Storie originali > Soprannaturale
Segui la storia  |       
Autore: Jordan Hemingway    05/01/2019    5 recensioni
La storia che ho riportato su questi fogli di diario potrà sembrarvi la narrazione di un pazzo, una favola al pari di quelle con cui le nostre balie amavano spaventarci nelle lunghe sere d’inverno trascorse davanti al fuoco.
Eppure, nonostante io cerchi di ridare un ordine a questi eventi, mi accorgo che è impossibile per me riportare gli avvenimenti degli scorsi mesi in Italia e in Francia a un qualsiasi tipo di ragionamento logico. La nostra scienza è venuta meno al suo compito e quel che mi rimane è solo oscurità e nebbia.

Storia partecipante al contest "I Doni della Medicina" indetto da Dollarbaby su EFP Forum
Prima classificata al Victorian Age Contest indetto da Hyggelic su EFP Forum
Genere: Sovrannaturale, Storico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
 <<  
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
Capitolo Quarto
 

15 novembre 1855
 
Ho dovuto aspettare una settimana prima di poter far visita a Leone: quella passeggiata nella sera nebbiosa mi è costata una febbre e parecchi giorni di inattività, durante i quali continuavo a vedere in sogno luoghi ed eventi del racconto.
Se non fosse stato per il buon Attilio sarei ancora nel letto a delirare: dopo un paio di giorni di febbre si è presentato a casa mia con un buon tonico e ottimi libri per la convalescenza.
“Ti ho visto interessato all’alienismo, quindi eccoti qua del materiale per cominciare, e chissà che in futuro non si diventi rivali.”
“Colleghi, Attilio, mai rivali.”

Qualcosa dello spirito di Attilio si trasmise a me perché da quel giorno iniziai a stare meglio. Fu così che potei finalmente recarmi alle Debite per visitare Leone ma mi aspettavano brutte notizie.
“Avevate ragione.” Il Valle sembrava un cane con la coda tra le gambe. “Il Ruzzante ha avuto un altro attacco: il comandante sta valutando se spostarlo all’Ospedale.”

Mi precipitai alla cella: Leone sembrava a un passo dalla morte.
Il volto aveva perso quel poco colore che aveva ripreso durante la convalescenza, la pelle sembrava carta tesa su stecche di balena e gli occhi erano diventati cavità buie.
“Che vi è successo?” Mormorai affranto.
“Dobbiamo proseguire il racconto, dottore.” Anche la voce sembrava uscire da un morto.
“Assolutamente no, dovete riprendervi!”
“Vi prego, ascoltatemi… Ho bisogno di raccontarvi quegli avvenimenti...”
Mi sedetti sul letto.
 

“Avevo catturato la fata delle nebbie, o per meglio dire Anne. Nonostante il trambusto notai subito un particolare interessante: la sua pelle, per quanto rovinata dalle intemperie, era priva di ogni segno di pellagra e anzi era di un colore pallidissimo. Come poteva essere possibile, dal momento che aveva vissuto nella foresta per almeno dieci anni?

Una volta riportata al villaggio nessuno volle avvicinarsi alla strana processione: io in testa, con Anne legata sulle spalle in modo che non potesse scappare, Philippe dietro di me e vari cani del paese al nostro seguito.
- Che cosa avete fatto? - Il sindaco sembrava talmente sbalordito da rischiare un colpo di apoplessia.
- Questa è la vostra fata: una povera contadina denutrita. - Indicai Anne mentre la rimettevo a terra. Lei cercò in tutti i modi di liberarsi dalle corde che la tenevano prigioniera ma inutilmente. Strisciò dunque accanto al muro della mia casa, dove il tetto gettava un po’ d’ombra sulla strada.
- Siete pazzo! - Alcuni uomini presero a segnarsi con devozione. “La fata si vendicherà su di noi!”
- Ma guardatela! Vi sembra una creatura fatata costei? - La sporcizia, i vestiti a brandelli, il sangue rappreso e la luce di rabbia folle negli occhi di Anne la facevano piuttosto somigliare a una di quelle dementi imprigionate in certi ospizi dove regna solo la crudeltà.
Tutti i paesani che mi avevano seguito fino a casa istintivamente fecero un passo indietro. - Riportatela nella foresta prima che sia troppo tardi! -
- Giammai. Il mio compito è curarla. -
- Badate alla vostra vita allora. -

Nei giorni seguenti mi addossai il duro compito di riportare Anne a una condizione che potesse dirsi umana. Aiutato da Adèline e Philippe, gli unici a essermi rimasti al fianco, lavai la donna e le rasai la chioma selvaggia, dove dimoravano centinaia di insetti. La vestii con abiti usati ma puliti, la nutrii con cibo cotto e sostanzioso, che la poverina divorò avidamente senza ausilio di posate.
Lentamente iniziò a non ringhiare alla mia vista, a smettere di tentare la fuga e di attaccare ogni persona che le veniva vicino. Nei momenti di calma rimaneva seduta nell’angolo più buio della casa, le braccia attorno alle gambe e la testa posata sulle ginocchia, immersa in pensieri di cui non potevo sondare le profondità. Sembrava incapace di parlare e si esprimeva con gesti e versi di animale.
La luce folle dei suoi occhi si era attenuata: non dubitavo del fatto che fosse una povera demente ma non riuscivo a capire se questo stato fosse causato dalla pellagra o da qualcos’altro.
Inoltre la sua pelle mi confondeva: bianca come l’alabastro. La sua avversione per la luce del sole e i segni di pazzia mi avrebbero guidato verso una diagnosi di pellagra se non fosse stato per quella pelle incredibile.

Ipotizzai che si fosse nutrita per anni di quelle radici che i contadini usavano per mitigare i sintomi della dermatite pellagrosa: avevo ancora con me campioni delle radici colte con Philippe e provai a mostrarne alcuni ad Anne. Lei ne annusò uno e iniziò a masticarlo con evidente piacere.
- Forse ci siamo. - Esultai. - Forse è questa la cura che cercavo. -
- Sarà, però della pelle bianca non importa a nessuno qui - commentò Adèline.  - Non sa dire due parole in fila, quella lì: una medicina per farla parlare bene, ecco cosa serve a lei. -
Non potevo darle torto.

Provai tutto quel che potevo. Giorno dopo giorno somministravo ad Anne tonici a base di radici, preparazioni nelle quali usavo le nozioni che avevo appreso alla Sorbona.
Gli abitanti di Lières-au-Bois si tenevano a distanza: avevano smesso di venire a farsi visitare e coglievano ogni pretesto per lamentarsi di Anne. Le furono imputate le morti di una scrofa incinta e di un vecchio cane da caccia, inoltre era d’opinione comune che le nebbie sempre più fitte avessero a che fare con la sua presenza nel villaggio.

A tutte queste accuse Anne non replicava: si limitava a guardare tutti con rabbia e abbaiare come un cane pazzo, per poi ritirarsi nel suo angolo. Grazie al buon cibo di Adèline la sua figura non era più scheletrica: il vestito si tendeva sopra le sue curve, i capelli le erano ricresciuti fino alle orecchie. Certe volte scoprivo i suoi accusatori a guardarla con occhi lascivi e questo mi faceva temere per il suo futuro.
Del resto nemmeno io ero indifferente al suo aspetto: aveva assunto le fattezze di quella creatura boschiva che avevo creduto di intravedere un tempo e ciò mi turbava. Spesso sentivo il suo sguardo su di me e quando alzavo gli occhi per incontrare i suoi non vedevo rabbia o paura.

Avevo consultato il parroco per sapere se ad Anne rimanesse qualche parente in vita.
- Nessuno, ve l’ho detto. Era sola al mondo. - Il parroco stava riordinando i paramenti sacri nella sacrestia. - Avete fatto un’opera buona e Dio ve ne renderà merito ma quella poveretta non ha nessuno al mondo. Salvandola l’avete condannata di nuovo alla miseria. -
- Avreste preferito che la lasciassi al suo destino di bestia selvaggia? Un bell’esempio di carità cristiana.-
- Tra quei boschi non aveva cognizione di sé, - ribatté il parroco, - non ricordava di essere donna: se tornerà sana di mente la sua condizione le sembrerà ancora più dura. -
- Preferite il mondo animale alla civiltà, padre? -
- La civiltà può essere irrazionale e crudele, molto peggio di un branco di lupi. E ci sono azioni indicibili che solo un essere umano è in grado di fare. -
Faticavo a comprendere il senso di quelle parole.
- Dovreste tornare a Parigi e portare quella sventurata con voi. - Fu il suo consiglio mentre ci accomiatavamo. - E tenete queste: sono appunti del vecchio medico sui rimedi popolari di queste terre, me ne aveva fatto dono prima di sparire. Forse potrebbero esservi utili. -

Avevo pensato di fare ritorno a Parigi, certo, ma con una Anne curata e in grado di sostenere gli esami degli eminenti medici della Sorbona. Allora sarei stato accettato nella cerchia dei grandi scienziati, avrei avuto la fama cui anelavo da quando ero bambino. Gli appunti invece erano una semplice trascrizione di decotti per la tosse e altri rimedi a base d’erbe, niente che riguardasse la pellagra.

Intensificai i miei sforzi nelle ricerche, senza risultato, fino a quando una notte preso da non so quale istinto ritornai a sfogliare gli appunti del mio predecessore: invece di cercare una cura per la pellagra provai a cercare rimedi per la debolezza di mente ed eccolo lì, un filtro a base d’erbe e radici, tra cui quella che da settimane stavo usando nei miei esperimenti.
Non aspettai il sorgere del sole e mi misi immediatamente all’opera: all’alba somministrai ad Anne una dose di quel tonico. Lei, che ormai si fidava, fece per bere il preparato ma appena posate le labbra sulla tazza iniziò a urlare come invasata, rovesciò il liquido e cercò di scappare. Dovetti immobilizzarla e farglielo bere a forza, dopodiché ella venne presa da convulsioni e svenne.
Ero terrorizzato: che avessi incautamente avvelenato la donna che avevo giurato di proteggere?

Aiutato da Adèline la rimisi a letto e aspettai.
- Che cosa le avete dato, m’sieur? - Adèline piagnucolava e si torceva le mani.
Finalmente verso sera Anne si risvegliò: quale stupore quando si rivolse a noi in buon francese chiedendo dell’acqua!
- Come ti senti, Anne? - Domandai ansioso. - Sei in grado di rispondere? -
- Dottore… Vi ringrazio – mormorò lei a fatica. - Mi sembra di essere stata svegliata… da un incubo. -
Non ricordava nulla dei dieci anni di tribolazioni: la sua memoria si fermava ai giorni di miseria e di fame perenne.
- Ricordo che doveva venire qualcuno in visita alla mia capanna. - Senza dubbio un medico, pensai.
Lo sforzo nel parlare l’aveva stremata e si riaddormentò.

Immaginerete, dottor Clemente, la mia gioia: avevo guarito una donna, non dalla pellagra è vero, ma da una malattia ancora più insidiosa, la demenza. Avrei fatto il mio ritorno a Parigi e sarei stato innalzato ai vertici della società medica.
Solo allora mi accorsi di una piccola nota sotto la ricetta del filtro: un appunto che il vecchio dottore doveva aver aggiunto dopo la compilazione del trattato perché l’inchiostro era di colore diverso.

Vecchio rimedio di druidi – Ingerito durante la Festa della Primavera, proibito in seguito – Non somministrare in dose eccessiva

Era quindi una vestigia dell’antica medicina druidica quello che avevo dato ad Anne? Ignoravo quali fossero le tradizioni della vecchia Francia: immaginai che durante la Festa della Primavera i druidi curassero i loro malati. Perché allora un rimedio così utile era stato proibito?
Non potevo inoltre dimenticare l’isteria di Anne nel berlo.
Decisi di tornare dal parroco per indagare su quel manoscritto.

Il vecchio sembrava attendermi: - E’ vero dunque? L’avete curata? -
- Come fate a saperlo? -
- Adèline ha la lingua lunga: non dovreste essere qui. Prendete Anne e andatevene subito prima che sia troppo tardi. -
- Calmatevi: che cosa vuol dire tutto questo? -
- Ho vissuto troppo a lungo con questo peso nel cuore: dieci anni fa la miseria portò tutti noi alla follia. Ogni raccolto marciva, eravamo alla fame. I nostri vecchi ricordavano un rito antico, un’invocazione agli dèi pagani: era un rituale crudele ma la fame ebbe la meglio sulle nostre coscienze. Si trattava di offrire un sacrificio agli spiriti della foresta in cambio della fine della carestia. -
- Mi state dicendo che… -
- Fu scelta Anne, - il parroco fissava un punto nel vuoto, - a sua insaputa: era sola, malata, non sarebbe vissuta comunque a lungo. Una notte alcuni di noi entrarono nella sua capanna e… - Si interruppe tremando. - Alla fine di quella notte di orrore le venne fatta bere una pozione con la quale sarebbe diventata simile a una bestia selvaggia. Esatto, dottore: proprio quel filtro che le avete dato. In misura minore era conosciuto da secoli quale rimedio per la demenza da pellagra, come la chiamate voi medici, mentre in grandi dosi provoca la perdita della coscienza e la morte. Credevamo di averla uccisa, invece lei sopravvisse e divenne la fata delle nebbie: abbiamo creato il mostro delle nostre leggende popolari.
Sono stato io ad aggiungere l’appunto al manoscritto. -
- Credete che questo vi redimerà dal vostro crimine? -
- Lo deciderà Iddio. Ora andatevene: la notizia si è sparsa, tutti vorranno impedire che Anne accusi l’intero villaggio! -

Corsi a rotta di collo verso casa mia: davanti alla porta erano già radunati il sindaco e parecchi contadini.
- Dov’è la fata? -
- Le nebbie stanno rovinando i nostri campi, dobbiamo restituire la fata alla foresta. -
- State indietro! - Urlai facendomi largo grazie all’aiuto di un robusto bastone.
- Dottore: se tenete alla vita lasciateci passare – mi intimò il sindaco.
Ero pronto a morire per salvare Anne: cercai di trattenerli ma era una battaglia impari e quasi subito riuscirono a entrare nella casa.

Lo spettacolo che ci accolse è rimasto con me nei miei incubi: la povera Adèline era riversa al suolo in un mare di sangue, la gola squarciata e uno sguardo di terrore impresso nella morte.
Anne era in piedi accanto alla finestra, la bocca sporca di sangue e uno sguardo raggelante di rabbia e soddisfazione. La nebbia che si era alzata durante la notte era entrata tra le mura della mia casa e la avvolgeva come un manto.
- Morirete tutti. - La sua voce era bassa e rauca: non dubitai nemmeno per un istante della sua promessa. - E tu, dottore, vieni con me: tu devi essere mio. -
Raggelato feci un passo indietro.
Il mio disgusto la fece sibilare di rabbia. - Tu sarai mio e voi morirete – ripeté prima di fuggire dalla finestra aperta.”
 

“Incapace di qualunque riflessione uscii senza che nessuno me lo impedisse e, sellato il cavallo, mi allontanai da quel paese maledetto. Cavalcai per ore e ore fino a raggiungere una grossa cittadina da dove presi la diligenza per Parigi. Ero sconvolto: con il passare del tempo credetti di essere stato vittima di un’allucinazione collettiva. Adèline doveva essere stata uccisa da una bestia selvatica e Anne, immobilizzata a letto, doveva essere morta con lei. Cercai di riprendere la mia vita parigina ma durante la notte ero perseguitato da incubi di nebbia e sangue.

Iniziai a evitare i posti solitari e a rifugiarmi nelle case da gioco: il rimedio sembrava funzionare a discapito delle numerose perdite finanziarie. Tuttavia una mattina, di ritorno da una nottata di gioco e depravazione, mi trovai avvolto da una fitta nebbia all’altezza di Montmartre. Nella nebbia mi parve di udire una voce di donna: Sono morti. Ora tu sarai mio.
La visione mi lasciò a terra svenuto. Quando ripresi conoscenza, radunai i miei averi e lasciai Parigi per tornare a Padova, sperando che i miei incubi rimanessero in suolo francese. Mi sbagliavo.”

Faticavo a trovare un senso nelle parole di Leone: la mia mente si ribellava a quella che ritenevo una fantasia folle di un malato eppure qualcosa nella voce e nell’espressione mi faceva mettere in dubbio ogni cosa in cui credevo.
“Vorreste dire che la creatura vi ha seguito?”
“L’ho vista nella nebbia qualche tempo dopo essere entrato qui. Il gioco ormai aveva ingoiato ogni mio avere e mi rinchiusero qui come un volgare debitore. Una sera ero nel cortile assieme ad altri carcerati: si alzò la nebbia e mi sembrò di distinguere un volto di donna.”
“Potrebbe essere stata la vostra immaginazione.”
Mi afferrò una mano. “Vi giuro che è vero. Credetemi, lei è qui, mi ha trovato. Per questo voglio che mi facciate un ultimo favore, Clemente: non lasciate che mi prenda, uccidetemi voi!”
Sconvolto, lo abbracciai come mai avevo osato fare prima.
“Che cosa dite, Leone, non potete chiedermi questo! Come potrei farlo?”
“Vi prego: se quella creatura avrà la meglio non so che cosa ne sarà di me.”
“Vi farò uscire da qui e vi porterò lontano,” gli presi il volto tra le mani, “andremo in Grecia o in Turchia, dove la nebbia non esiste e quell’essere non potrà nuocervi.”
“Fareste questo per me?”
“Per voi farei tutto.” In preda alla commozione lo baciai e quale felicità quando lui ricambiò con trasporto. Per un lungo attimo quella cella mi parve il paradiso.
A malincuore ci staccammo.
“Aspettami: pagherò il tuo debito e fra un paio di giorni ce ne andremo da qui.”
Come avrei voluto non doverlo lasciare!
 
 
 
20 novembre 1855
 
Tutto è pronto: il debito di Leone, per quanto ingente, è stato pagato dalla vendita della mia casa. I pochi risparmi rimasti ci permetteranno di raggiungere Atene e da lì Smirne oppure Creta. Non ho rimpianti nel partire: mi basterà Leone per sentirmi a casa.

Alcuni fatti mi hanno spinto ad affrettare la nostra partenza: ieri camminavo per le strade accanto alla novella stazione ferroviaria, voluta dal governo asburgico per congiungere più velocemente Mestre e Venezia a Padova e all’entroterra e che finora ha causato solo l’impoverimento di coloro che lavoravano nei trasporti fluviali. Avevo appena acquistato i biglietti che avrebbero condotto me e Leone a Venezia per imbarcarci sul piroscafo per Atene quando mi assalì la sensazione sgradevole di essere seguito. Mi voltai ma non vidi nessuno.
Proseguii per qualche metro: le luci dei lampioni illuminavano la sera fredda e nebbiosa.
Una voce roca, sinistra come un presagio, d’un tratto mi sussurrò all’orecchio: Egli non sarà mai tuo.
Il terrore più totale mi impediva di girarmi per vedere il mio interlocutore, le membra non rispondevano ai miei comandi: intuiva forse il mio corpo di trovarsi al cospetto di qualcosa che nulla aveva a che fare con la razza umana?

Il momento passò, la presa si sciolse: rivoli di sudore freddo colavano dalle mie tempie come se avessi corso per lunghissimo tempo.
Mi affrettai verso casa e mi rinchiusi nella mia stanza, dove passai una notte insonne.
A che cosa devo credere?
 
 
 
21 novembre 1855
 
Un crollo alle Debite: la notizia mi ha svegliato or ora. Sento l’affrettarsi dei cittadini nonostante sia appena passata la mezzanotte.
Al mattino è previsto lo scarceramento di Leone: devo correre alla prigione prima che ogni nostra speranza sia vanificata!
 
 
22 novembre 1855
 
Scrivo queste righe piangendo: in poche ore mi è stato tolta ogni cosa.

Le urla che annunciavano il crollo ieri mi svegliarono da un incubo spaventoso: in esso ancora il viso di Leone si sovrapponeva a quello della creatura delle nebbie diventando un solo essere che si accingeva a divorarmi.
Senza perdere tempo mi gettai addosso qualche indumento e corsi fuori verso le Debite: mi scontrai con un manto di nebbia denso come mai se n’erano visti a memoria d’uomo.

Sentivo attorno a me le voci di cittadini e guardie che brancolavano nell’oscurità umida e gelida: ogni tentativo di accendere torce o ceri era vano. A tentoni avanzai lungo portici e strade, inciampando e strisciando, fino a quando non vidi davanti a me ombre più solide di un fantasma e un grande falò che ardeva cercando di illuminare Piazza delle Erbe: erano i soldati delle Debite, guidati dal Valle, che tentavano di arginare i danni del crollo improvviso.
Mi feci largo tra di loro incurante di tutto fino a raggiungere il Valle: coperto di polvere e sangue rappreso il tenente stava guidando i suoi uomini nella rimozione delle macerie. “Che ci fate voi qui?” Urlò con voce terribile. “Tanto meglio, i feriti sono da quella parte: andate!”

“Dov’è lui?” Tutte le morti del mondo non avevano importanza ai miei occhi. “Dov’è?” Afferrai Valle con una forza che non sapevo di avere e lo scossi frenetico.

“Ancora all’interno, maledizione a voi!” Il tenente si staccò dalla mia stretta. “Quella parte di edificio è ancora intatta, sono stati colpiti gli alloggi dei soldati e la camerata soprastante. Maledetti indipendentisti, dovevamo aspettarcelo!”

Avevo ben pochi dubbi su quale fosse la causa di quel crollo improvviso ma non rimasi a spiegare la mia teoria al Valle: mi gettai nella nube di polvere e nebbia e corsi verso quel che rimaneva della prigione, accompagnato dalle urla rabbiose del tenente.

Faticavo a respirare: l’umidità si legava alla cenere dei calcinacci tanto che mi sembrava di respirare attraverso uno strato di fango. Il portone era distrutto, mi feci strada tra i corpi dei soldati che avevano avuto la disgrazia di essere stati assegnati al turno di guardia quella notte fatale.

Le scale erano ancora in piedi per miracolo: senza esitare mi lanciai sui gradini e raggiunsi l’ala dove si trovava la cella di Leone. I prigionieri ancora rinchiusi nella camerata al vedermi iniziarono a supplicare per essere liberati ma non avevo tempo per loro. La porta di Leone era intatta: afferrai un calcinaccio e colpii ripetutamente la serratura.

“Leone!” Gridavo intanto. “Leone, parlami!”
La serratura cedette e con una spallata fui dentro.

Quale terribile scena mi trovai innanzi!

Il corpo di Leone pendeva da una trave del soffitto: la lingua nera e ingrossata sporgeva dalle labbra, così come gli occhi vitrei e gonfi, sul volto cianotico ancora vedevo i segni di un terrore indicibile.

Accanto a lui una donna vestita di bianco, dai contorni evanescenti come la nebbia notturna. I lunghi capelli sciolti sulle spalle erano neri, le labbra rosso sangue, le pupille accese di rabbia inumana mentre fissava il cadavere di Leone, del mio Leone che aveva scelto l’unico modo possibile per sfuggirle.

Non poteva essere vero, non poteva essere vero.

La creatura spostò l’attenzione su di me.

Se non posso avere lui avrò te.

Si mosse nella mia direzione.

Le gettai addosso il calcinaccio che ancora avevo in mano e che lei parò con un movimento innaturale. Ero di nuovo reso immobile dal terrore: alzai gli occhi verso il cadavere del mio povero Leone e questo mi diede la forza per correre fuori dalla cella, lungo il corridoio e giù per le scale dove mi scontrai con alcuni soldati, venuti finalmente a soccorrere i prigionieri.

“Fermi, non salite! Scappate!” Il mio aspetto dovette convincerli più di qualsiasi mia parola. Corremmo fuori dall’edificio in rovina e infine, davanti al fuoco, svenni.
 
 
Il resto di quella notte tremenda è un ricordo vago: quando mi ripresi era l’alba. La nebbia si era dissolta permettendo di capire quale disastro era avvenuto: l’intera parte destra delle Debite non esisteva più. I soldati stavano ancora lavorando per estrarre i superstiti dalle macerie. Girava voce tuttavia che nessuno dei prigionieri dell’ala risparmiata fosse ancora in vita: “Le loro facce, signore: devono essere morti per un forte spavento.” Fu quel che sentii un soldato sussurrare al tenente Valle.

La creatura si era rifatta su di loro per la perdita di Leone.
Ricordai allora le sue parole: Se non posso avere lui avrò te.

La mia unica speranza di salvezza è il piroscafo in partenza questa sera da Venezia ma la morte di Leone mi ha privato di ogni volontà di vivere.
Tenterò comunque la fuga: ho con me un potente veleno che utilizzerò se lei dovesse raggiungermi.

Devo partire prima che sia troppo tardi: ah, Leone, perché non sono riuscito a salvarti?
Basta con gli indugi: lascio queste carte affinché un giorno qualcuno sia in grado di debellare il mostro che uomini scellerati decisero di creare.

La nebbia inizia a salire.
  
Leggi le 5 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<  
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Soprannaturale / Vai alla pagina dell'autore: Jordan Hemingway