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Autore: KomadoriZ71    08/01/2019    0 recensioni
{ One Shot || Psycho-Pass || Makishima&Choe || by: Xavier }
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One shot concepita e scritta nel freddo di questi giorni; Choe rientra nella casa che condivide con Shogo, dopo una giornata di lavoro all'esterno, sperando di trovare un ambiente riscaldato ad accoglierlo. Ma così non è.
Genere: Comico, Fluff, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Choe Gu-Sung, Shogo Makishima
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Quel dicembre si stava rivelando particolarmente freddo, con incessanti nevicate e gelidi venti che sferzavano ogni anfratto della città, mettendo a dura prova coloro i quali, volenti o nolenti, si trovavano a lavorare fuori di casa, lontano dal piacevole tepore del focolare domestico, e Choe Gu-Sung non faceva eccezione.
Era appena rincasato, con le mani e il viso congelati e arrossati, in quell'appartamento che condivideva col suo collega da qualche anno, Shogo Makishima, e non vedeva l'ora di essere investito dall'accogliente calduccio di quelle quattro mura, mentre brancicava con le dita incerte la maniglia dell'ingresso.
"Sono t-tornato" disse una volta dentro, battendo i denti.
Silenzio.
Gelo.
Buio e quiete ad accoglierlo.
Si guardò attorno, le luci erano spente, nessun calore confortevole a dargli il bentornato. Temeva il peggio, che gli avessero portato via Shogo in sua assenza, o che fosse dovuto scappare perché stanato e inseguito, mille pensieri negativi gli si aprirono nella mente come un caleidoscopio.
«Shogo!» gridò quasi istintivamente, avanzando a grandi passi lungo il corridoio. Scorse, con la coda dell'occhio, un flebile lume provenire dal salotto, e non perse tempo a voltare il capo in quella direzione: vi era una candela, accesa, posta sul tavolino, che illuminava in penombra una figura infagottata e accucciata nell'angolo sinistro del sofà. «Ma che diamine…» farfugliò disorientato, e si precipitò nella stanza accendendo l'illuminazione artificiale « Shogo ma che… cosa sta succedendo qua dentro?» chiese, con un tono sollevato ma che lasciava trasparire una certa apprensione
«Hm?» la sua testa fece capolino dal bozzolo di stoffe nel quale era avviluppato «perché me lo chiedi?» domandò, strizzando gli occhi non abituati all'intensa luce.
«Tra là fuori e qua dentro non avverto granché divario di temperatura, ti pare una cosa normale?»
«Forse devi solo abituarti, non saprei» replicò l'albino, facendo spallucce ma nascondendo un sorrisetto dispettoso sotto i baffi.
«Vuoi scherzare? Se è uno dei tuoi soliti giochetti, mi arrabbio».
Non ricevette alcuna risposta, Shogo aveva chinato il capo e teneva gli occhi bassi, come assorto in qualche profonda riflessione, e Choe incalzò, puntando la candela: «allora? Cosa mi significa questo? Stai evocando gli spiriti del Natale?»
«Era l'unica fonte di calore disponibile» replicò spontaneamente.
«Avresti potuto accendere il camino, o una stufa, non prendermi in giro!»
«Il legname è finito, bisogna fare economia»
«Ci finiranno i tuoi libri, tra le fiamme, se in questa casa continuerà a fare così freddo».
Quell'ultima frase detta dal coreano, dettata più dall'impulsività che dalla ragione, seppur ironica, destò il lato sanguigno di Shogo, che rispose a tono, mantenendo la sua calma glaciale: «ottima idea, proporrei dunque di recuperare qualche Pascal e di imbibirne le pagine nella tua sugna, sono certo che arderebbero a meraviglia».
Il compagno rimase per un momento zitto, a riprendere fiato e ragionare, conscio che Shogo, nonostante la loro confidenza, non si sarebbe fatto troppi problemi ad attuare quella velata minaccia, se lui si fosse azzardato a toccare i suoi preziosissimi volumi cartacei. Gli si avvicinò con cautela, dunque, come si farebbe con una belva malfidente della quale bisogni riconquistarsi la fiducia, e si sedette accanto a lui: «ovviamente non lo farei sul serio, non mi permetterei mai…»- e fatta la premessa, placò il malcelato astio del collega- «potresti però spiegarmi perché hai spento i riscaldamenti?»
«Non li ho spenti, si sono guastati» esclamò ingenuamente.
«Questa mattina funzionavano. Si sono guastati oppure… li hai guastati?» le pupille artificiali di Choe, fisse su quelle di Shogo, parevano in grado di entrargli nell'anima, tant'erano penetranti e serie, ma gli occhi dell'albino mantenevano la loro innocente ingenuità: «hanno smesso di funzionare, ti dico. Ma era destino, tutte le cose belle hanno breve durata, d'altronde; non vedo perché questa massima si debba applicare solo a rose e tulipani, e non ai caloriferi».
Choe non riuscì a trattenere una nervosa risata a quell'adagio, e scosse la testa ancora un po' incredulo: «d'accordo, andrò a dare un'occhiata all'impianto», ma Shogo espettorò un deciso "no" e gli afferrò fulmineo il braccio, come lo vide alzarsi: «domani chiameremo un tecnico, le caldaie non rientrano tra le competenze di un ingegnere informatico»
«Posso almeno provare…»
«Lascia perdere, potresti far danno; siamo uomini ordinari, con un problema ordinario, che trovano soluzioni ordinarie».
Choe, suo malgrado, si lasciò convincere dal collega, chiamare un esperto l'indomani pareva la soluzione più sicura, anche se avrebbe preferito provare in prima persona a riparare il presunto guasto.
Con ancora il pesante giubbotto addosso, Choe avanzò verso la vetrina del salotto che custodiva gli alcolici più forti, prese una bottiglia di brandy, due snifter e tornò a sedersi accanto all'albino, posando i vetri sul tavolo di fronte.
«Vuoi favorire?» gli chiese, dopo essersi riempito un bicchiere- «almeno ci scaldiamo un po' i visceri».
Shogo osservò deliziato la precisione con cui Choe versava l'alcolico e lo faceva roteare nel bicchiere, ben diversa dall'eleganza che impiegava per tracannare decilitri di birra da discount nei momenti di stress, e annuì: «sì, giusto un po', non ci sono abituato»
«Vacci piano, allora: è roba forte» gli raccomandò l'altro, mescendo qualche goccia nel suo calice.
«Forte quanto?» domandò con curiosità.
«Credo che abbia raggiunto una cinquantina di gradi… ma c'è di meglio» finì di spiegare e sorseggiò avidamente il proprio drink, seguito da Shogo.
«Hmm…» mormorò quest'ultimo, con aria livorosa «sarebbe un peccato se lo usassi come combustibile per scaldarmi, vero?»
«Non ci provare…»
«…altrimenti?»
«Altrimenti farò una rievocazione storica sulla biblioteca di Alessandria, nel tuo studio».
Nessuno dei due riuscì a mantenere lo sguardo fisso e minaccioso sull'altro, mentre si scambiavano quelle provocazioni, e ben presto si sciolsero in una blanda risatina; eppure entrambi sapevano che l'altro non si sarebbe fatte troppe remore ad attuare quanto detto. Erano pur sempre due criminali.
«Ad ogni modo…»- riprese a parlare il più giovane- «la prossima volta che vedrò Senguji, gli chiederò di portartene dell'altro»
«Ti ringrazio, mi faresti un grande piacere» concluse, e il silenzio tornò nella stanza, scandito solo dai loro pesanti respiri. L'alcol li aveva un po' riscaldati, ma continuava a far molto freddo in quelle quattro mura, il vento fischiava attraverso gli infissi e la neve ovattava col suo candido manto i tetti e i balconi della città. Sarebbe stata la serata perfetta da passare in compagnia di una persona cara a guardare i fiocchi ghiacciati danzare e a sorseggiare della cioccolata calda, ma quel malfunzionamento aveva compromesso tutto e l'aveva trasformata in una nottata di improvvisazione e arrangiamento.
Gu-Sung, arrivato al quarto bicchiere e sentendosi lo stomaco bruciare, si alzò in piedi e si rivolse all'albino: «non vorrei sembrarti scortese ma… devo chiederti di spostarti dal divano»
«E perché mai?» replicò sorpreso.
«Perché le consegne che mi hai fatto fare mi hanno sfiancato, sono stanco morto, voglio dormire»
Quel sofà, infatti era spesso utilizzato dal coreano sia come posto di lavoro, sia come giaciglio notturno: passava ore ed ore accomodato là sopra a lavorare col suo tablet, e quando la stretta di Morfeo lo coglieva, si adagiava là sopra stesso, con un cuscino e un plaid, e s'addormentava profondamente. Si era ormai abituato a tutto ciò.
Una voce più affilata della tramontana ribatté, dopo qualche secondo: «sarei io lo scortese, se ti lasciassi dormire così…»
«Cosa intendi dire?» Choe cercava di mantenere le palpebre aperte per scrutarlo e la mente lucida per capirlo, ma gli veniva difficile a causa della stanchezza e dell'alcol.
«Vieni» esclamò semplicemente l'albino, e quell'imperativo suonò come la lusinga di una sirena alle orecchie di Choe, che senza essersene pienamente accorto aveva iniziato a seguire la sua figura snella, avvolta dalle spalle alle caviglie nella soffice coperta sintetica, attraverso il corridoio.
Si ritrovarono nella stanza privata di Shogo.
Quello era l'ambiente che Shogo usava essenzialmente per dormire, nel suo sofficissimo letto matrimoniale, o per chiudersi in solitudine durante la lettura di un libro particolarmente difficile in cui ogni minima interruzione sarebbe risultata molesta, anche da parte del suo coinquilino. Non c'era granché, oltre al matrimoniale: scaffali ricolmi di libri, ovviamente, lo scrittoio, una sedia e una poltroncina, che lo rendevano piccolo ma confortevole. Choe non si era mai permesso di entrare lì senza l'autorizzazione del padrone, non voleva invadere la sua privacy e tradire la sua fiducia, sebbene nutrisse una curiosità non indifferente verso la vita privata di quell'uomo, per cui gli fece uno strano effetto essere scortato là dentro. Gli occhi di Choe strabuzzavano da una parte all'altra di quel luogo proibito, in fondo era una normalissima stanza, la stanza di un qualsiasi uomo single ordinario. Pensava che fosse un po' uno spreco un letto così grande per una sola persona, si chiedeva se non si sentisse solo a passare alcune notti in isolamento tra le infinite e soffici pieghe del giaciglio.
«Cosa ti fa sorridere, Choe?»
Il suo intervento lo riportò alla realtà, e tornò a guardare in volto il compagno, cercando di ricomporsi: «non lo so… mi aspettavo che dormissi con un pupazzo a dimensione naturale di Huxley o di Orwell, o qualcosa del genere…»
«Avresti potuto dire che era effetto del brandy…»- ridacchiò in modo deliziato Shogo- «come t'è venuto in mente? Esistono davvero bambolotti simili?»
«Ma che ne so…»- Choe si era reso conto che tutti quei bicchieri avevano un po' ammorbidito la barriera mentale tra le cose da pensare e quelle da dire- «esistono pupazzi sui personaggi dei cartoni, non vedo perché non possano esistere anche sugli utopisti…»
«Promettimi che ti ubriacherai più spesso: queste idee sono fantastiche, Choe!» e Shogo intanto rideva, ma Choe non capiva se lo stesse prendendo in giro o meno, ma poco importava: Shogo che rideva? Uno spettacolo unico, per lui; in fondo Shogo non rideva in quel modo molto spesso, Choe era più avvezzo a vederlo meditabondo e sempre concentrato sui loro piani, con il capo chino e lo sguardo proteso a qualcosa di metafisico, perciò si lasciò trascinare dalla preziosità di quel frangente che rendeva l'albino così squisitamente umano e rise anche lui.
La cosa durò poco.
«Choe Gu-Sung, devo cortesemente chiederti di spogliarti e di sdraiarti sul lato sinistro del letto».
Un altro comando, più categorico di quel "vieni", e l'ilarità del coreano si smorzò in un secondo.
«…prego?»
«Hai sentito bene, sbrigati»
Choe lo osservava incredulo e sbalestrato, mentre si toglieva il pesante giubbotto e il golfo, era tornato il solito Shogo glaciale e autoritario di sempre, che non accettava rifiuti. Ripose, man mano, tutti gli abiti ripiegati sulla poltrona di fronte, finché non gli rimasero solo la canotta e il paio di shorts e, battendo i denti, s'infilò sotto il sofficissimo piumone del letto, anch'esso gelido.
«V-Vuoi darmi una spiegazione, Shogo?»
«Il mio letto era freddo, mi serviva qualcuno che lo scaldasse a dovere» replicò semplicemente, sedendosi sul bordo.
«F-Fammi capire, hai aspettato che io tornassi… per chiedermi di fare ciò? A-Assurdo!» farfugliò il collega.
«Perché lo trovi assurdo? Io ti ho ridato la luce, e tu non vuoi offrirmi un po' del tuo calore, uomo ingrato?» lo provocava.
«Continuerai a farmi pesare la cosa a lungo?» replicò di rimando, il suo tono ora alquanto irritato.
«Perdonami, non reputavo che fosse un onere per te… possiamo rimediare subito, a me non costerebbe nulla…»
«Basta, adesso smettila!» Shogo aveva allungato le mani verso le sue pupille iridescenti, e Choe non aveva esitato a serrargli i polsi con forza moderata. Ansimava, a pochi centimetri del suo viso, ripensando all'abbacinamento subito parecchi anni prima in gioventù, non voleva per nessun motivo al mondo rivivere quel trauma. Mirava furioso e deluso Shogo, tollerava di buon grado i suoi scherzi e le sue frecciatine, ma quell'argomento, per lui, era sempre fonte di atroce dolore, odiava essere stuzzicato proprio sul suo punto debole.
«Così può andar bene…» il gentile mormorio di Shogo sciolse la tensione che si era creata. Choe gli lasciò andare gli avambracci e il giovane si liberò dal plaid ed entrò nel giaciglio, facendo rotolare il collega, che imprecava, sul lato ancora fresco. Shogo si stiracchiò e si crogiolò nel tepore e nell'essenza di colonia maschile lasciati dall'altro, con un sorriso soddisfatto e compiaciuto stampato in volto, mente Choe tremava e digrignava la mandibola alla sua sinistra. Dentro di sé mandava mille accidenti a Makishima, in un modo o nell'altro riusciva sempre a fargli fare qualcosa di imbarazzante o increscioso, per puro capriccio personale o per gustarsi le sue reazioni, dato che all'albino piaceva osservare gli esseri umani come poche cose al mondo, facendolo sentire come un animaletto costretto a sottostare alle bizze di un fanciullo, ma d'altronde cos'era Shogo, se non un bambino solitario incapace di amalgamarsi con la società? Non poteva negare di provare un bislacco affetto verso quell'essere emarginato da una società così insensatamente "perfetta" e velatamente bisognoso di attenzioni. Tuttavia, non era poi così terribile quel supplizio a cui Shogo l'aveva sottoposto: le lenzuola erano pulitissime e profumate di lavanda, dovevano essere state cambiate poco prima, il cuscino si adattava bene alla sua cervicale indolenzita, il piumone iniziava a rilasciare come una dolce coccola il suo tepore, riusciva quasi a sentire le eco di Morfeo lambirgli le latebre della mente… poi Shogo accese, all'improvviso, la luce artificiale, destandolo dal dormiveglia; Choe mugugnò, rigirandosi verso di lui: «che ti prende adesso, accidenti?»
«Devo finire questo romanzo entro stasera, senza illuminazione non riesco a leggere» replicò mostrandogli il volume di un classico di Dickens.
«…ma perché?»
«Perché "A Christmas Carol" è in tema con questo periodo, quale momento più azzeccato per leggerlo?»
Ma è proprio necessario?»
«Viviamo in un'epoca in cui il superfluo è la nostra unica necessità».
E lì c'era poco da fare: quando Shogo snocciolava una citazione d'autore, la discussione poteva dirsi chiusa, almeno per Choe, che non disponeva sempre delle competenze necessarie per ribattere, e se quella fosse stata una partita a scacchi, la massima di Wilde sarebbe suonata un po' come uno "scacco matto" pronunciato dal vincitore, la prima e l'ultima parola erano sempre sue. Il coreano dunque gli diede le spalle e abbracciò il guanciale, affondandovi la faccia nella disperata ricerca di ristoro dai contraccolpi dell'alcol che, tra bruciore di stomaco e mal di testa, avevano iniziato a tormentarlo, e non se ne parlava di tornare al suo caro divano sgangherato, il tragitto era troppo impervio per il suo stato corrente. Riuscì a prendere sonno, casualmente, proprio nel momento in cui Shogo ebbe finito di leggere: l'albino sospirò, soddisfatto dal romanzo, chiuse il libro, lo poggiò sul materasso, in mezzo, e diede uno scossone a Choe: «ho appena finito, sai? È stato affascinante, potrei riassumertelo, ma preferirei che te lo leggessi per conto tuo»- disse con un tono di voce tranquillo, ad un volume normale ma fin troppo alto per il poco prima dormiente- «quindi ora posso spegnere la luce. Buonanotte, Choe» concluse e premette il tasto "off" dell'abat-jour.
In quell'istante il coefficiente di criminalità di Choe toccò vette da record, battute probabilmente solo da Jack lo squartatore nel pieno della sua attività criminale per le vie di Londra, il suo cervello gli rievocò immagini di torture inquisitorie in cui i condannati venivano costretti alla privazione del sonno con mezzi più o meno crudeli, e in fondo l'odio viscerale di Kogami verso il suo collega non sembrava poi così immotivato.
La notte, o meglio, quelle poche ore che ne rimanevano, trascorsero nel silenzio assoluto, entrambi dormivano più o meno beati e nessuno dei due fortunatamente russava.
Dopo circa tre ore, al primo albeggiare, Shogo si destò fresco e riposato, era quella la durata media del suo sonno notturno, compensato poi da qualche pennichella distribuita nell'arco della giornata. Sbadigliò in modo contenuto, con una mano davanti alla bocca, si stiracchiò senza far rumore, si assicurò che il collega stesse dormendo e poi si alzò per dirigersi verso il bagno, con il plaid avvolto attorno alla pelle eburnea.
Choe, pochi minuti dopo, nel pieno della sua fase REM, caratterizzata spesso da spiacevoli incubi circa il suo passato, ebbe uno spasmo involontario che lo portò ad urtare con la gamba il volume cartaceo, il quale piombò per terra con un tonfo sordo e lo fece risvegliare di soprassalto. Stava sul punto di urlare qualche maledizione in aramaico verso Shogo, ma si accorse che il collega non era lì; raccolse il romanzo dal pavimento e si mise a sedere sul letto, ancora frastornato. Udiva, in sottofondo, uno scrosciare simile alla pioggia, lungo, continuato, zampillante. Eppure non stava piovendo, anzi, nevicava ancora dal giorno precedente e faceva ancora più freddo. Gli pareva assurdo che Shogo stesse facendo una doccia ghiacciata con quel gelo, era un uomo folle ma anche la sua follia aveva dei limiti, era una follia calcolata, a suo modo, e i calcoli dell'albino, ne era certo, non comprendevano tra i tanti scopi quello di prendersi una bronchite.
«Shogo?» chiamò a voce moderata, ma lui non poté udirlo, intento com'era a lavarsi.
Un po' allarmato dalla situazione, Choe indossò una vestaglia e si alzò per andare a controllare, sospettava che il compagno avesse rotto una tubatura idraulica o il rubinetto, oltre che, con tutta probabilità, la caldaia la sera prima. Si fece guidare dal sottofondo scrosciante e arrivò alla porta del bagno, trovandola aperta. Sbirciò all'interno: intravide la figura esile e slanciata di Shogo occupata a detergersi nella doccia, dalla quale si elevava… un'intensa e fitta nube di vapore acqueo.
Vapore acqueo, acqua calda, caldaia. Non ci mise molto Choe a fare due più due e, visto che era altamente improbabile che un tecnico fosse giunto in casa e avesse sistemato il guasto così presto, la risposta era solo una.
«Ma che bastardo» sussurrò tra sé e sé, mentre si dirigeva verso l'impianto del riscaldamento: era acceso e perfettamente funzionante. Lo staccò, senza pensarci, con un gesto rapido e deciso, poi tornò come se nulla fosse nella stanza da letto, si sistemò nel giaciglio e finse di essere ancora addormentato.
Poco dopo anche Shogo si precipitò nella stanza, ancora bagnato, avviluppato in un misto di accappatoi e asciugamani per evitare che le goccioline sul suo corpo diventassero stalattiti, pronunciando un teatrale «tu quoque, Brute, fili mi», del quale Choe ignorava il significato; non poteva nemmeno vedere la sua espressione, eppure il tono di voce di Shogo gli era suonato come un misto di risata e sorpresa, non sembrava infuriato o altro, e la cosa era persino più preoccupante. L'albino si sedette sul bordo del materasso, accanto al compagno che ancora fingeva di essere nel mondo dei sogni, e infilò una mano gelida sotto le coltri, per accarezzargli gentilmente le spalle e il collo scoperto; il brivido gelato tradì la pantomima onirica in cui s'era cimentato il coreano, che si lasciò scappare un sibilo aspirato mordendosi le labbra.
Shogo si chinò su di lui e, quasi lambendogli un orecchio, bisbigliò: «una piccola vendetta è più umana di nessuna vendetta», facendo schiudere un occhio all'uomo. I loro sguardi si incrociarono per qualche istante, giusto il tempo di assicurarsi che l'altro non fosse più arrabbiato, poi Shogo lo congedò con un'altra carezza, sul viso questa volta, per avviarsi verso la cucina.
Rifletteva, quest'ultimo, sulle proprie azioni, mentre si apprestava a preparare un caffè con la moca, usando lo stesso metodo che aveva visto fare al collega, per ottenere un liquido più denso e saporito, ben differente da quello già pronto nelle cialde o nelle bustine solubili. Forse il suo non era stato il modo migliore per ottenere un po' di calore e compagnia da Choe, forse sarebbe stato più semplice chiederglielo senza giri di parole e messinscene, ma poi, dove sarebbe stato il divertimento? Vedere le reazioni del suo compagno non aveva prezzo, glielo facevano apprezzare sempre di più.
La bevanda intanto era pronta, per una volta era stato Shogo a occuparsi della colazione dell'altro e a portargliela a letto, e ci era riuscito senza far esplodere la caffettiera o il fornello, non era dunque così esoterica l'arte di preparare la merenda come Choe la faceva apparire, e quale miglior modo per appianare le divergenze di una coppia?
Pensiero nobile e adorabile quello di Shogo, peccato solo che il suo distrarsi in mille pensieri gli avesse fatto confondere il sale con lo zucchero.

   
 
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