gli ultimi capitoli di “Cinquanta sfumature di Rosso” ho provato ad immaginare: se dopo la notizia della gravidanza fosse Christian e non Ana a finire in ospedale? Se in qualche modo fosse proprio il loro Puntino a “salvarlo”?
Genere: Fluff, Romantico, Slice of life | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Anastasia Steele, Christian Grey, Un po' tutti
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
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CAPITOLO 76

POV ANASTASIA


Danzo sulle note di una musica immaginaria, agitando leggermente le anche, mentre preparo la merenda ai bambini, con il telefono premuto tra l’orecchio e la spalla. Al terzo squillo sento la voce allegra di Hannah.
“Grey Indipendent Publishing!”
“Hannah, ciao!”
“Anastasia!” esclama entusiasta “Come stai? Stamattina ho visto alcune foto scattate al matrimonio di tuo fratello: tu, tuo marito e i bambini eravate davvero meravigliosi!”
“Grazie, sei davvero gentile”
“Hai bisogno di qualcosa?”
“Veramente volevo..”
“Aspetta aspetta” mi interrompe “Te lo dico io: allora, qui tutto bene, noi stiamo bene, il lavoro va bene, non abbiamo avuto nessun problema, gli autori non hanno ancora ucciso gli editor e viceversa, e l’edificio è ancora in piedi”
Dopo un istante di silenzio scoppio in una fragorosa risata: Hannah ha anticipato esattamente le risposte alle domande che stavo per farle. Beh, tranne quella sui presunti omicidi...
“Ho indovinato?” domanda poi, non mascherando un tono divertito.
Mi asciugo una lacrima e tento di frenare le risate. “Oddio, sì!”
“Dai Ana, sei in maternità da quanto, otto-nove ore? E sei già in ansia!”
Sbuffo. “Hai ragione, è solo che non ero pronta ad andare in maternità adesso. Ci sono così tante cose da fare..”
“Anastasia, stai tranquilla. Qui è tutto sotto controllo!”
“Ma io mi fido pienamente di voi, e so che Elizabeth è una vice perfetta”
“Vedi? Non hai nulla di cui preoccuparti”
Ridacchio. “Hai ragione. Mi mancate già..”
“Anche tu ci manchi. E ci aspettiamo di vederti prima del grande evento”
“Ma certo che ci vedremo, e tante volte anche. Lo sai che non so stare a lungo lontana dalla mia creatura”
Dopo qualche minuto di chiacchiere e aggiornamenti, chiudo la telefonata e finisco di preparare il succo e le fette biscottate con la marmellata, lo spuntino preferito dei miei bimbi.
La telefonata con Hannah mi ha resa più allegra ed energica; è bellissimo rendersi conto di avere dei dipendenti così efficienti, affettuosi e soprattutto appassionati al loro lavoro. Mi è dispiaciuto molto lasciarli, così com’è stato quando ero incinta di Teddy e di Phoebe, ma ieri ho terminato il settimo mese ed è scattato il periodo di maternità. Io avrei potuto tranquillamente potuto aspettare l’inizio di novembre, perché mi sento bene, a parte un po’ di mal di schiena, ma Christian non ha voluto sentire ragioni. Dice che ho bisogno di riposare e che in questo periodo è già sufficiente l’incarico all’Università, che terminerà tra circa due settimane.
Continuo comunque a seguire ogni singolo sviluppo alla GIP, grazie ai miei fantastici ragazzi che mi aggiornano quotidianamente attraverso mail e telefonate. Nonostante ami il mio lavoro e ne senta la mancanza, non posso negare però di essere felice di avere un po’ di tempo libero in più da dedicare ai miei cuccioli, a Christian e all’arrivo della principessa.
Una volta pronta la merenda per Teddy e Phoebe, sistemo tutto su un vassoio e li raggiungo in salone.
“Merenda per tutti!!” esclamo.
I miei figli distolgono all’istante l’attenzione dal televisore e iniziano a saltellare. Poso il vassoio sul tavolino basso e mi siedo sul divano in mezzo a loro.
“Prima il succo” dico, porgendo loro i bicchieri con le cannucce, e il terzo lo prendo per me.
“Lo bevi anche tu mamma?” chiede curioso il mio bambino.
“Certo! Alla sorellina fa bene” gli sorrido.
Teddy ricambia il mio sorriso e sembra riflettere sulle mie parole.
“Adesso sta dormendo?”
“Mi sa proprio di no. Guardate”
Sollevo la maglietta, scoprendo la pancia, e fisso la parte superiore, dove in questo momento avverto maggiormente i calci di mia figlia. Si vede chiaramente un piccolo bozzo che si muove a seconda di come si muovono i piedini di Allie.
“Oh, avete visto?” indico loro il punto esatto.
Teddy e Phoebe fissano affascinati la mia pancia e poi iniziano a toccarla e a ridere divertiti, facendo ridere anche me.
“Ciao!!” esclama Phoebe, poggiando il palmo della sua manina poco più su del mio ombelico.
Teddy, che nel frattempo ha finito il suo succo, ripone il bicchiere sul vassoio e mangia la sua fetta biscottata con la marmellata tenendo la testa sul mio pancione.
Gli accarezzo i capelli. “È comoda la sorellina, vero?” osservo, divertita.
Teddy annuisce, e Phoebe non attende molto per imitarlo, appoggiando la sua guancia dal lato opposto.
Nonostante senta la schiena dolermi, nonostante la pressione delle loro teste si aggiunga a quella interna esercitata da Allison, nonostante mi stiano inondando di briciole, non riesco a non emozionarmi nel vederli così dolci, così affettuosi con la loro sorellina.
“Mamma!” esclama ad un tratto Teddy, sollevando la testa “Sai che sei morbidosa?”
Scoppio a ridere, gettando la testa all’indietro e facendomi venire le lacrime agli occhi: la schiettezza e al spontaneità di mio figlio sono troppo divertenti.
“Oh, amore mio” gli sfioro il viso “Almeno tu ci trovi del positivo nel mio essere una mongolfiera”
“Tu sei bella, mamma” afferma Phoebe, sorridendomi.
Forse i miei figli mi vedono con gli occhi dell’amore, ma le loro parole così semplici, innocenti, genuine, sono in grado di farmi sentire la donna più bella del mondo.
“I miei cuccioli” mugugno, stringendoli entrambi a me.
Dopo la merenda e un’abbondante dose di coccole, Teddy e Phoebe si siedono al tavolo del salone a colorare i loro album ed io resto sul divano con un libro di letteratura per preparare la lezione di giovedì. Quella di domani l’ho già terminata e revisionata; visto che ho del tempo libero, voglio portarmi avanti con il lavoro all’università.
Quasi un’ora più tardi sento lo scatto della serratura e successivamente il rumore della porta d’ingresso che si chiude.
“È papà!” esclamano i miei bambini, scendendo dalle loro sedie e correndo verso l’atrio.
Christian ama l’accoglienza che i nostri figli gli riservano ogni giorno, ama sapere che sentono la sua mancanza e non vedono l’ora di riaverlo a casa.   
Sorrido non appena vedo spuntare in salone mio marito con in braccio Teddy da un lato e Phoebe dall’altro, entrambi appioppati a lui come koala. Sono bellissimi.
“Adesso posso salutare anche la mamma?” domanda Christian ai nostri bimbi.
Ottenuto il loro consenso, li mette giù e viene verso di me. Mi basta guardarlo per un istante negli occhi per capire che c’è qualcosa che non va, che lo preoccupa.
“Hey” mormora, chinandosi su di me. Mi prende il viso tra le mani e mi dà un dolcissimo bacio sulle labbra. “Come ti senti?” chiede poi, sedendosi sul bordo del divano.
“Ho solo un po’ di mal di schiena, per il resto benissimo” gli prendo la mano e intreccio le dita con le sue “A te com’è andata la giornata?”
“Bene” risponde, ma il tono mogio con cui lo dice e il sospiro che segue mi fanno capire che non è affatto così.
“Papà” la voce di Teddy interrompe sul nascere il mio tentativo di indagare “Lo sai che abbiamo visto Allie fare le montagne con i piedini nella pancia?”
Scoppio a ridere, scuotendo la testa, e anche Christian ha un’espressione divertita in volto.
“Ah sì?”
“Anche adesso, vedi?” gli indico il punto dove i piedini di nostra figlia formano un piccolo bozzo.
Mio marito sorride e bacia teneramente quel punto. “Ciao principessa” sussurra poi, appoggiando l’orecchio sulla mia pancia.
Gli accarezzo i capelli e riesco a scorgere un’ombra nei suoi occhi, come un tormento.
“Christian?”
“Mm?”
“Cos’hai?”
Lui mi fissa, perplesso. “Niente, perché?”
“Perché ti conosco più di quanto tu conosca te stesso, e mi è bastato vederti entrare per capire che c’è qualcosa che non va. Cos’è successo?”
Lui sospira, chiude gli occhi e si accoccola di più contro di me. “Non mi va di parlarne adesso”
Normalmente quando qualcuno risponde in questo modo, il suo interlocutore accoglie la sua richiesta e lo lascia in pace. Quando si tratta di Christian no, non posso. Lo conosco e ho visto negli anni quanto i pensieri possano arrivare a logorarlo quando li tiene per sé e rifiuta di sfogarsi.
“Amore, hei” lo chiamo dolcemente. Apre gli occhi e mi guarda, mi metto seduta e gli prendo le guance tra le mani “Lo sai che quando ti sfoghi dopo stai meglio.. non tenerti tutto dentro, ti prego. Che cosa succede?”
Lui tentenna e si guarda intorno.
“Vogliamo parlarne lontano dai bambini?”
Mio marito annuisce, si alza e mi aiuta ad alzarmi dal divano. Ci spostiamo in cucina, Christian si siede su uno degli sgabelli del bancone, io gli verso un bicchiere di vino rosso e poi mi siedo sullo sgabello accanto al suo.
“Allora?” domando, non appena manda giù il primo sorso di vino.
“Questa mattina ho ricevuto questa..” estrae una busta dalla tasca interna della giacca e me la porge.
È già aperta, quindi mi limito ad estrarre il foglio al suo interno e dispiegarlo. Faccio scorrere velocemente lo sguardo tra le righe.
“È un invito per l’inaugurazione del nuovo reparto di pediatria all’Henry Ford Hospital di Detroit” affermo, profondamente perplessa. Non capisco il motivo di questo invito e non capisco perché Christian sia così turbato.
“Amore perdonami ma non.. non capisco il nesso..”
Christian sospira. “Il reparto di pediatria in quell’ospedale era chiuso da circa quindici anni. Sono stato io, otto mesi fa, a donare dieci milioni di dollari per poterlo riaprire, eseguire i lavori di ristrutturazione, arredare tutti gli interni e acquistare i macchinari più all’avanguardia..”
Sgrano gli occhi, incapace di pronunciare anche solo una sillaba. Non riesco a crederci.
Certo, Christian fa beneficenza ogni volta in cui ne ha occasione, ma un gesto simile non l’aveva mai fatto, e soprattutto con una cifra così enorme. E ancor di più mi sconvolge il fatto che io non sapessi nulla di tutto questo.
“Oddio” sussurro. Vorrei dire qualcosa, ma non so neanche da dove cominciare.
“Se ti stai chiedendo perché non te l’ho detto, è perché volevo che nessuno lo sapesse. Nessuno. E non riesco a spiegarmi come l’abbia saputo il primario che mi ha spedito l’invito. Domani farò una bella strigliata al Direttore generale!” il suo tono è duro e arrabbiato, e in fondo lo capisco: Christian non sopporta di essere ringraziato ed elogiato per la beneficenza che fa. Sostiene che la beneficenza può definirsi tale solo se il benefattore resta segreto, altrimenti sfocia in esibizionismo.
Eppure, ho la sensazione che il suo stato d’animo nasconda qualche altra ragione, qualcosa di più profondo.
“Quindi, vediamo se ho capito bene: tu sei nervoso e afflitto perché la tua ingente donazione per l’ospedale non è rimasta segreta come tu avevi esplicitamente richiesto. Giusto?”
“Ti pare poco?”
Solo questo ti fa stare così?”
Distoglie lo sguardo dal mio. “Sì!”
La sua risposta è troppo rapida e inespressiva per essere convincente.
Cercando di non soffocarlo con mille domande, gli poso semplicemente due dita sotto al mento e lo guardo negli occhi.
Basta un istante, e lo sento sibilare un “No”.
“Cos’è che ti rende così inquieto e arrabbiato?”
Sospira, passandosi freneticamente una mano tra i capelli. “Ana, per me quella città rappresenta l’inferno, il solo pensiero di tornarci e soprattutto di andare in quell’ospedale mi toglie il respiro..”
Mi si strazia il cuore nel vederlo così tormentato; nonostante il tempo che passa, i primi annidi vita sono sempre un tasto dolente per lui. Credo che, in fondo alla sua anima, Christian soffra ancora molto, e forse quella ferita, anche se in gran parte guarita dal tempo, è sempre in grado di riaprirsi e fare male.
Mi alzo dal mio sgabello e mi posiziono, per quel che posso, tra le sue gambe divaricate, allacciando le braccia intorno al suo collo.
“Allora perché hai donato una cifra a sette zeri proprio a quell’ospedale?”
Lui abbassa lo sguardo e posa le mani sui miei fianchi.
“L’Henry Ford è.. è l’ospedale dove mi portarono dopo che.. dopo avermi trovato accanto al cadavere della mia madre biologica..”
Sospiro. Adesso è tutto chiaro. Adesso capisco perché quel posto susciti tanto dolore e tanta rabbia in lui.
“Non mi vengono alla mente sequenze precise di quei giorni, è passato così tanto tempo.. Però ricordo che mi tennero alcune ore in pronto soccorso e poi mi trasferirono in pediatria, e lì incontrai Grace. Nonostante siano trascorsi trent’anni, una cosa che ancora è impressa in me è la sensazione che provai quando la vidi: mi sentii sicuro, protetto. E poi ricordo ancora il profumo che aveva, che è sempre lo stesso anche oggi..”
Sorrido, avvertendo nella voce di Christian tutta la dolcezza e l’infinito affetto che prova per Grace.
Gli prendo la mano sinistra, giocando con la fede all’anulare. “Forse allora quel posto non è poi così terribile: se non fossi stato lì, non avresti incontrato Grace, e la tua vita molto probabilmente non sarebbe stata questa..”
Lui annuisce. “Lo so, ma questo non mi aiuta a vederlo con occhi diversi..”
“Magari andarci potrebbe servirti a..”
“A cosa?” mi interrompe, brusco, alzandosi “A fare qualche sorriso finto davanti ad una telecamera e a dire quattro cazzate studiate ai giornalisti? No, grazie, eviterei volentieri tutta questa ipocrisia!” appoggia i palmi sul bancone e respira profondamente, poi riprende a parlare, con un tono più calmo “Credimi io non.. non vorrei reagire così, ma è qualcosa che non riesco a controllare. Anche solo leggere la provenienza di quella busta mi ha fatto gelare il sangue..”
Sento lo stomaco serrarsi: non è semplice ascoltare e vedere il suo tormento e non riuscire a fare nulla per farlo stare meglio.
“Christian” mormoro, posandogli una mano sulla spalla e facendolo voltare verso di me “Ti ripeto la domanda che ti ho fatto qualche minuto fa: se ti fa così male anche solo parlarne, perché hai deciso di fare una donazione così importante proprio a quell’ospedale? Chissà quante strutture ci sono che ne avrebbero bisogno..”
Mio marito sospira, sollevando leggermente le spalle e appoggiandosi con il fianco al bancone della cucina. “Non lo so, so solo che quando, circa un anno fa, ho letto sul giornale un articolo che parlava della vicenda, ho agito d’istinto. Detroit è una città molto grande e gli ospedali di terzo livello sono solo tre, è inconcepibile che uno di questi manchi di un reparto pediatrico, anche perché, purtroppo, pare che i posti letto per i bambini non siano mai abbastanza. Detroit è una città difficile, e i bambini sono i primi a risentirne. Il problema di fondo non è la criminalità in sé, perché quella è diffusa ovunque; il vero cancro di Detroit è il fatto che la criminalità sia diventata una norma, un’abitudine, la gente si è assuefatta, vede commettere crimini ogni giorno davanti ai propri occhi e quasi non si sorprende più. Ma i bambini non c’entrano in tutto questo: loro meritano di vivere bene, soprattutto in una città così complicata. Non è giusto che paghino per gli errori degli adulti. Loro non hanno colpe..”
Le lacrime mi inumidiscono gli occhi. Il tono di Christian è così profondo, le sue parole così semplici ma così vere, sentite. Mio marito ha un grande cuore, anche se non lo ammetterà mai, e in qualche modo, consentendo ai bambini di ricevere le cure di cui hanno bisogno, è come se volesse riscattare la sua infanzia. Ma anche questo non lo ammetterà mai.
“E questo non vale per te?” gli chiedo, guardandolo negli occhi.
“In che senso?” domanda con un filo di voce, fissando lo sguardo nel mio.
“Anche tu eri solo un bambino, non avevi alcuna colpa di tutto quello che è successo, eppure continui in qualche modo a punirti per colpe non tue..”
Lui scuote la testa e si passa le mani sul viso. So che non ama affrontare questi discorsi, ma non posso fare a meno di dirgli ciò che penso.
“Che cosa c’entra questo?” domanda, in un misto tra il contrariato e l’esasperato.
“C’entra perché ancora una volta ti lasci condizionare dal tuo passato, come se i terribili anni che hai vissuto lì fossero dipesi da te..”
“E sentiamo, signora strizzacervelli, cosa dovrei fare?” ribatte, acido.
Lo incenerisco con lo sguardo: non sopporto quel tono di sufficienza, come se stesse parlando con una deficiente. “Secondo me dovresti considerare l’idea di accettare l’invito..”
Lui sgrana gli occhi. “Sei impazzita? Ti ho appena detto che non ci voglio andare!”
“Christian, non puoi continuare ad essere prigioniero del tuo passato!”
Vedo un lampo di fuoco attraversargli le iridi.
Cazzo, forse ho esagerato...
“Tu non puoi capire” asserisce, con la freddezza che traspare da ogni poro.
“Ma..”
“No, Ana, basta. Discorso chiuso” dice, duro. “Ho bisogno di una doccia” aggiunge poi, dirigendosi verso il corridoio e poi su per le scale.
Mi lascio andare sullo sgabello del bancone, sospirando rumorosamente.
La situazione non è affatto semplice: Christian tende a chiudersi a riccio quando c’è in ballo il suo passato, ed io non so cosa fare per aiutarlo senza turbarlo ancor più di quanto già non sia.
Sono più che sicura che il suo problema non sia la soffiata sul benefattore dell’ospedale, bensì il fatto che quell’ospedale si trovi proprio a Detroit. Nonostante siano trascorsi tre decenni, ho la sensazione che Christian non abbia ancora superato a pieno i traumi legati a quel luogo che per quattro anni è stato il suo inferno. Per questo, secondo me, è importante che ci vada, che affronti il suo passato, i suoi demoni.
Dio, mi sento molto il dottor Flynn in questo momento. Mi chiedo lui cosa ne penserebbe, e soprattutto mi domando se Christian abbia sfiorato l’idea di parlare con il suo psicologo.
“Anastasia?” la voce di Gail interrompe bruscamente il mio flusso di pensieri.
Sollevo lo sguardo verso di lei.
“Va tutto bene?”
Mi sforzo di sorridere. “Sì, va tutto bene”
“Per cena ho preparato il sugo al ragù, preferisci pasta lunga o corta?”
“Gail, non preoccuparti, penso io alla cena”
“Sei sicura?”
“Ma certo, tu e Jason meritate una serata libera”
Lei sorride e allunga una mano per stringere la mia. “Grazie Ana, davvero” si avvia verso il salone per salutare i bambini e poi esclama un “Buona serata!” prima di chiudersi la porta d’ingresso alle spalle.
Dopo aver dato uno sguardo all’orologio, che segna pochi minuti alle 20, mi alzo e metto sul fuoco una pentola con l’acqua; non appena questa inizia a bollire, calo la pasta e poi apparecchio la tavola.
“Mamma!” esclamano i miei figli, correndo dal salone “Quando si mangia?” domanda Teddy.
“Tra poco la pasta sarà pronta, intanto andate a lavarvi le mani”
Mentre loro trotterellano verso uno dei bagni del piano terra, io aggiungo un po’ di condimento al sugo.
Con la coda dell’occhio vedo Christian rientrare in cucina, fresco di doccia e con addosso un paio di pantaloni della tuta e una felpa. Mentre assaggio il sugo, sento le sue braccia cingermi la vita e il suo mento appoggiarsi sulla mia spalla.
“Scusa” sussurra “Ti prego perdonami per essermi alterato in quel modo. Non ce l’avevo con te, lo giuro” mi dà un bacio sulla tempia così tenero da farmi tremare il cuore.
Non ci sono rimasta male per i suoi modi bruschi, perché so che erano dettati solo dal nervosismo del momento.
Mi volto tra le sue braccia e intrufolo una mano tra i suoi capelli, fermandola all’altezza dell’orecchio “Non hai nulla di cui scusarti. Lo so che non ce l’hai con me, ma sei solo molto nervoso..”
Lui annuisce, sospirando, e mi stringe a sé.
Ci stacchiamo non appena fanno ritorno i nostri figli. Mio marito mi dà un bacio a fior di labbra e poi va a sedersi a tavola con loro.
Inclino il viso e li osservo: Christian tiene Teddy seduto su una gamba e Phoebe sull’altra, entrambi sono ansiosi di raccontare al loro papà cos’hanno fatto a scuola e a casa durante la giornata. Cercano di parlare contemporaneamente e fanno un baccano infinito, ma Christian sorride e li ascolta, assorto.
È incredibile il modo in cui i nostri figli riescano a rasserenarlo e a fargli mettere da parte per un po’ tutti i pensieri che lo tormentano. Mi fa male sapere che mio marito non è sereno, libero con se stesso, e la cosa che mi fa innervosire maggiormente è che non so cosa fare. Potrei provare a parlargli ancora, ma servirebbe?
Sono fermamente convinta che il fulcro del problema abbia radici profonde, e non credo basti qualche parola ben studiata per farlo riflettere: Christian è testardo e fargli cambiare idea, soprattutto in un campo minato come quello del suo passato, è molto molto complicato.
A cena, anche grazie ai bambini, l’atmosfera è più leggera e rilassata. Christian sorride, scherza con i nostri figli e mi bacia ogni volta che può; forse si sente in colpa per il suo atteggiamento brusco di prima.
L’aria, però, torna ad appesantirsi dopo cena, quando mio marito ed io ci ritroviamo a sparecchiare e a riporre i piatti in lavastoviglie. La busta con l’invito è ancora sul bancone della cucina; noto che Christian la fissa.
“Christian..” mormoro, ma lui mi interrompe subito:
“No, Ana..” dice, fermo; poi il suo tono si addolcisce “Ti prego, adesso no. Non voglio parlarne..”
Sospiro e infilo la capsula nell’apposito vano in lavastoviglie, consapevole che, almeno per ora, mi tocca assecondarlo.
 
Apro gli occhi di scatto, sollecitata da qualcosa, ma non so da cosa. Sbatto velocemente le palpebre per abituare gli occhi al buio, e poi mi allungo verso il comodino per guardare l’ora sul cellulare: le tre e dieci del mattino.
Un verso che è una via di mezzo tra un urlo strozzato e un lamento mi fa voltare di scatto, e subito capisco il motivo del mio improvviso risveglio: Christian si muove agitato, mugugnando nel sonno.  
“No... no!” ripete, muovendosi convulsamente tra le coperte.
Sono tornati gli incubi, e questo mi spaventa molto: la questione di ieri l’ha turbato molto più di quanto potesse sembrare.
Mi avvicino a lui e cerco di svegliarlo nel modo più dolce possibile.
“Christian” sussurro, carezzandogli i capelli “Amore, svegliati” dico ancora, ma lui continua ad urlare e agitarsi.
Poco dopo le sue urla si placano e all’improvviso apre gli occhi.
“Amore, hey” mi inginocchio accanto a lui e lo stringo a me “Va tutto bene, era solo un incubo..”
Ha lo sguardo vuoto, il respiro affannoso ed è madido di sudore, la maglietta che indossa ne è intrisa all’altezza del petto.
Lo cullo per diversi minuti, con la sua testa sul mio seno e le sue braccia a circondarmi la vita. Non appena mi rendo conto che il suo respiro è tornato regolare, mi stacco di poco e gli prendo il viso tra le mani.
“Che sta succedendo, Christian?”
Lui solleva le spalle e scuote la testa, distogliendo lo sguardo dal mio. “Non lo so” mormora, dopodichè si alza e si dirige in bagno.
Io mi lascio andare di schiena sul materasso, sospirando.
La situazione è più seria di quanto credessi: è bastata una busta, è bastato il nome di quella città scritto nero su bianco, e Christian è di nuovo presa degli incubi, quegli stessi incubi che per anni hanno turbato il suo sonno. Lui non vuole parlarne, ed io non so cosa fare per aiutarlo. Mi si strazia il cuore nel vederlo così tormentato, nervoso, afflitto, ma non riesco a trovare le parole giuste per farlo riflettere.
Qualche minuto dopo, non vedendo tornare mio marito, mi alzo e busso alla porta del bagno. Senza attendere una risposta, abbasso la maniglia e infilo la testa all’interno. Christian è davanti al lavandino, con le mani appoggiate sul bordo e lo sguardo basso; è a torso nudo e ha appena sciacquato il viso, a giudicare dalle gocce d’acqua che cadono dal suo mento.
Senza dire nulla, mi avvicino a lui e lo abbraccio da dietro, cingendogli il busto con le braccia e appoggiando la guancia sulla sua schiena; riesco a sentire sotto la pelle i suoi muscoli tesi. Christian posa le mani sulle mie e, non appena gli lascio un bacio nell’incavo tra le scapole, si volta verso di me. Mi dà un bacio sulla fronte e poi inchioda lo sguardo nel mio: quell’argento colmo di inquietudine lo fa sembrare un bimbo smarrito.
Vorrei dire tante cose, ma temo che dalla mia bocca possano fuoriuscire solo frasi fatte e banali, nulla che possa farlo stare meglio davvero. In questo momento riesco a pensare ad un solo modo per fargli ritrovare la strada di casa e per dimostrargli quanto lo amo. Così, faccio un passo indietro e con un rapido gesto mi sfilo la camicia da notte e la appoggio sullo sgabello bianco; mio marito fa vagare lo sguardo sul mio corpo, coperto solo da un completino intimo di seta color pesca; i suoi occhi accesi di lussuria hanno il potere di farmi sentire bellissima nonostante il pancione di sette mesi e i vari annessi e connessi della gravidanza.
“Ana..” sussurra.
Gli poso due dita sulle labbra. “Ssshh” mi sollevo leggermente sulle punte e, allacciando le braccia intorno al suo collo, lo bacio. Sento i suoi muscoli rilassarsi piano piano, mentre le sue labbra si modellano sulle mie e le nostre lingue si incontrano.
Un attimo dopo Christian mi sfila il reggiseno, e il contatto del mio seno nudo contro il suo petto, unito alla sensazione della sua erezione che preme contro il mio basso ventre, mi fanno rabbrividire e battere forte il cuore.
Ad un tratto mi sento sollevare, ma non faccio in tempo a protestare che mio marito mi zittisce incollando nuovamente le labbra alle mie. Percorre in pochi passi lo spazio che separa il bagno dal nostro letto e mi deposita dolcemente sul materasso, intrufolandosi poi tra le mie gambe.
“Sei bellissima” mormora, lasciando la mia bocca e percorrendo con le labbra il sentiero che arriva fino al collo, poi giù verso il seno e infine al ventre, dove lascia un dolcissimo bacio accanto al mio ombelico.
Quando giunge all’apice tra le mie cosce, mi sfila l’ultimo indumento intimo rimastomi e mi fissa con lo sguardo da predatore, quello che mi avverte che sta per farmi impazzire.
Con esasperante lentezza, si inginocchia tra le mie gambe e cala i pantaloni del pigiama e i boxer in un unico gesto, dandomi modo di ammirare al completo la bellezza e la perfezione del suo corpo.
Sento letteralmente di andare a fuoco, e rischio di impazzire davvero se non mi fa sua subito. Gli cingo i fianchi con le gambe, puntando i talloni dietro la sua schiena e invitandolo a darsi una mossa. Non mi fa attendere a lungo e, incastrando gli occhi nei miei, entra in me, strappandomi un gemito.
Mi tiene per le cosce ed è lui a dettare il ritmo. Passionale, frenetico, quasi selvaggio. Ogni affondo è più veloce e più forte del precedente. Io lo assecondo, perché so che in questo momento ne ha bisogno, e ne ho bisogno anche io; amo il sesso dolce e romantico, ma amo anche il sesso passionale e senza freni, e mio marito è un amante travolgente in qualsiasi situazione.
Non appena raggiungiamo la vetta del piacere, Christian si distende al mio fianco e mi tiene stretta forte a sé, il mio viso nascosto nell’incavo del suo collo e le nostre gambe intrecciate.
“Scusa” mormora, non appena il suo respiro torna alla normalità.
Sollevo il viso e lo fisso, perplessa. “Per cosa?”
“Per essere stato così.. impetuoso..”
Sorrido e gli poso una mano sulla guancia. “Non hai nulla di cui scusarti. Io amo il tuo essere impetuoso”
Christian ricambia il mio sorriso e mi bacia dolcemente sulle labbra, continuando a tenermi stretta a sé. Mi accoccolo contro di lui e lo sento sospirare, mentre il suo cuore batte forte proprio sotto la mia guancia destra. Posso immaginare cosa stia pensando, perché è ciò che sto pensando anche io, ma non so come introdurre il discorso senza farlo innervosire.
“Christian..” dico, disegnando con le unghie linee astratte sui suoi pettorali.
“Mm?”
“Credo che.. ne dovremmo parlare”
Mio marito sospira ancora, e si scosta quel tanto che basta per guardarmi negli occhi. “Lo so” dice, giocando con una ciocca dei miei capelli “Ma adesso non ce la faccio. È notte fonda e ho appena fatto l’amore con mia moglie; l’unica cosa che voglio fare è tenerti stretta a me e addormentarmi sperando di riuscire a scacciare gli incubi..”
Quelle parole sono sufficienti a farmi sciogliere. Lo bacio e poi mi volto tra le sue braccia, in modo che la mia schiena aderisca al suo petto.
Christian sistema le coperte su di noi e mi abbraccia, posando la mano sul mio pancione e accostando la bocca al mio orecchio.
“Vi amo da morire”


Verso una generosa quantità di balsamo sul palmo della mano e inizio a distribuirlo sui capelli, avendo cura di massaggiare a lungo e con delicatezza il cuoio capelluto. Contemporaneamente mi godo la sensazione dell’acqua calda che mi scorre addosso e rilassa i miei muscoli, rigenerandomi da una notte in cui il riposo è stato davvero poco.
All’improvviso un paio di colpi alla porta interrompono il mio momento di relax e mi fanno sussultare. A questi segue la voce di mio marito. “Ana, sei li dentro?”
“Sì, sono in doccia” urlo, per sovrastare il rumore dell’acqua che scorre “Esco tra cinque minuti!”
Contro ogni previsione, dopo cinque minuti netti chiudo il rubinetto della doccia, esco dalla cabina e infilo l’accappatoio, avendo cura di non stringere troppo il nodo della cintura all’altezza della vita. Dopo aver tolto con la manica l’appannamento sullo specchio, esco dal bagno e mi dirigo in cabina armadio, trovandovi Christian impegnato nella scelta dell’abbigliamento da indossare.
“Buongiorno!” esclamo, camminando verso di lui.
Si volta e mi sorride. “Buongiorno” si china e mi bacia teneramente sulle labbra “Come mai sei già sveglia? È ancora presto”
“Tua figlia mi ha svegliata alle 6; visto che non riuscivo a riaddormentarmi, ho pensato di approfittarne per guadagnare un po’ di tempo”
Mio marito sorride divertito, si siede sul pouf e mi attira in piedi tra le sue gambe, in modo da poter instaurare un “dialogo” con nostra figlia.
“Cucciola” mormora, posando le mani sui miei fianchi e avvicinando la bocca alla mia pancia “Sei una piccola peste ancor prima di nascere” afferma ridacchiando e facendo ridere anche me.
“Mi auguro che non faccia così anche una volta nata, altrimenti potremo dire addio al nostro sonno” osservo, con un pizzico di terrore.
Teddy e Phoebe sono sempre stati alquanto tranquilli di notte, sin dai loro primi giorni di vita: a svegliarli era principalmente la fame, ma dopo la pappa, il cambio pannolino e un’abbondante razione di coccole, si riaddormentavano, tranne rari casi. Spero tanto che Allie segua l’esempio dei suoi fratelli.
Accarezzo i capelli di Christian, mentre lui continua a dedicare attenzioni alla nostra bimba. Sposto lentamente le mani sulle sue guance e gli sollevo il viso, costringendolo a guardarmi negli occhi.
“Lo sai che dobbiamo parlare, vero?” dico, usando un tono più dolce possibile.
Non serve neanche menzionare l’argomento della conversazione, perché lo conosciamo benissimo entrambi. Mio marito sospira e solleva le spalle, con l’atteggiamento tipico di chi sa bene quale discorso sto per introdurre, ma non ha alcuna voglia di affrontarlo.
Sospiro a mia volta e cerco di addolcirlo sedendomi sulle sue gambe.
“Amore, ascoltami” lo guardo negli occhi “Lo so che non ne vuoi parlare, che vorresti lasciarti tutto alle spalle, ma non puoi fare così..”
“Di cosa dovrei parlare, Ana?” domanda ad un tratto, chiaramente infastidito.
“Beh.. per esempio di cosa è successo stanotte..”
“C’eri anche tu, l’hai visto: ho avuto di nuovo uno dei miei incubi..”
“E.. pensi che quella busta di ieri c’entri qualcosa?”
“Sicuramente” ammette, senza alcun problema.
“Perché un semplice invito ti ha turbato fino a questo punto?”
So benissimo che il problema non è il semplice invito, ma sto banalizzando la cosa per indurlo a sfogarsi.
Christian sospira di nuovo, abbassando lo sguardo.
“Non è l’invito in sé il problema; certo, mi ha fatto innervosire il fatto che in ospedale sia trapelato il mio nome, perché avevo richiesto la massima discrezione, ma tutto sommato non è un grande problema. Ciò che mi fa rabbrividire è l’idea di dover rimettere piede a Detroit..”
Intrufolo le dita nei suoi capelli e aspetto che mi guardi di nuovo negli occhi. “Christian, sono passati trent’anni. Adesso sei una persona completamente diversa, hai costruito una famiglia, un impero, perché devi lasciarti fermare dal tuo passato?”
“Forse avevi ragione tu ieri, sai? Io sono prigioniero del mio passato. Mi ripeto continuamente che non devo lasciarmi condizionare da quello che è successo decenni fa, eppure è ciò che sto continuando a fare..”
Mi fa male vederlo così vulnerabile, afflitto, quasi un cucciolo indifeso. E mi sento un carnefice nel proseguire imperterrita ad insistere, per cui decido, per adesso, di lasciare il discorso in sospeso. Voglio che Christian ci rifletta da solo, e magari scelga di parlarne quando si sente un po’ più pronto.
“Hey” gli prendo le guance tra le mani “Mi prometti che ci pensi?”
Questa volta annuisce con forza. “Te lo prometto”
Sorrido e lo bacio, dopodiché mi alzo per vestirmi, mentre lui si dirige in bagno.
La mattinata scorre lenta, com’è normale che sia adesso che non vado in ufficio, e non posso negare che la cosa sia per molti versi piacevole. Adoro accompagnare i miei bambini a scuola con tutta calma e poi tornare a casa; trascorro diverso tempo al computer per liberare la casella di posta e ricontrollare il materiale per la lezione di oggi pomeriggio all’Università. Poco prima di mezzogiorno Christian mi comunica che non riesce a liberarsi per pranzo, così vado insieme a Sawyer a prendere Teddy e Phoebe e mangio con loro, sommersa dalle loro voci allegre e le infinite chiacchiere su cosa hanno fatto a scuola. Adoro questi momenti, anche se un piccolo angolino della mia mente è occupato dal pensiero di Christian: mi chiedo se stia davvero riflettendo su quello che è successo e se stia prendendo in considerazione l’idea di partire per Detroit. Io continuo a ritenere che per lui sarebbe importante andarci, ma non posso indurlo a fare qualcosa che non vuole; vorrei che giungesse da solo alla conclusione migliore per lui.
Dopo pranzo corro a prepararmi e alle 14 mi trovo puntuale all’Università. È sempre bello constatare che quando arrivo, i ragazzi sono già tutti in aula, come se attendessero impazienti l’inizio della lezione. Inevitabilmente ci sono ragazzi più attenti, più assidui, più coinvolti, e qualcuno, la grande minoranza per fortuna, che invece ha l’aria di chi c’è perché in qualche modo gli è stato imposto. Ma nonostante tutto, ormai sono affezionata a tutti loro, e sembra che anche loro siano affezionati a me e in particolar modo al mio pancione, spesso li trovo a fissarlo affascinati, soprattutto le ragazze.
Al termine della lezione, con mia grande sorpresa, trovo Christian ad attendermi all’uscita. È appoggiato con il sedere alla fiancata dell’auto, avvolto nel suo cappotto blu. È bellissimo, anche se ha il viso stanco. Sorride non appena mi vede uscire, e mi viene incontro.
“Cosa ci fai qui?”
“Sembra quasi che tu non sia contenta di vedermi” afferma, prima di salutarmi con un bacio dei suoi.
“Certo che sono contenta, è solo che non mi aspettavo di trovarti qui, avevi detto di essere impegnato fino a tardo pomeriggio”
Mi attira a sé e mi cinge i fianchi con le braccia. “È vero, ma mi sono reso conto che non riuscivo a combinare granchè.. e avevo un enorme bisogno di vederti..”
Sorrido e mi appoggio a lui, lasciandomi stringere.
“Com’è andata la lezione?” domanda mio marito, una volta saliti in auto.
“Bene, i ragazzi sembrano quasi dispiaciuti che manchino solo altre tre lezioni..”
“Io no, così finalmente potrai stare a casa e riposare un po’, visto che sei appena entrata nell’ottavo mese di gravidanza..”
“Sai che palle..” commento, alzando gli occhi al cielo.
“Cos’hai appena fatto?”
“Ops” mormoro, ridacchiando e rifilandogli un finto sguardo innocente.
Il tragitto verso casa prosegue in silenzio. Ho una miriade di domande che vorticano nella mia mente, ma non ho il coraggio di farne nessuna; l’umore di Christian mi sembra leggermente migliorato rispetto a questa mattina e temo di farlo innervosire di nuovo.
Per fortuna, davanti al portone di casa, aspetta che Taylor scenda dalla macchina e poi è lui stesso a togliermi dall’impiccio.
“Lo so cosa vuoi chiedermi, te lo si legge in faccia” prima ancora che possa rispondere, prosegue “Ci ho riflettuto tanto. E continuo a riflettere. Non credo sia una buona idea andare a Detroit”
“Christian ma perché?”
“Beh, innanzitutto non mi piace mettermi in mostra per quanto riguarda la beneficenza, lo sai. Dovrei andare lì a pavoneggiarmi solo per il piacere dei giornalisti. E per quanto riguarda tutto il resto.. beh.. non so a cosa potrebbe servirmi tornare in quel posto; il passato non si può cancellare e tantomeno migliorare, quindi..”
Gli prendo la mano, intrecciando le dita con le sue. “Non so a cosa possa servire ciò che sto per dirti, visto che a quanto pare sei molto deciso. Però io penso che accettare di andare all’inaugurazione del reparto non voglia dire pavoneggiarsi davanti ai giornalisti, ma stringere la mano a persone che grazie a te hanno un posto di lavoro, hanno stabilito degli obiettivi; e potresti guardare in faccia genitori come noi che grazie a te potranno vedere i loro bambini seguiti e curati. Per quello che tu chiami il resto, purtroppo io posso solo immaginare cosa tu stia provando, ma credo che, anche se il passato non si può cancellare né modificare, sia importante almeno affrontarlo..”
Christian abbassa lo sguardo e stringe più forte la mia mano.
“Tu.. tu mi starai accanto anche se prenderò una decisione con la quale non sarai d’accordo, vero?”
Le sue parole mi fanno vibrare l’anima. In questo momento più che mai vedo in lui il mio bambino smarrito.
Sottraggo la mano alla sua stretta per posarla sulla sua guancia e immergere gli occhi nei suoi. “Amore mio, io sono sempre con te, qualunque cosa tu scelga di fare”
 
Le prime cose che avverto, non appena apro gli occhi, sono il buio che mi circonda e l’ingente pressione esercitata da Allie sulla mia vescica. Sbuffo, strofinandomi gli occhi, e poi allungo il braccio accanto a me, scoprendo solo le lenzuola stropicciate e fredde. Mi metto a sedere, guardandomi intorno alla ricerca di Christian: la porta finestra è chiusa e la luce del nostro bagno è spenta.
L’orologio sul cellulare segna le due e mezza del mattino, mi alzo e vado in bagno per dare un minimo di sollievo alla mia vescica, dopodiché indosso la vestaglia e vado a cercare mio marito.
Sto per andare a controllare in cameretta dei bambini, quando una lenta melodia di pianoforte attira la mia attenzione e mi svela subito dove si trova Christian. Scendo lentamente le scale, cercando di fare meno rumore possibile, e, giunta in salone, mi appoggio al muro e mi fermo ad osservarlo, approfittando del fatto che lui sia di spalle e non possa vedermi.
Il suo busto oscilla leggermente al ritmo lento, dolce e malinconico della musica che sta suonando, mentre le sue mani scorrono veloci e spedite sui tasti. Anche a qualche metro di distanza riesco a notare i suoi muscoli tesi e una sorta di aura di inquietudine che lo circonda. D’altronde, quando Christian suona il pianoforte a quest’ora della notte, vuol dire che c’è qualcosa che gli dà dei pensieri e gli impedisce di dormire tranquillo. Questo mi induce a pensare che la conversazione di ieri pomeriggio forse in qualche modo lo abbia smosso un po’ e lo abbia spinto a riflettere, anche se durante la serata mio marito non ha voluto più toccare il discorso; si è dedicato completamente a me e ai nostri figli. Sembrava che tutto quello di cui avesse bisogno fosse solo il nostro amore.
Non appena termina lo spartito, cammino verso di lui e gli poso una mano tra i capelli.
Christian sussulta per un istante, e poi si volta di scatto.
“Hey” mormoro, sedendomi poi sulla panca accanto a lui.
“Scusa, ti ho svegliata..” mi prende la mano e mi rigira la fede intorno al dito.
“No, tranquillo. È stato il bisogno impellente del bagno a svegliarmi..”
Lui si lascia andare ad una leggera risata, che dura però troppo poco, perché presto la sua espressione torna a farsi seria.
“Io.. non riuscivo a dormire.. E suonare mi rilassa..”
Gli poso due dita sulle labbra. “Ssshh. Amore, non devi giustificarti con me..”
Lui si appoggia con gli avambracci alla parte superiore del pianoforte e sospira pesantemente.
“È che io.. io non so cosa fare, cosa pensare.. Mi guardo intorno e mi rendo conto di avere tutto ciò che un uomo possa desiderare: una moglie fantastica, dei bambini meravigliosi, un’altra in arrivo, una famiglia alle spalle che mi ama e mi sostiene, un lavoro che amo e che mi regala enormi soddisfazioni. Quindi mi dico: perché basta un nulla per oscurare tutto questo e farmi piombare di nuovo in quel buio che mi ha accompagnato per quasi ventotto anni?”
Mi accoccolo al suo fianco e gli poso la testa sulla spalla e le mani sulla coscia. Vorrei dire qualcosa, ma sento che lui ha ancora qualcosa da dire, quindi resto in silenzio e, senza mettergli pressione, aspetto che continui.
“Perché il mio passato deve avere ancora un’influenza così grande su di me?” la sua voce si incrina leggermente sulle ultime parole, poi lui scuote la testa e sbuffa, come se non accettasse questa versione di sé più vulnerabile e sensibile.
Devo ammettere che effettivamente in sei anni e mezzo che ci conosciamo, poche volte l’ho visto così affranto, turbato e tormentato. E ha ragione lui quando dice che il suo passato è ancora in grado di influenzarlo in maniera molto importante.
Poiché la posizione in cui mi trovo mi rende difficili alcuni movimenti, mi alzo e mi paro davanti a lui, attirandolo a me in modo che la sua testa si adagi sul mio seno.
“Amore mio” sussurro, cullandolo.
Dopo pochi secondi lo sento sussultare leggermente e tirare su con il naso, e questo mi annienta completamente. Christian non è propriamente il tipo di persona dalla lacrima facile, anzi, in questi anni l’ho visto piangere molto più spesso di commozione che di dolore. E mi sento come se questo suo dolore si trasferisse per osmosi anche a me.
“Io non ce la faccio più” afferma ad un tratto, stringendomi forte e affondando il viso nel mio seno.
Silenziosamente calde lacrime iniziano a scendere anche sulle mie guance, ma le ignoro; adesso devo essere forte per Christian, adesso devo mantenere più che mai la promessa che implicitamente gli ho fatto sei anni fa davanti all’altare, devo tenerlo stretto, devo impedirgli di crollare, devo accompagnarlo nell’affrontare uno dei più grandi ostacoli della sua vita: i conti con il passato.
Pian piano i suoi sussulti si placano e la sua presa intorno alla mia vita si allenta. Christian si alza e mi prende per mano, mi conduce al divano e ci si siede, facendomi sedere sulle sue gambe e tenendomi tra le braccia.
Gli poso una mano sulla guancia e lo bacio dolcemente sulle labbra, per dirgli che io ci sono, che sono qui con lui. Sempre.
“La verità è che l’invito per l’inaugurazione del reparto non c’entra niente, ci ho riflettuto e mi sono detto che forse andarci sarebbe anche un bel momento. Ma il pensiero di andare a Detroit mi paralizza. In quella città ho vissuto i quattro anni più terribili della mia vita, ho conosciuto solo dolore, sporcizia, e tutto quello che di più brutto possa esistere, tranne qualche raro momento in cui la mia genitrice biologica non era strafatta. Speravo di essere riuscito a lasciarmi tutto questo alle spalle definitivamente, di averlo superato, invece basta una minima sciocchezza e tutto ritorna a galla, più impetuoso e doloroso di prima” sbuffa, passandosi una mano sul viso “Che cosa devo fare?”
“Amore” gli prendo il viso tra le mani e lo guardo negli occhi, due meravigliosi pozzi d’argento lucidi per le lacrime di poco fa “Secondo me dovresti affrontare il tuo passato. Dovresti andare a Detroit e dimostrare a te stesso che sei più forte di quei ricordi che ancora oggi ti fanno dormire con gli incubi. Solo così potrai dire di aver davvero superato il trauma del tuo passato..”  
Mio marito sospira, gettando la testa all’indietro. Lo conosco bene e so che ci sta riflettendo sul serio, e che forse si sta convincendo del fatto che la mia ipotesi sia da prendere in considerazione. Nonostante questo, decido di giocare un’ultima carta, quella che, secondo me, può aiutarlo a fare ordine tra i suoi pensieri e prendere una decisione.
“Perché non ne parli con tua madre?”
Lui mi rivolge un’occhiata perplessa. “Credi cambierebbe qualcosa?”
“Non lo so, però lei ti conosce bene e ti ama più della sua vita, sono sicura che saprà consigliarti nel modo migliore..”
“Io sono sicuro che la pensi come te”
“Può darsi. Sai, ho il brutto vizio di avere sempre ragione..”
Marco il tono sarcastico per alleggerire un po’ l’atmosfera, e ci riesco. Christian mi sorride divertito e mi stringe a sé, intrufolando il viso tra il mio collo e la spalla.
“Ti spiace se resto ancora un po’ a suonare?”
“Assolutamente no. Anzi, posso restare con te? Ad Allie piace sentire il suo papà che suona”
Christian sorride e si alza per andare a sedersi di nuovo al pianoforte. Io mi appoggio alla struttura principale e lo osservo. Adesso mi sembra un po’ più rilassato, credo che sfogarsi ed esprimere a pieno tutti i pensieri che lo tormentano sia stata per lui una forma di catarsi, almeno in parte.
Mi godo la meravigliosa sensazione della mia piccolina che si muove piano dentro di me, fino a quando un calcio più forte degli altri mi fa sussultare. Sorrido e mi guardo la pancia, e Christian si accorge del mio gesto perché smette di suonare e allunga la mano verso di me, invitandomi ad avvicinarmi.
Con una mano improvvisa una melodia dolce sui tasti bianchi e neri, mentre con l’altra mi accarezza il pancione, e sorride non appena avverte i movimenti di nostra figlia proprio sotto il suo palmo. Mi attira a sé e appoggia le labbra sulla mia pancia; anche attraverso la maglietta del pigiama sento tutto il suo calore arrivarmi dentro.
“Sei l’amore di papà, lo sai, principessa?” mormora, con infinita dolcezza, poi solleva lo sguardo su di me e lascia che io mi perda nei suoi occhi “Ti amo da impazzire”.
 

Due giorni dopo...

POV CHRISTIAN

Sono appena entrata in aula. Temo di terminare un po’ più tardi oggi. Tu sei con Grace?
Ti amo.

Rileggo più volte il messaggio che mi ha inviato Anastasia pochi minuti fa, continuo a rigirarmi il cellulare tra le mani e non so cosa risponderle. La verità è che avevo programmato di andare da mia madre per le 13, per poter pranzare con lei, ma sono ormai le 14 ed io me ne sto seduto sulla poltrona del mio ufficio.
Avrei voluto incontrarla ieri, ma era ad un congresso dal quale è rientrata solo in tarda serata, così ho dovuto rimandare ad oggi, ma non riesco a trovare la forza di alzarmi da qui e andare da lei. Non ho la forza di parlare ancora del mio passato e del fatto che ancora oggi io non possa dire di averlo superato completamente.
Questa consapevolezza mi distrugge, perché dentro di me ero convinto che, incontrando Anastasia e diventando padre, fossi riuscito a fare i conti una volta per tutte con la mia infanzia e a superare i traumi ad essa legati. Invece, purtroppo, mi sto rendendo conto che probabilmente è stata solo una mia illusione: è bastato davvero poco perché tornassi ad essere di nuovo preda di quell’oscurità e di quegli incubi che per tanti anni hanno caratterizzato la mia vita.
Per quanto mi costi ammetterlo, sento in qualche modo di aver fallito, di aver inconsciamente mentito a me stesso per tutti questi anni.
Anastasia ritiene che debba accettare l’invito che ho ricevuto e presenziare all’inaugurazione del nuovo reparto di pediatria dell’ospedale di Detroit, in modo da affrontare in qualche maniera i miei demoni, o qualcosa del genere, in stile dottor Flynn.
Io non sono così codardo da non ammettere che ha ragione lei, ma allo stesso tempo non posso negare a me stesso che il solo pensiero di rimettere piede a Detroit mi fa venire i brividi. Non ho una spiegazione logica a tutto questo, forse qualche strizzacervelli parlerebbe di trauma infantile, inconscio e altri paroloni simili; io so solo che, mentre da una parte vorrei essere forte abbastanza da guardare in faccia il problema e fronteggiarlo, dall’altra non saprei neanche da dove cominciare. Il primo passo sarebbe quello di partire, ma non so se sono pronto a tornare dopo trent’anni in una città che per me è stata un vero inferno.
Prendo un lungo respiro e mi decido ad alzarmi dalla poltrona. Spero che Ana abbia ragione e che parlare con mia madre possa aiutarmi davvero.
Digito una risposta a mia moglie mentre entro in ascensore.

Sto per andare da lei adesso. Dopo passo a prenderti così ti racconto tutto.
Ti amo tantissimo.


Quando Taylor ed io giungiamo a Bellevue, scopro, con mia somma sorpresa, che i miei genitori non sono soli: in salone, uno sulla poltrona e l’altra sul divano, sono accomodati i miei nonni.
“Come mai siete qui?” domando, curioso ma contento, mentre saluto entrambi con un bacio sulla guancia.
È mia madre a rispondere per loro. “Il nonno questa mattina non si è sentito molto bene, e dopo averlo portato in ospedale ho preferito che stesse qualche giorno qui”
Lei lo dice come fosse una cosa normale, io sento il sangue gelarsi. “Ospedale? Cos’è successo??” domando allarmato, andando a sedermi sul bracciolo della poltrona di nonno Theo.
“Tua madre e tua nonna sono sempre esagerate” risponde il mio vecchietto preferito “Ho solo un po’ di bronchite, e, com’è normale che sia in un giovanotto non più tanto giovane, non respiravo molto bene”
“E cos’hanno detto in ospedale?”
“Che devo prendere un paio di farmaci, respirare aria pulita, non fumare e non affaticarmi. In pratica le solite stronzate che rifilano ai vecchi non appena si avvicina l’inverno”
Scoppio a ridere davanti alla sua schiettezza: nonno Theo è sempre stato un mito per me. Vedendolo scherzare mi sento subito più tranquillo e inoltre anche il suo colorito mi sembra buono.
“Tu piuttosto, come mai sei qui?” chiede mio padre.
“Io.. volevo parlarvi di una cosa..” guardo i miei nonni, quasi imbarazzato.
“Theo, perché non andiamo in camera?” interviene la nonna Rose, dolce come sempre.
Alzo una mano nella sua direzione. “No, nonna, non è necessario”
Il discorso che devo intavolare sarebbe complicato in ogni caso, ma in fondo sono contento di poter parlare anche con i miei nonni, che dal primo giorno che mi hanno guardato negli occhi, mi hanno amato e compreso, non mi hanno mai fatto sentire inadeguato, fuori luogo, strano, anche se nei primi due anni non pronunciavo una sola parola.
Mia madre si siede sulla poltrona di fronte al nonno, mio padre sul suo bracciolo, io sul divano accanto alla nonna. E inizio a raccontare tutta la vicenda nei particolari, a partire dall’invito ricevuto tre giorni fa, alla discussione con Anastasia, agli incubi che si sono ripresentati, all’opinione di mia moglie riguardo alla faccenda, senza tralasciare nulla sul mio stato d’animo. Non è affatto semplice per me mettermi a nudo, ma ultimamente ho capito che se non lo fai con le persone che ti amano, hai poche possibilità di risalire a galla, perché non dai a nessuno la possibilità di lanciarti un salvagente.
I miei genitori e i miei nonni mi ascoltano assorti, interrompendomi solo qualche volta. Sui loro visi vedo comprensione, rabbia, empatia, ma mai pietà o compassione, e questo è già un sollievo.
Alla fine, la prima a prendere la parola è mia madre.
“Io credo che Anastasia abbia ragione”
Mi lascio sfuggire una risatina. “Non avevo dubbi, mamma”
“Ma come potrei non essere d’accordo con lei? Christian, tu hai bisogno di affrontare il tuo passato, ma hai bisogno di farlo una volta per tutte, per poterti finalmente lasciare tutto alle spalle”
“Come se fosse semplice..” commento, con lo sguardo basso.
“Questo non significa che tu debba dimenticare, anche perché è impossibile” interviene mio padre “Ma devi fare in modo che il passato resti tale, che resti un ricordo, un qualcosa di finito, concluso per sempre”
“Lo so” rispondo, strofinandomi le mani sul viso.
“Posso parlare da solo con Christian?” interviene ad un tratto mio nonno.
I miei genitori e la nonna Rose, dopo uno sguardo d’intesa, si alzano e si spostano in cucina, lasciandoci soli. Il nonno Theo si alza e viene a sedersi accanto a me sul divano.
“Christian, tu già prima di venire qui sapevi che il suggerimento che ti ha dato tua moglie fosse la scelta migliore. Non c’è bisogno che ti diciamo noi che l’unico modo per liberarti dei tuoi demoni è affrontarli. Quindi, cosa ti ha spinto a venire qui?”
Le sue parole mi lasciano interdetto. In pochi minuti mio nonno è riuscito a scavarmi dentro, come quando ero piccolo; e come sempre, ha ragione lui. Io, in fondo alla mia anima, so bene che Ana ha detto la cosa giusta, e sapevo che i miei genitori sarebbero stati d’accordo con lei, ma credo che ad avermi spinto a venire qui sia stato più che altro un desiderio di trovare nei miei genitori la spinta di cui ho bisogno.
“Non lo so nonno.. forse.. forse avevo bisogno di un pizzico di forza..” mormoro, come se stessi parlando da solo, perché voglio illudermi che ammetterlo a voce bassa sia meno doloroso.
“Christian, tu la forza la hai dentro di te, l’hai sempre avuta, sin da quando sei nato. Ma, qualche volta, concediti il lusso di essere debole. Concediti di ammettere che sei di fronte a qualcosa che ti spaventa, qualcosa che non puoi controllare..”
Chiudo gli occhi e annuisco. “Io.. io ero sicuro di aver già superato tutto questo anni fa, prima che nascesse Teddy.. ma adesso.. è come se fosse saltato un tappo e stesse uscendo di nuovo tutto fuori. Ed io sono stanco”
Il nonno mi posa una mano sulla spalla. “Forse in tutto questo tempo hai solo relegato in un angolo della tua mente questo enorme fardello, ma non pensarci non vuol dire averlo affrontato. E hai ragione ad essere stanco, ragazzo mio. Ma proprio per questo ti dico che devi trovare la forza di affrontare quest’ostacolo una volta e per sempre. E se lo dico è perché sono sicuro che tu possa farlo. Dal primo giorno in cui ho incontrato quel bambino di quattro anni, ho sentito che era pieno di forza, pieno di voglia di vivere, anche se all’apparenza era tanto chiuso e scostante. Adesso la tua forza è potenziata, la trovi in quel tesoro di tua moglie e nei vostri bambini..”
Sorrido. Il nonno ha un vero e proprio debole per Anastasia, e stravede per i suoi pronipoti, anche se li vede poco. “Loro sono i miei pilastri” affermo, con un pizzico di orgoglio.
Lui sorride. “Lo so, Christian. Ed è soprattutto per loro che devi finalmente liberarti di questo peso. Non dimenticherai tutto quello che hai vissuto, perché dimenticare è impossibile, però sarai finalmente in pace con te stesso. Tua moglie, i tuoi figli, noi, i tuoi genitori, tutti ti amiamo e vogliamo che tu sia felice” sull’ultima frase la sua voce trema leggermente, e i suoi occhi circondati dalle rughe dell’età divengono lucidi.
Ed io, non so per quale motivo, ma adesso mi sento davvero più forte. Forse perché il nonno è sempre stato una persona speciale per me, forse perché mi ha sempre amato per quello che ero, senza mai chiedere di più di quanto io fossi disposto a dire o a fare, ma parlare con lui è stato fondamentale. Credo fosse proprio la spinta di cui avevo bisogno.
“Grazie nonno” dico, posandogli una mano sul ginocchio.
Lui mi dà qualche pacca affettuosa sulla spalla, sorridendomi.
“Prima hai detto la verità, hai solo un po’ di bronchite?” domando.
Non che non mi fidi di lui, ma ho sempre una paura fottuta di tutto ciò che non posso tenere sotto controllo, e la salute delle persone che amo è al primo posto.
“Sì, stai tranquillo, non è nulla di grave, solo che le persone anziane ne risentono di più rispetto ai giovani”
“Ma io non vedo persone anziane qui”
Il nonno scoppia in una fragorosa risata ed io mi accodo a lui.
Quando i miei genitori e la nonna Rose fanno ritorno in salone, sorridono nel vederci ridere e scherzare, e soprattutto non mascherano il loro sollievo quando comunico la mia decisione in merito al viaggio a Detroit.
“Christian, prima che tu vada via, vorrei darti qualcosa” dice mia madre, invitandomi a seguirla nello studio che condivide con papà.
Raggiunge la sua scrivania e apre l’ultimo cassetto, alla ricerca di non so cosa. Estrae una busta bianca che dall’aspetto ingiallito sembra un po’ datata. Me la porge e scorgo in alto a destra la data 28/09/1989 e la città di provenienza è Detroit.
“Cos’è?” domando, temendo già la risposta.
Mia madre sospira. “È un semplice biglietto che mi comunicava dove.. dov’è seppellita tua madre biologica.. Io e tuo padre non ci tenevamo a saperlo, ma il giudice che si era occupato dell’affido e poi dell’adozione, per completezza di informazioni ha voluto comunicarcelo..”
È come se un meteorite fosse piombato ad appesantire ulteriormente il carico che porto dentro. Tante volte, sin da adolescente, mi sono chiesto dove fosse la tomba di Ella, ma non l’ho mai chiesto ai miei genitori, e neppure da adulto, con gli infiniti mezzi che ho a disposizione, ho mai voluto scoprirlo. Forse è per lo stesso motivo di cui parlava prima il nonno: volevo illudermi che relegando tutto in un angolo della mia mente, lo avessi superato.
“Perché me lo dai solo adesso? Sono passati ventotto anni..”
Mia madre tiene lo sguardo basso e si torce le mani. “Non lo so. Quando è arrivato questo biglietto, avevi iniziato a parlare solo da qualche giorno, e la nostra priorità era esclusivamente quella di vederti sorridere e stare bene, insieme ai tuoi fratelli. Non sai quante volte quando sei cresciuto avrei voluto dirtelo, ma avevo paura di turbarti, di farti star male più di quanto tu non stessi già.. Poi.. poi sei diventato un uomo e mi sono detta che, se avessi davvero voluto saperlo, lo avresti chiesto o avresti trovato il modo di scoprirlo da solo.. Ma adesso voglio che tu sia libero da qualsiasi scheletro, per cui ho deciso di dartelo. Adesso sta a te scegliere cosa farne..”
Infilo la busta nella tasca della giacca e, sorprendendo lei e in primis me stesso, abbraccio mia madre.
“Grazie mamma” mormoro.
La sento tirare su con il naso, e accarezzarmi i capelli, come quando ero piccolo. “Bambino mio..” farfuglia.
Per una volta voglio concedermi il lusso di essere debole, come dice il nonno, e, come i bambini, illudermi che con un abbraccio si possano sconfiggere i mostri.
Durante il tragitto verso l’Università, non ricevo alcun messaggio da Anastasia, e ciò mi fa dedurre che non abbia ancora terminato la lezione. Poiché non ho nessuna voglia di aspettarla qui in auto, scendo e mi dirigo verso l’ingresso; nell’atrio principale, mi avvicino ad una bacheca sperando di trovarvi qualche indicazione sulle aule assegnate alle varie lezioni.
“Mr Grey?” una voce maschile alle mie spalle mi fa sussultare.
Mi volto e incrocio Paul, con un bicchiere tra le mani pieno di un intruglio che dovrebbe essere caffè. Ma non lavora mai quest’uomo? È sempre in giro a cazzeggiare o a mangiare con gli occhi mia moglie.
“Salve, Mr Hayes” gli stringo la mano che mi porge.
“Ha bisogno di qualcosa?”
“Volevo sapere quale fosse l’aula dove si tiene la lezione di mia moglie” sottolineo volutamente le ultime due parole.
“È l’aula C, in fondo al corridoio sulla sinistra”
“Oh, la ringrazio”
“La lezione dovrebbe essere ancora in corso. Se vuole la avverto..” si propone.
Dio, quanto mi irrita. Sarà pure un bravo insegnante, un bravo ragazzo, ma io non lo sopporto! Vuole fare l’ambasciatore di mia moglie?
“No, grazie, mi annuncio da solo”
Detto questo, mi avvio verso il corridoio delle aule e raggiungo l’ultima porta. Busso e attendo un vivace “Avanti!” prima di aprirla e infilare la testa all’interno.
Anastasia, seduta dietro la cattedra, sgrana gli occhi non appena mi vede.
“Mi scusi, professoressa, volevo chiederle quali sono i suoi tempi per finire la lezione”
Lei trattiene una risata e dà un’occhiata all’orologio che ha sul polso. “Tra un quarto d’ora abbiamo finito” afferma.
“Perfetto” commento, entrando in aula e chiudendomi la porta alle spalle.
Mia moglie mi fissa con uno sguardo di stupore e rimprovero, mentre salgo le scale e raggiungo l’ultima fila di sedie, sotto gli occhi perplessi dei ragazzi.
“Credo che lei sia un po’ troppo in là con gli anni per frequentare l’Università, Mr Grey”
Sulle ultime due parole si eleva nell’aria un brusio generale e tutti gli occhi sono puntati su di me. Riesco a captare qualche “Grey?”, “Christian Grey della Grey Enterprises Holdings?”, “Ma è il marito di Anastasia!”.
“Sa com’è, sono così innamorato della professoressa che per seguire ogni anno le sue lezioni sono finito fuori corso” ironizzo, scatenando un coro di risate.
Anche Anastasia, nonostante ci stia provando con tutta se stessa, non riesce a trattenere un sorriso divertito.
“Ragazzi!!” esclama, richiamando l’attenzione su di sé “Dopo questa interruzione, direi di riprendere la lezione, perché abbiamo già sforato di dieci minuti le due ore previste”
Riprende a spiegare ed io mi incanto letteralmente a guardarla. È meravigliosa: bella, spigliata, preparata, sicura di sé. Resterei ore ad ascoltarla, a guardarla mentre si passa distrattamente una mano tra i capelli o si accarezza amorevolmente il pancione. Sarebbe in grado di far appassionare le persone anche ad una lezione di cucito.
Sono così fiero di lei.
Gli studenti la fissano quasi ammaliati, prendendo appunti, facendo domande e ascoltandola assorti. La lezione è andata oltre l’orario standard, eppure nessuno di loro accenna a lamentarsi, come se il tempo che passa fosse ininfluente, e questo è solo merito di Ana, che sa catturare la loro attenzione, farli appassionare al corso senza rendere le lezioni pesanti.
È così sexy in veste di insegnante, che non riesco a fare a meno di immaginarla su quella cattedra con gli occhiali, i tacchi a spillo e addosso solo l’intimo e nient’altro.
Cazzo, devo darmi un contegno, alla mia età non posso finire ad eccitarmi in pubblico come un adolescente.
Per fortuna, quando mia moglie annuncia la fine della lezione, sono riuscito a mettere a cuccia il mio inquilino dei piani bassi, e aspetto che i ragazzi escano dall’aula prima di raggiungerla. Qualcuno si ferma a chiederle qualche delucidazione riguardo alle lezioni precedenti, ed io adoro il modo in cui lei si mostra disponibile, preparata ed esaustiva nelle sue risposte.
Una volta che l’aula è vuota, mi alzo e scendo i gradini che mi separano dalla mia donna, che sta rimettendo a posto il computer e i suoi appunti.
“Sai che sei davvero eccezionale?” dico, appoggiandomi con i palmi dalla parte opposta della cattedra rispetto a lei.
Mia moglie sorride. “Ah sì?”
Annuisco, allungandomi a baciarla.
“Tu invece sei un pessimo studente”
“Ma come? Se non ho fatto altro che pendere dalle tue labbra!” mi siedo sulla cattedra e lei si posiziona davanti a me “Anzi, devo ammettere che come prof sei più sexy di quanto immaginassi”
Mi circonda il collo con le braccia ed io la bacio con passione, beandomi del suo sapore e della sensazione del suo corpo tra le mie mani.
È lei ad interrompere il bacio, per chiedermi aggiornamenti sulla visita ai miei genitori.
“C’erano anche i nonni a casa dei miei, e.. ho parlato a lungo con il nonno Theo..”
“Lui ti ha aiutato a vedere la situazione in maniera più chiara??”
Annuisco. “Ho deciso di partire”
Il suo sguardo si illumina. “Davvero??”
“Sì. Voglio chiudere i conti con il mio passato e non avere più nessun peso addosso”
Ana sorride e mi bacia di nuovo. “Hai preso la decisione migliore. Quando partiamo?”
La fisso, perplesso. “Partiamo??”
“Certo. Non penserai mica di andare da solo?”
“Io non vorrei che ti stancassi. Sono oltre 4 ore di volo, più 3 di fuso orario. È un casino..”
Lei scuote la testa e mi zittisce posandomi un dito sulle labbra. “Non mi interessa. Io voglio essere con te. E non accetto pareri contrari”
Io sospiro e cerco di dire qualcosa, ma, non appena apro bocca, Anastasia afferra la mia mano e la porta sulla sua pancia.
“La senti? Anche lei è d’accordo con me”
Mi concentro e avverto i calci forti e chiari della mia principessa. Dio, tra due mesi sarà qui con noi ed io non riesco ancora a crederci.
Rido e avvicino la bocca al pancione di mia moglie.
“Ho già capito che sei una testarda come tua madre e tua sorella. Povero me”
Ana ridacchia. “Non dire così, ci sono uomini che pagherebbero oro per vivere con tre donne!”
Rido ancora e la bacio. Su questo non c’è alcun dubbio: sono un uomo molto molto fortunato.


Tre giorni dopo...

Mi siedo sul bordo del letto della camera padronale del jet privato della GEH e osservo Anastasia dormire. Siamo partiti da due ore e dopo pochi minuti dal decollo lei era già crollata, come una bambina. In questo periodo si sveglia spesso di notte o per i calci di Allie o per il bisogno continuo di fare la pipì, per cui durante il giorno è più stanca, ed io vorrei farla riposare il più possibile.
Amo soffermarmi a guardarla: le ciglia che tremolano impercettibilmente, il respiro leggero, il seno che si alza e si abbassa. Trasmette una meravigliosa sensazione di pace e tranquillità, esattamente ciò di cui ho bisogno in questo momento.
Pochi minuti dopo, Ana inizia a stiracchiarsi e poi apre gli occhi, sorridendo non appena mette a fuoco la mia figura.
“Hey” mormora, allungando la mano verso la mia e intrecciando le nostre dita “Quanto ho dormito?”
“Un paio d’ore, e ne abbiamo ancora due prima di arrivare” la informo.
Le scosto una ciocca di capelli dietro all’orecchio. “Dormi ancora un po’”
“Non ho più sonno” si mette semiseduta, poggiando la schiena alla testiera in pelle del letto.
“Vuoi mangiare qualcosa??”
Scuote la testa. “No, voglio che tu venga qui” allarga le braccia ed io non aspetto un istante in più per accogliere il suo invito. Appoggio la testa sul suo seno, una mano sulla sua pancia, e mi lascio coccolare. Per gran parte delle due ore di viaggio che ci restano, rimaniamo così, stretti l’uno nell’altro, in silenzio o a parlare di futilità. Man mano che si avvicina il momento dell’atterraggio, sento lo stomaco serrarsi sempre di più, e Anastasia lo sa. Senza che io le dica nulla, sa che in questo momento non ho bisogno di altro che di sentirla accanto a me, perché lei è il mio porto sicuro e se c’è lei io so di poter affrontare tutto.
Sono le 20, ora locale, quando atterriamo nell’aeroporto di Detroit. Per poter essere più rilassati, ho preferito partire oggi che è domenica; domattina ci sarà la cerimonia di inaugurazione all’Henry Ford Hospital, e nel tardo pomeriggio potremo far ritorno a Seattle.
Non appena metto piede sul suolo di Detroit, vorrei già fare dietro-front e tornare a casa. Sento di essere fuori posto, persino l’aria mi sembra più pesante. Mentre Sawyer scarica il nostro unico, piccolo bagaglio, mi guardo intorno e sento Ana stringermi forte la mano. Mi volto per guardarla, lei mi sorride e in quel sorriso c’è tutto: il suo amore, il suo orgoglio, il suo appoggio. Ed io mi sento un po’ più forte.
Giunti in albergo, facciamo il check-in, saliamo in camera e ci diamo una rinfrescata prima di scendere a cena. Mentre siamo a tavola, Ana telefona ai miei genitori, che hanno insistito per occuparsi dei bambini, perché i miei nonni ci tenevano molto a trascorrere un po’ di tempo con loro. Sentire le voci dei miei figli mi mette di buonumore, e questa città, almeno questa sera, mi sembra un po’ meno grigia.


Il giorno seguente...

L’orologio segna le 6:30. Vorrei rimettermi a dormire ma proprio non ci riesco. Ho bisogno di uscire, di respirare, di muovermi.
Lentamente mi alzo, apro la valigia e pesco la tuta che porto sempre con me quando viaggio; la indosso, insieme alle scarpe da ginnastica, e do un leggero bacio sulla fronte di Anastasia, che dorme come un angioletto.
Le lascio un biglietto, nel caso in cui dovesse svegliarsi prima del mio ritorno. Afferro il cellulare, qualche banconota e la copia della chiave della nostra stanza, dopodiché esco. L’aria è fredda e l’umidità penetra fin dentro le ossa. Prendo un profondo respiro e inizio a correre ad un ritmo sostenuto, seguendo un tragitto improvvisato e sperando di riuscire a ripeterlo in senso inverso per tornare.
Ho bisogno di liberare la mente, di correre fino al punto in cui il dolore ai muscoli superi il rumore dei pensieri. Il cielo questa mattina è coperto da nuvole grigie, in perfetta sintonia con il mio umore. Mi sento teso come se dovessi affrontare chissà quale ostacolo, ho lo stomaco sottosopra e il cuore pesante. Il quartiere dov’è situato il nostro albergo è carino, moderno, ricco di attrazioni; ma non posso fare a meno di pensare che da qualche altra parte, nei tanti quartieri degradati di questa città, ci sono bambini che non vanno a scuola, bambini che vivono immersi in un mondo fatto di crimine, furti e spaccio, che per loro rappresenta la normalità. Forse, da qualche parte, in silenzio, ci sono bambini che stanno vivendo ciò che ho vissuto io tanti anni fa, feriti nel corpo ma soprattutto nell’anima, un’anima che dovrebbe conoscere solo la purezza e l’innocenza.
In tutti questi anni non ho mai dimenticato lo schifo che ho visto in questa città, ma vivere a migliaia di chilometri da qui, non respirare ogni giorno quest’aria pesante, era come se mi aiutasse ad essere più distaccato, a soffrirne di meno. Ciò che più mi spaventava all’idea di venire qui era proprio questo: ritrovarmi di nuovo faccia a faccia con la parte nera di questa città, quella che spesso prevarica sulla parte buona, sulla gente per bene che fatica ogni giorno per costruirsi un futuro migliore.
Ad un tratto mi fermo nei pressi di un’area giochi con le panchine, le giostre e l’erbetta sintetica. Mi siedo su una panchina, prendo un lungo respiro e mi guardo intorno: la città si sta pian piano svegliando, si sente lo stridore delle auto sulle strade, il rumore delle saracinesche che vengono alzate, gli autobus che iniziano a circolare.
All’angolo della strada, un ragazzo sta allestendo un banchetto di fiori, a colpirmi più di tutti sono le rose rosse. Senza pensarci due volte, mi alzo dalla panchina e mi avvicino. Il profumo dei fiori mi investe in pieno, mentre chiedo al giovane di confezionarmi un fascio di rose rosse. Lo osservo affascinato mentre le avvolge in un velo color argento e le ferma con un nastro rosso.
“Sono 40 dollari, signore”
Infilo la mano nella tasca posteriore della tuta ed estraggo una banconota da 100.
La porgo al ragazzo. “Tieni pure il resto”
Lui mi fissa con gli occhi sgranati e si rigira la banconota tra le mani, accertandosi che non sia falsa.
“Buona giornata!” esclamo, sorridendogli.
“Grazie mille signore! Buona giornata a lei”
Ripercorro il tragitto verso l’hotel non di corsa ma a passo svelto. Quando rientro sono ormai le 8, non ho ricevuto alcun messaggio, quindi suppongo che Ana stia ancora dormendo.
Apro la porta della nostra suite cercando di fare meno rumore possibile, appoggio il fascio di rose sul tavolo del piccolo salotto, e poi mi dirigo in camera da letto. Anastasia è sveglia, accoccolata al mio cuscino, e mi accoglie con il suo meraviglioso sorriso.
“Buongiorno”
“Buongiorno” rispondo, sfilandomi le scarpe “Sei sveglia da molto?”
“Una decina di minuti. Tu dove sei andato?”
Salgo carponi sul letto e mi avvicino a lei. “A fare una corsa, avevo bisogno di stare un po’.. da solo con i miei pensieri..” la bacio sulle labbra.
“Hai dormito pochissimo questa notte, vero?”
Annuisco. “Beh, vorrei precisare che se sono andato a dormire tardi è stato per colpa tua, non solo dei miei pensieri”
Mia moglie ridacchia, e mi circonda il collo con le braccia. “Sì, lo ammetto, è stata colpa mia. E, a questo proposito, ti ho mai detto quanto sei sexy in tuta, sudaticcio e spettinato?”
Dio, quando fa quella voce provocante e sensuale riesce a farmi andare in pappa il cervello nel giro di pochi secondi.
“Ah sì? Allora direi che mi serve una doccia..” intrufolo le mani al di sotto della sua maglietta del pigiama, stuzzicando i suoi seni.
“Ottima idea, Mr Grey. Davvero ottima..”
Mi alzo dal letto, la prendo in braccio e la conduco in bagno. Voglio avere il mio buongiorno preferito in una giornata che si preannuncia alquanto difficile.


“Amore, grazie per le rose, sono bellissime” dice Anastasia, mentre tenta di chiudere il moschettone della collana.
La raggiungo alle spalle, la aiuto con la collana e poi le lascio un bacio sul collo.
“Sei tu ad essere bellissima” mormoro, abbracciandola da dietro e guardandola attraverso lo specchio.
“Sì, come no.. guarda qua” mi indica il vestitino che indossa all’altezza della pancia “Due taglie più della mia, e mi entra appena..”
Sbuffo, alzando gli occhi al cielo, e mi chino davanti a lei, baciandole la pancia. “Amore di papà, come devo fare con questa testarda di tua madre? Perché non riesce a capire che è sempre bellissima, e che tu hai bisogno di crescere?”
Anastasia ride e mi accarezza i capelli.
Dopo aver riservato la giusta razione di coccole alla mia principessina, telefoniamo a casa per chiedere dei nostri figli, che sono molto più interessati ai racconti del bisnonno e alle torte della bisnonna per degnarci di un saluto e si limitano ad un “Ciao!” corale. Per oggi abbiamo dato loro il permesso di non andare a scuola: i miei nonni ci tenevano molto a stare un po’ con loro, e anche Teddy e Phoebe erano contenti di vederli.
Una volta pronti, scendiamo al ristorante a fare colazione. Per l’inaugurazione del reparto ho indossato uno dei miei completi classici, blu scuro con la camicia bianca; Ana, invece, ha scelto un abitino in stile impero grigio perla, con un paio di stivali neri alti fino al ginocchio, è sempre bellissima nella sua semplicità.
A tavola riconosco di non essere molto loquace e non riesco a mandare giù quasi nulla; sento la gola secca e una morsa allo stomaco divenire sempre più stretta man mano che si avvicina l’ora dell’appuntamento.
Ho paura di affrontare i ricordi legati a quell’ospedale, a quella maledetta notte in cui ci sono entrato per la prima volta. Ho paura di rivivere quegli interminabili momenti in cui mi sono sentito solo, impaurito, indifeso, completamente chiuso in me stesso. Non so se riuscirò a reggere la pressione dei giornalisti e di tutti quelli che verranno a congratularsi con me. Non mi piace ritrovarmi al centro dell’attenzione, soprattutto in un contesto di beneficenza; certo, due volte l’anno partecipo ai balli che i miei genitori organizzano per “Affrontiamolo insieme”, ma quella circostanza è un po’ diversa, si tratta di un’asta per un’associazione messa su dai miei genitori, è il minimo che io offra una donazione.
Anastasia mi stringe forte la mano durante tutto il tragitto in macchina fino all’Henry Ford Hospital. Sono da poco passate le 10:30 quando Taylor imbocca il viale d’accesso principale, quello adiacente al pronto soccorso.
Scendiamo davanti al padiglione B, al cui terzo piano si trova il nuovo reparto di pediatria. Superata la porta a vetri del piano terra, mi guardo intorno e mi sembra che il tempo non sia mai trascorso, come se tutto fosse rimasto cristallizzato a trent’anni fa. In un attimo ritorno con la mente al giorno in cui mi ritrovarono accanto al corpo senza vita di mia madre. Rivedo un bambino piccolo, denutrito, sporco e affamato, lo vedo stringere a sé la sua copertina come fosse uno scudo contro tutto e contro tutti. Un bambino che non ha mai conosciuto supereroi e mondi di fantasia, ma che ha dovuto sempre fare a botte con la dura realtà di un mondo che non fa sconti a nessuno.
Senza neanche rendermene conto, inizio a tremare, a sudare freddo, e ho il respiro corto.
“Christian, hei” mi chiama Ana, allarmata “Cosa succede?”
“Voglio andare via” dico, allentando leggermente il nodo della cravatta.
“Aspetta, vieni qui” mi conduce ad un divanetto e mi fa sedere.
Si siede accanto a me e tiene le mie mani nelle sue. “Amore, stai calmo”
“Ti prego andiamo via” la supplico.
Credo di essere nel bel mezzo di un attacco di panico, ma non voglio spaventarla.
“Amore, respira profondamente” mi dice con dolcezza.
Mi accarezza il viso mentre il mio respiro torna pian piano alla normalità.
“Così, bravo. Va tutto bene, amore. Va tutto bene” continua a ripetermi, infondendomi calma e sicurezza.
Dopo qualche minuto mi sento decisamente meglio: quella tenaglia che sembravo avere intorno al collo si è allentata, e non sto più sudando. Ma resta forte l’istinto di scappare via il più lontano possibile.
“Christian, ascoltami” dice Ana, stringendomi le mani “Se vuoi possiamo andare via, inventiamo una scusa con il primario e andiamo via. Ma dopo cosa ti resta? Ti sentirai meglio?”
Scuoto leggermente la testa.
“Lo so che è difficile, ma so anche che tu sei forte e puoi affrontare tutto questo. Ci sono io con te”
Ci sono io con te. Cinque parole che sono in grado di farmi sentire l’uomo più forte e invincibile di questo mondo.
Accenno un sorriso e la attiro a me, le prendo il viso tra le mani e la guardo negli occhi. “Ti amo da morire” la bacio e poi mi alzo, prendendola per mano.
Ci dirigiamo all’ascensore che ci accompagna fino al terzo piano. Ad attenderci troviamo il primario del reparto e il dirigente infermieristico, che ci accolgono con immenso calore e gratitudine e ci presentano alcuni membri del team medico e infermieristico che si occuperanno dei piccoli pazienti.
“Le porte del reparto sono ancora chiuse, tra poco celebreremo la cerimonia di inaugurazione” spiega il primario “Ma ci terrei a mostrarvelo prima di aprirlo ufficialmente”
“Ci piacerebbe molto” risponde Anastasia per entrambi.
Il reparto è davvero bellissimo: conta tre stanze triple, quattro doppie e tre singole, per un totale di venti posti letto; due medicherie, una cucina per le mamme, una stanza relax per gli infermieri e una per i medici, una per il primario, una stanza lavanderia, un deposito e una sala giochi molto grande. Le pareti, le porte, e la sala giochi sono allegri e colorati e tutto è a misura di bambino.
“Per ora ci occupiamo principalmente di tre aree: pediatria generale, gastroenterologia e pneumologia, ma la Direzione sanitaria ci ha comunicato che presto si sbloccheranno dei fondi importanti e il nostro obiettivo è rimettere a nuovo anche il piano superiore, che per ora è chiuso, e integrare chirurgia pediatrica e oncologia”
Sento un tuffo al cuore nell’ascoltare alcuni termini associati ai bambini, ma sono felice che ci siano tanti strepitosi medici e infermieri che lavorano sodo ogni giorno per aiutare e curare loro e le loro famiglie.
Poco dopo le 11 diamo il via alla vera e propria cerimonia di inaugurazione, sciogliendo il fiocco simbolicamente apposto alla porta d’entrata del reparto. A questo punto tutti i presenti possono entrare e partecipare al rinfresco allestito nell’ampia sala giochi. In breve tempo vengo circondato da medici e giornalisti, e cerco di rispondere alle loro domande nel modo più cortese possibile, anche se dentro di me c’è una voce che mi urla di scappare via.
Nel caos generale ho perso di vista Anastasia, e la ritrovo seduta su una minuscola sediolina di plastica rossa, con sulle gambe un bimbo che avrà al massimo tre o quattro anni. Lei gli dice qualcosa, lui ride e poi la abbraccia. Sorrido, intenerito davanti alla sua infinita dolcezza e alla sua capacità di farsi amare da tutti.
“Devo essere geloso?” chiedo, avvicinandomi.
Mia moglie si volta verso di me e ride. “Forse sì. Sai che anche lui si chiama Christian?”
“Davvero? Anche io mi chiamo Christian. Piacere!” porgo la mano al bimbo, che un po’ impacciato, ma divertito, la stringe, dopodiché scende dalle gambe di Ana e raggiunge quello che suppongo sia il suo papà.
“Come va?” domanda Ana, guardandomi negli occhi.
Sospiro. “Eh.. diciamo che i giornalisti...” mi blocco, sentendomi tirare per la giacca.
Abbasso lo sguardo e incontro due bellissimi occhi azzurri, su un viso roseo incorniciato da due deliziose trecce bionde. Mi chino davanti alla bambina che mi sorride.
“La mia mamma dice che è grazie a te se adesso non dovremo più viaggiare due ore tutte le settimane per fare i controlli. Quindi.. grazie..” mi dà un bacio sulla guancia e poi corre via.
Io resto lì, chino, pietrificato e con il cuore che sembra sciogliersi nel petto. Sposto lo sguardo su Anastasia, che ha gli occhi lucidi e mi sorride.
Sorrido anche io, e quella voce dentro di me improvvisamente tace.

“Mr Grey, a lei l’onore” dice il primario, porgendomi una bottiglia di champagne.
Sono state due ore di domande e risposte, di abbracci, ringraziamenti e qualche lacrima di commozione. Non nego di essermi sentito a disagio inizialmente, ma pian piano, grazie anche all’allegria dei bambini, mi sono sentito meglio. Aveva ragione Ana: venire qui e guardare negli occhi tanti genitori come noi è stato davvero importante. Non voglio essere ringraziato o idolatrato, ma lo sguardo colmo di speranza di tutte queste persone è la cosa più preziosa che potessi ricevere oggi.
Afferro la bottiglia e, dopo lo stappo accompagnato da uno scrosciante applauso, si eleva un coro che mi invita a fare un discorso. Lo eviterei volentieri, considerando quanto abbia già blaterato con i vari giornalisti, ma non posso sottrarmi e quindi cerco di mettere in fila qualche frase decente senza farmi prendere dall’emozione del momento.
“Prima di dire qualsiasi cosa, ci tengo a ringraziare il primario, dottor Vardin, e la caposala, dottoressa Carrie, per la splendida accoglienza che hanno riservato a me e mia moglie, e voglio fare i complimenti agli architetti e ai progettisti per aver strutturato un reparto davvero straordinario. Questa mattina ho avuto modo di parlare molto e ascoltare molto, e la parola che mi è stata rivolta più spesso è stata “Grazie”. Io ho accolto con immenso piacere tutti i vostri ringraziamenti, ma non credo di aver fatto qualcosa per cui debba essere ringraziato. I veri ringraziamenti vanno a tutti loro..” indico il personale medico e infermieristico di fronte a me “..sono loro, medici e infermieri, che ogni giorno in questi edifici si prendono cura di tutti i pazienti, e da oggi in poi si prenderanno cura dei vostri bambini. Sono loro che sapranno farli guarire e stargli accanto durante tutto il loro percorso, breve o lungo che sia. Io ho solo fatto in modo che potessero svolgere il loro lavoro, perché ciascuno di questi bambini potrebbe essere mio figlio. Anche io sono un papà, ho due bambini e un terzo in arrivo, e tutto ciò che ho fatto, l’ho fatto immaginando di essere al vostro posto. Oggi sono io a dirvi grazie, perché incontrare i medici, gli infermieri, voi genitori e i vostri figli, è stata per me una grande lezione di vita. Voglio fare un in bocca al lupo a tutto il personale medico e infermieristico, e soprattutto a tutti i piccoli pazienti che animeranno le stanze di questo reparto, che possano uscirne non solo più forti in salute, ma anche più forti nell’animo, come sarò io quando oggi andrò via da qui” sollevo il mio bicchiere “Grazie, grazie, grazie”
In sala scoppia un lungo e rumoroso applauso. Poso gli occhi su mia moglie, che ha gli occhi colmi di lacrime e mi lancia un silenzioso bacio. Mi sorride e poi si avvicina a me, abbracciandomi forte.
“Sei stato fantastico” mormora “Sono così fiera di te”
Prima di andare via, dopo la foto di rito con il primario, la caposala e alcuni medici, i bambini mi chiedono di fare una foto con loro. Mi accomodo volentieri su una delle sedioline della sala giochi con tutti loro intorno a me.
“Aspetta!” esclama una bambina, facendomi indossare una parrucca gialla e un naso rosso da clown.
Sento da lontano la risata allegra di mia moglie. Non oso immaginare in che condizioni sia, ma proprio non me la sento di deludere questi bambini.
“Prendi anche questo!” un altro bambino mi porge uno scudo di plastica “Come i veri supereroi”
Sorrido e mi metto in posa, con il piccolo Christian sulle gambe e gli altri bambini che mi circondano. E per la prima volta da una settimana, l’idea di essere partito per Detroit mi sembra la cosa più giusta che potessi fare.
 
“Guarda cosa mi ha regalato Christian” dice Ana, mentre attendiamo la nostra ordinazione per il pranzo, in un ristorantino a conduzione familiare poco distante dall’ospedale.
Estrae dalla borsa un foglio e me lo mostra: con l’adorabile tratto scomposto e impreciso tipico dei bambini, vi è disegnata una casetta con accanto due alberi e sull’angolo sinistro un grande sole giallo.
Sorrido. “Lo hai proprio conquistato!”
Lei ridacchia. “Beh, anche tu hai conquistato tutti loro” osserva, riponendo il foglio ripiegato nella borsa.
Sollevo le spalle. “Non ho fatto nulla di speciale”
Ana scuote leggermente la testa e mi prende la mano. “Invece sì. E i bambini più di tutti avvertono quando qualcuno è speciale. Ai loro occhi sei stato un supereroe, come lo sei per i tuoi figli. E so che te l’ho già detto, ma sono davvero fiera di te”
Lei non può immaginare quanto le sue parole mi diano forza, carica e grinta.
Ed è proprio grazie a questa nuova carica che, al termine del nostro pranzo, mi sento pronto a fare un altro passo, un passo sul quale sto rimuginando da quando siamo partiti.
“Sei stanca?” domando a mia moglie, una volta saliti in auto.
“Per niente, perché?”
“Verresti con me in un posto?”
Mi stringe la mano. “Certo”
Comunico l’indirizzo a Taylor e dopo circa venti minuti giungiamo in quello che, trent’anni fa, era uno dei quartieri più malfamati di Detroit. Oggi ha un aspetto più sano, moderno, più vivibile.
“Dove siamo?” chiede Ana, guardandosi intorno.
“Questo è.. il quartiere dove sono nato e cresciuto per i primi quattro anni della mia vita”
Mia moglie mi rivolge uno sguardo comprensivo e si stringe a me, mentre ci incamminiamo per le stradine del quartiere. Tutto è cambiato, eppure alcuni luoghi, alcuni spazi, mi sono familiari.
Ad un tratto mi blocco davanti ad una palazzina a due piani. Il numero civico, un tempo scrostato e ripassato alla buona con la vernice, adesso è apposto su una targhetta di marmo; i vetri del cancello sono puliti e colorati, e la pittura alle pareti è di un caldo color salmone. Mi sembra di scorgere, dalla finestra del piano terra, Ella che ballava al centro della cucina, in uno dei rarissimi giorni in cui non era strafatta, ma era se stessa, con i capelli neri che svolazzavano e il vestito che ondeggiava ad ogni suo movimento.
Chiudo gli occhi, come se volessi imprimermi nella mente quei brevi istanti di normalità.
Sento le mani di Anastasia sfiorarmi la schiena e d’istinto la stringo forte a me. Ho bisogno del suo calore, della sua vicinanza, del suo amore.
“Credevo che sarebbe stato peggio..” sussurro ad un tratto.
Ana sorride e mi posa una mano sulla guancia. “Vuol dire che tutto questo non ti fa più paura, che lo stai pian piano superando..”
Appoggio la fronte sulla sua e respiro profondamente, cercando di placare il tumulto che avverto dentro.
“Credo.. credo ci sia un’ultima cosa che dovresti fare, per poter dire di aver davvero affrontato il tuo passato..”
Sospiro. So perfettamente a cosa si riferisce. Prima di partire le ho raccontato del biglietto che mi ha consegnato mia madre, e lei ritiene che debba andare sulla tomba della mia madre biologica, per poter chiudere definitivamente questo capitolo.
“Ana.. a cosa servirebbe?”
“Lo sai benissimo a cosa servirebbe. E sai anche che è la cosa giusta da fare”
Purtroppo devo darle ragione: anche se una parte di me eviterebbe volentieri quest’ultimo strazio, un’altra parte sa che è l’atto finale per poter chiudere finalmente i conti in sospeso con il mio passato e questo posto.
Mentre percorriamo in auto il tratto di strada che porta al cimitero, inizia a piovere. Era prevedibile, considerando i nuvoloni che campeggiavano in cielo sin da questa mattina.
Taylor viene ad aprirci la portiera con un ombrello aperto, mi assicuro che Ana sia ben riparata e insieme ci avviamo verso il cancello principale del cimitero. All’esterno c’è un gabbiotto dove si vendono fiori, e non so cosa mi spinga ad avvicinarmi, ma sta di fatto che, senza pensarci troppo, scelgo un piccolo fascio di orchidee e lo acquisto. Mi volto verso mia moglie, che mi sorride e mi stringe forte il braccio mentre varchiamo il cancello.
La pioggia inizia a farsi sempre più intensa e in lontananza si sentono anche dei tuoni.
“Forse è meglio se torniamo indietro” azzardo.
Mi sento così fuori posto qui, come se fossi nel corpo di qualcun altro.
“Non ci pensare neppure” mi ammonisce Anastasia, poi mi prende il viso tra le mani “Amore, devi dirle addio per l’ultima volta. Ne hai bisogno” mormora, con la voce carica di dolcezza e comprensione.
Riprendiamo a camminare per raggiungere il settore 12-C, quello indicato nel biglietto datomi da Grace, e ad ogni passo sento il cuore farsi più pesante e i visceri stringersi sempre di più. Nella mia vita mi è capitato poche volte di camminare in un cimitero, per i miei nonni paterni e qualche vecchio zio, eppure ogni volta provo delle sensazioni contrastanti: da un lato un senso di pace, dall’altro profonda inquietudine. I cipressi, l’odore forte dei fiori, il silenzio, il bianco e grigio delle lapidi, formano un paesaggio triste e calmo allo stesso tempo.
Quando arriviamo al settore 12-C, riconosco immediatamente la tomba di mia madre: è l’unica senza fiori. La pioggia scorre incessantemente sulla lapide, ripulendola dalla polvere e rendendo più chiara l’epigrafe.

ELLA MITCHELL     (*)
1962 – 1987

(*) [Il cognome è inventato, perché non ricordo se nel libro sia mai stato citato, ndA]
“Vuoi restare un po’ da solo?” domanda ad un tratto Anastasia, rompendo il silenzio “Io raggiungo Taylor all’entrata”
Al solo pensiero di rimanere da solo mi manca l’aria, e solo lei può essere il mio ossigeno.
“No, ti prego” sussurro “Resta”
Ana mi sorride e si stringe al mio fianco, appoggiando la testa sulla mia spalla.
Rimango fermo a fissare la lapide per diversi minuti.
1962. Oggi avrebbe 55 anni, eppure io non riesco ad immaginarla a quell’età; nella mia mente è ferma a venticinque anni, l’età in cui è morta. Riesco a ricordare i suoi occhi, i suoi capelli scuri. Ricordo che quando era sobria splendeva di una bellezza fresca, semplice, naturale, ed io, nella mia innocenza di bambino, speravo che rimanesse così per sempre, che non diventasse più cattiva e che non vedesse più uomini cattivi. Ma bastavano pochi giorni, spesso poche ore, e le mie speranze venivano distrutte, e con loro i miei scampoli di spensieratezza.
Voglio illudermi che sia la pioggia ad appannarmi la vista, ma devo arrendermi all’evidenza che si tratta delle mie lacrime. Chiudo gli occhi e le sento inumidirmi le guance. Ana probabilmente se n’è accorta, ma non dice nulla, semplicemente mi avvolge il busto con un braccio, mentre con l’altro regge l’ombrello, e appoggia la fronte contro il mio collo. Sento il suo profumo invadermi le narici e la curva del suo pancione premere contro il mio fianco.
Sembra incredibile, ma sono lei e nostra figlia, insieme al pensiero di Teddy e Phoebe, a darmi la forza di chinarmi, appoggiare i fiori sulla tomba e sfiorare la lapide con i polpastrelli.
È il mio modo di dirle addio.
La pioggia mi bagna la schiena, ma non mi interessa poi molto. Anzi, faccio in modo che le gocce mi cadano anche sul viso e si mescolino alle mie lacrime, portando con sé tutto il dolore che ho accumulato in questi lunghi trentaquattro anni.
Il nonno Theo aveva ragione: non potrò mai dimenticare tutta la merda che ho vissuto qui, ma adesso mi sento più leggero, più libero, finalmente in pace con me stesso e con i fantasmi del mio passato.


Il cellulare squilla dal tavolo del salotto, esco dal bagno in accappatoio e corro a rispondere.
“Sì, Taylor?”
“Mr Grey, ho appena parlato con i piloti del jet, mi hanno detto che per almeno un paio d’ore è impossibile ripartire a causa del maltempo”
Sbuffo, questa proprio non ci voleva. Voglio tornare a casa, non mi va di perdere ancora del tempo qui. Sono le sei del pomeriggio e, tenendo conto delle tre ore di fuso orario, contavo di essere a Seattle in serata.
“Bisogna aspettare domattina, quindi?”
“Se le previsioni meteo lo consentissero, potremmo partire anche durante la notte, ma l’ideale sarebbe attendere almeno l’alba”
“Va bene, allora ci aggiorniamo tra qualche ora”
“Va bene, Mr Grey, a dopo”
Attacco, con un altro sbuffo, e mi avvicino alla finestra. La pioggia non accenna a diminuire e si sono anche abbassate le temperature.
“Chi era al telefono?”
Ana sopraggiunge in salone, con addosso solo un telo di spugna e le ciabatte; appena rientrati siamo corsi a fare una doccia e a togliere i vestiti zuppi di pioggia.
“Taylor. I piloti del jet dicono che non possiamo partire per le prossime ore a causa del maltempo. Quindi o ripartiamo durante la notte, o direttamente domattina”
“Mm.. capisco. Beh, se ti può consolare, ho sentito tua madre poco fa e i nostri figli non si stanno di certo struggendo per la nostra mancanza..”
Ridacchio, almeno so che loro si stanno divertendo.
Mia moglie viene verso di me e mi posa le mani sul petto. “Come stai?” chiede, guardandomi negli occhi.
“Un po’ scombussolato da tutti gli eventi della giornata. Devo pian piano metabolizzare tutto..”
Il fatto di sentirmi più libero e in pace con me stesso non vuol dire che tutto ciò che ho vissuto oggi non mi abbia colpito nel profondo. Ma, anche se mi costa, devo ammettere che se avessi fatto vincere la mia testardaggine e il mio orgoglio e non fossi partito, mi sarei sentito peggio.
Anastasia mi rivolge un sorriso dolce e poi mi allaccia le braccia intorno al collo e si solleva sulle punte per baciarmi. Non finge nemmeno di voler essere calma o dolce, da subito il suo bacio è profondo, passionale, rovente. Le cingo i fianchi con le mani, e la conduco in camera da letto, senza mai lasciare le sue labbra. Le sue mani lasciano il mio collo per slacciarmi la cintura dell’accappatoio e poi sfiorare il mio membro già meravigliosamente pronto per lei.
Cerco di farla stendere, ma lei mi precede e mi fa cadere di schiena sul letto. Il cuore batte forsennatamente e le mie parti basse pulsano dal dolore. La voglio, la voglio da impazzire, ogni volta come fosse la prima.
Ana mi squadra da capo a piedi, non nascondendo un versetto di apprezzamento, dopodiché scioglie il nodo del suo telo e lo fa cadere ai suoi piedi, mostrandosi ai miei occhi in tutta la sua bellezza. È l’immagine della sensualità, dell’eleganza, della pienezza.
Mi guarda con gli occhi colmi di fuoco, di lussuria, di quella tacita promessa di farmi impazzire. Oggi vuole tenere le redini, ed io glielo lascio fare, perché è esattamente ciò di cui ho bisogno; voglio che si prenda cura di me, voglio celebrare l’amore, la passione, la vita, a dispetto del dolore che ho dovuto tirare fuori oggi.
Senza farmi aspettare oltre, mia moglie sale carponi sul letto e si avvicina al mio viso, mi bacia dolcemente e poi traccia con le labbra il sentiero che va dalla bocca al collo, poi al petto, all’ombelico e infine al mio membro. Per un tempo che non riesco a definire mi regala sensazioni indescrivibili, ma prima che possa impazzire definitivamente, allarga le gambe e sale a cavalcioni su di me, riempiendosi completamente.
Dio, mi basta guardarla per un istante, con i seni che dondolano leggermente, i capelli che le ricadono sulle spalle e il viso stravolto dalla passione, e sento già di perdere il contatto con la realtà.
Intreccia le dita con le mie e inizia a muoversi, prima lentamente e poi acquisendo un ritmo sempre più concitato. Mi sollevo, mettendomi seduto, e la stringo forte, affondando il viso tra i suoi seni.
La bacio quando mi rendo conto che è vicina al limite, e veniamo insieme, soffocando i gemiti l’uno nelle labbra dell’altro. Dopo, mi distendo e la trascino accanto a me, tirando le lenzuola su di noi e stringendola forte.
“Quanto ti amo” sussurro, con il respiro ancora pesante.
Lei intreccia una gamba alla mia e si accoccola di più a me, baciandomi il petto. “Anche io” sussurra in risposta.
Un trillo proveniente dal mio cellulare interrompe il nostro momento di pace. Mi alzo e vado a recuperarlo in salotto e leggo il messaggio ricevuto da Jason.
“Chi è?” chiede curiosa Ana.
“Taylor. Dice che possiamo partire questa sera alle 21. Ti va o sei stanca?”
“Certo che mi va. Così possiamo riposare e domattina andiamo a prendere i bambini”
“Ottimo” poso il cellulare sul comodino, impostando la modalità silenzioso, e la raggiungo sotto le lenzuola. La stringo a me, baciandola e premendole contro il fianco la mia erezione di nuovo pronta per lei “E nel frattempo..”

Salutare Detroit è stato in qualche modo liberatorio, forse vi ho lasciato qualche piccola parte di me, ma va bene così. Era inevitabile che queste ventiquattr’ore non mi lasciassero indifferente, ma sono contento di aver fatto questo passo e di aver affrontato quello che per me era un ostacolo insormontabile. Adesso mi sento meglio, sento di aver vinto una battaglia contro me stesso, mi sento libero, leggero e ancora più ottimista verso il futuro.
Ripenso alla tomba di mia madre, e non posso negare di avvertire un piccolo dolore da qualche parte nel petto. Non so per quale motivo, ma so che vederla così spoglia, sporca e senza un fiore, mi ha lasciato dentro un grande senso di vuoto.
Per fortuna ci sono mia moglie e la mia piccola stellina con i suoi calci a farmi sentire subito meglio.
“Papino, mi tocca farti notare che mancano meno di due mesi al parto e non abbiamo ancora comprato niente alla principessa. Siamo dei genitori pessimi..” dice ad un tratto Ana, mentre me ne sto con la guancia appoggiata al suo pancione.
“Cosa vuoi che sia, domani mattina andiamo a fare shopping”
“Non hai detto che avevi molto lavoro da sbrigare alla GEH?”
Mi sposto in modo da avere il viso accanto al suo. “Sì, in effetti sì. Ma nulla è più importante di voi, e poi, dopo questi giorni un po’ complicati, ho voglia di fare qualcosa di bello”
Ana sorride e mi scompiglia i capelli. “Allora, shopping sia!” esclama, euforica.
Mia moglie non è una che adora fare acquisti, ma le uniche eccezioni sono il periodo natalizio e i corredini dei nostri figli. Persino io che sono un uomo, ed è risaputo che il cromosoma Y sia intollerante allo shopping, amo girare per i negozi e perdermi in quel mondo di vestitini minuscoli, scarpine, bavaglini e carrozzine.
Quando rientriamo a Seattle sono quasi le 23 e, nonostante avessimo deciso di lasciar dormire Teddy e Phoebe dai miei e andarli a prendere domattina, quando usciamo dall’aeroporto, chiedo a Taylor di accompagnarci a Bellevue.
Mi mancano troppo i miei figli, anche se sono stato lontano da loro solo poco più di ventiquattro ore; ho bisogno di loro, di tenerli stretti a me, a ricordarmi quanto io sia fortunato e quanto la mia vita sia meravigliosa grazie a loro.
I miei genitori e i miei nonni mi salutano quasi commossi. Erano chiaramente preoccupati di quale potesse essere la mia reazione, e sono felici di constatare che sia riuscito ad abbattere i miei timori.
Teddy e Phoebe per fortuna sono ancora svegli, ma già impigiamati, e sono più che felici di vederci e tornare a casa con noi. Quando rientriamo alla Big House, mi rendo conto di non avere alcuna voglia di separarmi da loro, e Anastasia sembra leggermi nel pensiero, perché sorride ed esclama “Tutti nel lettone!”
I bambini urlano felici e si infilano nel nostro letto alla velocità della luce. Ana ed io infiliamo i pigiami e cerchiamo di farci posto alle due estremità.
“Tutti abbracciati” dice Phoebe, invitandoci a stringerci di più.
In quattro, anzi praticamente in cinque, siamo indubbiamente un po’ strettini, ma questo abbraccio è tutto ciò di cui ho bisogno.
Nell’arco di pochi minuti, i piccoli si sono già addormentati, e con loro anche la mia bimba grande, era davvero sfinita. Li guardo tutti e tre, ascolto i loro respiri, sento su di me il calore dei loro corpi, delle nostre braccia e delle nostre gambe che si intrecciano sotto le coperte.
Adesso sì che tutti i pezzi tornano al proprio posto. Questo è il mio incastro perfetto.
 
 

Angolo me.
Buonasera mie meravigliose fanciulle!
Non posso fare altro che prostrarmi ai vostri piedi per questo ritardo mostruoso e imperdonabile, ma questi (quasi) due mesi sono stati davvero molto impegnativi tra università, tirocinio e in più anche la scuola guida. Purtroppo il tempo libero che avevo era poco, spesso mi ritrovavo a scrivere nelle pause tra una lezione e l’altra o in attesa dei messi pubblici. Inoltre, poiché il maiunagioia mi perseguita costantemente, per un piccolo problema tecnico ho perso una parte di ciò che avevo scritto e, come potrete immaginare, è stato impossibile riscrivere esattamente allo stesso modo quello che avevo perso, e questo mi ha innervosita non poco. Non è stato semplice riscrivere quel pezzo cercando di dargli la stessa impronta di prima.
Speravo di riuscire a pubblicare il nuovo capitolo entro Natale, ma purtroppo non è stato possibile perché nella settimana precedente al 25 sono stata molto impegnata.
Come dico sempre, state tranquille perché non abbandonerò MAI questa storia, perché la adoro troppo e adoro troppo voi.
Anche io sono una lettrice e so molto bene cosa voglia dire attendere ansiosamente una storia che mi piace, ma, come ho detto varie volte, la scrittura per me è un hobby e, per quanto meraviglioso esso sa, devo dare priorità ai miei doveri, in primis l’università, che assorbe praticamente l’80% del mio tempo tra corsi, tirocinio, studio e impegni vari.
Spero possiate capirmi e scusarmi per avervi fatto aspettare così tanto. Spero che con questi giorni di pausa potrò scrivere un po’ di più e aggiornare in tempi più brevi, ma non posso assicurare nulla perché le cose da fare sono tante e le vacanze natalizie sempre troppo brevi.

Ma adesso veniamo al capitolo.
L’idea mi è venuta diversi mesi fa, quando ho visto il film “Cinquanta sfumature di rosso”. Tra le scene finali, come ben saprete, vediamo Christian e Ana sulla tomba di Ella. Mi sono resa conto che nella mia storia non avevo mai descritto questo avvenimento, così ho voluto inserirlo, anche se in un arco temporale avanzato rispetto a quello del film, perché qui siamo già sei anni dopo il matrimonio.
Tutte voi avete avanzato numerose ipotesi dopo il finale del capitolo precedente, ma, come avete visto, nessuna si è avvicinata alla realtà; ammetto che il finale era strutturato apposta per tenervi un po’ sulle spine (un po’ di sano sadismo non guasta mai, no?). Non mi andava di rivangare misteri del passato o personaggi loschi, così ho cercato un motivo nobile per indurre Christian a tornare a Detroit.
Spero con tutto il mio cuore che il capitolo vi sia piaciuto. Ci tengo a dire che per me è stato uno dei più complessi da scrivere (anche a questo è dovuto l’enorme ritardo), perché non è semplice immedesimarsi nella mente di Christian, soprattutto riguardo un tema così delicato e complesso. Spero di esserci riuscita, anche solo in piccola parte.
Più che mai ci tengo moltissimo a conoscere le vostre opinioni.
Dal prossimo capitolo torneremo a respirare un po’ di leggerezza e soprattutto tanto zucchero, anche se avrete notato che quello non manca mai, anche quando si trattano tematiche più delicate.
Con qualche giorno di ritardo vi faccio gli auguri di Natale e con qualche giorno di anticipo vi auguro buon anno.
Mi scuso ancora per avervi fatto aspettare tanto e spero di essermi fatta perdonare con un capitolo bello lungo e corposo.
Vi ringrazio come sempre per il vostro affetto e il vostro sostegno.
Ci risentiamo nel 2019.
Un abbraccio fortissimo e auguri a tutte voi.
Mery.
 
 
 
   
 
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