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Autore: Losiliel    29/12/2018    2 recensioni
Nel poco tempo che intercorre tra la morte di Fëanor e l’arrivo dell’ambasciata di Morgoth (a cui farà seguito la cattura di Maedhros), una parte dell’esercito Noldorin si accampa presso Eithel Sirion, posizione strategica per sorvegliare le terre del Nemico e per difendere la loro gente insediatasi nel Mithrim.
Celegorm, che nella Dagor-nuin-Giliath si è distinto per coraggio e per abilità tattiche, si incarica di perlustrare il territorio circostante. Quando rientra dalla sua missione, scopre che avrebbe fatto meglio a restare accanto a Curufin.
Genere: Angst, Generale, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Celebrimbor, Celegorm, Curufin, Huan
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
- Questa storia fa parte della serie 'Los Tales'
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IN TUA ASSENZA


 

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Tyelkormo (Turko) è Celegorm
Curufinwë (Curvo) è Curufin
Tyelperinquar è Celebrimbor
Russandol (Nelyo) è Maedhros
Fëanáro è Fëanor

Il termine “uomini” è inteso come “compagni d’armi”,
non come appartenenti alla stirpe dei Secondogeniti
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Tyelkormo smosse la brace e girò lo spiedo su cui era infilzata la sua cena. O il suo pranzo. O la sua colazione, per quello che ne sapeva lui. Era difficile percepire lo scorrere del tempo in quel buio perenne e immutabile.

Qualche goccia di grasso cadde sui carboni e il profumo di carne arrosto coprì per un istante l’odore di legno marcio e di terra bagnata che permeava il sottobosco. Per essere un animale che non aveva mai visto prima – prima di trafiggerlo con la sua freccia, cioè – il suo pasto prometteva di essere commestibile. Huan, accucciato ai suoi piedi, dilatò le narici e drizzò le orecchie, poi tornò ad appoggiare il muso sulle possenti zampe anteriori.

Tyelkormo non avrebbe dovuto essere lì. Avrebbe dovuto essere a rapporto da Russandol, e poi a mangiare con i suoi uomini alla mensa, infine a crollare esausto nella sua branda. La spedizione esplorativa dalla quale era appena rientrato aveva confermato che il territorio circostante era libero da nemici e che, per il momento, niente minacciava il loro avamposto sulle montagne. Poteva cercare di riposare, finalmente.

Sonno e oblio, ecco ciò di cui aveva bisogno. E magari del vino, per favorire entrambi.

La sua straordinaria abilità nell’espandere le percezioni, affinata in anni di addestramento, era stata di impareggiabile aiuto in quelle terre dove la visibilità era a loro sfavore, ma stare perennemente coi sensi all’erta, in uno stato di costante eccitazione, l’aveva sfibrato più di quanto avesse previsto e gli aveva reso difficile, se non impossibile, abbandonarsi al sonno. Non riusciva nemmeno a ricordarsi l’ultima volta che aveva dormito.

Dopo l’interminabile battaglia sulle sponde del lago, la sortita oltre i monti, lo scontro in soccorso del padre, l’installazione di quel piccolo avamposto, e la missione di esplorazione che si era appena conclusa, Tyelkormo aveva le membra a pezzi e la mente in fiamme.

Si sentiva a un passo dal crollo, e l’ultima cosa che voleva fare era crollare davanti ai suoi uomini. Non c’era bisogno di essere un genio come Curvo per capire che sarebbe stata una pessima idea.

Al pensiero del fratello, l’apprensione ebbe la meglio sul marasma di emozioni che lo tormentavano, e per la centesima volta Tyelkormo dovette impedirsi di correre da lui. Dopo la morte del padre, si era imposto di stargli distante, almeno per un po’, e di concedergli la solitudine di cui aveva bisogno per riprendersi. Curvo odiava mostrarsi fragile, e lui, da sempre, rispettava i suoi sentimenti ed evitava di stargli attorno, le rare volte in cui accadeva.

Era anche per quel motivo che si era offerto volontario per la missione esplorativa, contro il parere di Russandol; “riprendi fiato, Tyelko”, gli aveva detto il maggiore dei suoi fratelli, “hai già fatto più di tutti noi”. Ma lui non lo aveva ascoltato.

Ed ecco dove l’aveva portato la sua cocciutaggine: seduto su un tronco caduto, poco fuori dall’accampamento, intirizzito dal freddo, a cucinare la sua cena da solo.

Intorno a lui, pochi alberi che sembravano la versione pallida e minuta degli abeti della sua terra natia; il vento gelido traeva dai loro rami striminziti un fruscio sonoro e costante che copriva ogni altro rumore.

Tyelkormo si strinse nel mantello foderato di pelliccia e guardò in alto, tra le rade fronde, in cerca delle stelle. Per quanto numerose e lucenti come mai ne aveva viste in Valinor, neppure dopo l’oscuramento, il loro tentativo di respingere le tenebre sembrava vano quanto il suo di sedare la confusione che aveva in testa.

Per distrarsi, decise di controllare il grado di cottura della carne ed estrasse dal fodero il pugnale sottile. Era una lama appuntita, lunga meno di una spanna e con un’impugnatura fatta per mani più piccole delle sue. Il padre gliel’aveva regalato quando era ancora un ragazzino, il giorno in cui aveva lasciato la casa per cominciare il suo addestramento come Cacciatore presso Oromë. Tyelkormo sarebbe rimasto lontano per molto tempo e, all’epoca, aveva creduto che al padre non sarebbe importato più di tanto. Invece, prima di accompagnarlo nei boschi, Fëanáro l’aveva elogiato davanti ai suoi fratelli e gli aveva fatto un dono forgiato con le sue stesse mani.

Ora, casa sua era perduta per sempre, e i boschi tanto amati giacevano nell’oscurità, insieme al Vala che era stato suo mentore e amico. Mentre colui che li aveva condotti sul cammino della vendetta, era morto.

Tyelkormo sentì il battito che accelerava, un leggero tremito nelle mani, un debole martellare nelle tempie. Era la rabbia che tornava a prendere il sopravvento.

Si lasciò sfuggire un’imprecazione e piantò il coltello nella corteccia, a un palmo dalla sua coscia. Huan si mosse a disagio, ed emise un uggiolio sommesso.

La morte del padre era una cosa di cui Tyelkormo non riusciva a farsi una ragione. Assurda. Inaccettabile. Nel momento del trionfo, quando la strategia imponeva di consolidare le posizioni, assestarsi sulle alture, proteggere il territorio retrostante – tutte cose che aveva fatto Russandol quando aveva assunto il comando – suo padre aveva commesso una leggerezza inconcepibile.

Tyelkormo non riusciva a perdonarglielo, un errore così. E ancor meno riusciva a perdonarsi di non essere stato al suo fianco in quel fatidico momento.

Huan passò dall’uggiolio a un cupo brontolio, infine a un breve abbaiare che lo fece riscuotere.

Lui si accorse di avere i pugni stretti, le nocche che premevano contro le palpebre serrate.

– Scusa, piccolo – mormorò, dandogli un’affettuosa grattata dietro alle orecchie, – forse non è stata una bella idea restare solo.

Ripose il coltello nel fodero e lo lanciò poco distante, dove aveva lasciato anche la spada, l’arco e la faretra. Il grado di cottura l’avrebbe tirato a indovinare; in quello stato mentale era più prudente non avere armi a portata di mano.

Diede un’altra girata allo spiedo e si mise ad accarezzare Huan più vigorosamente, prendendogli la testa sulle ginocchia, sperando di ricavarne un po’ di pace.

Ma ormai il danno era fatto, e i suoi pensieri stavano già passando dalla morte del padre agli eventi che l’avevano preceduta, alla battaglia combattuta su quelle stesse pendici e poi giù, fino alla palude.

Sentì arrivare i ricordi e seppe che non sarebbe riuscito a fermarli. Erano troppo intensi, troppo vividi. Con la mente sfibrata che si ritrovava, erano forti abbastanza da sovrastare la realtà.

Le acclamazioni riecheggiarono nella sua testa.

“Eroe”, lo avevano chiamato al termine della battaglia, quando aveva sorpreso l’orda nemica che arrivava da sud per prendere il loro esercito alle spalle e aveva fermato la sua avanzata. A Tulkas l’avevano paragonato i suoi uomini mentre lanciavano grida liberatorie, lo issavano in trionfo, e improvvisavano canti sulle sue gesta.

Perché non avrebbero dovuto? Avevano visto il loro comandante intuire il pericolo prima di tutti gli altri, l’avevano visto gettarsi a testa bassa nella mischia e sbaragliare l’orda praticamente da solo. A loro, già provati dai combattimenti e dalla marcia sulle montagne, non era rimasto che rincorrere i fuggitivi perché non portassero notizie al loro padrone.

Non sapevano che le sue gesta non avevano avuto nulla di eroico. Non sapevano del furore che si era scatenato in lui, accecandolo, né della belva in cui si era trasformato mentre avanzava contro quelle grottesche creature armate male e coordinate peggio. Non ci voleva un eroe per avere la meglio su di loro, se n’era accorto ancora prima di vederli arrivare, dall’aura che emanavano. Era un’accozzaglia di miserabili tenuta insieme dalla paura del loro comandante. Sarebbe bastato uccidere lui e pochi altri per sottometterli, senza mettere a rischio la vita dei suoi uomini.

E invece si era lanciato contro di loro, spinto da un istinto irrefrenabile. Quanti ne aveva trafitti con le sue frecce? Quanti ne aveva sterminati con la sua spada? Non aveva tenuto il conto, mentre li incalzava ottenebrato dalla furia, alla ricerca di nuovi bersagli, di nuove prede, in balia del sentimento che pensava di aver domato tanti anni prima con l’aiuto del suo antico maestro, e che invece tornava, moltiplicato per mille, a reclamare vittime su vittime. Come se non bastassero mai.

E infatti non bastavano. Non bastavano per cancellare il ricordo di candide gole squarciate, e chiari occhi spalancati sul vuoto, e argentei capelli incrostati di sangue, sparpagliati sul selciato salmastro.

Era la redenzione che aveva cercato, compiendo un inutile massacro di creature spaventate? O era l’oblio? O un crimine talmente aberrante da rendere trascurabile ciò che aveva compiuto nella sua terra natia? Qualunque cosa fosse, non c’erano stati abbastanza nemici per ottenerla.

Quando era tornato padrone di sé stesso, si era ritrovato solo, al limitare di una palude, tra mucchi di cadaveri, con l’armatura sporca di sangue, schizzi scuri e densi sul viso e tra i capelli, un sapore amaro in bocca. Al suo fianco, Huan, che l’aveva seguito senza esitare sbranando i nemici che sfuggivano alla sua lama, aveva la pelliccia incrostata di sporcizia, brandelli di carne tra le fauci e gli occhi che sprigionavano ferocia.

Nel mondo da cui proveniva, bastava un ginocchio appoggiato al suolo, una mano che affondava nel terreno, un manciata di terra che scorreva tra le dita, per riallacciare la connessione con tutto ciò che lo circondava, per riprendere contatto con la realtà e riguadagnare la pace.

In quella palude, sotto stelle sconosciute, con le dita immerse nel fango viscido, non era servito.

Forse a quella terra, putrida e buia, mancava il potere di assorbire la sua ira e restituirgli in cambio la quiete.

O forse non era mai stata la terra a compiere il miracolo, ma il Vala che gli aveva insegnato a farlo.

Forse Tyelkormo era stato dimenticato.

A quel pensiero, era scivolato a terra privo di forze. Aveva affondato le dita nella pelliccia di Huan, l’aveva stretto a sé, disperatamente, e aveva strusciato il viso contro il suo collo massiccio, ancora e ancora, fino a sentire l’odore sepolto sotto quello della sporcizia, del sangue, della morte.

L’odore di casa.

Tyelkormo tornò al presente col viso bagnato di lacrime e con la consapevolezza che gli era meno difficile affrontare la morte del padre, che la possibilità di essere stato dimenticato da Oromë.

Huan gli stava leccando le guance, visibilmente preoccupato, e lui cercò di convincersi che se il cane gli era rimasto accanto, sempre e comunque, al punto da macchiarsi degli stessi delitti, significava che non poteva essere stato dimenticato. Non poteva.

Era una speranza illusoria, basata sul nulla, ma era l’unica che aveva, e ci si aggrappò come chi annega e non ha che un misero pezzo di legno marcio a separarlo dagli abissi.

– È passata, piccolo – disse, allontanando Huan con carezze rassicuranti, – è passata.

Per questa volta, aggiunse, in silenzio.

Ma nella prossima battaglia, cosa sarebbe accaduto? E in quella dopo? Sarebbe riuscito a reprimere la sua furia, o sarebbe stata lei ad avere il sopravvento, rendendolo simile a una belva feroce, del tutto inadatto al comando e ancor meno adatto a ricevere ordini? Inutile in combattimento, ma incapace di restarne fuori. Un pericolo per i suoi stessi compagni.

Tyelkormo aveva bisogno di aiuto, e il suo pensiero andò automaticamente a Russandol. Il maggiore dei suoi fratelli, che dominava il proprio corpo e il proprio spirito meglio ancora di quanto facesse Curufinwë, avrebbe sicuramente saputo come contenere la sua rabbia. Gli avrebbe insegnato a domarla, o a incanalarla nella giusta direzione, se un giorno non ci fosse più stato modo di contenerla.

La soluzione era talmente ovvia che per poco non balzò in piedi per andare subito dal fratello, ma quel poco di raziocinio che gli rimaneva bloccò il suo entusiasmo sul nascere.

Russandol aveva ben altro a cui pensare, ora. Tenere insieme quelli che cominciavano a maledire il giorno in cui avevano deciso di seguire Fëanáro, per esempio. Convincerli a combattere contro i mostri di fuoco e di tenebra che avevano causato la morte del padre, tanto per dirne un’altra. Russandol non poteva essere gravato da incarichi di poco conto, come fare da balia a un fratello sull’orlo della pazzia.

Tyelkormo si accorse di non avere più fame. Tolse la carne ormai cotta dallo spiedo e la depositò sulla placca di una vecchia armatura che aveva previsto di usare come vassoio, poi appoggiò il tutto sul tronco di fianco a sé. Stava per dare il permesso a Huan di mangiare al posto suo, quando il cane si drizzò sulle zampe e, un istante dopo, lui sentì un fruscio provenire da dietro le sue spalle.

Scattò in piedi e si voltò.

 

Tyelperinquar, imbacuccato in un mantello che gli arrivava fino alle caviglie, il viso pallido e gli occhi cerchiati di chi non riposa da troppo tempo, non si attardò in saluti.

– Zio, devi venire subito.

Il ragazzo sprigionava ansia, non c’era bisogno di avere i sensi sviluppati di Tyelkormo per capirlo. – Che succede?

– Si tratta di papà… non esce più dalla sua tenda – disse il nipote, tutto d’un fiato. – Non fa entrare nessuno. Rifiuta il cibo che gli portano.

– Da quando? – Tyelkormo si protese in avanti come potesse arrivare prima alle informazioni di cui aveva bisogno.

– Da sempre… – balbettò il ragazzo, e lui cercò di frenare il suo impeto per non spaventarlo, – voglio dire, da quando ci siamo accampati.

Quanto poteva essere, in termini di giorni? Tyelkormo non aveva ancora imparato a leggere i movimenti delle stelle per poterlo dire con precisione, ma valutò che fossero trascorsi due, o anche tre, dei vecchi giorni valinoreani.

– Nelyo cosa dice? – fu la prima cosa che gli venne da chiedere.

L’imbarazzo di Tyelperinquar si fece palese. Abbassò lo sguardo: – Non sono ancora andato da lui. Papà ha detto…

– Di non farlo – concluse Tyelkormo al posto suo, – tipico.

Poi aggiunse: – Fammi strada.

Il nipote si addentrò nell’accampamento, lungo sentieri bordati di fiaccole. Lui lo seguì, portando con sé la sua cena, sperando con tutto il cuore che potesse servirgli. Huan si mise alle loro calcagna.

I pochi guerrieri che incrociarono, intenti ad affilare lame o a pulire armature, riconobbero Tyelkormo e gli rivolsero cenni di saluto, poi si spostarono davanti al suo passaggio, forse intuendo dalla sua espressione che non era il caso di rallentarlo.

Quando arrivarono in uno spiazzo dove si ergeva una tenda alta e scura, a pianta rettangolare, con i vessilli di Fëanáro su aste conficcate ai lati dell’entrata, Tyelperinquar rallentò il passo e si lasciò superare.

Tyelkormo disse: – Aspettate qui.

Il ragazzo, che giunti in vista della loro meta aveva cominciato a tormentarsi le mani, sembrò felice di obbedire. Il cane lo fu molto meno, ma lo fece ugualmente, andando ad accucciarsi appena fuori dall’ingresso.

Tyelkormo entrò. La tenda era deserta. Al centro, su di un treppiede, c’era un braciere con dentro più cenere che braci. Ai lati, da una parte, un tavolo con rotoli di carta e candele spente, dall’altra, una cassapanca con accanto le armi e l’armatura di Curvo buttate in terra in malo modo. Faceva freddo ed era buio. L’unica lampada era gettata in un angolo, tra borse di cuoio che ne coprivano il cristallo azzurro. L’odore di fumo e di legna bruciata dominava l’ambiente, insieme a uno più cattivo, come di cibo andato a male.

Tyelkormo raccolse la lampada, appoggiò il piatto di carne sul tavolo, sfilò qualche ciocco di legno da sotto il braciere e lo lanciò nel catino di ferro sollevando qualche scintilla, poi si diresse sul retro e tirò il telo che separava il corpo principale della tenda dalla nicchia in cui c’era il giaciglio di suo fratello.

Ciò che vide, lo colse impreparato.

Così impreparato che il suo primo impulso, quello di trascinare il fratello fuori di lì e costringerlo a mangiare con le buone o con le cattive, lo abbandonò all’istante.

Curvo gli dava le spalle, seduto su un basso sgabello di fonte alla sua branda vuota. Chino in avanti e con la testa tra le mani, sembrava stesse vegliando una salma invisibile. Forse era proprio ciò che stava facendo; dopotutto, non avevano avuto un corpo su cui piangere.

Col freddo che c’era, il fratello indossava soltanto un paio di pantaloni di tela e degli stivali sporchi di fango.

Sulle prime, Tyelkormo si domandò se fosse davvero lui, perché i suoi capelli erano sciolti e sporchi, raggrumati a ciocche, e gli coprivano la schiena come nere corde sfilacciate. Non ricordava di aver mai visto Curufinwë senza la sua impeccabile treccia, ed era più che certo di non averlo mai visto chinare la testa davanti a niente.

Neppure nel loro momento più buio, quando risalivano lungo le coste di Aman su navi macchiate di sangue, aveva chinato il capo, in una parvenza di pentimento. Tyelkormo l’aveva visto, dritto a prua, a fianco di Fëanáro, con lo sguardo fisso in avanti, salvo i brevi momenti in cui lo spostava sul padre, come per calibrare il proprio atteggiamento su quello del genitore.

Temette di esser arrivato troppo tardi, e solo la sua radicata abitudine a non toccare il fratello lo fermò dal gettarsi in avanti e mettergli due dita sul collo per verificare le sue pulsazioni.

In quell’attimo di esitazione, un mormorio appena udibile giunse alle sue orecchie come se provenisse da un luogo lontanissimo. – Andate via.

– Sono io – disse Tyelkormo, come se bastasse per dargli il diritto di restare.

Curvo non diede segno di averlo sentito. Rimase immobile, il suo respiro così debole che il torace nemmeno si espandeva. Con quel freddo ci si aspettava fosse scosso da brividi. Invece no. Pareva aver già abbandonato la presa sul suo corpo. Pareva già in viaggio verso Mandos.

Tyelkormo si guardò intorno alla ricerca di una coperta o di un mantello. Ne vide uno per terra vicino alla branda, insieme ad altri vestiti, in un mucchio sporco e maleodorante. Allora si tolse il proprio, dopo aver appoggiato la lampada al suolo, e si avvicinò con cautela, come avrebbe fatto con un animale spaventato.

– Sto per coprirti, Curvo – lo avvisò. Poi gli mise il mantello sulle spalle, tiepido del calore del suo corpo, gli girò attorno e si accucciò per chiuderglielo sulla gola. Fu costretto a spostargli le mani per farlo.

A quel contatto, il fratello, invece che sottrarsi come sua abitudine, gli afferrò un polso con una presa molle e gelida, e gracchiò: – Come ha potuto abbandonarci?

E poi, con voce più chiara: – Come ha potuto abbandonare me?

Teneva ancora la testa abbassata e il suo viso rimaneva in ombra. Tyelkormo allungò il braccio libero e prese la lampada. La avvicinò un poco, quanto bastava per controllare lo stato del fratello senza aggredire i suoi occhi abituati al buio.

Le ombre si allontanarono dal viso di Curufinwë, rivelando guance scavate, zigomi sporgenti, occhi infossati. La faccia di uno che non mangia da ben più di due giorni.

– Curvo, che hai fatto? – domandò, sgomento.

Mangiare non era mai stata una priorità del fratello; forse, con l’incalzare degli ultimi avvenimenti, era scesa in fondo alla lista. Possibile che nessuno se ne fosse accorto?

Tyelkormo si rispose da solo: certo che l’avevano fatto. Ma Curufinwë non era tipo da ascoltare i consigli, né tantomeno le suppliche, di nessuno. Neppure Russandol sarebbe riuscito a farlo mangiare contro la sua volontà.

Dannazione. Di tutte le cattive decisioni che aveva preso nella sua vita, e ultimamente erano state parecchie, quella di lasciare il fratello a sé stesso dopo la morte del padre era stata la peggiore.

– Curvo, guardami! – intimò. E alzò la voce, perché non sapeva che altro fare, e perché era spaventato come mai in vita sua.

Contro ogni previsione, Curvo obbedì e con uno sforzo che sembrava travalicare le sue possibilità, alzò lentamente la testa. I suoi occhi, grigi e opachi come la cenere sporca che si accumulava nel braciere, rimasero fissi e vuoti, e Tyelkormo non seppe dire se il fratello l’avesse riconosciuto.

Sperò che fosse così. Sperò che, nel giro di pochi istanti, l’avrebbe visto andare su tutte le furie per aver contravvenuto al suo desiderio di esser lasciato solo, per aver invaso i suoi spazi, per aver osato essere testimone delle sue debolezze. Qualsiasi rimprovero gli andava bene, purché si riscuotesse da quel torpore letale.

Invece, Curvo lasciò che la testa gli ricadesse sul petto e mormorò: – Non riesco a darmi una spiegazione, Turko. Ci ha condotti qui per farsi uccidere.

Tyelkormo raggelò. E non per il freddo che cominciava a farsi sentire, ora che non aveva più il mantello, o per le dita di ghiaccio che gli stringevano il polso, ma perché nell’atteggiamento remissivo del fratello, e nel suo tono carico di sconforto, si leggeva un sentimento che Curvo non aveva mai provato e che, di sicuro, non aveva mai immaginato di poter provare. La delusione.

La delusione nei confronti del padre.

Quanto avrebbe voluto sentirla, Tyelkormo, anni prima, in un altra vita! Quanto avrebbe voluto che il fratello si fosse reso conto che il padre, per quanto grande, non era infallibile, e che emularlo non poteva essere lo scopo della sua vita, e che fare ciò che lui si aspettava non era l’unico modo per essere fieri di sé stessi.

Ma ora le cose erano diverse. Ora il dubbio avrebbe condotto solo ed esclusivamente al crollo definitivo, come dimostrava quel misero simulacro di ciò che era stato il suo orgoglioso fratello. In quella terra, non c’era spazio per cose marginali come la ricerca della propria strada. Lì c’era un’unica via, ed era già tracciata.

– Adesso la sua impresa è la nostra – disse Tyelkormo, dando peso ad ogni singola parola.

Curvo scosse debolmente la testa. – Tutto quello che abbiamo fatto, l’abbiamo fatto per lui – mormorò. – L’ho fatto per lui. Che senso ha andare avanti?

Tyelkormo si sciolse dalla debole presa del fratello e gli portò le mani ai lati del volto. Non lo toccò direttamente, ma le infilò sotto il collo di pelliccia e usò quella morbida superficie per sollevargli il viso, con delicatezza, fino a farsi guardare di nuovo negli occhi.

– Non l’abbiamo fatto per lui – disse, infondendo nelle sue parole quanta più determinazione possibile. – L’abbiamo fatto per vendicare il nonno, per cancellare l’onta subita dal nostro popolo, per recuperare ciò che ci è stato rubato.

Capì che non stava funzionando: lo sguardo del fratello rimaneva vuoto, spento. La sua volontà sopita. Curvo non tentava neppure di sottrarsi al suo tocco, non faceva nemmeno lo sforzo di reggere la testa da solo. Era come morto.

Dammelo indietro, Námo, implorò Tyelkormo in silenzio, dammelo indietro. Ed era così fuori di sé che non si vergognò neppure di aver pregato.

Fece un ultimo, disperato, tentativo: – Curvo, tutto ciò che rimane di nostro padre è dentro quelle gemme.

Allora vide un guizzo nello sguardo del fratello, un leggero contrarsi delle pupille. Pregò di non esserselo immaginato e ci si aggrappò con tutto sé stesso. Disse: – Se non adempiremo al Giuramento, lui sarà perduto per sempre.

Questo sembrò colpire nel segno. Perdere il padre era una cosa, pensare di non rincontrarlo mai più era inconcepibile. Venire delusi dal padre, si poteva riuscire ad accettarlo, deluderlo era fuori dalla portata di Curufinwë. Era fuori dalla portata di tutti loro.

Curvo sbatté le palpebre e deglutì a vuoto. Tyelkormo lo interpretò come il segnale che il corpo del fratello stava cominciando a rimettersi in moto. Per verificarlo, lo lasciò andare e l’altro riuscì a tener su la testa da solo. Anzi, fece di più: cercò di alzarsi in piedi, con le gambe deboli, che tremavano.

Lui lo assecondò, si alzò a sua volta, lo sorresse con una presa salda sotto i gomiti.

Curvo non lo allontanò. Il suo respiro, prima inavvertibile, era affannato, come se lo sforzo lo avesse lasciato a corto di fiato. Questo non gli impedì di parlare.

– Giurami che lo faremo, Turko – disse, a metà tra un ordine e un’implorazione. I suoi occhi, adesso, erano accesi dalla stessa luce che aveva brillato in quelli del padre nel momento in cui aveva maledetto il Nemico, in punto di morte. Erano gli occhi di uno che crede di poter modellare il futuro con la sola forza di volontà.

Tyelkormo avrebbe fatto di tutto, davvero, di tutto per tenere Curvo con sé. Aveva persino implorato i Valar poco prima. Ma davanti a quella richiesta esitò.

– L’ho già fatto – disse, – e non intendo rinnegarlo. Ho giurato davanti al nostro popolo e davanti allo spirito di nostro padre che bruciava per l’ultima volta.

Ma Curvo insistette: – Voglio che lo giuri a me, Tyelkormo. Giurami che riavremo ciò che è nostro, e che non ci fermeremo davanti a niente.

Il fratello non l’aveva mai chiamato col quel nome, nonostante sapesse bene quanto lui ci tenesse. Tyelkormo capì che l’aveva fatto solo per ottenere ciò che voleva e, invece che dispiacersene, se ne rallegrò, perché significava che Curvo cominciava a tornare padrone di sé stesso.

Acconsentire divenne più semplice: – Te lo giuro.

E nel vedere il fratello prendere un po’ di colore, come se il suo cuore avesse ricominciato a battere solo in quel momento, pensò che forse gli veniva davvero concessa un’effimera possibilità di redenzione, difendendo Curufinwë da sé stesso e dai pericoli a cui sarebbero andati incontro, standogli vicino, continuando a mantenerlo vivo e acuto, mettendolo nelle condizioni di potersi occupare di suo figlio meglio di quanto il loro padre non avesse fatto con loro.

E immaginandosi al suo fianco, in una quotidianità che ricalcava antichi sentieri, s’illuse che avrebbe potuto ricevere in cambio quel minimo di stabilità che gli avrebbe permesso di non scivolare nel baratro della follia, vittima della propria furia e della paura di essere stato escluso per sempre dai pensieri del suo antico maestro.

Prima ancora di rendersene conto, aggiunse: – E ti giuro che lo faremo insieme.

Curvo fu percorso da un tremito, segno che, per quanto avesse la mente annebbiata dalla sofferenza e dalla debolezza, aveva capito perfettamente che cosa significava tutto questo.

Significava vivere insieme, e morire insieme se fosse stato necessario. Significava dipendere l’uno dall’altro per superare le proprie debolezze. Significava fedeltà reciproca fino all’ultimo respiro.

In un mondo che traeva le sue origini da un fratricidio e dal tradimento di un fratello nei confronti di un fratello, in un mondo maledetto da una condanna che prometteva la fine ad opera di altri tradimenti, questo non era per nulla scontato.

Al contrario, era andare contro il destino.

Tyelkormo si sentì alleggerito da un peso insostenibile e si chiese come potesse, un nuovo vincolo, farlo sentire più libero di prima.

Anche Curvo sembrò sollevato. Riuscì perfino a inarcare un sopracciglio, recuperando una punta del suo vecchio scetticismo.

– Ci credi davvero? – chiese.

A questo, la risposta era più facile, perché non c’erano alternative.

– Come alla fedeltà del mio cane  – rispose lui, all’istante, pensando all’unica cosa di cui non avrebbe mai dubitato.

Poi aggiunse, in un debole tentativo di alleggerire l’atmosfera: – E come al fatto che avrò un fratello di meno, se non ricominci subito a mangiare.

E per dimostrargli che quel “subito” era inteso in senso letterale, lo invitò a uscire dalla sua alcova.

I ceppi avevano preso fuoco e le fiamme divampavano nel braciere. Luce e calore si diffondevano nella tenda.

Curvo si lasciò aiutare a raggiungere il tavolo e a sedersi su uno sgabello. Guardò il piatto di carne, ormai fredda, fece una smorfia disgustata e domandò: – Questo cos’è?

Superato lo spavento, Tyelkormo si stava poco a poco riappropriando della consueta spavalderia.

– E che ne so? Non ne avevo mai visto uno di uguale. Da vivo, pareva un incrocio tra una lepre e un topo.

Curvo si passò una mano sul volto. Quando la abbassò, sul suo viso era ricomparsa la sua solita impassibilità. Strano come la freddezza del fratello generasse in Tyelkormo un nucleo di calore proprio al centro del petto.

– Cos’è, stai cercando di avvelenarmi? – domandò Curvo, dimostrando di tornare padrone di sé stesso ogni momento di più.

Per tutta risposta, Tyelkormo afferrò una coscia dell’animale e la addentò. Passò l’altra al fratello che la guardò con sospetto e disse: – dovremmo dargli un nome – come se il fatto di avere un nome rendesse automaticamente l’animale commestibile.

– Lepropo – propose lui, a bocca piena, senza alcuna esitazione.

Curvo scosse la testa, e il suo volto scomparve dietro lunghe ciocche di capelli scuri, ma lui indovinò il suo ghigno dal tono della sua voce: – Quanto sei idiota.

Tyelkormo sorrise come non faceva da tanti, tantissimi giorni, mentre il calore che gli era nato nel petto si diffondeva in tutto il corpo.

Quel fratello aveva il potere di farlo sentire a casa.

Allungò i piedi sotto il tavolo e diede un altro generoso morso alla sua cena, che adesso trovava molto più gustosa.

Se Curvo poteva imparare a sopravvivere in assenza del padre, forse lui avrebbe potuto imparare a sopravvivere dimenticato dal suo maestro.

 

Non passò molto che Tyelperinquar mise dentro la testa, timidamente. I suoi occhi si spalancarono quando vide il padre che mangiava, ma non fece commenti a riguardo.

Disse invece: – Nelyo vi manda a chiamare. È arrivato un emissario del Nemico.

Tyelkormo osservò il fratello che spiluccava brandelli di carne portandoli alla bocca con estrema riluttanza, con le mani che tremavano e gli occhi arrossati. Uno stato in cui non avrebbe voluto mostrarsi a nessuno.

Tantomeno a suo figlio.

Peggio per lui, pensò. I genitori non sono infallibili, meglio che Tyelperinquar lo scopra il più presto possibile.

– Vado io – disse al nipote, alzandosi, – tu resta a mangiare qualcosa con tuo padre.

Sapeva che Curvo lo avrebbe rimproverato, più tardi, ma non gli importava. Anzi, il contrario. Sarebbe stato felice di tornare in quella tenda e trovare il fratello infastidito e seccato, pronto alla lite, invece che apatico e sull’orlo della morte.

Uscì senza mantello, e rabbrividì nel freddo di quella notte eterna.

Huan gli fu accanto ancora prima che lui potesse lanciare un richiamo, e insieme andarono da Russandol per scoprire cosa avrebbe portato il futuro.





 

 


Credits

Una fonte di ispirazione nell’ideazione di questa storia è stata Otornassë di Ghevurah, meravigliosa one-shot sul rapporto che lega Celegorm e Curufin ambientata nel Beleriand con molti flashback nel passato.

Come sempre, quando Curufin è nei paraggi, ci tengo a ricordare che l’elaborazione del suo carattere ha preso inizialmente spunto dalla versione che ne ha dato LiveOakWithMoss in DWMP.

 

Note

01
Il Silmarillion dice: “Proprio nell’ora della morte di Fëanor, un’ambasciata giunse ai suoi figli da Morgoth”. Mi sono permessa di interpretare quel “proprio nell’ora” in senso figurato, e ho immaginato che fossero passati due o tre giorni.

02
Il “mio” Curufin ormai lo avrete a noia, da tanto che ne scrivo, ma Celegorm è un punto di vista che ho trattato solo due volte: in Spiriti Affini (a cui questa storia fa più volte riferimento quando parla del rapporto di Celegorm con Oromë) e nel primo capitolo di Calano le tenebre.

 

Ringraziamenti

Quest’anno, niente “Russingon di Natale”. Nell’improbabile ipotesi che qualcuno la stesse aspettando, chiedo scusa. Come potete vedere dal calo nella frequenza di pubblicazione, è stato un anno difficile dal punto di vista della scrittura.
È quindi ancora più sentitamente che ringrazio le amiche di efp che mi incoraggiano, sempre e costantemente, a proseguire in questo campo, e tutti coloro che, nonostante la mia latitanza, continuano a lasciare commenti alle mie storie e/o a inserirle tra le loro preferenze.
Infine ringrazio chi legge senza lasciare traccia del suo passaggio; la vostra silenziosa presenza è per me altrettanto importante (e se vorrete farvi sentire, vi ricordo che apprezzo commenti di ogni genere: lunghe recensioni, brevi saluti, critiche costruttive).

Grazie a tutti, lettrici e lettori, per il supporto che mi avete dato in questi tre anni di permanenza in efp.

Vi auguro buone feste e un felice 2019.





 

  
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