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Autore: Zero11    05/01/2019    2 recensioni
Tre città, tre piccole storie di Natale, tre coppie alle prese con la festa in tutte le sue sfaccettature, dal romantico al drammatico, dal comico al familiare.
Questa storia partecipa a “Una challenge sotto l’albero” indetta dal gruppo Facebook Il Giardino di Efp.
Genere: Comico, Generale, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Yaoi
Note: Raccolta | Avvertimenti: nessuno
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Roma

Mi chiamo Cesare Innocenti e odio il Natale.

Oddio, forse mi sono espresso un po’ male… dopo tutto non odio veramente il Natale, mi piace come festa e mi piace festeggiarla con la mia famiglia, però- sì, ecco qui: odio questo Natale. Davvero, il peggiore della mia vita di adolescente in crisi.
Dubito fortemente che a qualcuno possa interessare perché un diciassettenne alto, timido e goffo voglia cancellare il suo ultimo Natale, ma, vi prego, ho davvero bisogno di raccontare a qualcuno questa cosa.
È tutta colpa dell’amore.
Eros del cavolo, sempre in giro a tirare frecce a caso come se fossero coriandoli. La Fortuna non bacia più nessuno perché lui le ha rubato la benda per fare più centri sbagliati e amori non corrisposti. È il mio caso, ma al contrario di molti, le cui sofferenze durano qualche mese o pochi anni oppure li colpiscono in età di maturazione, le mie hanno avuto inizio dodici anni fa, nel pieno di quello che doveva essere il periodo più spensierato della mia vita, l’infanzia.
Il suo nome era Raphael Moore.

Ero ancora un bambino quando si trasferì dall’altra parte della strada, ma ricordo perfettamente quel pomeriggio d’estate: io stavo giocando (o meglio, litigando) in giardino con i miei cugini Sitael e Michele, che abitavano nella casa affianco, per riavere una macchinina quando sentimmo il rumore di un camion provenire dalla strada.
Ora, so che per molti non sembrerà granché, ma per dei bambini abituati alla quiete del quartiere di Olgiata, lontano dal chiasso del centro di Roma, quel rumore era l’equivalente di un terremoto o di un drago appena emerso dalle viscere della terra per sbranare la popolazione e distruggere la città- Sì, so di tendere al melodrammatico. La mia professoressa di italiano non si è mai lamentata.
Comunque, appena sentimmo quel rumore assurdo perdemmo ogni interesse per i giocattoli e corremmo tutti e tre verso il giardino frontale dove i nostri genitori stavano già osservando incuriositi il mezzo appena arrivato. Era enorme, perfino da fermo emetteva vibrazioni terrificanti che ci scuotevano il petto: credemmo tutti che contenesse davvero un drago. Il mezzo occupava gran parte del nostro campo visivo, ma sul vialetto del garage notammo una macchina nera parcheggiata, arrivata poco dopo, camuffata in tutto quel chiasso. Le portiera anteriore si aprì e un uomo alto, dagli occhi azzurri e i capelli corvini ne scese salutando cordialmente gli adulti dall’altra parte della strada, tra le cui gambe eravamo nascosti noi. Aveva un leggero accento inglese e il portamento marziale tipico dei soldati, come mio padre e mio zio. Sembrava gentile e solare, decidemmo che ci sarebbe stato simpatico. L’uomo aprì una delle portiere posteriori e allora fu come se qualcuno avesse preso il sole e me lo avesse posizionato davanti, modificando radicalmente e per sempre le forze che facevano girare il mio universo.
Dalla macchina scesero due bambini: il primo era più grande di noi, un preadolescente praticamente, serio e circospetto, la seconda era… be’, era la bambina più bella che avessi mai visto.
Raphael Moore aveva più o meno la nostra età: gli occhi chiari del padre, spalancati nel cercare di catturare quante più cose possibili in quella prima occhiata al nuovo ambiente, e i capelli corvini lisci e lunghi fino ai fianchi lasciati sciolti lungo la schiena. Indossava un vestito rosa pallido senza maniche con dei piccoli fiorellini stampati sopra e delle scarpette bianche come se fosse stata una bambola, la carnagione talmente pallida da rendere ancora più evidente tale similitudine e le guance piene e rosee.
Ricordo che in quel momento sentii come un vuoto d’aria nel petto, come un branco di farfalle che mi si agitava nello stomaco, e il desiderio impellente di conoscere quella bambina che ci guardava a pochi metri di distanza.
I gemelli non sembrarono sconvolti quanto me da quella visione, ma ebbero la prontezza d’animo di salutare la piccola mentre io ero ancora imbambolato a fissarla cercando di ricordare come si respirava.
“Cesare si è innamorato”, mi aveva canzonato Sitael.
Io avevo risposto con una linguaccia e un “Non è vero!” stizzito, tuttavia… pensai che sarebbe stata una perfetta principessa, la bambina oltre la strada.

Nelle settimane seguenti avemmo modo di socializzare.
I nostri genitori sembravano aver captato un certo interesse in noi per quella famiglia perciò non ci fu giorno per il resto di quell’estate in cui i Moore non vennero a fare merenda a casa mia oppure in quella dei miei cugini.
Le madri adoravano Raphael, si divertivano a regalarle bambole e vestiti e fare “conversazioni da donne” in cucina quando noi non ascoltavamo; i padri avevano più contegno, si limitavano a chiacchierare con il signor Moore oppure coinvolgevano il figlio maggiore in attività più “maschili” assieme ai miei cugini più grandi, Uriele e Raffaele.
Raphael sembrava stare bene anche con noi nonostante fossimo tutti maschi: sviluppò subito una certa simpatia per Gabriele, il terzo genito dei miei zii, poco più grande di noi, e assieme giocavano a fare sfilate e a prendere il tè o cose simili; non ebbe problemi a relazionarsi con Michele, sempre silenzioso con quel suo fare da nobile con la puzza sotto il naso, anzi, riuscì perfino ad entrare nelle sue grazie (cosa non da poco, credetemi); con me era gentile, simpatica, bellissima… tanto da rendermi sempre nervoso e poco comunicativo, sulle prime, e più impacciato del solito per la maggior parte del tempo. Di quei momenti ricordo soprattutto il mio cuore che martellava nel petto come un pazzo e l’ansia del non sapere come comportarmi attanagliarmi lo stomaco. Proprio per questo, imparai una cosa allora: alle ragazze non piacciono i ragazzi timorosi, le fanno sentire a disagio e si allontanano. Scoprirlo in quel modo mi diede molto fastidio, ma per quanto mi sforzassi non riuscivo a trovarvi rimedio in alcun modo, né potevo impedire ad altri di interessarsi a lei in quel senso.
Mio cugino Sitael era sempre stato una peste, l’esatto contrario del gemello: correva sempre, iniziava spesso risse con i fratelli e con me, rubava i giocattoli a tutti e orchestrava scherzi di pessimo gusto ai danni di tutti, come quella volta che mi lanciò una pala di fango e poi scoprii che erano feci del suo cane. Con Raphael non era diverso, anzi, sembrava accanirsi di più nel darle fastidio, eppure vedevo come la guardava ogni volta che sollevava una bambola dove non poteva prenderla e la canzonava per la sua statura minuta. Provava il mio stesso interesse per lei, ma con una modifica: lui faceva qualcosa per ottenere il premio.

Crescendo la presenza di Raphael nelle nostre vite diventò una costante, al punto da ritenerla più una sorella che una vicina di casa.
Maturando imparammo a stare più tranquilli in sua presenza, ad essere più cordiali con lei e a desiderare costantemente che ci fosse per mantenere l’ordine in quel delirio di testosterone che era la nostra famiglia. Era un po’ il nostro metro per il buon comportamento e l’unica ragazza ammessa tra le nostre fila.
Il mio rapporto con lei migliorò: finalmente dominavo abbastanza i miei sentimenti per poter intavolare una conversazione senza pietrificarmi al suo sguardo. Lei mi confessò che i miei silenzi le avevano fatto credere che la odiassi ed io mi sentii ancora più stupido. 
Ricordo una conversazione che avemmo in quel periodo:
“Davvero pensavi che ti odiassi?”
“Sì! Dai, eri sempre musone, ogni volta che mi avvicinavo ammutolivi! Pensavo… che avessi paura di me o cose del genere, ma non capivo perché e me ne andavo. Ci rimanevo male, sai?”
“Non è mai stato così! È che… è che ero molto timido, tu eri così estroversa, non sapevo come avvicinarmi senza fare la figura dell’idiota come Sitael. Scusa.”
“Sì, be’, Sitael è un GRANDISSIMO idiota. Mi tirava sempre i capelli.”
“E ci rubava sempre i giochi.”
“Già, era terribile! Mi guardava sempre con uno sguardo strano.”
“In che senso strano?”
“Non lo so. Strano.”

Passarono le medie, i nostri corpi maturarono e cambiarono cominciando ad assumere un aspetto più adulto.
Io diventai più alto, più forte, il nuoto mi aveva dato la robustezza necessaria a non temere più le lezioni di ginnastica. Michele si era lasciato crescere i capelli, che erano diventati biondi e mossi come un campo di grano in estate: la sua altezzosità si era fatta più evidente e la sua media dei voti era sopra le stelle; come sempre, non lasciava mai trapelare emozioni diverse dalla noia, ma era rimasto un po’ minuto. Sitael aveva sviluppato tutto tranne il cervello, o almeno dava questa impressione; era alto e robusto, veloce come una scheggia ovunque lo mettessi e sempre con quella fame di rissa che lo aveva caratterizzato fin da bambino. Si era procurato una cicatrice che gli attraversava l’occhio destro con un brutto volo cadendo dalla bici e sfoggiava lo sfregio come se se lo fosse procurato combattendo contro un orso.
Di tutti noi, era l’unico che non accettava di abbandonare la goliardìa dell’infanzia in favore della serietà nonostante i suoi genitori fossero palesemente sfavorevoli a un certo comportamento. A me non interessava: fintantoché rimaneva nel suo, poteva rovinarsi la vita come voleva.
Il cambiamento più grande lo subì Raphael: non crebbe molto in altezza, ma posso affermare che la natura fu più che generosa con lei. Le donò curve dolci e piene, labbra carnose, uno sguardo più magnetico di una calamita e la grazia di una ballerina. Ben presto divenne famosa in tutta la scuola, non c’era ragazzo che non si perdesse per almeno un momento a osservarla quando camminava per i corridoi ed io, lo ammetto, mi sentivo estremamente geloso di tutti quegli sguardi puntati su di lei, nonché minacciato da tutti quei nuovi “avversari” in quella gara non propriamente dichiarata.
Tuttavia non fu un periodo tutto rose e fiori per lei.
Come spesso accade, alla fama seguì subito l’invidia, delle ragazze, dei ragazzi, a volte dei professori stessi, che creò un’immagine distorta della bellissima ragazza che conoscevo dipingendola come qualcosa di totalmente diverso, di totalmente estraneo alla sua reale natura.
“Ma l’hai vista come si veste?”
“Assurdo, quanto è volgare.”
“Qualcuno le ha mai detto che esistono vestiti meno scollati?”
“Ho sentito che si è fatta il capitano della squadra di nuoto.”, “Davvero?”, “E non solo!”
“È davvero una zoccola.”
Sentivo quei discorsi e cercavo di metterli a tacere ogni volta che ne avevo l’occasione, ma purtroppo le voci sono per natura immortali e inalterabili se non in peggio. Non c’era modo di farle stare zitte, al che alla fine Raphael cominciò a dargli ascolto più di quanto ne desse a noi.
Cominciò a comportarsi in maniera frivola e stupida, avvolgendosi con l’immagine della ragazza oca e superficiale che tutti vedevano in modo da crearsi una piccola barriera che le impedisse di crollare sotto il peso di quelle parole dure e terribili. Noi non potevamo fare altro che osservare impotenti cercando di darle conforto appena potevamo, nei modi più disparati e forse astrusi che potessimo trovare.
In quel periodo, che poi non è così lontano dal mio presente, Gabriele fu quello che le rimase più vicino e meglio riusciva ad entrare nella sua testa per darle sollievo in tutto quel dolore.
Parlavano molto, avevano persino una serata dedicata durante la settimana e qualche volta lui riportava anche a me quello che gli diceva se pensava che potessi esserle d’aiuto in qualche modo:
“È sempre più sola, Cesare. Io e Rose facciamo del nostro meglio, ma…”
“Le serve qualche altro amico? Possiamo farcela, in sei ne troviamo di persone che non la conoscono e possano esserle amiche.”
“No, fidati, questa cosa non si risolverà assemblando un gruppo di estranei e spingendoli a diventare amici suoi… servirebbe qualcosa di più forte.”
“Più di te e Rose?”
“Sì, più di me e Rose. Qualcosa che possa sollevarle il morale quando noi non ci siamo, visto che non possiamo estirpare la causa principale del suo disagio, la scuola.”
“Anche se sarebbe bello.”
“Sì, concordo…”
“Tu cosa proponi allora?”
“Mh… credo abbia bisogno di innamorarsi. Magari così si distrae e non ci pensa più.”
“E credi che funzionerebbe?”
“Con Rose ha funzionato.”
Fu la spinta che mi serviva. L’ultimo, decisivo incoraggiamento per tirare fuori quello che mi tenevo dentro da anni. Fui stupido a credere che avrebbe scelto me dopo il passato che condividevamo, ma nonostante ciò, guardando la neve che cadeva a fiocchi fuori dalla finestra in quel gelido pomeriggio di dicembre, mi dissi che dovevo cogliere quell’occasione ad ogni costo: glielo avrei detto alla prima occasione utile, al cenone di Natale, a casa dei miei zii.

Il mio errore fu la pazienza: ne ebbi troppa per qualcosa che ne richiedeva pochissima.
Il cenone si tenne a casa dei miei zii, come ogni anno, e i Moore si unirono a noi come era ormai diventato tradizione che fosse.
Mangiammo, bevemmo, ci scambiammo i regali e quando tutti furono sazi e stanchi noi più giovani ci spostammo in salone per passare il tempo in maniera più rilassata in attesa di tornare a casa e andare a dormire. Al contrario degli altri però io non mi sentivo affatto stanco. Ero iperattivo per l’ansia di ciò che mi ero posto di fare, continuavo a torturarmi le mani cercando di calmarmi prima di tentare la sorte, la posta in gioco l’amore della mia vita.
Dovevo avere davvero una faccia da schifo perché Michele mi si avvicinò nell’angolino dove mi ero rintanato per pensare per assicurarsi che stessi bene; il maglione rosso cucito da mia madre stonava tremendamente con la camicia che indossava, ma riusciva a risultare elegante e nobile anche in quello stato.
“Cesare, tutto bene?”
Mentii.
“Sì, certo, sto una favola, perché?”
Lui, ovviamente, non la bevve.
“Sei pallido e sudato e ti agiti come un pesce fuor d’acqua da tutta la sera. Sembra che tu debba dare un esame per cui non hai studiato tra pochi minuti.”
Mi sembrò più che azzeccata come metafora.
“Voglio chiedere a Raphael di uscire.”
Ci fu un silenzio imbarazzato in cui entrambi speravamo che l’altro dicesse qualcosa, poi, come sempre, lui mi venne in soccorso.
“Quindi?”
“Quindi sono in ansia. Se mi dicesse di no? Se non le interessassi? Se si allontanasse da me e non volesse più essermi amica perché sarebbe troppo strano?”
“Se vai avanti così non avrà bisogno di sentire la tua dichiarazione.”
Ammetto di aver desiderato di tirargli un pugno.
“Come posso fare?”
Era stupido chiedere consigli in amore ad uno che aveva il corteo di ragazze ogni volta che usciva di casa e non ne guardava neanche una, tuttavia in quel frangente ero talmente disperato e ansioso che mi sarebbe andato a genio persino Sitael come consigliere.
Probabilmente facevo anche pena perché alla fine Michele sospirò esasperato prima di rispondermi.
“Parlare e chiediglielo. È ancora la solita, vecchia Raph. Non servono cose troppo elaborate con lei, lo sai.”
“Ma se-“
“Ponimi un altro interrogativo e ti prendo a calci.”
“Okay… ma-“
“Cesare.”
Mi guardò con uno sguardo duro e serio degno di un generale dell’esercito di fronte a un sottoposto poco collaborativo: metteva i brividi, ma quando parlò ebbi la sensazione di non potermi più tirare indietro, in senso positivo.
“Parlale. Se non altro per sapere cosa potrebbe risponderti.”
Una magra consolazione, ma una consolazione.
Così Michele mi lasciò solo nel mio angolino a riflettere un’ultima volta su cosa fare e pochi attimi dopo ero in cammino verso il mio obbiettivo a spasso spedito, ripetendo alla svelta l’inizio del mio discorso per assicurarmi di ricordarlo tutto. Il cuore mi galoppava nel petto in trepida attesa, avevo il respiro accelerato come se mi stessi allenando, eppure la mia mente sembrava finalmente sgombra da ogni pensiero negativo e si concentrava su una cosa sola: dire a Raphael ciò che provavo. Salvarla dalla solitudine. Porre fine a quel mio calvario eterno.
Sull’onda di questi pensieri finalmente chiari nella mia testa entrai in salotto con la decisione di un soldato, percorsi metà del salone guardandomi intorno per cercarla. La vidi, sotto l’arcata che collegava la sala alla cucina. Le luci dell’albero lì accanto la illuminavano di un tenue color oro, perfettamente legato al maglione rosso con gli orli bianchi che indossava. I capelli corvini erano tirati indietro con una molletta, ma continuava a spostarsi un ciuffo ribelle dietro l’orecchio. Rideva, ma non ero riuscito a sentire la battuta. Mi si riempì il cuore di gioia, il mio obbiettivo sembrava finalmente realizzabile ed era solo a pochi passi da me.
“O la va o la spacca”, mi dissi.
Presi un respiro profondo, mossi un altro paio di passi, cominciai a sollevare una mano per chiamarla… poi arrivò lui.
Lui, con i capelli biondi ingellati all’indietro come un galletto, gli occhi verdi a maliziosi e la cicatrice sull’occhio come il peggior cattivo dei cartoni animati. Lui, l’unico che si era rifiutato di indossare il maglione natalizio per una stupida maglietta dei Nirvana. Lui, con quel sorriso malevolo e terribile, più simile a un ringhio che ad un’espressione umana. Era con lui che stava parlando, che aveva parlato fino ad allora, e aveva riso e si era sistemata i capelli con un sorriso imbarazzato ad ogni complimento ricevuto. Era per lui che le sue gote avevano assunto il colore delle ciliegie appena colte e il suo sguardo si era acceso di nuovo interesse… non per me. Non sarebbe mai accaduto con me.
Accadde davanti ai miei occhi, prima che potessi anche solo aprire bocca per parlare: lui le prese il viso tra le mani, accarezzandole dolcemente gli zigomi coi pollici, le sollevò il mento, si strinse a lei e in un attimo… la baciò. Semplicemente, la baciò. Un semplice, casto, leggero scontrarsi di labbra che mi infilzò il cuore con mille frammenti di vetro e fece scendere il gelo nel mio petto.
Avrei voluto urlare. Meglio ancora, avrei voluto tirare un pugno a quel maledetto di mio cugino, di tutti di sicuro il più indegno di stare con una creatura tanto bella e dolce quanto quella che stringeva tra le sue braccia, ma lei sembrò così felice quando si staccarono, così serena, che non ebbi il cuore di rompere quel piccolo idillio.
Dunque feci l’unica cosa sensata che mi venne in mente: me ne andai.
Non dissi niente finché fui nella stanza, loro non si accorsero di me; uscii in giardino, dove un sottile strato di neve aveva già coperto il prato e le siepi, mi sedetti sul gradino con la schiena appoggiata alla porta e lì piansi lacrime amare nel silenzio di quel luogo coperto di gelo come il mio cuore finché la festa non fu finita. Solo.

Dunque, ricapitolando: mi chiamo Cesare Innocenti, ho diciassette anni e abito a Roma nel quartiere di Olgiata; sono innamorato della stessa ragazza da quando avevo cinque anni, ma lei non lo ha mai saputo. Questa sera volevo dichiararmi, ma sono arrivato tardi, mio cugino l’ha baciata mente io mi facevo assalire dall’ansia. Ho sprecato la mia forse unica occasione di dirle quello che provo per lei ed ora mi toccherà convivere col fatto che non potrò mai stare con l’unica ragazza che amo.
Quindi… sì.

Odio questo Natale.



Prompt 5: A decide di confessare a B i suoi sentimenti la notte della vigilia, ma poi lo vede baciare C…
   
 
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