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Autore: Soly_D    29/12/2018    3 recensioni
[2^ classificata al All I want for Christmas is... Storie contest indetto da Arianna.1992 sul forum di EFP]
«Allora, Erina, cos’hai chiesto a Santa-san quest’anno?».
Ryō sospirò. Sempre la solita storia, ogni singolo anno, da quando era arrivato a casa Nakiri.
Prima che Erina potesse aprire la bocca, fu Sōe a parlare: «Andiamo, tesoro, non crederai ancora a...?».
«Otoosan!», esclamò Alice gonfiando le guance stizzita. «Santa-san esiste, io l’ho visto!».
Quello che Alice non sapeva era che da bambina non aveva visto Santa-san, ma suo nonno con un costume bianco e rosso che trasportava tra le braccia un sacco di regali per le sue adorate nipotine.
[Ryō & Alice ♥] [Con la partecipazione di Erina, Sanzaemon, Sōe e Leonora Nakiri]
Genere: Commedia, Fluff, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Alice Nakiri, Erina Nakiri, Leonora Nakiri, Ryou Kurokiba, Senzaemon Nakiri
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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contest
Storia partecipante al All I want for Christmas is... Storie contest indetto da Arianna.1992 sul forum di EFP.
Note dell'autrice: Prima di leggere, sappiate che studio giapponese all’università e che vado pazza per la cultura giapponese, quindi vi lascio qui il significato di alcune parole-chiave che troverete nella fanfiction:
Santa-san = Babbo Natale. Sarebbe l’abbreviazione di Santa Claus (più formale) unita all’onorifico -san, usato per le persone che non si conoscono bene e verso cui si porta un certo rispetto.
Otoosan = papà
Arigatou gozaimasu = grazie mille
Infine alcune pietanze giapponesi a base di pesce, tipiche del periodo natalizio:
Takosu = carpaccio di polpo
Shakeyakidon = filetto di salmone su letto di riso
Black Yakimeshi = riso venere ai frutti di mare, uova e fiocchi di tonno disidratato.




Keep believing in the magic of Christmas.



La sera della vigilia di Natale, l’intera casa Nakiri profumava di festa, allegria, zucchero e cannella.
La signorina Alice e sua madre avevano sfarzosamente addobbato i mobili della sala da pranzo con ghirlande di fiori, lucine multicolori e pupazzetti raffiguranti Santa-san con tanto di slitta e renne galoppanti, ma ciò che attirava maggiormente l’attenzione era l’enorme abete decorato con palline rosse, blu e dorate che svettava in un angolo della sala illuminandosi a intermittenza. Era talmente alto che Ryō aveva dovuto prendere in braccio la signorina Alice sollevandola in aria quel tanto che bastava per permetterle di posizionare la stella in cima senza tirarsi addosso l’intero albero di Natale.
La lunga tavola al centro della sala era stata apparecchiata con una tovaglia rossa finemente decorata, tovaglioli dello stesso colore, costosi bicchieri di vetro e posate lucidissime. Come ci si aspetta da una famiglia di esperti cuochi e gastronomi, per quella serata così speciale i Nakiri avevano scelto di portare in tavola solo le pietanze più prelibate e raffinate del loro vasto repertorio. Anche Ryō poteva vantarsi di aver contribuito alla preparazione del cenone di Natale servendo del saporito Takosu, dell’abbondante Shakeyakidon e dello sfizioso Black Yakimeshi, rispettivamente a base di polpo, salmone e frutti di mare.
Seduto al centro della tavola, il figlio adottivo dei Nakiri aveva una visuale perfetta dell’intera famiglia. Da un lato il vecchio Sanzaemon raccontava ambigui aneddoti di Natale, dal lato opposto Sōe sorrideva serio e composto nel suo elegante completo scuro affiancato dalla bellissima moglie Leonora. Di fronte a sé, Ryō poteva osservare la signorina Alice che, con un paio di corna da renna sulla testa, cercava di addolcire l’impassibile cugina mettendole sotto il naso uno degli omini di pan di zenzero che lei stessa aveva appositamente preparato per l’occasione sfruttando tutte le sue conoscenze nel campo della cucina molecolare. Di fatti non ci volle molto prima che Erina, attirata dall’odore invitante dei graziosi biscotti, ne addentasse un pezzetto sentendosi immediatamente invadere non solo dalla dolcezza dello zucchero ma anche dallo spirito natalizio: il minuto dopo le due cugine ridevano e scherzavano tra loro imboccandosi a vicenda con occhi pieni di affetto l’una per l’altra.
Ryō piegò a sua volta un angolo della bocca in un breve sorriso compiaciuto. Se poteva cucinare e assaggiare anche lui tutti quei deliziosi manicaretti, se poteva godere con la famiglia Nakiri di tutto quel lusso e di tutta quella serenità, era solo merito della signorina Alice che da bambina l’aveva preso con sé come suo assistente. Senza di lei, Ryō era certo che in quel momento si sarebbe trovato ancora nelle sporche cucine del ristorante in Danimarca a preparare pesce in gran quantità e in tutte le salse per vecchi e rozzi marinai che non apprezzavano il gusto raffinato della sua cucina.
Con lo stomaco pieno e il cuore leggero, Ryō pensò che niente, assolutamente niente avrebbe potuto rovinare quel bel quadretto familiare di cui lui stesso aveva il privilegio di far parte, ma si sbagliava, si sbagliava di grosso. Bastò infatti una semplice domanda rivolta dalla signorina Alice a sua cugina per far sparire il sorriso dal volto di tutti e far crollare il silenzio sull’intera tavolata.
«Allora, Erina, cos’hai chiesto a Santa-san quest’anno?».
Ryō sospirò. Sempre la solita storia, ogni singolo anno, da quando era arrivato a casa Nakiri.
Prima che Erina potesse aprire la bocca, fu Sōe a parlare: «Andiamo, tesoro, non crederai ancora a...?».
«Otoosan!», esclamò Alice gonfiando le guance stizzita. «Santa-san esiste, io l’ho visto!».
Quello che Alice non sapeva era che da bambina non aveva visto Santa-san, ma suo nonno con un costume bianco e rosso che trasportava tra le braccia un sacco di regali per le sue adorate nipotine. E tra l’altro Alice era l’unica persona in quella stanza ad essere all’oscuro di tutto. Perfino Ryō lo sapeva, dato che Sanzaemon glielo aveva spifferato già ai tempi del suo primo Natale in casa Nakiri.
«Alice», proruppe Erina con aria di chi la sa lunga. «Non credi di essere un po’ troppo grande per credere ancora che un vecchio decrepito possa andarsene in giro con una slitta trainata da renne volanti – volanti! – e distribuire milioni, anzi miliardi di regali in una notte sola a tutti – e dico tutti – i bambini del mondo, calandosi giù dal camino senza rompersi la schiena o bruciarsela?».
«Certo che no», rispose Alice incrociando le braccia con sguardo risoluto. «Per distribuire tutti i regali Santa-san si fa aiutare dai suoi numerosi elfi e ovviamente non si cala giù dal camino ma entra dalla porta di casa usando quasi sicuramente una chiave speciale in grado di far scattare tutte le serrature. E per tua informazione le renne non volano, ma corrono come qualsiasi altro animale!».
Fu allora che Ryō, rimasto fino a quel momento in silenzio, si sentì in dovere di intromettersi. E andava bene credere a Santa-san a sette anni, andava bene a dieci e forse anche a tredici, ma superati i sedici la cosa cominciava a farsi preoccupante.
«Signorina Alice». Ryō poggiò i gomiti sul tavolo sporgendosi con il busto in avanti. «Sei seria?».
«Serissima!», esclamò Alice fulminandolo con lo sguardo per poi spostare gli occhi su ogni altra persona seduta al tavolo. «E stanotte rimarrò sveglia per dimostrarlo a tutti quanti voi!». Mettendo il broncio come una bambina, scattò in piedi e abbandonò la tavola a passo di marcia con i pugni stretti lungo i fianchi per la rabbia.
«Alice!», la richiamò Leonora dispiaciuta, ma ormai la giovane Nakiri era già scomparsa nel corridoio.
Ryō non si sorprese della reazione di Alice – sapeva benissimo quanto fosse testarda e facilmente suscettibile – tuttavia aveva sperato ugualmente che alla fine della conversazione si mettesse il cuore in pace, non perché ci fosse qualcosa di sbagliato nel credere ancora a Santa-san, ma per il semplice fatto che Alice aveva davvero raggiunto l’età giusta per mettere da parte le certezze infantili e aprirsi al mondo vero. Evidentemente, però, in cuor suo Alice non era ancora pronta per tutto questo.
«Stanotte, quando non vedrà nessun Santa-san in giro per casa, sono certo che capirà», disse Sōe con convinzione.
«No!», obiettò Leonora categorica. «Sarebbe un trauma per lei scoprire la verità in questo modo! Le rovineremmo la notte più bella dell’anno! Quindi...». Il suo sguardo saettò verso il suocero che, dall’altra estremità del tavolo, sussultò sorpreso. «...qualcuno dovrà travestirsi da Santa-san per lei».
«Non se ne parla», rispose prontamente Sanzaemon mettendo le mani avanti. «L’ultima volta ho quasi rischiato di finire nel fuoco! “Santa-san, Santa-san! Fammi vedere come entri dal camino...”».
Se la situazione non fosse stata alquanto seria, probabilmente sarebbero scoppiati tutti a ridere, Ryō compreso.
«Caro?», disse allora Leonora spostando gli occhi sul marito.
«Scordatelo», rispose Sōe perentorio. «Non mi va di prendere in giro mia figlia».
Leonora sbuffò esasperata. «Ma sarebbe solo per questa notte! L’anno prossimo, con calma, le diremo la verità».
Ryō, al pari di Sōe, pensò che quella di Leonora non era propriamente una buona idea – o almeno, non era il modo giusto di trattare una giovane donna che si avviava ormai verso la maggiore età – ma allo stesso tempo non trovava nessun’altra alternativa per spiattellare la verità in faccia ad Alice in maniera rapida e indolore.
Mentre rifletteva, Ryō si rese conto che Leonora aveva preso a fissarlo con una certa curiosità e non gli fu difficile intuire cosa stesse per dirgli. Ormai conosceva la signorina Alice e sua madre così bene e da così tanto tempo che capiva perfettamente quali fossero i loro pensieri solo guardandole negli occhi, così estremamente simili gli uni agli altri.
«Potresti farlo tu, Ryō».
Come previsto.
L’espressione di Kurokiba non fece una piega. «Perché proprio io?». Era sicuro di non essere né abbastanza vecchio né abbastanza alto e grosso per poter impersonare il ruolo di Santa-san. Alice se ne sarebbe sicuramente accorta, lo avrebbe picchiato di santa ragione e poi gli avrebbe tenuto il broncio per almeno una settimana. Un modo decisamente poco divertente di trascorrere il Natale.
«Ti prego, ti prego, ti prego!». Leonora giunse le mani al petto con fare teatrale estremamente simile a quello della figlia. «Fallo per Alice, per la tua signorina».
Colpito e affondato. D’improvviso Ryō immaginò come il cuore della sua signorina si sarebbe inevitabilmente spezzato se l’indomani non fosse riuscita a ottenere nessuna prova dell’esistenza del suo adorato beniamino. Pensò ai suoi occhi tristi e alla sua piccola bocca piegata all’ingiù. No, non lo avrebbe sopportato. Certo, avrebbe preferito di gran lunga lasciare l’arduo compito ai due uomini più anziani di casa Nakiri, ma dal momento che nessuno dei due sembrava disposto ad accettare, la responsabilità ricadeva inesorabilmente su di lui.
Ryō si passò una mano tra i capelli lasciandosi sfuggire un sospiro. Forse, evitando di parlare e di farsi guardare in volto da Alice mentre depositava i regali sotto l’albero, quel piano assurdo avrebbe anche potuto funzionare. Solo per una notte, solo per quel Natale, solo per vedere sul volto della signorina quel bel sorriso che illuminava sempre le sue giornate.
«Il costume ce l’avete ancora?».



Contento che qualcun altro lo indossasse al posto suo, Sanzaemon aveva ceduto il suo vecchio costume da Santa-san piuttosto volentieri ed era sparito da casa Nakiri augurando all’intera famiglia non solo “buon Natale”, ma anche “buona fortuna”, perché per darla a bere ad Alice Nakiri senza conseguenze negative per l’intera famiglia era di fortuna che avevano bisogno.
Guardandosi allo specchio con il costume addosso, Ryō non potè che trovarsi d’accordo. Il cappello rosso con tanto di batuffolo bianco che pendeva dalla punta era così largo rispetto alla circonferenza della sua testa che gli scendeva continuamente sul viso e, se da una parte contribuiva positivamente a coprire i lunghi capelli neri, dall’altra parte gli ostacolava la vista. In più la lunga barba bianca gli procurava un fastidiosissimo prurito alla mandibola e al collo e minacciava di staccarsi ad ogni minimo movimento. Il costume, al contrario, non era affatto male – un tripudio perfetto di bianco e rosso con tanto di cintura nera per mantenere il pancione – ma il problema era che Ryō, confrontato a Santa-san, era magro come un manico di scopa. Su suggerimento di Leonora, quindi, si era infilato sotto la giacca un grosso cuscino ripiegato su se stesso all’altezza dello stomaco, nella speranza che non cascasse giù proprio sul più bello rovinando l’intero piano.
Il risultato, nel complesso, non era granché soddisfacente ma Ryō non aveva altra scelta. Distolse lo sguardo dallo specchio – era certo che se si fosse guardato un altro po’, avrebbe mandato tutto all’aria – quindi afferrò il sacco con i regali preparato appositamente da Leonora e uscì dalla sua stanza diretto verso la sala da pranzo. L’orologio appeso al muro segnava quasi le due di notte, di certo Alice si era già nascosta da qualche parte in attesa dell’arrivo di Santa-san.
Ryō entrò nella sala da pranzo con passo felpato. Metà della stanza era immersa nel buio, l’altra metà era illuminata dalle lucine dell’albero di Natale. Si guardò intorno con circospezione spostando gli occhi dal divano al tavolo, dalla tenda della finestra allo stipite della porta, ma non captò alcun movimento o fruscio sospetto. Era tutto talmente silenzioso e immobile che sembrava quasi che Alice avesse abbandonato l’impresa di beccare Santa-san con le mani nel sacco (letteralmente) e in cuor suo Ryō se ne rallegrò: voleva sì far felice la sua signorina, ma se possibile avrebbe evitato volentieri figuracce e piagnistei.
«Santa-san!».
Come non detto. Ryō sobbalzò sul posto rischiando quasi di farsi scivolare via la finta pancia che si era creato con tanta cura: Alice, in pigiama, era sbucata da dietro l’albero con un meraviglioso sorriso stampato sul volto e gli occhi che brillavano d’entusiasmo, puntando contemporaneamente un dito verso di lui.
«Tu esisti, lo sapevo!».
Ryō prese un respiro profondo e cercò di camuffare la propria voce rendendola più grossa e cavernosa. «Che ci fai ancora sveglia, Alice?».
La ragazza sorrise imbarazzata. «Be’, volevo vederti!». Subito dopo inarcò un sopracciglio con fare sospettoso. «Ehi! Come fai a sapere il mio nome?».
Ryō si maledisse mentalmente per l’errore appena commesso, ma cercò di riparare sfruttando l’ingenuità di Alice. «Santa-san conosce il nome di tutti i suoi bambini!».
«Ma smettila, non è affatto possibile...». Alice ridacchiò sventolando una mano. «L’avrai sicuramente letto da qualche parte qui in casa. E comunque io non sono più una bambina!», si affrettò a precisare con sguardo furbo.
“E allora perché credi di parlare con Santa-san?”, avrebbe voluto risponderle Ryō con una certa enfasi. Cominciava già a perdere la pazienza e avrebbe preferito di gran lunga lasciare i regali sotto l’albero e sparire immediatamente da lì per togliersi quel fastidiosissimo costume di dosso, ma Alice non sembrava affatto intenzionata a lasciarlo andare.
«Possiamo fare una foto insieme?», chiese infatti la ragazza tirando fuori il cellulare dalla tasca del pigiama. «Sai, è per mostrarla ai miei parenti...».
Lì per lì, Ryō pensò che l’idea di fare una foto con Alice per tenerla contenta fosse del tutto innocua, ma poi si rese conto che, guardando con attenzione la foto, Alice avrebbe potuto notare una certa somiglianza tra il suo eroe e il suo assistente. No, non era affatto una buona idea.
«Santa-san non rilascia foto», affermò allora Kurokiba con tono solenne.
«Ti prego, ti prego, ti prego!», cantilenò Alice con le mani giunte sotto il mento, nello stesso modo in cui poche ore prima sua madre aveva tentato di convincerlo a travestirsi da Santa-san. «La farò vedere a pochissime persone, promesso!».
E proprio come aveva acconsentito alla volontà di Leonora, così Ryō si ritrovò a cedere di fronte alle preghiere della signorina. «Oh... e va bene».
Tutta soddisfatta, Alice gli si avvicinò, impostò la telecamera frontale e sullo schermo del cellulare apparvero entrambe le loro facce. Ryō si calò il cappello sulla fronte per cercare di nascondere il più possibile il proprio viso, ma fu un tentativo inutile.
«Oh, che occhiaie! Non le avevo proprio notate», commentò infatti Alice guardando il viso di Ryō raffigurato in piccolo sullo schermo del cellulare. «In effetti ti immaginavo un po’ diverso, più alto e più grosso a dire la verità», continuò spostando lo sguardo sulla versione in carne ed ossa che le stava accanto. Infine Alice si sporse verso di lui con gli occhi ridotti a due fessure per guardarlo meglio in volto. «E ti credevo anche un po’ più vecchiotto. Non hai nemmeno una ruga!».
Ryō ingoiò a vuoto. Alice lo stava osservando da una distanza così ridotta e con un’attenzione così maniacale che avrebbe potuto riconoscerlo da un momento all’altro. «Non volevi fare una foto?», tentò allora con voce flebile nel tentativo di distrarla.
«Oh sì, è vero!». Alice riportò l’attenzione sul cellulare, inquadrò nuovamente i loro volti e scattò la foto senza esitazione. Nello stesso momento Ryō, preso da un’illuminazione improvvisa, mosse repentinamente la testa da un lato in modo che la foto venisse un po’ sfocata. Ed effettivamente funzionò: ciò che la telecamera del cellulare aveva catturato somigliava più ad una macchia indistinta di bianco e rosso che al volto di Santa-san – o Ryō Kurokiba, che dir si voglia. Riconoscerne la vera identità sarebbe stato certamente impossibile.
«Mmh, non è il massimo della qualità, ma non fa niente. Erina morirà comunque di invidia!», esclamò Alice entusiasta.
Mentre la signorina si godeva la sua personale prova dell’esistenza di Santa-san, il Santa-san in questione ne approfittò per svuotare velocemente il sacco di regali ai piedi dell’albero: ne uscirono pacchetti di varie dimensioni e vari colori, tutti appositamente incartati da Leonora.
Alice dietro di lui si lanciò in un urletto di gioia accompagnato da un piccolo applauso. «Arigatou gozaimasu!».
Ryō si limitò ad un cenno del capo e poi passò i successivi minuti a tentare di districarsi dalle grinfie di Alice che voleva a tutti i costi trattenerlo lì con lei per fargli assaggiare uno dei suoi biscotti preparati con la cucina molecolare. «Non per vantarmi, ma ci so fare», gli spiegò gonfiando il petto inorgoglita.
«Non ho dubbi». Ryō si rimise il sacco vuoto in spalla. «Ma ora devo proprio andare. Ho ancora molto lavoro da sbrigare».
Dopo un attimo di incertezza, Alice sorrise comprensiva. «Certo, vai pure! Ci vediamo l’anno prossimo allora».
Ryō si voltò tirando un sospiro di sollievo e, mentre si dirigeva fuori dalla sala da pranzo, non potè fare a meno di congratularsi con se stesso per aver portato a termine il piano senza intoppi. Ce l’aveva fatta, Alice se l’era bevuta e tutto sarebbe andato per il meglio, proprio come aveva predetto Leonora. Niente figuracce e piagnistei per quel Natale, solo regali e tanto buon cibo. Poteva desiderare di meglio?
«Buon Natale, Santa-san!».
La voce squillante di Alice risuonò alle spalle di Ryō mentre attraversava il corridoio in direzione dell’ingresso. Sorrise tra sé e sé. «Buon Natale, signorina», rispose a bassa voce, più rivolto a se stesso che a lei. Evidentemente, però, quelle parole erano arrivate forti e chiare alle orecchie di Alice perché la sua reazione non tardò ad arrivare.
D’improvviso Ryō sentì dietro di sé i passi veloci della ragazza e, quando si voltò a fronteggiarla, se la ritrovò di fronte con le braccia rigide lungo i fianchi e gli occhi spalancati. Sembrava terrorizzata e arrabbiata allo stesso tempo. Che diamine le era preso tutto d’un tratto?
«Come mi hai chiamata?».
Quelle parole uscirono dalla bocca di Alice in un sussurro appena udibile, quasi avesse avuto paura a pronunciarle.
Ryō sgranò impercettibilmente gli occhi.
Buon Natale, signorina. Non aveva detto “Alice”, come la chiamavano i suoi genitori e le sue amiche, ma “signorina”, come la chiamava Ryō Kurokiba.
Di colpo Ryō avvertì il respiro mozzato e la salivazione a zero. Cosa diamine aveva combinato?
«Ti ho chiesto come mi hai chiamata», insistette Alice con una calma a dir poco spaventosa.
Ryō non trovò la forza di opporsi in nessun modo. Cercare di convincere Alice di aver sentito male sarebbe stato totalmente inutile, anzi forse avrebbe solo peggiorato la situazione. La verità era che si era cacciato nei guai con le sue stesse mani e a quel punto uscirne illeso sarebbe stato impossibile.
Ingoiò a vuoto, ma il groppo che aveva in gola rimase fermo lì dov’era.
«Signorina», rispose arrendendosi all’evidenza. «Ti ho chiamata signorina».
Un lampo attraversò gli occhi rossi Alice, già lucidi di lacrime. Con uno slancio la ragazza si sporse verso di lui e gli strappò via la barba finta rivelando il volto giovane e spigoloso che si celava dietro di essa, niente a che vedere con quello roseo e rotondo del presunto Santa-san. Ryō non si mosse, limitandosi a fissare in silenzio il modo lento e graduale in cui la delusione e la rabbia si impossessavano dello sguardo di Alice.
«Ryō-kun...», sussurrò la ragazza mentre la barba si accasciava sul pavimento con un fruscio.
«Posso spiegarti». Ryō allungò una mano verso di lei ma Alice gliela schiaffeggiò. E fu proprio in quel momento, guardando la signorina negli occhi, che Ryō si rese conto di quanto quel piano fosse stato stupido e insensato. Aveva preso quella storia con fin troppa leggerezza e aveva sorriso più volte pensando a quanto Alice, in alcune occasioni, potesse risultare infantile e credulona. Non si era fermato a riflettere nemmeno per un momento a quanto avrebbe potuto soffrire non solo scoprendo che la sua più grande certezza era in realtà una menzogna, ma soprattutto realizzando di essere stata ingannata dalle persone a cui teneva di più al mondo.
«Non avresti dovuto, Ryō», fu l’ultima cosa che Kurokiba udì prima di vedere Alice voltarsi e correre via in lacrime.
Totalmente spiazzato da quella reazione decisamente meno vistosa di come l’aveva immaginata, Ryō rimase fermo nel corridoio anche quando la figura di Alice svanì dalla sua vista. In uno scatto di rabbia si tolse il cappello e lo gettò per terra. Che idiota, si disse fissando quel pezzo di stoffa rossa con tanto di pomello bianco accasciato sul pavimento. Che illuso ad aver davvero creduto di poterla passare liscia.
A quel punto comparve Leonora al suo fianco in vestaglia da notte. «Non è andata bene, vero?», chiese con tono rammaricato. Evidentemente aveva ascoltato tutto.
Ryō scosse la testa in segno di no.
«Mi dispiace tanto... È stata davvero una pessima, pessima idea. Ma vedrai che le passerà presto», concluse la donna stringendogli la spalla con un sorriso amorevole.
Ryō sospirò. L’unica cosa a cui riusciva a pensare in quel momento era il fatto che Alice, nel pronunciare il suo nome, non aveva usato il -kun. Per un momento, ai suoi occhi era stato semplicemente Ryō, senza la solita nota affettuosa con cui la signorina gli si rivolgeva di solito, senza quel sentimento di complicità reciproca che li legava fin da bambini.
Non Ryō-kun, suo fedele assistente, amico e compagno di vita, ma Ryō e basta.
Ryō che era stato capace di farla soffrire perfino la notte di Natale.



Più tardi, dopo essersi disfatto di quel costume che gli aveva causato solo guai, Ryō bussò ripetutamente alla porta della stanza di Alice con l’intenzione di scusarsi. Tuttavia, quando udì un «Va’ via!» pieno di rancore seguito da una serie di piccoli singhiozzi sconnessi, decise di abbandonare l’impresa e si mise a letto. Fu la notte di Natale più brutta di sempre: Ryō non chiuse occhio e infatti il mattino dopo si alzò dal letto con un paio di occhiaie ancora più profonde del solito.
A colazione, Alice non lo degnò nemmeno di uno sguardo e a nulla valsero i tentativi di Leonora e Sōe di farle spiccicare mezza parola. Incurante dei regali che giacevano sotto l’albero in attesa di essere scartati, Alice lasciò la sala da pranzo e andò a chiudersi nuovamente nella sua stanza dove passò l’intera mattinata. Anche a pranzo rimase muta come un pesce ma, quando accennò all’intenzione di volersene nuovamente rimanere da sola, Ryō si sentì in dovere di intervenire.
«Facciamo un giro», disse bruscamente e, per evitare che lei gli sfuggisse un’altra volta, la afferrò per un polso trascinandola fuori casa.



Erano le tre del pomeriggio e il sole invernale illuminava debolmente le vie deserte della città. Ryō camminava a passo lento e cadenzato con Alice al suo fianco. Le aveva abbandonato il polso, ma non aveva smesso nemmeno per un momento di guardarla con la coda dell’occhio.
Alice, invece, faceva finta di passeggiare da sola. La fronte aggrottata, le guance gonfie per la stizza e gli occhi continuamente rivolti alle vetrine illuminate dei negozi lasciavano intendere che era ancora parecchio arrabbiata per quel che era successo la sera prima.
Era da circa mezz’ora che Ryō, approfittando dell’imbarazzante silenzio che si era venuto a creare, cercava le parole giuste da rivolgere ad Alice nel tentativo di addolcirla, quando fu lei stessa a cedere per prima lasciandolo a bocca aperta.
«Credi che ieri notte, mentre parlavamo, non mi sia venuto nessun dubbio?». Alice voltò la testa per guardarlo e Ryō fece altrettanto, impaziente di ascoltare cosa lei avesse da dirgli. «Credi davvero che io non abbia riconosciuto subito i tuoi occhi?».
Ryō sussultò sentendosi squadrare dallo sguardo indagatore di Alice. «I miei occhi?».
«Sì», sussurrò Alice. «Tu hai le fiamme negli occhi, Ryō-kun. Li avrei riconosciuti anche in mezzo ad un’intera folla».
Nonostante si sentisse disperatamente in colpa per ciò che aveva combinato, Ryō non potè fare a meno di sorridere impercettibilmente per ben due motivi: in primo luogo Alice aveva usato il -kun, di conseguenza non era così tanto arrabbiata con lui come cercava di apparire, e in secondo luogo aveva appena dato prova di conoscerlo meglio di chiunque altro.
Sì, era proprio così. Alice conosceva il suo passato, il suo modo di cucinare, i suoi pregi e i suoi difetti, le sue paure, le sue ambizioni. Conosceva ogni sfaccettatura del suo carattere e perfino ogni sfumatura dei suoi occhi che a chiunque altro potevano sembrare spenti, stanchi o annoiati, ma non a lei. Alice sapeva perfettamente cosa si celava davvero negli occhi rossi di Ryō, quale forza interiore li animava fuoriuscendo solo nei momenti di forte emozione o tensione.
Ryō, ancora una volta, si diede dello stupido. Come aveva solo potuto pensare che la signorina Alice potesse scambiarlo per un’altra persona?
«E poi sentivo il tuo profumo, Ryō-kun», continuò Alice con un’inaspettata nota di dolcezza. «E ho cercato disperatamente di convincermi che mi stessi sbagliando, ma poi l’hai fatto, mi hai chiamato “signorina”, e non c’è nessun altro che lo fa all’infuori di te. Nessun altro, capisci?».
Alice si era fermata all’improvviso con i pugni stretti lungo i fianchi e gli occhi lucidi. «Perché l’hai fatto, Ryō-kun?». La rabbia sembrava sparita dal suo volto e dalla sua voce, sostituita da un’insolita malinconia che non le si addiceva per nulla.
Nel vedere Alice così piccola e indifesa, Ryō avvertì forte e chiaro l’impulso di abbracciarla. In realtà non lo faceva spesso – il più delle volte si limitava a darle piccole pacche scherzose sulle testa, ricevendo in cambio un affettuoso pizzicotto sul braccio – ma in quel momento Ryō sentiva proprio il bisogno di stringere Alice tra le braccia, farle poggiare la testa contro il proprio petto e sussurrarle che gli dispiaceva, che era mortificato e che se avesse potuto tornare indietro non avrebbe commesso lo stesso errore. Tuttavia sapeva che Alice aveva bisogno prima di una valida spiegazione e quindi decise che avrebbe rimandato l’abbraccio a dopo.
«Ci tenevi così tanto a incontrare Santa-san», spiegò con un sospiro. «Io e tua madre non volevamo vederti in lacrime proprio la notte di Natale. Allora mi sono fatto convincere a mettermi quello stupido costume...».
«Già, era davvero davvero stupido», proseguì Alice con sguardo eloquente. «E poco credibile».
Ryō si trattenne dal dirle che quello stesso costume, stupido e poco credibile, lo aveva indossato anche il suo caro nonnino anni prima e che a quel tempo lei ci era cascata in pieno, ma non era certamente il caso di infrangere anche i suoi sogni di bambina.
«Comunque non volevamo affatto prenderti in giro. Il piano era di farti credere nella magia del Natale solo per un altro anno e dopo dirti la verità».
Alice sbatté le palpebre perplessa. «Quale verità?».
A quel punto Ryō si chiese se Alice stesse facendo sul serio o no. Possibile che non avesse ancora capito nulla? Possibile che quel maledettissimo piano, nonostante l’esito disastroso, non le avesse insegnato proprio nulla?
Ryō osservò attentamente il volto confuso di Alice e quando si rese conto che no, non stava affatto scherzando, si impose di mantenere la calma. Fece quindi un passo avanti, strinse le spalle di Alice con entrambe le mani e le riversò dritta in faccia la fatidica verità che lei si ostinava ad ignorare.
«Santa Claus non esiste».
Alice, stranamente poco turbata da quelle parole, sembrò rifletterci tra sé e sé. «E perché non me l’avete detto e basta?», chiese poi con tutta la spontaneità del mondo.
Ryō si sentì rinvigorire tutto d’un tratto proprio come durante le gare di cucina: l’occhio sinistro gli cadde in preda ad un fastidioso tic nervoso e la vena sulla tempia cominciò a pulsargli violentemente.
«Sono anni che cerchiamo di fartelo capire, Alice!», sbottò esasperato. «Certo, dire che Santa Claus non esiste non è una bella notizia. Anzi, è una brutta notizia. Ma d’altra parte che diavolo si dovrebbe dire? Che ci sono le prove scientifiche dell’esistenza di Santa Claus? E che esistono le testimonianze di milioni di persone che hanno trovato giocattoli sotto il camino o sotto l’albero?».
Alice si tirò istintivamente indietro colpita da quel fiume di parole puramente ironiche, ma Ryō la teneva ancora stretta per le spalle e tutto ciò che potè fare fu abbassare lo sguardo mortificata e sussurrare un «Mi dispiace...» pieno di vergogna per essersi comportata come una bambina.
Ryō si rese conto che i ruoli si erano improvvisamente capovolti: non era più lui a chiedere scusa, ma lei. Intenerito, lasciò le spalle di Alice e le sfiorò con una mano la ciocca più lunga che le ricadeva lungo il volto fino a stringerle il mento con l’indice e il pollice. «Tranquilla, va tutto bene». Quando le sollevò il viso, infine, notò una nuova consapevolezza nel suo sguardo: quella di essere diventata grande, di non aver bisogno di prove dell’esistenza di Santa-san perché la vera magia del Natale, superata l’infanzia, non è più trovare i regali sotto l’albero ma trascorrere momenti preziosi con i propri cari.
Ryō si ritrovò a tirare un sospiro di sollievo. Forse, in fin dei conti, indossare una barba e una pancia finta non era stato poi così inutile come pensava.
«Allora», proruppe accennando un sorriso. «Sei ancora arrabbiata con me?».
Alice voltò la testa di lato fingendo un cipiglio offeso, ma Ryō non si lasciò sfuggire l’attimo in cui anche le sue labbra si erano piegate in un breve sorriso malcelato. «Certo che sono ancora arrabbiata con te! E dovrai faticare enormemente prima di ottenere il mio perdon−».
Ryō non ci pensò due volte: allargò le braccia sporgendosi in avanti e strinse Alice in un caldo abbraccio senza darle il tempo di terminare la frase. Infine socchiuse gli occhi e le accarezzò il caschetto bianco con una mano godendo di quel contatto che aveva desiderato fino da quando lei aveva ripreso a guardarlo negli occhi e a parlargli come faceva sempre.
«E ora, signorina?», proseguì Ryō marcando l’ultima parola. «Perdonato?».
Un «Forse» appena udibile giunse alle orecchie attente di Ryō. Non poteva vedere Alice in volto, ma era piuttosto sicuro che fosse arrossita.
«E se ti dicessi che quel pacco enorme, con tanto di fiocco, che c’era stamattina sotto l’albero...», accennò Ryō con tono enigmatico, «...è il mio regalo per te?».
Di colpo Alice si staccò dal suo petto per guardarlo in volto: gli occhi le brillavano e le labbra erano piegate in un sorriso a trentadue denti. Ah, quanto gli era mancato quel sorriso...
«Dici davvero, Ryō-kun?».
«Certo».
Senza attendere oltre, Alice gli afferrò la mano e prese a correre in direzione di casa, impaziente di poter scartare il regalo.
“Un giorno o l’altro la signorina Alice mi farà impazzire” pensò Ryō lasciandosi trascinare senza alcuna opposizione – l’avrebbe seguita anche in capo al mondo se lei glielo avesse chiesto. Poi Alice ruotò la testa verso di lui e Ryō, specchiandosi in quei grandi occhi cremisi capaci di stregarlo, non potè fare a meno di correggersi: “O forse ci è già riuscita”.



«Comunque io Santa-san l’ho visto quand’ero piccola...».
«Era il nonno, Alice, fattene una ragione».
Un coro di voci risuonò nella sala da pranzo: «ERINA!».
Alice spalancò gli occhi.
Erina si tappò la bocca con una mano.
«Ops...».



  
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