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Autore: Parmandil    07/01/2019    1 recensioni
“L’utopia come obiettivo è il fuoco nel motore nucleare. L’utopia come pratica è stagnazione, putrefazione; alla fine è la morte. Che è precisamente dove troviamo la Federazione Unita dei Pianeti, un secolo dopo il termine dell’Età dell’Esplorazione”.
Siamo nel XXVI secolo, anno 2550. La Federazione sembra passarsela bene, ma i più accorti, come il Capitano Chase, sanno che non è così. La Federazione, infatti, sta ristagnando: i confini sono statici e l’esplorazione langue. Gli Umani si sono impigriti: nessuno vuole più rischiare la vita lontano da casa. Le poche esplorazioni sono condotte con sonde automatiche, mentre le astronavi – ormai antiquate – si limitano a pattugliare lo spazio federale. Gli equipaggi sono sotto organico, male addestrati e poco motivati.
In quest’epoca decadente, le crisi aumentano: sia esterne (guerriglie oltreconfine), sia interne (mondi insoddisfatti dalla soffocante burocrazia federale). Oggetto di contesa è anche la Prima Direttiva, che molti ritengono superata. Per reagire alla pericolosa stagnazione, la Flotta Stellare vara un progetto rivoluzionario: la USS Enterprise-J, di classe Universe, una “città nello spazio” che ripropone i valori della Federazione. Ma nemmeno l’Enterprise potrà arginare l’oscura minaccia che riemerge dal passato, per frantumare la Federazione e tutto ciò che rappresenta.
Genere: Avventura, Azione, Science-fiction | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Jonathan Archer, Nuovo Personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate
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Star Trek Universe Vol. I:

Il ritorno dei Costruttori

 

 

SPAZIO, ULTIMA FRONTIERA.

QUESTI SONO I VIAGGI DELLA

NAVE STELLARE ENTERPRISE.

LA SUA MISSIONE È ESPLORARE

STRANI, NUOVI MONDI,

SCOPRIRE NUOVE FORME DI VITA

E NUOVE CIVILTÀ,

FINO AD ARRIVARE LÀ

DOVE NESSUNO È MAI GIUNTO PRIMA.

 

 

-Prologo:

Data Stellare 2540.072

Luogo: Macchia di Rovi (dove pochi sono giunti prima...)

 

   Oscurità.

   Freddo.

   Un ticchettio insistente, quasi metallico. Tic-tic-tic-tic...

   Alexander Chase, ufficiale della Flotta Stellare, si sforzò di aprire gli occhi, ma era come se il suo corpo non rispondesse. Non riusciva a muoversi. Non riusciva nemmeno a pensare con chiarezza. Era un sogno? Era quello strano dormiveglia che ci coglie al mattino, quando spuntano i primi barlumi di coscienza, ma il corpo è ancora intorpidito? Chase non conosceva la risposta. Ma sapeva che c’era qualcosa di orribilmente sbagliato. Si concentrò sui propri sensi, nello sforzo di risvegliarli uno alla volta.

   L’aria era fredda, secca, rarefatta, come in alta montagna. E quel ticchettio – insistente, fastidioso – non finiva mai. A volte era più forte, come se la fonte si avvicinasse. In certi momenti sembravano essercene molti, che si sovrapponevano. Chase sentì una superficie liscia e dura sotto i polpastrelli. Si rese conto di esservi steso sopra. Era steso su qualcosa di... metallico? Di certo non era il suo letto. Era forse caduto sul pavimento, dopo essersi rigirato nel sonno? Impossibile... nel suo alloggio c’era la moquette. Quindi dov’era?

   Il giovane corrugò la fronte, cercando di rimettere in funzione il suo cervello. «Ricorda!» si disse. «Sei Alexander Chase, tenente dell’Enterprise. Dell’Enterprise! Ricorda l’addestramento in Accademia… che fai, quando ti accorgi che il nemico ti ha drogato?».

   Chase assunse il controllo della respirazione. Prese a inspirare profondamente con il naso, espirando con la bocca. Strinse i denti e serrò i pugni, fino a conficcarsi le unghie nei palmi. Un fremito percorse il suo corpo, da capo a piedi. Con un puro sforzo di volontà, il giovane aprì gli occhi, sebbene le palpebre fossero pesanti come saracinesche.

   Sulle prime non ci fu quasi differenza. Ma poco alla volta comparvero delle macchie di luce bianca e rosso cupo. Chase si sforzò di metterle a fuoco. Erano pannelli luminosi alle pareti. Per un attimo la visione tornò a sfocarsi. Chase strinse gli occhi, scosse la testa, li riaprì. Ora i contorni erano più definiti. I dettagli apparvero davanti a lui, prima quelli vicini, poi anche i più lontani. Chase li osservò attentamente, cercando di capire dove si trovava.

   Era una stanza piuttosto angusta, dal soffitto basso. La luce proveniva da numerosi pannelli biancastri e il pavimento la rifletteva, colorandola di rosso sanguigno. C’era anche qualche sottile pannello azzurro, ma nel complesso la camera era alquanto buia. Tutto era di metallo. Ovunque c’erano attrezzi sconosciuti, dalle forme aliene, inquietanti. Sembrava un laboratorio... ma di che genere? E chi lo gestiva?

   Chase capì di essere steso su un lettino. Probabilmente un lettino medico, a giudicare dagli strani arnesi che spuntavano ovunque. Era in infermeria? Ma quale infermeria? Di certo non una dell’Enterprise. La tecnologia che lo circondava era estranea. Nulla a che vedere con la Flotta Stellare, o con altre organizzazioni federali. Si trovava forse in un ospedale alieno? E se sì, come c’era arrivato?

   Chase cercò di alzarsi, ma solo allora si rese conto che non poteva. Ceppi metallici gli serravano polsi e caviglie, imprigionandolo sul lettino. No, sul tavolo operatorio, si disse notando il particolare più inquietante. Su di lui incombeva un sottile attrezzo snodato: un braccio metallico che terminava in due lame seghettate. Erano come chele di un granchio, leggermente ricurve verso l’interno. Affilate com’erano, avevano un’aria micidiale. Chase non dubitò che potessero ucciderlo.

   Inclinando la testa da un lato, vide accanto a sé un altro lettino. C’era sopra qualcuno, una donna... ma non riusciva a vederla in viso. Comunque non si muoveva; con ogni probabilità non era cosciente. Chase stava per chiamarla, ma sentì che il ticchettio aumentava di volume. Si stava anche facendo più rapido, più agitato. Girò la testa dall’altra parte. E vide i padroni di casa.

   Erano due, indaffarati attorno ai comandi di un incomprensibile strumento tecnologico. Indossavano ampie vesti con cappuccio, che ricordavano vagamente il saio di qualche ordine monastico. Poiché gli davano le spalle e i cappucci erano alzati, Chase non scorgeva nulla del loro aspetto. Vedeva solo le pesanti tonache, color oro brunito, che luccicavano a ogni movimento. Ma non dubitò che i proprietari fossero alieni. Dovevano esserlo parecchio, per emettere quegli schiocchi. Aguzzando la vista, Chase notò le loro mani. Erano mostruose, con due sole dita enormi, dai lunghi artigli. La pelle era violacea e squamosa.

   Una delle creature si girò lentamente. Subito Chase chiuse gli occhi e ricadde sul lettino, fingendosi ancora privo di sensi. Sentì dei passi in avvicinamento. Gli schiocchi erano vicinissimi, ora. E quell’odore... sembrava pesce fritto. O zuppa di pesce andata a male. Comunque non era amichevole. Niente di quella situazione lo era.

   Chase si sforzò di continuare la sua finzione, ma era difficile controllare il respiro. Si sentiva soffocare, avrebbe voluto urlare. Il sudore gli imperlava la fronte e il cuore gli batteva a mille. In tutta la sua vita, Chase non era mai stato così terrorizzato. A che scopo fingere? Se quelli erano medici, o comunque scienziati, si sarebbero certamente accorti che era cosciente.

   Quando un lungo ago gli perforò il collo, arrivando fino al midollo spinale, il giovane superò il punto di rottura. Lanciò un grido animalesco, spalancò gli occhi... e si trovò faccia a faccia con il suo aguzzino. Non era umano, ovviamente, e neanche umanoide. Aveva un muso violaceo e squamoso, da pesce. Gli occhi erano enormi e sporgenti. Per un attimo rimasero fissi, mentre l’essere lo studiava. Poi si mossero indipendentemente in tutte le direzioni, come quelli di un camaleonte, accompagnati da un ticchettio concitato.

   «Chi... sssiete?! Che... volete da me?!» biascicò Chase, con la bocca intorpidita. «Lasciatemi... brutti... mostri!». Era un incubo, e niente del suo addestramento all’Accademia – o dei suoi anni di servizio sull’Enterprise – poteva salvarlo. Ti trovi legato a un tavolo operatorio, mentre misteriosi esseri anfibi fanno esperimenti su di te, comunicando a schiocchi... che fai? Non puoi muoverti; sei così intorpidito che neanche riesci a parlare come si deve. A che ti servono tutte le lezioni sul Primo Contatto e la diplomazia spaziale? A che ti serve essere Tenente sull’Enterprise? No... non c’è niente che possa frenare il terrore atavico della trappola. Il panico di un animale in gabbia. Chase si scosse, lottando furiosamente per liberarsi, pur sapendo che mai avrebbe spezzato il metallo alieno che lo serrava sul tavolo. Urlò a squarciagola...

   ... e si alzò, madido di sudore, col cuore che batteva all’impazzata. Si guardò freneticamente attorno, alla ricerca dei sequestratori alieni. Ma non c’era traccia di loro, né del laboratorio. Chase si rese conto di essere nel suo alloggio sull’Enterprise. Era steso sul letto, il suo morbido letto. Dalla finestra sopra la testata, la fioca luce delle stelle illuminava appena i contorni familiari della camera. Le coperte erano sparpagliate attorno a lui, in disordine. Doveva essersi agitato parecchio, durante il suo... incubo, ma certo. Non poteva essere altrimenti. Si era trattato solo di uno spaventoso incubo.

   «Computer, luci» gracchiò il giovane, ancora scosso. I pannelli luminosi entrarono in funzione e una calda luce diffusa, color crema, rischiarò l’alloggio. Sì, quella era proprio la sua piccola casa nello spazio. Vedere gli oggetti familiari attorno a lui lo rincuorò. Poco alla volta, il respiro e il battito cardiaco si normalizzarono. Chase ricadde sul cuscino e si passò le mani sul volto, asciugandosi il sudore. Era stato il peggior incubo della sua vita. Il più terrorizzante, e anche il più realistico. Gli sembrava ancora di sentire quell’inquietante ticchettio, quel lezzo di pesce marcio... e il dolore dell’iniezione, già. Si passò la mano tutt’intorno al collo, tastando con prudenza, ma non c’era nulla d’insolito. Quel dolore basso e pulsante stava rapidamente svanendo. Doveva essere un banale intorpidimento; forse aveva dormito nella posizione sbagliata.

   «Computer, che ore sono?» chiese con voce più calma.

   Il computer si attivò con il familiare bip-bip. «Sono le 5:47» rispose la rassicurante voce femminile. «La sveglia è fissata alle...».

   «Sì, lo so, dovrei dormire ancora un’ora» l’interruppe Chase, seccato. «Ma chi si riaddormenta, dopo uno spavento del genere?» disse, stropicciandosi gli occhi.

   «La sua domanda non è riconosciuta; prego riformulare» rispose il computer.

   «Lascia perdere» disse Chase, alzando gli occhi al soffitto. Era incredibile che, dopo secoli d’Intelligenze Artificiali – androidi, ologrammi – i processori delle astronavi fossero ancora così stupidi. Ma era una cosa voluta. Gli esperimenti con le IA avevano dimostrato che, se si dava un cervello pensante all’astronave, si creavano conflitti con l’equipaggio. Molti si mettevano a bisticciare con il computer, o a fargli richieste strampalate. E se il computer era in disaccordo con le scelte del Capitano, si rischiava un pericolosissimo ammutinamento cibernetico. Piuttosto era meglio usare un computer “stupido”, non autocosciente, e contare sull’equipaggio.

   Chase era troppo scombussolato per rimettersi a dormire, e comunque mancava poco alla sveglia. Tanto valeva alzarsi. Si levò il pigiama, andò in bagno e fece una doccia sonica, sperando che lo aiutasse a riprendersi.

   «Diario di bordo, data stellare 2540.072» disse a occhi chiusi, mentre le microonde soniche lo ripulivano da capo a piedi. «Stanotte ho fatto un incubo pazzesco. Era... beh, iperrealista. E angosciante. Sono ancora scosso. Forse dovrei parlarne col dottore... o magari col Consigliere. Uhm... meglio di no. Ormai li conosco. Mi suggerirebbero di distrarmi col ponte ologrammi, ma non ne ho bisogno» bofonchiò.

   Finita la doccia sonica, Chase indossò l’uniforme. Osservando i gradi sul colletto, ritrovò un po’ di buonumore. In pochi anni di servizio era passato da Guardiamarina junior a senior, poi a Tenente, e ormai era nell’aria la promozione a Tenente Comandante. Non che ci fossero state grandi fatiche o rischi. Erano passati i tempi avventurosi di Archer, Kirk e Picard. I tempi in cui le navi della Flotta Stellare si avventuravano in regioni della Galassia mai cartografate. Adesso una cosa del genere sembrava folle, irresponsabile, o quantomeno bislacca.

   Nei cinque anni che Chase aveva passato a bordo, l’Enterprise-I si era limitata a pattugliare lo spazio federale. Era una nave di classe Altair, dall’inconsueta forma a boomerang, con la plancia a prora. La sezione motori era lunga e sottile, quasi ad ago. Le gondole quantiche, eredi delle vecchie gondole a curvatura, erano anch’esse affusolate e si agganciavano alle estremità del “boomerang”. Una forma così esile comportava uno spazio limitato a bordo. A farne le spese erano hangar, armamenti e persino la strumentazione scientifica, ridotti al minimo. Non era previsto che questa classe ne avesse un gran bisogno, essendo progettata per meri scopi di pattuglia.

   L’Enterprise-I ne era un buon esempio. A volte sorvegliava le rotte commerciali interne, che univano pianeti e colonie, avamposti e stazioni, in un’invisibile ma indispensabile sistema circolatorio. Altre volte controllava il perimetro esterno della Federazione, ma sempre rimanendo prudentemente di qua dal confine. Il Capitano Vorix diceva che quando una società diventava matura, raggiungendo il suo pieno potenziale, non aveva più bisogno di avventurarsi in regioni selvagge e ostili. Tutto era perfetto così com’era. «Ma così non si scoprono nuovi mondi, nuove forme di vita e civiltà» si disse Chase, guardandosi allo specchio e sospirando. In effetti, l’Enterprise-I non ne aveva mai scoperta nessuna. I momenti più emozionanti erano stati alcuni scontri con i pirati di Orione e i cacciatori Hirogeni. Nulla di veramente pericoloso, non per l’ammiraglia della Flotta Stellare. L’Enterprise-I faceva sì che le rotte spaziali fossero sicure, che i cittadini della Federazione potessero viaggiare e commerciare liberamente. Partecipava a conferenze scientifiche, a cerimonie e incontri diplomatici. Sondava i sistemi stellari già conosciuti, registrando ogni minimo cambiamento. Questo era tutto.

 

   Chase lasciò il suo alloggio e si diresse verso la sala mensa. Siccome era più presto del solito, non incontrò quasi nessuno; il personale del turno di notte non era ancora smontato. Anche la sala mensa era quasi deserta. Solo un paio di tavoli erano occupati, da due gruppetti di ufficiali che Chase non conosceva granché. Dopotutto c’erano 825 persone a bordo: non si poteva conoscere tutti.

   «Una zuppa plomeek» ordinò al replicatore alimentare. Scodella, cucchiaio e zuppa comparvero con il tipico ronzio delle molecole risequenziate. Chase ne aspirò il profumo: tenue, come quasi tutti i piatti vulcaniani, ma gradevole. I Vulcaniani avevano un odorato finissimo, perciò non amavano la cucina tropo speziata. Recandosi al suo solito tavolo, Chase allungò lo sguardo verso i colleghi, per vedere cosa stavano mangiando. Restò stupito e un po’ disgustato nel vedere che tutti – anche gli Umani – avevano grosse scodelle piene di larve. Doveva essere una prelibatezza Ferengi, pensò Chase. I Ferengi andavano matti per vermi e bacherozzi vari, preferibilmente vivi. E da quando erano entrati nella Federazione, le loro discutibili usanze alimentari si erano diffuse a macchia d’olio.

   Chase sedette in modo da poter guardare i colleghi. Sorseggiò con calma la zuppa plomeek. Ogni tanto alzava lo sguardo, per vedere come si comportavano. Notò che non usavano posate: ficcavano le mani nude in quel verminaio, raccoglievano le grasse larve giallognole e se ne riempivano la bocca. Inghiottivano quasi senza masticare. Chase si fece un appunto mentale: mai andare in sala mensa prima dell’orario consueto. C’era gente dagli strani gusti, a quell’ora.

   «Guarda chi si vede! Posso unirmi a te?» trillò una calda voce femminile, che Chase conosceva bene.

   «Certo, Serleen. Come vedi, non ci sono problemi di spazio» sorrise il Tenente, accennando alla sala semideserta. Alzò gli occhi verso la sua collega e amica. Serleen N’Rass era una Caitiana, nativa del pianeta Ferasa. Per ragioni incomprensibili agli scienziati, la sua gente aveva una spiccata somiglianza con i felini terrestri. Le differenze principali, oltre all’intelligenza, erano la postura eretta e le dita prensili, simili a quelle umane (ma pur sempre con artigli retrattili).

   Serleen sedette graziosamente davanti a Chase, lasciando che la lunga coda leonina penzolasse a lato della sedia. Aveva una gran criniera fulva, pelliccia color crema e grossi occhi gialli, dalle pupille verticali. Posò sul tavolo il suo pasto, un soufflé di hasperat.

   «Lo mangi per colazione? Non finisci mai di stupirmi» commentò Chase. Al contrario della cucina vulcaniana, quella bajoriana era molto speziata. Il profumo del soufflé era fortissimo.

   «Sai che mi piace sperimentare cose nuove. La settimana scorsa ho scoperto la cucina bajoriana, e ne sono già dipendente» scherzò Serleen. Il primo boccone sparì fra le sue zanne acuminate.

   «Basta che non passi a quella Ferengi» commentò Chase.

   «Come?» si stupì Serleen.

   «Lascia stare». Chase si concentrò sulla sua minestra.

   «Uhm... allora, mi dici perché sei così mattiniero?» chiese la Caitiana, cambiando argomento.

   «Mi sono svegliato in anticipo. Per via di un brutto sogno» borbottò Chase, che avrebbe preferito dimenticarselo.

   «Ah, ecco cos’è. Non volevo dirtelo, ma... hai una brutta cera» disse Serleen. «Sembra che tu abbia visto il Diavolo in persona».

   «Qualcosa del genere» ammise Chase, controvoglia. «Ma che mi dici di te? Anche tu sei più mattiniera del solito».

   «Beh, in effetti... è da qualche giorno che anch’io non dormo bene» ammise la Caitiana. «Quando mi sveglio, ho l’impressione di essermi appena coricata. Anzi, mi sento più stanca al mattino che alla sera».

   «Per me è lo stesso» disse Chase. L’Umano e la Caitiana si guardarono negli occhi, leggendovi la reciproca stanchezza.

   «Senti, odio fare domande stupide, ma... non potrebbe c’entrare in qualche modo la Macchia di Rovi?» chiese Serleen dopo qualche secondo.

   «Come? No, non credo proprio!» esclamò Chase. «Non finché pattugliamo il perimetro esterno. A meno che tu non ci abbia portati dentro per sbaglio» scherzò.

   «Ah ah. Senti, lo so che sono solo una stupida timoniera» ironizzò Serleen. «Ma tu che hai mansioni scientifiche, avrai fatto qualche lettura della Macchia. Sai, i sensori – quelle lucine sulla tua consolle – servono a questo» ironizzò.

   «Sai quant’è complicato avere letture decenti della Macchia» sospirò Chase. «La Flotta la conosce da quattrocento anni, eppure non esistono ancora mappe complete delle sue zone più interne. Anche perché muta in continuazione. Resti di supernove, radiazioni metafasiche, fluttuazioni di falso vuoto... l’incubo dei naviganti. Per non parlare degli ordigni bellici inesplosi».

   «Ma è nello spazio federale; sarebbe ora d’esplorarla come si deve!» obiettò Serleen.

   «Se riesci a convincere il Capitano Vorix, ti offrirò soufflé per un anno» sogghignò Chase.

   «Per carità, ricordo ancora la ramanzina che mi fece quando sfiorammo le Badlands» fremette Serleen. «Perché entrare in una regione pericolosa, se la puoi circumnavigare?» disse, imitando il tono serioso del Capitano. Lo fece a bassa voce, per non essere udita dagli altri ufficiali presenti in sala. «Però, scherzi a parte, vorrei davvero che ci entrassimo» aggiunse, facendosi seria.

   «Perché?».

   «Perché ieri sera ho consultato il database, e ho notato che la Macchia non ha fatto che espandersi da quando la conosciamo» spiegò Serleen. «In particolare nell’ultimo secolo c’è stata un’impennata di anomalie strane e pericolose. E nessuno sa il perché! Presto le colonie e gli avamposti al confine saranno minacciati. Come anche il pianeta Ba’ku, che ci sta dentro. Finora è stato in una bolla di spazio calmo, ma non lo resterà a lungo».

   «Sarebbe un problema per i vacanzieri» rispose cinicamente l’Umano. «In compenso i Risiani ne sarebbero entusiasti: il loro pianeta tornerebbe in cima alle prenotazioni». La rotta per Ba’ku era l’unica che si addentrava nella Macchia. Tanto interesse dipendeva dagli anelli del pianeta, che emettevano speciali radiazioni: invece di danneggiare il DNA lo riparavano, allungando la vita. Da quando Ba’Ku era divenuto un protettorato della Federazione, il flusso di turisti era costantemente aumentato.

   «Guarda che parlo sul serio!» disse Serleen, soffiando irritata.

   «Anch’io. Quando c’è un mistero del genere, dovremmo indagare. Invece... bah! Sai cosa penso della Flotta? Che abbia perso la vocazione!» disse Chase, sfogando il suo malessere e la sua frustrazione. «Nessuno si azzarda più a esplorare. Per non correre rischi, ci accontentiamo di pattugliare i confini... che non si espandono da mezzo secolo. Oh certo, facciamo da polizia. Ma non è per questo che mi sono arruolato. Sai che c’è scritto, sulla targa commemorativa di questa nave? “Per arrivare là dove nessuno è mai giunto prima”. È il motto di tutte le Enterprise. Ma quelle del passato, pur inferiori in tecnologia, avevano Capitani ed equipaggi che volevano fare la differenza. Quando c’era un problema, loro lo affrontavano, invece di scansarsi. E in genere lo risolvevano».

   «Pensi che fossero migliori di noi?» chiese Serleen turbata, stropicciandosi una ciocca della criniera rossiccia.

   «Di certo erano più audaci» sospirò Chase. «Pensa a noi Umani. In appena un secolo ci siamo risollevati dalla Terza Guerra Mondiale, abbiamo inventato la propulsione a curvatura, costruito astronavi e fondato colonie, trovato alleati e respinti i nemici, fondato la Federazione!» esclamò, contando sulle dita. «Invece, nell’ultimo secolo, che abbiamo fatto? Niente di niente!» proseguì accalorandosi. «La maggior parte di noi è così... grassa e felice che non sa nemmeno perché esiste la Flotta Stellare. Siamo più numerosi che mai, eppure la Flotta è pesantemente sotto organico. La maggior parte degli ufficiali è attempata e presta servizio su navi fatiscenti. E i più giovani... beh, lo sai. La maggior parte dei nostri coetanei sono impreparati contro le avversità. Noi due abbiamo fatto carriera in fretta, ma non perché siamo eccezionali. Noi siamo normali; è il livello medio che si è abbassato».

   Conclusa la tirata, Chase tacque. Per un po’ rimasero entrambi in silenzio, pensando a quante volte – in Accademia e poi in servizio – avevano visto sconcertanti dimostrazioni d’inadeguatezza. Se la maggior parte dei sistemi non fosse stata automatizzata, probabilmente l’equipaggio non sarebbe neanche riuscito a far funzionare l’Enterprise.

   «Scusa se ho tirato in ballo la Macchia. Non pensavo che fossi così giù di corda» disse infine Serleen.

   «Sarà l’insonnia».

   «Beh, fatti dare qualcosa dal dottore. Io penso che ci farò un salto, a fine turno. Comunque cerca di restare normale!» disse Serleen vivacemente.

   «Che intendi?».

   «Andiamo, l’avrai notato che ultimamente i nostri colleghi sono strani. Hanno tutti quella faccia da funerale! Mai un saluto, mai un sorriso. C’è gente che conosco da anni, e di colpo manco mi saluta! Come se non mi conoscessero più».

   «Sì, l’ho notato. Forse anche loro dormono male» mormorò Chase, dando un’occhiata ai suoi colleghi, quelli che stavano mangiando larve. «Nel loro caso potrebbero essere problemi di stomaco. Hai visto che hanno nel piatto?».

   «Non farmici pensare» rabbrividì Serleen.

   Nel tempo trascorso dall’inizio della conversazione, la sala mensa aveva cominciato a riempirsi. Erano gli ufficiali del primo turno che si preparavano a entrare in servizio, sostituendo quelli del turno di notte. Chase notò che erano in tanti ad aver sviluppato una passione per i vermi e le larve. «Ma sarà proprio cucina Ferengi?» si chiese. Quelli che erano in mensa al suo arrivo avevano ormai finito il pasto. Si alzarono in piedi contemporaneamente, riposero le ciotole con gesti sincronizzati e uscirono dalla mensa, camminando al passo. Tutto senza dire una parola e senza muovere un solo muscolo del viso. Passi la noia della routine, ma quell’atteggiamento parve eccessivo a Chase. Sembrava che lui e Serleen fossero gli unici a provare qualche emozione, anche se non delle migliori. Il Tenente desiderò aver legato con un maggior numero di colleghi, così avrebbe notato meglio i cambiamenti.

   «Senti, ti va di andare sul ponte ologrammi, stasera?» propose Serleen.

   «Come?» fece Chase, che si era distratto.

   «Il ponte ologrammi... ho parecchie ore arretrate» spiegò la Caitiana. «Potremmo divertirci un po’... insieme» ammiccò. Le sue orecchie fremettero e la coda a ciuffo si agitò dietro la sedia.

   «Che hai in mente, di preciso?» chiese Chase, accorgendosi che l’amica si era messa a flirtare.

   «Oh, andiamo! Ci conosciamo dall’Accademia e ancora non sai i miei gusti?» ridacchiò Serleen, facendo scintillare i denti aguzzi. «Io amo le sensazioni forti. Frell! Che gusto c’è a vivere, se non puoi sentirti vivo?! Stavo pensando a qualche programma piccante, per risollevarci il morale. È da una vita che voglio provare Schiavo d’amore vulcaniano, ma non ho mai trovato il partner adatto».

   Chase fischiò sommessamente. «Hai detto poco! Non credo che qualcuno possa sopravvivere alla saga completa».

   «Non ho mica detto di farla in una volta sola! Possiamo farci un capitolo per volta» suggerì Serleen.

   «In Modalità Soggettiva?» chiese Chase, circospetto.

   «Certo, che domande! Credi che mi accontenti di fare da spettatrice? Dai, ci divertiamo! Io sarò T’Lana, e tu il povero Shmun sconvolto dal pon farr…» sogghignò la Caitiana.

   Visto che il giochetto si stava facendo serio, Chase pensò di correre ai ripari. «Basta così. Non sarebbe... appropriato» disse, alzando l’indice in gesto di diniego.

   «Perché no?!» chiese Serleen, stupita e un po’ frustrata dall’inaspettato rifiuto.

   «Siamo colleghi» rispose Chase, imbarazzato.

   «E che vuol dire? Non stiamo mica violando il regolamento!» rispose la Caitiana con veemenza. In effetti il codice della Flotta non proibiva le relazioni tra colleghi, finché erano condotte con discrezione e non influivano sul lavoro.

   «Siamo anche amici. E vorrei che lo restassimo» precisò Chase.

   «Guarda che è solo un gioco. Non è come una vera relazione...» cominciò Serleen, ma poi si fermò. I suoi occhioni gialli si spalancarono, mentre le pupille a fessura si restrinsero. «Non è questo il problema, vero? È una questione razziale. Non mi vuoi perché ho la pelliccia, la coda e tutto il resto».

   «Lascia stare questo discorso...» cominciò Chase, a disagio.

   «Perché dovrei, visto che ho ragione? Per tua informazione, non sei una gran bellezza, per i canoni Caitiani. Così spelacchiato e senza zanne, sembri un cucciolo troppo cresciuto. Però... però io cerco di non fermarmi all’aspetto!» deglutì Serleen. «So che, se volessimo, faremmo scintille!».

   «E che mi dici dei tuoi artigli? Io non ho una pelliccia che mi protegge».

   «Ora m’insulti?! Solo una shutta non controlla gli artigli!» s’inalberò Serleen.

   «È incredibile: ogni cosa che dico peggiora la situazione» constatò Chase, sconsolato.

   «Ma ho ragione? È perché tu sei Umano e io Caitiana?» insisté Serleen.

   «Senti, mi sono arruolato nella Flotta proprio perché voglio conoscere le altre specie» dichiarò Chase. «Infatti appena ci siamo incontrati all’Accademia siamo diventati amici. Ma se parli di una relazione... sia pure per gioco, come dici tu... devo ammettere che ho difficoltà a immaginarmela, con una specie così diversa. Per carità, ad alcuni piace... ma se devo essere sincero, a me...».

   «A te sembrerebbe di farlo con un animale» tagliò corto Serleen. «D’accordo, fa’ conto che non abbia detto niente».

   «Senti, mi spiace...».

   «Devo andare, sennò faccio tardi al mio turno» disse Serleen, alzandosi di scatto.

   «No, aspetta...» fece Chase, alzandosi a metà.

   Il fischio della porta che si apriva sembrò inghiottire la voce di Chase. Serleen sgusciò fuori dalla mensa, la porta si richiuse e Chase restò solo al tavolo. Tutt’intorno, i suoi colleghi mangiavano cose disgustose nel più assoluto silenzio. Chase ricadde sulla sedia. Si guardò intorno. Sull’Enterprise c’erano specie di ogni genere, molte delle quali non erano neppure umanoidi. Per un attimo si perse a osservare un Gallamita: il suo cranio era quattro volte più grande di quello umano. Ed era trasparente. Si vedeva chiaramente il massiccio cervello all’interno, con le arterie che si gonfiavano a ogni pulsazione.

   Chase si chiese se un Umano e un Gallamita si fossero mai piaciuti. Forse chiudendo gli occhi, si disse. Conosceva la teoria del professor Galen, secondo cui tutte le specie umanoidi discendevano da un antenato comune, un’antichissima stirpe Proto-Umanoide. Si chiedeva spesso se ci fosse del vero; ma anche in quel caso, la situazione non cambiava. Le differenze fisiche tra certe specie erano così marcate che pensare a una relazione gli dava il voltastomaco. Mettersi con una creatura trasparente, o munita d’artigli e pelliccia, gli sembrava una specie di zoofilia. Sapeva di Umani che erano passati sopra alle differenze. Da quando esisteva la Federazione, e specialmente negli ultimi due secoli, le unioni miste erano aumentate. Ma in genere riguardavano specie simili, come Umani e Vulcaniani, o Umani e Betazoidi. E anche quando nascevano dei figli, raramente queste unioni reggevano alla prova del tempo. Ma dirlo ad alta voce non era politicamente corretto.

 

   Ormai si era fatta ora di prendere servizio. Chase ripose il suo piatto e quello di Serleen, controllò di essere in ordine e lasciò la sala mensa. Nei corridoi e nei turboascensori tenne d’occhio i suoi colleghi. Serleen aveva ragione: erano tutti grigi, spenti. Al suo passaggio lo ignoravano e se li salutava rispondevano a monosillabi.

   «Tenente Chase pronto a prendere servizio» disse, entrando in plancia. I suoi colleghi del primo turno erano già lì, compresa Serleen, che sedeva al timone. La plancia dell’Enterprise era costruita in modo tradizionale e aveva dimensioni modeste. I sistemi erano molto automatizzati, tanto che dodici persone bastavano a farla funzionare. Le interfacce tattili dei comandi avevano toni verdi e gialli; in gergo tecnico erano dette LCARS (Library Computer Access and Retrieval System).

   «Si accomodi, Tenente» rispose il Capitano Vorix. Era un tipo di mezz’età, dai capelli grigi e i modi garbati. I suoi punti di forza erano la calma e la diplomazia, non certo lo spirito d’avventura. Vorix era un Vissiano: apparteneva a una delle specie umanoidi più antiche tra quelle entrate nella Federazione. I Vissiani possedevano la curvatura da millenni, ma raramente si allontanavano dal loro sistema stellare. Il loro progresso tecnologico era lentissimo, quasi fermo. Chase si chiese se la loro pigrizia intellettuale avesse contagiato la Federazione. Un altro pensiero politicamente scorretto!

   Il giovane rilevò la postazione sensori dal collega del turno di notte. Il suo ruolo richiedeva che stesse in piedi, dietro le poltrone del Capitano, del Primo Ufficiale e del Consigliere. Era strano, si disse, che le plance della Flotta Stellare avessero tanti posti in piedi. Era così difficile metterci qualche sedia? Aveva visto immagini delle vecchie plance, dei tempi di Archer e Kirk: lì erano tutti seduti. Chissà perché a un certo punto i progettisti avevano deciso di far alzare metà degli ufficiali. Forse per non farli ingrassare? Osservò Serleen con una punta di divertimento: in quanto timoniere, lei aveva sempre una comoda poltroncina. Vedendola di schiena, notò che la sua coda si agitava nervosamente, segno che non lo aveva ancora perdonato. Probabilmente gli avrebbe tenuto il broncio per un po’. I Caitiani erano volubili ed emotivi.

   «Bene, signori. Per cominciare la giornata, ditemi se è tutto regolare» ordinò Vorix.

   «Rotta regolare» disse Serleen.

   «Sistemi tattici regolari» disse il capo della Sicurezza, un massiccio Tiburoniano dalla pelle giallastra e le orecchie stropicciate.

   «Condizioni della nave regolari» disse il Primo Ufficiale, un Benzite dalla pelle azzurra e i baffi da pesce gatto. Portava dei mini-respiratori nelle narici, indispensabili nell’atmosfera standard dell’Enterprise.

   «Condizioni dell’equipaggio regolari» disse il Consigliere di bordo, una Denobulana bionda e piuttosto in carne.

   «Sensori regolari» disse Chase, l’unico Umano presente in plancia e uno dei pochi sulla nave. «No, un momento... è appena comparsa una lettura. Un’astronave sta uscendo dalla Macchia di Rovi. È vicina... le anomalie ci hanno impedito di rilevarla prima».

   «Che genere di astronave?» chiese prontamente il Capitano.

   «È... un momento, signore». Le mani di Chase volarono sui comandi. «Sto cercando d’analizzarla, ma il suo scafo è quasi impenetrabile ai sensori. Ho poche letture confuse. Ci sono alti livelli d’energia a bordo. Vedo segni di vita, ma non riesco a isolarli. Comunque sono poche centinaia... per una nave lunga due km e dalla massa di 50 milioni di tonnellate».

   «Sullo schermo» ordinò Vorix, unendo le punte delle dita.

   «Sì, Capitano». Chase inquadrò il settore della Macchia di Rovi, proprio mentre l’astronave ne fuoriusciva. Dalle volute di gas rossi e arancioni emerse una sagoma allungata. Sembrava un sigaro, o il guscio di qualche strano frutto. A un terzo della sua lunghezza c’era una strozzatura. Due strutture laterali emergevano dallo scafo, come ali strettamente ripiegate contro il corpo dell’astronave. Lo scafo marroncino pareva spesso. Era una nave colossale: lunga il doppio dell’Enterprise e molto più massiccia.

   «Non saprei dire qual è l’alto e quale il basso» ammise Chase. «Però sembra avere molte bocche da fuoco!» si allarmò. «Sul davanti, in particolare, credo abbia un qualche tipo di cannone a particelle. È da lì che vengono le letture energetiche. Dobbiamo alzare gli scudi!» raccomandò.

   «No, perché?» chiese Vorix, serafico. «Non ci hanno fatto nulla di male».

   «Signore... questa non è una nave da guerra» mormorò Chase. «Se ci attaccano, lo scafo di tetraburnio non basterà a proteggerci».

   «Cosa le fa credere che abbiano intenzioni ostili?» chiese severamente il Primo Ufficiale.

   «Signore, una nave sconosciuta – ma pesantemente armata – è appena uscita dalla Macchia. Se tira dritto si troverà nel cuore dello spazio federale. La prudenza mi sembra d’obbligo» rispose Chase. Non era sua abitudine contraddire i superiori, né perorare le sue idee con tale insistenza, ma non capiva perché tutti prendessero la faccenda così sottogamba.

   «Signor Trig, apra un canale» ordinò il Capitano all’ufficiale delle comunicazioni.

   «S-sì, signore» mormorò questi. Era un timido Boliano dalla pelle azzurro cielo, che balbettava nei momenti concitati. «Canale aperto».

   Sullo schermo comparve un volto giallastro e calvo, che sembrava disegnato con una tecnica puntinista. Era la tipica epidermide dei Sulibani. Anche gli occhi gialli, dalle pupille ad asterisco, lo qualificavano come membro di quel popolo nomade.

   «Io sono Sivin, comandante di questa Dreadnought» si presentò il Sulibano. «Ho il piacere di parlare col Capitano Vorix dell’Enterprise?».

   «Precisamente» rispose questi. Parlavano come se si conoscessero da sempre.

   «Ottimo. Vi ordino di arrendervi e di consegnarmi la nave» rispose il Sulibano con la massima calma. Chase pensò d’aver sentito male.

   «Motivi la sua richiesta, Sivin» rispose Vorix, senza scomporsi.

   «Ci sono nuovi ordini, occorre accelerare i tempi. Le linee temporali fluttuano e questo ha spinto la Primaria a intensificare la trasformazione dello spazio» rispose il Sulibano, come se questo spiegasse tutto.

   «Capisco» rispose Vorix in tono grave. Chase, invece, non capiva per niente. Era la conversazione più assurda che avesse mai sentito. Avrebbe riso, se quella nave aliena non fosse stata così armata. L’Enterprise, al contrario, era una nave pattuglia dall’armamento leggero. Andava bene contro le navicelle dei pirati, non contro una gigantesca nave da guerra. A proposito, che ci faceva quel Sulibano al comando? I Sulibani erano un popolo ramingo e privo di potere. Il loro pianeta era stato distrutto tempo addietro da una catastrofe naturale. Anche ora che la Federazione gli permetteva di stabilirsi, la maggior parte di loro manteneva uno stile di vita nomade. Spesso se ne infischiavano delle leggi federali, ma non erano mai stati una minaccia... finora.

   «Signori, che ne dite?» chiese Vorix, rivolto ai suoi ufficiali superiori.

   «La risposta non può che essere una» rispose il Primo Ufficiale. Gli altri annuirono.

   «Concordo». Vorix si alzò in piedi e Chase pregustò la risposta. Non vedeva l’ora che il suo Capitano le cantasse chiare a quel Sulibano invasato.

   «L’Enterprise è vostra, Sivin; vi cedo il comando» disse Vorix serenamente.

   «Grazie. Comincio subito a teletrasportare il mio equipaggio» rispose il Sulibano con un cenno del capo, e chiuse la comunicazione. Chase rilevò teletrasporti multipli in tutta la nave. Centinaia di alieni stavano sbarcando e altrettanti ufficiali della Flotta erano trasportati sulla Dreadnought. Intanto il Capitano e i suoi ufficiali se ne stavano tranquilli, con le mani in mano.

   Chase ebbe una stranissima sensazione, come se le budella gli si rivoltassero. Non era possibile, si disse. Doveva essere uno scherzo. I suoi colleghi l’avevano portato sul ponte ologrammi per prendersi gioco di lui. Oppure stava ancora dormendo. Altro che il tavolo operatorio e gli alieni dalla faccia di pesce. Quello era l’incubo: i suoi superiori che si arrendevano docilmente, consegnando l’Enterprise a chissà chi! Era come se tutto ciò che gli dava sicurezza fosse evaporato all’istante. Non c’erano più ufficiali superiori, protocolli di sicurezza, armi e scudi iper-tecnologici. Solo lui si frapponeva fra la sopravvivenza e il disastro assoluto.

   Alla disperata ricerca di una faccia amica, il giovane guardò Serleen. E lesse nei suoi occhi gialli lo stesso smarrimento, la stessa angoscia che lo pervadeva. Bene, si disse: allora Serleen non era una di loro. Perché qualunque cosa fossero, quelli che lo attorniavano non erano più ufficiali della Flotta Stellare. Erano nemici, in una situazione di guerra. Che si fa ai nemici in guerra?

 

   Chase adocchiò lo scomparto d’emergenza in cui erano custoditi due phaser. Era a pochi passi da lui. Ma si accorse che l’Ufficiale Tattico lo stava fissando. Il Tiburoniano sembrava divertito, ma anche concentrato. Si preparava a scattare. Senza distogliere lo sguardo da lui, Chase attivò un comando: l’Allarme Rosso.

   Le luci in plancia si abbassarono, le interfacce LCARS presero a pulsare di toni rossi e arancioni. La sirena si attivò, allertando tutta la nave. Ma la cosa più importante fu che gli scudi si attivarono e le armi entrarono in linea. Per un istante il Tiburoniano si distrasse. E Chase scattò.

   Arrivarono assieme allo scomparto. Chase lasciò che fosse l’Ufficiale Tattico ad aprirlo, ma lo colpì con un uppercut prima che potesse afferrare un’arma. Mentre l’alieno barcollava all’indietro, Chase afferrò un phaser. Non stette a guardare la regolazione: sapeva che di norma erano tarati sullo stordimento. Fece appena in tempo ad alzarlo, perché il Tiburoniano gli era di nuovo addosso. Chase gli sparò a bruciapelo, colpendolo in pieno petto. L’avversario barcollò di nuovo. Invece di stramazzare al suolo, come avrebbe dovuto, riacquistò l’equilibrio e sorrise.

   «Lei è agli arresti, Tenente. È colpevole di alto tradimento» disse in tono calmo. E tornò all’attacco. Chase afferrò il secondo phaser con la sinistra e sparò con entrambi. I due raggi colsero l’Ufficiale Tattico al collo; stavolta fu un duro colpo. Il Tiburoniano cadde in ginocchio, premendosi la gola. Ma quasi tutti gli ufficiali di plancia si stavano ormai avventando contro Chase. Solo Trig si era rannicchiato in un angolo, troppo sconvolto per reagire.

   «Alexander!» gridò Serleen, correndo verso l’amico. Spinse la Consigliera contro la parete, facendole sbattere violentemente la testa.

   Chase le lanciò uno dei phaser, tenendo l’altro per sé. L’arma volò sopra la testa del Primo Ufficiale, che cercò di afferrarla; ma gli sfuggì e Serleen la prese al volo. Così armati, i due Tenenti aprirono il fuoco contro i colleghi che li circondavano. Li colpirono più volte, ma riuscirono solo a rallentarli. Presto si trovarono con le spalle al muro.

   «Basta così» disse il Capitano. «Tenente Chase, tenente N’Rass, la vostra azione è inutile. Potete rallentarci, ma non potete fermarci. Perché persistete nella violenza, quando l’unica soluzione logica è la resa?» chiese in tono misurato.

   «I Capitani dell’Enterprise non si sono mai arresi!» ringhiò Serleen, scoprendo le zanne. «Se lei intende consegnare la nave, allora sta tradendo la Flotta e deve essere sollevato dal comando!».

   «Sempre che siate davvero i nostri colleghi; perché lo stordimento non funziona?» rincarò Chase, rivolto a tutti i presenti. «Non sarete dei mutaforma che hanno preso il loro posto? Magari i Fondatori del Dominio? Oppure gli Undine? Non sarebbe la prima volta che v’infiltrate fra noi!».

   «Tenente, lei ha una percezione distorta di quanto sta accadendo» rispose Vorix, sempre in tono compassato.

   «Allora m’illumini; ma faccia presto!» sbottò Chase. «E state tutti lontani dai comandi. Se qualcuno prova ad abbassare gli scudi, o usare il teletrasporto, lo ammazzo!» minacciò, regolando il phaser su uccisione. Serleen lo guardò atterrita, ma poi fu costretta a imitarlo. Lo stordimento si era rivelato del tutto inefficace.

   «Vede, qui non c’è alcun mutaforma» spiegò Vorix, parlando lentamente. «Tutto sta procedendo in modo regolare. Le persone su quella nave sono nostre alleate. Ho ricevuto ordini dal Comando di Flotta di collaborare con loro. La natura della missione è riservata, ma come Capitano dell’Enterprise le posso garantire che non metterei mai in pericolo l’equipaggio. Ora, se lei avrà la pazienza di…».

   Chase aprì il fuoco sul Primo Ufficiale, che stava digitando alcuni comandi sul bracciolo della sua poltrona, nel tentativo di abbassare gli scudi. Lo colpì al braccio e glielo staccò di netto, all’altezza del gomito. Il Benzite arretrò, si osservò il moncherino fumante e inarcò un sopracciglio. «Questo è inopportuno» commentò con calma.

   «Ma cosa siete?! Non sentite neanche il dolore?» esclamò Chase, alzando di un’altra tacca la regolazione del phaser.

   «Loro ci proteggono da queste debolezze» disse la Consigliera, che si era rialzata. Aveva sbattuto la testa così forte che il sangue le macchiava la tempia, ma non sembrava accorgersene. «Presto faranno lo stesso anche con voi. Allora capirete» disse sorridendo.

   «Ma insomma, che succede? Capitano, mi spieghi!» gemette Trig, l’addetto alle comunicazioni. Oltre a Chase e Serleen sembrava l’unica persona normale.

   «No, signor Trig. Ritengo che lei sia uno strumento inutile per i nostri scopi. Loro neanche la vogliono» rispose Vorix, avvicinandosi al Boliano. «Pertanto il suo ciclo vitale deve terminare».

   «C-come sarebbe?!» fece Trig, con voce strozzata.

   «Mi creda, è meglio così» disse Vorix in tono paterno.

   «Trig, stagli lontano!» gridò Serleen.

   Ma il Boliano sembrava paralizzato dallo stupore, o dall’orrore. Rimase immobile mentre Vorix si avvicinava. Il Vissiano gli afferrò la testa e gliela piegò bruscamente di lato. Si sentì l’agghiacciante crac delle vertebre che si spezzavano. Trig cadde a terra, ucciso all’istante. Sul suo volto celeste c’era ancora un’espressione stupita, come di un bambino che non si capacita per la fine di un gioco.

   «Tenenti, questo è ciò che accade agli elementi inutili» spiegò Vorix, sempre calmo. «Ora spetta a voi decidere se volete esserlo. Sappiate che ogni tentativo di resisterci è del tutto inutile» ripeté, come un educatore che deve istruire un bambino un po’ tonto. «Ebbene?».

   Chase fissò Serleen negli occhi. «Mi spiace per prima, in sala mensa» disse. «Sei la più tosta che abbia mai incontrato. Meritavi di meglio che questo».

   «Va tutto bene, Alexander» rispose la Caitiana, guardandolo con affetto. «Se avessi voluto una vita noiosa, non mi sarei arruolata. Io volevo una vita emozionante».

   «Prendiamo quel che ci viene dato» disse Chase cupamente. Non servivano altre parole; sapevano cosa stava per accadere. Contarono a mente, senza muovere le labbra. Uno, due... tre.

 

   Fu una lotta cruenta, scandita dal sibilo dei phaser.

   Alexander Chase e Serleen N’Rass fecero fuoco contro i loro ufficiali superiori, che gli balzavano contro. Ne abbatterono cinque, ma gli altri furono loro addosso. E li assalirono con forza innaturale, mostruosa. L’Ufficiale Tattico afferrò il braccio destro di Chase e glielo spezzò con la massima facilità. L’Umano gridò, accecato dal dolore, mentre il phaser gli cadeva. Il Tiburoniano lo scaraventò dalla parte opposta della plancia, come un fuscello. Il corpo di Chase infranse le interfacce LCARS sulla parete e rovinò a terra. Il Tiburoniano prese il phaser e aprì il fuoco. Chase si rotolò sul pavimento, evitando il colpo, e si nascose dietro la postazione sensori. L’Ufficiale Tattico regolò il phaser al massimo e la disintegrò. Ora nulla gl’impediva di fare lo stesso con l’Umano ferito.

   Intanto Serleen fu assalita dalla Consigliera di bordo. Avvinghiate, le due si rotolarono a terra. La Denobulana, animata da una forza prodigiosa, stava per disarmare la Caitiana; ma Serleen le avvolse la coda intorno al collo. Sentendosi soffocare, la Consigliera cercò di liberarsi la gola, diminuendo per un attimo la foga del suo attacco. Serleen ne approfittò per spararle allo stomaco. Servirono due colpi per ucciderla.

   Senza nemmeno rialzarsi, la Caitiana sparò al Tiburoniano, un attimo prima che uccidesse Chase. Lo colpì tra le scapole, facendolo stramazzare a terra. L’attimo dopo, il Capitano afferrò Serleen per le caviglie. La sollevò senza sforzo e la gettò contro lo schermo principale, che andò in pezzi. Serleen ricadde a terra semistordita e il Capitano s’impadronì del phaser. Si girò di scatto e sparò contro Chase, che si stava rialzando faticosamente. Lo colpì di striscio alla spalla destra, con il phaser regolato su uccisione. Chase ne ebbe il braccio quasi staccato. Lanciò un grido agonizzante e cadde a terra, stordito dal dolore.

   «Ora comprendi la tua follia» disse Vorix, prendendo la mira per finire Chase. Ma Serleen si rialzò e lo afferrò da dietro, ficcandogli gli artigli negli occhi. Vorix cercò di scrollarsela; nella lotta partì un altro colpo, che prese il Primo Ufficiale in pieno volto. Il Benzite crollò a terra, morto. Erano rimasti solo in tre: Vorix, Serleen e Chase, quest’ultimo esanime.

   Il Capitano afferrò la timoniera per una ciocca della criniera, riuscendo a staccarsela di dosso. Serleen si rotolò a terra. Vorix tese il phaser davanti a sé, cercando il bersaglio. Sebbene la Caitiana l’avesse accecato, sembrava comunque in grado di percepire la sua posizione.

   «È tutto inutile; loro non possono perdere» disse il Capitano, che non mostrava dolore, sebbene il sangue gli grondasse dagli occhi. Aggiustò la mira verso Serleen. Ma prima che premesse il grilletto, un phaser regolato al massimo lo vaporizzò. Serleen si girò, incredula; era stato Chase a sparare. L’Umano aveva il braccio destro che pendeva inerte, per cui aveva dovuto usare la sinistra. Era pallido come un cadavere. Si guardò intorno, barcollando, per vedere se qualcun altro era ancora in piedi. Colse un movimento del Tiburoniano, che cercava di rialzarsi, sebbene avesse un buco nella schiena. Gli sparò di nuovo, disintegrandolo. E crollò a terra semisvenuto.

 

   Serleen arrancò verso Chase, calpestando le schegge delle interfacce frantumate e i cadaveri dei colleghi uccisi. L’odore dei circuiti semifusi si mischiava a quello dei corpi ustionati o vaporizzati. L’Allarme Rosso era ancora attivo e ogni tanto faceva udire la sua sirena. Nella luce bassa, i comandi ancora in funzione pulsavano dei toni rossi della battaglia.

   «Alexander!» gemette Serleen, posandosi in grembo la testa dell’amico ferito. «Non lasciarmi ora, ti prego!». La Caitiana aveva la pelliccia arrossata dal sangue: quando Vorix l’aveva sbattuta contro lo schermo, molte schegge l’avevano graffiata.

   «La plancia...» gemette Chase, tossendo debolmente.

   «Come?».

   «La plancia... assicurati che sia isolata» avvertì il Tenente. «Ci saranno altri traditori a bordo. E molti alieni della Dreadnought si sono trasferiti prima che alzassi gli scudi. Cercheranno d’irrompere in plancia. O di teletrasportarsi. O di trasportare via noi. Blocca le porte e controlla gli scudi!» raccomandò.

   Serleen annuì e corse a uno dei pannelli LCARS ancora integri. Digitò freneticamente dei comandi, passò a un’altra interfaccia e tornò alla prima. «Ho bloccato le porte dei turboascensori, ma qualcuno in sala macchine sta cercando di assumere il controllo. Stanno dirottando tutti i comandi! Motori, comunicazioni, armi... anche gli scudi!» disse con voce strozzata.

   Chase si rialzò, facendo leva con il braccio sano. Arrancò verso un pannello di controllo e si mise a digitare con la sinistra. «Presto, dobbiamo criptare i comandi. Tu pensa alla propulsione, io cerco d’isolare armi e scudi!».

   Lavorarono per un paio di minuti, con il cuore che batteva all’impazzata. Poi alzarono gli occhi e si guardarono, dalle estremità opposte della plancia. «Ho ancora il controllo dei motori a impulso, ma non della cavitazione quantica» ansimò Serleen. «Ho protetto l’impulso con un algoritmo ricorsivo, ma non so quanto reggerà. In sala macchine sono bravi a craccare queste cose».

   «Abbiamo perso le comunicazioni» disse Chase. «Le armi sono offline, come gli scudi primari. Sono riuscito a isolare solo gli scudi secondari che proteggono la plancia. Ma se gli ingegneri sono dalla parte del nemico, come temo... abbiamo pochi minuti».

   «Pochi minuti per cosa?! Qual è la prossima mossa?» si disperò Serleen. «Siamo assediati, la nave è perduta e...». S’interruppe quando l’Enterprise ebbe uno scossone. «Frell e dren! Che altro c’è?!» gridò, sull’orlo del collasso nervoso.

   «La nave aliena... la Dreadnought, come l’hanno chiamata... ci ha agganciati con un raggio traente» disse Chase, leggendo i dati da una postazione sensori secondaria. «Ci portano nella Macchia di Rovi» disse, pallidissimo. In un lampo Serleen gli fu accanto. Chase attivò un piccolo schermo nel LCARS, visualizzando la poppa della Dreadnought. Un raggio traente verde ne fuoriusciva, per afferrare l’Enterprise e trascinarla nell’ignoto.

   «Yotz, ci trascinano come un cane al guinzaglio!» imprecò la Caitiana. «Se avessimo le armi in linea, li farei a pezzi... ma non abbiamo niente!».

   «Con l’impulso potremmo forse sfuggire al raggio traente... ma non andremmo lontano» disse Chase, riflettendo ad alta voce. «La Dreadnought ci raggiungerà e senz’armi non abbiamo speranza».

   «Attenzione, messaggio per i superstiti della plancia» disse una voce asettica all’altoparlante. Era l’Ingegnere Capo. «Il vostro supporto vitale è stato disattivato. Consegnate la plancia, se volete sopravvivere. O morite lì dentro, se preferite. Ma sappiate che, in ogni caso, avremo il controllo completo dell’Enterprise. Fine comunicazione».

   Chase e Serleen si scambiarono un’occhiata disperata. Erano così concentrati su armi e motori che avevano dimenticato il supporto vitale. «Va bene, è chiaro che non possiamo salvare l’Enterprise» disse Chase, appoggiandosi alla postazione per non cadere a terra. Il braccio ferito gli doleva in modo atroce. Poteva svenire da un momento all’altro e senza supporto vitale l’ossigeno sarebbe finito prima che riprendesse conoscenza.

   «Alexander, io non voglio farmi prendere viva» disse Serleen, con gli occhi lucidi ma determinati. «E non voglio nemmeno che questo nemico s’impadronisca della nave. Dobbiamo distruggerla».

   «Come? Solo il Capitano poteva attivare l’autodistruzione» disse Chase malinconico, osservando la macchia nera sulla moquette lasciata da Vorix quando l’aveva disintegrato.

   «Mandiamo l’Enterprise contro la Dreadnought» propose Serleen. «Possiamo farcela, abbiamo ancora l’impulso. Ma dobbiamo farlo subito».

   «Va bene, impostiamo il pilota automatico e ce la filiamo con le capsule» disse Chase, accennando alle sei capsule accessibili direttamente dalla plancia, tre per lato. Era un’evoluzione recente nel design delle navi stellari, studiata per salvare l’equipaggio di plancia quando non c’era tempo o modo di lasciare il ponte.

   «Consideralo già... frell!» imprecò Serleen, armeggiando con i comandi del timone.

   «Che c’è?» chiese Chase, lottando per rimanere cosciente.

   «Anche il pilota automatico ha dei problemi. Non riesco a impostare la rotta! Se fosse una direzione qualunque, potrei. Ma per una traiettoria kamikaze, il computer pretende la stessa autorizzazione per l’autodistruzione!».

   «Frell... ma sì, è logico» ammise Chase, dandole le spalle per armeggiare con alcuni controlli sulla parete. «Dovremo pilotare manualmente. Non ce la caveremo» gemette, quasi accasciandosi per un’altra fitta al braccio. «Anzi, no. Tu te la caverai» disse, rimettendosi in piedi. «Non sei ferita gravemente. Se vai su una capsula, avrai più speranze di cavartela. Qui basto io» disse, impostando la rotta di collisione con la mano sana.

   «Vuoi pilotare con una sola mano?» chiese Serleen alle sue spalle.

   «Posso farcela. Credimi, è meglio così. Ho ucciso il mio Capitano... è giusto che finisca con lui e con la nave. Ma tu devi vivere, per avvertire la Flotta di questa minaccia» disse, lottando contro il dolore e la stanchezza. Non si accorse che, dietro di lui, Serleen aveva raccolto il phaser.

   «Quando hai scansionato la Dreadnought c’erano altri dettagli, oltre a quelli che hai letto a voce alta?» chiese Serleen, regolando il phaser su minimo stordimento. «Qualcosa d’importante che la Flotta dovrebbe sapere?».

   «Qualche dato... più che altro sullo scafo esterno. L’interno era molto schermato...» ansimò Chase.

   «Okay, non mi occorre sapere altro» disse Serleen con calma. E sparò nella schiena a Chase. La scarica fu minima, ma l’Umano era già ferito gravemente. Si accasciò al suolo, privo di sensi. La Caitiana corse da lui e lo trascinò verso la capsula più vicina, cercando di non compromettere ancor più il braccio ferito.

   «Mi spiace, Alexander. Devo prendere quel che mi è dato, anche se vorrei fosse andata diversamente» mormorò. Aprì la capsula di salvataggio e impostò una rotta che l’avrebbe portata lontano dalla Macchia di Rovi, verso il più vicino mondo federale. Azionò anche il faro subspaziale, sperando che fosse una nave amica a rilevarlo. Doveva rischiare: i motori a impulso della capsula non potevano portare Chase a destinazione e la provvista d’ossigeno era limitata.

   La parte più difficile fu caricare Chase sulla capsula; ma con un grosso sforzo riuscì a sollevarlo e a pigiarlo dentro. Azionò la capsula da fuori, osservandola con sollievo mentre schizzava via. Per un istante fu tentata di salire su quella a fianco... ma no, le restava un dovere. Se non distruggeva la Dreadnought, e tutti i traditori sull’Enterprise, Chase non sarebbe mai sopravvissuto per fare rapporto.

   Serleen corse al timone e impostò gli ultimi parametri della traiettoria. Aveva il respiro affannoso, forse per la paura, forse perché il supporto vitale era disattivato e l’ossigeno cominciava a scarseggiare. D’un tratto sentì uno sfrigolio alle sue spalle. Si girò e vide che la porta del turboascensore stava venendo tagliata con un phaser ad alta energia. I traditori cercavano di forzare la plancia... ma non avrebbero fatto in tempo. La Caitiana sentì i motori a impulso che ruggivano. Le sue dita volarono sui comandi e l’Enterprise partì contro la Dreadnought. Se avesse cercato di liberarsi dal suo raggio traente, sarebbe stata una dura lotta. Ma non c’erano problemi a dirigersi contro la fonte del raggio. Entrambe le navi avevano i secondi contati.

 

   Fu il dolore a svegliare Chase. Il lancinante dolore al braccio. Disorientato, il giovane si accorse di essere in un abitacolo poco più grande di una bara. Attraverso la finestra di trasparacciaio vide le stelle vorticare... no, era la sua capsula che girava. Con il braccio sano riuscì a stabilizzarla. Le stelle smisero di girare, ma la capsula seguiva ancora la rotta tracciata da Serleen. Chase comprese cos’era successo. Attivò un ologramma per avere la visione di poppa proiettata sulla finestra: vide l’Enterprise nel momento in cui attivava i motori a impulso. Aprì immediatamente un canale con la plancia.

   «Serleen... perché?!» gridò nel comunicatore, mentre l’Enterprise balzava verso la nave nemica.

   «Hai letto i sensori, puoi riferire tutto alla Flotta. E poi ti amo» rispose la Caitiana attraverso il crepitio delle interferenze. La porta dietro di lei stava per cedere, le scintille sprizzavano in plancia, ma non importava. «Addio, Alexan...».

   L’Enterprise-I, dalla tagliente forma a boomerang, penetrò nella massiccia Dreadnought come un coltello nella carne. La grossa nave cilindrica fu tranciata in due, all’altezza della strozzatura nel suo scafo. L’Enterprise passò fra i due tronconi. Per un istante, Chase sperò follemente che reggesse. Ma l’attimo dopo lo schermo divenne bianco: l’impatto aveva provocato la rottura del nucleo. L’Enterprise fu annichilita, così come i due spezzoni della Dreadnought che le stavano accanto. Le radiazioni inondarono lo spazio, a malapena schermate dalla capsula di Chase. Milioni di frammenti incandescenti, piccoli come proiettili e molto più veloci, schizzarono in tutte le direzioni. Se un frammento più grande di un’unghia avesse colpito la capsula, l’avrebbe trapassata da parte a parte.

   Ma la sorte volle diversamente. Chase fu sballottato con violenza, mentre la sua capsula sussultava. I pochi frammenti che la colpirono erano così piccoli che non riuscirono a perforarla. Gradualmente la capsula tornò nel giusto assetto di volo.

   «Rotta ristabilita» disse la voce asettica del computer.

   «Quale... rotta?» singhiozzò Chase, il volto solcato di lacrime.

   «Questa capsula è diretta verso il pianeta Goren» rispose il computer.

   «Ma quanto ci metterà?» farfugliò Chase, ancora sotto shock.

   «Tempo di arrivo stimato: 18 anni, 6 mesi, 22 giorni».

   Chase gridò e sbatté la fronte contro la finestrella, per la frustrazione. Se non fosse stato così sconvolto, avrebbe rammentato fin da subito che le capsule di salvataggio potevano muoversi solo a velocità d’impulso. «Computer...» cominciò, schiarendosi la voce «quanto durerà l’ossigeno a bordo?».

   «L’ossigeno scenderà sotto i livelli di guardia fra 11 ore, 57 minuti e 4 secondi» rispose la voce sintetica, sempre calma.

   Chase maledisse il fatto che il computer non aveva un collo da strozzare. «Brutto figlio di un abaco! Meno di dodici ore?! Chi ti ha program...». La voce gli morì in gola. Serleen. Solo lei poteva aver impostato la rotta. Evidentemente lo aveva indirizzato all’avamposto più vicino. «Computer, stiamo trasmettendo una chiamata di soccorso?» chiese il Tenente, più calmo.

   «Affermativo».

   «Che probabilità ci sono che qualche nave federale capti la richiesta prima che io muoia asfissiato?».

   «Elaboro. Probabilità di sopravvivenza: 6%».

   «Frell. Ragioniamo... al freddo consumo meno ossigeno. Quanto tempo guadagnerei se tu abbassassi la temperatura di bordo, mettendomi in ipotermia?».

   «Elaboro. In condizioni di massima ipotermia, per le quali sono richieste procedure mediche di rianimazione, l’asfissia subentrerà fra 24 ore, 30 minuti e 10 secondi» rispose il computer.

   «E la possibilità che per allora qualcuno mi salvi è...?» chiese Chase, sempre dolorante.

   «Elaboro. Probabilità di sopravvivenza: 12,5%».

   «Un po’ meglio. Ma non abbastanza, per la miseria!» ringhiò Chase. «E va bene, portami in ipotermia. E continua a trasmettere l’SOS!» raccomandò.

   «Eseguo». La temperatura crollò immediatamente.

   «Almeno sarò così intirizzito che non sentirò più il dolore» borbottò Chase. «Ora non mi resta che aspettare».

   «Nelle sue inflessioni vocali si riscontrano alti livelli di stress» rilevò il computer. «Desidera ascoltare un po’ di musica per rilassarsi?».

   «Ma certo che sono stressato, inutile ferraglia!» berciò Chase. «Sto morendo dissanguato, congelato e asfissiato. Credi che una musichetta sistemerà tutto? Ah, Serleen! Se sopravvivo, giuro che ti vendicherò!» inveì. «Ma se, come credo, non ne uscirò vivo... c’è qualcos’altro che devo fare» aggiunse più calmo. Stava cominciando a rabbrividire per il freddo.

   «Prego, fornire istruzioni» disse il computer.

   «Voglio registrare un diario di bordo. Così, quando qualcuno troverà questa capsula con la mia carcassa congelata, potrà ancora sentire la mia testimonianza. Ma tu, computer, devi avvertire chiunque ti trovi che questa registrazione è importante».

   «Ricevuto. Livello di priorità 1, i soccorsi saranno informati. Prego, registrare messaggio». Il tipico bip-bip del diario di bordo confermò che il computer aveva cominciato la registrazione.

   «Parla Alexander Chase, ufficiale della Flotta Stellare. Ero Tenente sull’Enterprise-I, fino a oggi, quando ho assistito alla sua distruzione. Sono l’unico sopravvissuto e non credo che lo resterò a lungo». Chase tossì debolmente; il suo fiato si condensò in una nuvoletta bianca. Il giovane si schiarì la voce e ricominciò. «Chiunque trovi questa testimonianza deve farla pervenire immediatamente al Comando della Flotta Stellare. Ne va della salvezza della Federazione. C’è un nemico fra noi. Ripeto, c’è un nemico fra noi...» disse Chase, con voce sempre più fioca. Intanto la piccola capsula sfrecciava nel vuoto siderale, trapunto di stelle lontane e indifferenti.

 

   
 
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