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Autore: yonoi    08/01/2019    10 recensioni
Il principe Alberto Vittorio di Sassonia Coburgo Gotha fu nipote della regina Vittoria del Regno Unito, secondo in linea di successione al trono dopo suo padre, re Edoardo VII: tuttavia, non salì mai al trono, morendo di febbri il 14 gennaio 1892 dopo una vita riservata ma al tempo stesso discussa e costellata di ambiguità. Di dice che il giorno del funerale la sua promessa sposa, Mary di Teck, abbia deposto la sua corona nuziale di fiori d’arancio sulla bara del principe.
Ma cosa sarebbe accaduto se Alberto Vittorio, chiamato familiarmente il principe Eddy, fosse sopravvissuto alla pandemia influenzale che imperversò in quell’epoca in tutta l’Europa, sposando Mary di Teck e diventando regnante? E quanto c’era di vero nelle dicerie che per tutta la vita accompagnarono il principe Eddy?
Prima classificata al contest "Senza tempo" indetto da mystery koopa sul Forum di EFP.
Genere: Drammatico, Romantico, Storico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: What if? | Avvertimenti: Tematiche delicate | Contesto: Età vittoriana/Inghilterra
Capitoli:
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“È una bella prigione, il mondo”
 
(W. Shakespeare, “Amleto”)
 

3. La solitudine e l’abbandono

 
Clarence Cottage, in un inverno di inizio secolo
 
       La Guardiana della famiglia tornò a fare udire il suo lamento in occasione della morte della regina Vittoria, che passò da questa vita al crepuscolo del 21 genaio 1901, dopo sessantatré anni, sette mesi e due giorni di regno. L’anziana sovrana si trovava presso la residenza di Osborne House, sull’isola di Wight, ove amava recarsi per trascorrere le festività natalizie e il capodanno.
      Fin dall’inizio della sua vedovanza, Vittoria del Regno Unito aveva sviluppato una predilezione per la vita ritirata, e l’isola di Wight, sul canale della Manica, ben si prestava a soddisfare i suoi bisogni di intimità e riposo. A suo tempo, la residenza era stata restaurata secondo un progetto elaborato da Alberto di Sassonia, il mai dimenticato principe consorte: ragione di più per prediligere quel luogo e farne il proprio rifugio, lo scrigno dei ricordi di una vita felice.
     Quella sera di fine gennaio, Vittoria si era sentita particolarmente esausta: aveva quindi espresso il desiderio di una gita in carrozza per i boschi della tenuta, allo scopo di respirare aria tonificante e distrarsi. Durante il tragitto, si assopì dolcemente. La sua accompagnatrice, lady Lyndon, fece cenno al cocchiere di rientrare a Osborne House mantenendo il passo e in silenzio, per non disturbare Sua Maestà immersa in quel sonno provvidenziale.
Vittoria, tuttavia, non si destò mai più.
      La notte precedente, presso la residenza di Bachelor’s, che a seguito dei restauri intrapresi da Eddy, duca di Clarence, aveva preso il nome di Clarence Cottage, una certa Georgina si destò di soprassalto, avendo udito un lamento prolungato e straziante giungere dal cortile.
      Era una cantilena che andava e veniva col vento, e pareva girare tutt’intorno alla casa.
      Clarence Cottage si trovava a più di cinquecento miglia da Osborne House: questo particolare contribuì a diffondere l’inquietudine, quando la notizia della morte di Vittoria diventò di dominio pubblico. Ma a rendere la vicenda ancor più sinistra fu il fatto che quel canto, che a quanto pare preannunciava la morte della grande sovrana, fu udito solamente da due persone: la suddetta Georgina, impiegata come sguattera nelle cucine, e il principe Alberto Vittorio, entrambi sopravvissuti alla signora dagli occhi rossi.
      Turbato da sogni paurosi, che a lungo gli lasciarono un senso di smarrimento, Eddy s’era destato nel cuore della notte: una voce di donna, che pareva dibattersi nella più dolorosa afflizione, proveniva da un punto imprecisato dell’oscurità.
      Nella stanza del principe, dietro alle cortine del letto a baldacchino, c’era solo il silenzio.
      Fuori, nel breve scorcio del parco di proprietà che circondava il cottage, una nebbia d’acqua morta saliva dallo stagno.
      Quel canto, che procedeva alternato al battito delle mani, era melodioso e potente ma anche aspro e selvaggio: decisamente, metteva la pelle d’oca.
    Il principe aveva attraversato il salottino comune e si era affacciato a controllare nella camera di May: sprofondata sui cuscini, Mary di Teck riposava tranquillamente.
      Scendendo al piano terra, Eddy si rese conto che l’intera dimora era immersa nel sonno: nessuno dei domestici faceva capolino dal lungo corridoio destinato alla servitù, anche se nella corte si udivano i latrati impauriti dei cani. Quanto ai pellicani, a partire da quella notte abbandonarono i nidi e nessuno li vide più. 
     Mentre ancora tentava di capirci qualcosa, Eddy percepì a un tratto una presenza accanto a sé. Si trattava di una ragazza dall’età apparente di quattordici, quindici anni, vestita con l’abito da lutto dei poveri e una cuffia logora: di sotto al drappeggio che quel vecchio copricapo le calava sulla fronte, la luce della lampada che Eddy, sgomento, levò dinanzi a sé illuminò un viso minuto, ma anche colmo di una strana saggezza:
     “La sentite anche voi?” domandò la ragazza, continuando a fissare un punto fuori dalla finestra, “prima era più vicina a Sandringham House. Ora è arrivata qui.”
      Alzò lo sguardo su Eddy. I suoi occhi chiarissimi parevano in preda a un accesso di febbre:
      “Anche quando voi eravate malato, la Guardiana ha pianto a lungo. Poi però se n’è andata.”
     “Stavolta, non se ne andrà?” domandò il principe, assorto. Aveva l’impressione di muoversi dentro a un sogno: “Sto dormendo”, pensò, “tutto questo non è reale.  È solo un incubo che domani svanirà senza lasciare traccia. Forse mi sveglierò con il solito mal di testa.”
      Eppure quella strana creatura pareva così reale: il breve gesto con cui soffocò uno starnuto nelle pieghe di un mantello stazzonato, che pareva una gualdrappa da scuderie, e il gelo che regnava nelle sale del pianterreno per via dei camini spenti, richiamarono Eddy alla possibilità che non si trattasse affatto di un sogno.
      “Hai freddo, ragazzina?” avvicinatosi al caminetto, Eddy si adoperò per muovere la brace e ravvivare la fiamma, aiutandosi maldestramente con un soffietto.
      “Ma tu chi sei?” domandò a un tratto. “Non ti ho mai visto qui al cottage.”
       La piccola figura avvolta nella gualdrappa continuava a scrutare l’oscurità del parco: un buio e una nebbia che si sarebbero potuti tagliare col coltello.
      “Io lavoro in cucina. Per questo non mi avete mai visto.”
     In effetti, Georgina trascorreva tutto il tempo in quella sorta di corridoio fumoso e basso dove si preparavano i pasti per la casa. In quel perenne via vai di camerieri, cuochi e inservienti, fattorini addetti alla consegna delle derrate, le sue mansioni erano occuparsi delle stoviglie, controllare che non mancasse nessun pezzo ai servizi da pranzo e a quelli da thè. Più prosaicamente, spettava a lei rigovernare le decine di piatti e bicchieri, di ogni forma e dimensione, che ogni giorno passavano sulla tavola del Clarence Cottage.
      Pareva che nello svolgimento dei suoi compiti fosse seria e precisa: neppure un bicchiere cadeva a terra, né un piatto scivolava quand’era al lavatoio. Lei stessa provvedeva a riscaldare l’acqua, appendendo i grossi secchi nel camino ch’era grande come una fornace, e infatti ancora al tempo dei restauri del cottage i muratori lo usavano per cuocere i mattoni.
      Riguardo al suo lavoro, non c’era nulla da dire.
      Quanto alle sue origini, si poteva dire ancor meno.
      La governante sapeva soltanto che Georgina era giunta a Sandringham House la stessa notte in cui il principe Alberto Vittorio era stato sul punto di passare da questo mondo. La serva che l’aveva condotta con sé aveva negato qualsiasi parentela, e anzitutto di essere la madre naturale:
      “È la figlia di una poveretta del mio quartiere, a Londra”, aveva risposto a chi la interrogava, nella fattispecie il sovrintendente alle cucine reali, “la mia vicina non è sopravvissuta all’influenza, e ora questa piccola è rimasta sola al mondo. La signora dagli occhi rossi ha risparmiato Georgina, che è senz’altro un po’ strana ma è brava nelle faccende. E se vorrete prenderla a lavorare con voi, farete senza dubbio un’opera di carità.”
     In realtà, la donna non vedeva l’ora di levarsela di torno: infatti, quando Georgina iniziò a lavorare nelle cucine, la sua accompagnatrice non fu più vista a Sandringham.
      Contro ogni aspettativa, il sovrintendente che l’aveva accolta per pietà si rese conto di aver fatto un ottimo affare: Georgina era bizzarra d’aspetto e nel parlare, ma lavorava sodo e con tale destrezza che era in grado di sbrigare le stoviglie di un pranzo di gala in meno di due ore.
     Quando, in occasione delle nozze reali, fu decisa la riapertura del Bachelor’s Cottage, lo stesso sovrintendente la raccomandò per la bontà dei suoi servigi: sicché la ragazzina entrò a far parte del personale di cucina del principe Eddy.
      Nella nuova dimora, Georgina era benvoluta anche se si diceva che le mancasse qualche rotella, perché sosteneva di vedere i folletti e di fare conversazione con gli spiriti dei morti. Le storie che raccontava a questo proposito erano così paradossali, che persino in quell’epoca così affascinata del soprannaturale nessuno le dava credito.
      “È una svitata, poverella”, concludevano quelli che avevano avuto la ventura di ascoltarla, “sarà anche sopravvissuta alla signora, ma ha quasi sempre la febbre, non c’è da meravigliarsi che sragioni.”
      C’era piuttosto da stupirsi che un’ammalata lavorasse in cucina. Per questo Mary di Teck, una volta venuta a conoscenza della faccenda, si preoccupò di farla visitare da un medico: impose alla ragazza il più stretto isolamento, e una volta constatata l’incapacità dei medici di orientarsi su una diagnosi, la rispedì a Londra, nella prima casa d’accoglienza per fanciulle povere che si rese disponibile ad accoglierla.
      Quando le era stato domandato se avesse parenti, Georgina si era limitata a stringersi nelle spalle.
      “In molti quartieri, a Londra, c’è la tubercolosi”, avevano constatato i medici reali, “la carenza di ossigeno può provocare amnesie, persino allucinazioni.”
      Ma Georgina non diede mai un colpo di tosse.
      “C’è anche la sifilide. Per quel che ne sappiamo, potrebbe essere nata col mal francese, di qui gli attacchi di febbre, oppure le visioni.” Eppure Georgina lavorava dall’alba, e fino a notte fonda a ritmi prodigiosi. Oltre a sbrigare centinaia di stoviglie, era anche esperta nell’arte di filare la lana: a fine giornata, conservava energie sufficienti per far girare l’arcolaio a ritmi industriali.  
     Ma quando le domandarono se avesse lavorato in qualche impresa tessile, Georgina si strinse di nuovo nelle spalle, e non sapeva o forse non voleva rispondere.
     Stanca di queste tavole rotonde scientifiche, Mary di Teck dispose l’allontanamento immediato della piccola sguattera: di qualunque morbo pernicioso si trattasse, a preoccupare May non era tanto il timore di un eventuale contagio, quanto l’interesse che Eddy mostrava nei confronti di quel mucchietto di stracci.
    Dalla notte in cui quei due visionari s’erano messi in mente di avere udito il lamento della Guardiana, il principe aveva cominciato a dedicare troppo tempo e troppe chiacchiere - assurde oltre ogni limite - a quella povera cosa che bruciava di febbre sotto a una coperta da stalliere.
    “La banshee, ammesso che esista, disturba il sonno dei contadini irlandesi”, precisò May, con lo stesso cipiglio che Vittoria del Regno Unito aveva esibito, un giorno, di fronte al piccolo Eddy. “Fino a prova contraria, noi siamo inglesi. Quanto a voi, in particolare, un giorno sarete re. Non c’è altro da aggiungere. Abbiate piuttosto cura della vostra salute”.
      May non l’avrebbe mai ammesso: ma tra le ragioni che l’avevano spinta a mettere alla porta la piccola veggente vi erano le chiacchiere che avevano iniziato a circolare con sempre maggiore insistenza.
     Si diceva che Georgina fosse figlia di padre ignoto; veniva dai bassifondi, eppure non solo era stata assunta a corte, ma il principe le riservava numerose attenzioni: di qui a pensare che si trattasse di una figlia illegittima di Alberto Vittorio, c’era soltanto un passo. Una volta compiuto quel passo, si poteva anche dire che la febbre che un giorno era stata sul punto di spacciare il principe Eddy, era la stessa che rendeva perennemente lucidi gli occhi di quella ragazza: tubercolosi o sifilide. Poiché anche Eddy tossiva raramente, il cerchio si stringeva.
      Ecco perché dopo nove anni di matrimonio, i duchi di Clarence non avevano ancora concepito un erede. Si diceva che Eddy varcasse raramente la soglia del salottino che metteva in comunicazione la sua camera da letto con quella della moglie; che addirittura il matrimonio non fosse mai stato consumato, e che si trattasse di una semplice copertura.
      “Non dimentichiamoci infatti”, suggeriva qualcuno, “di Cleveland Street. Anche Cleveland Street si trova a Londra, e certo non è un caso.”
      Di fronte alle dicerie, May reagì come di consueto: all’inizio non vi diede peso, considerandole un accidente inevitabile nella vita di un membro della Casa reale.       In seguito, decisa a spazzar via quel castello di carte, licenziò non soltanto Georgina, ma anche qualche lingua particolarmente svelta. Cominciò a insinuarsi nella sua mente il sospetto che Eddy avesse una doppia vita, forse anche più di una. Insieme al timore che Georgina fosse sua figlia, tornò a farsi viva quella pulce che lord Somerset le aveva messo nell’orecchio, nel corso della sua unica e sgraditissima visita.
      May era ancora convinta di essere l’unica a conoscere a fondo il principe Eddy: continuava a subire il fascino della sua fragilità, di una mente che pareva del tutto incapace di concepire cattivi pensieri. Ma di fatto, anche per May il principe continuava a restare un enigma.
      Dopo un periodo iniziale di intimità e confidenze, Eddy si era rinchiuso nuovamente nel guscio della sua introversione. Nei confronti della moglie, non mancava di dimostrare una quieta affezione: quando si assentava, le scriveva lunghe lettere che uscivano dalla busta assieme alla fragranza di fiori ed erbe aromatiche.
      Spesso, sopra al vassoio della prima colazione, May scopriva brevi messaggi di buongiorno, colmi di tenerezza e di ammirazione.
      Nella pompa dei funerali di Vittoria del Regno Unito, il principe si mostrò sinceramente addolorato, addirittura oltrepassando i limiti dell’etichetta con i suoi pianti da ragazzino: eppure, nel quotidiano, si aveva l’impressione che Eddy vivesse altrove, in qualche remoto paese della sua immaginazione. Quando suo padre lo stanava dal guscio per prepararlo al suo ruolo di futuro regnante, Alberto Vittorio presenziava come un’ombra alle inaugurazioni, alle parate militari, agli incontri con i ministri, alle visite di stato.
       Alla morte di Vittoria, il principe di Galles era salito al trono con il nome di Edoardo VII.
     Aveva già sessant’anni, e non contava di avere dinanzi a sé un lungo regno: ma la sua premura non sfiorava evidentemente il principe Eddy, del quale già si diceva che forse avrebbe abdicato a favore del fratello.
      “Come farete quando vi troverete a regnare con le vostre sole forze?”
      Eddy conveniva che il padre aveva ragione: per un certo periodo dava prova di maggiore impegno, ma presto ripiombava nella consueta inerzia. 
      Anche i tentativi di May di affrontare di petto certe questioni - quella possibile filiazione illegittima, e soprattutto i fatti di Cleveland Street - si risolsero in un nulla di fatto.
      “Mi meraviglio di voi”, rispose Eddy, glaciale. “Dite sempre di non credere ai fantasmi, eppure siete disposta a farvi suggestionare da queste dicerie.”
      Da quel momento, divenne ancor più sfuggente.
      Fu allora che May incominciò a sfogare le sue preoccupazioni, pene matrimoniali incluse, con il principe Giorgio. Il fratello di Eddy aveva condiviso con lui gli anni dell’infanzia, i primi viaggi per mare: certo poteva aiutarla a schiarirsi le idee riguardo agli aspetti più incomprensibili del carattere del marito.
Giorgio, a quel tempo, era ancora felicemente scapolo. Non essendo soggetto ad alcuna pressione per ragioni ereditarie, si dedicava ai passatempi del suo rango: amava la caccia ed era l’anima delle feste, ma soprattutto era un appassionato filatelico. Dimorando nel mondo, aveva sviluppato un temperamento estroverso, e la sua conversazione era brillante e piacevole.
      May si scoprì ad attendere con gioia le sue visite, che la beneficiavano di un autentico rilassamento dell’anima.
      Quanto a Eddy, tuttavia, anche il principe Giorgio aveva poco da dire:
      “È l’anello debole della nostra famiglia”, si lasciò scappare in un momento di confidenza, “senz’altro è molto buono, e non credo sia in grado di compiere una sola delle enormità che si dicono in giro. So che va spesso a Londra, a occuparsi di non so quali associazioni di beneficienza. Ma devo essere sincero: col tempo, ho imparato a conoscere ogni tipo di francobollo, ma ancora adesso so ben poco del carattere di Alberto Vittorio”.      
 
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      Il corpo di Vittoria del Regno Unito, composto tra i paramenti della bara scoperta, era bianco sul bianco. L’anziana sovrana aveva dato precise disposizioni riguardo alle sue esequie, e anche questa volta, come già in occasione del suo matrimonio, era andata controcorrente: pur avendo osservato il lutto stretto per tutti gli anni della sua vedovanza, Vittoria non amava il dispiegamento in forze del nero, che il protocollo imponeva per gli addobbi della camera ardente, gli abiti dei presenti e addirittura per i cavalli che trainavano le carrozze dei morti.
      Quando si dedicò a organizzare fin nei dettagli l’ultima cerimonia a cui avrebbe preso parte, l’anziana sovrana scelse il bianco: in abito da sposa, con il velo sul capo, fu seppellita accanto ad Alberto di Sassonia come se fosse di nuovo sull’altare delle sue nozze.
     “Si muore per ritrovarsi”, aveva confidato a Eddy in occasione di quell’ultimo Natale in cui la famiglia s’era riunita ad Osborne House. “Non è educato farsi attendere oltre il dovuto. Sono ormai quarant’anni che il caro Alberto mi aspetta, io al suo posto mi sarei già stancata da un pezzo.”   
       Dall’isola di Wight, dove la regina era entrata nel suo ultimo sonno, la salma era stata condotta in processione a bordo del piccolo yacht Alberta, seguito dalle più spaziose imbarcazioni che ospitavano i membri della famiglia reale. Al suo passaggio, il corteo ricevette gli omaggi di otto cacciatorpediniere attraccati nello stretto: mentre l’Alberta scivolava su uno specchio d’acqua immobile, che era pura luce nell’ora del tramonto, le grandi navi da guerra facevano ala al suo passaggio sparando colpi a salve.
       I membri degli equipaggi erano schierati sul ponte, gli ufficiali salutavano e le guardie marine presentavano le armi.
Il trasporto via terra fu effettuato da uno speciale convoglio che viaggiava a velocità ridotta, per consentire al popolo di rendere omaggio a Sua Maestà durante tutto il percorso. La tratta verso Londra si trasformò in una passatoia coperta di fiori: si rese necessario aggiungere una seconda locomotiva, per trasportare gli addetti alla pulizia dei binari.
      Nelle città, le bandiere pendevano smorzate a mezz’asta. Le botteghe osservarono la chiusura per lutto ed esibivano drappi neri sulle vetrine.
     Quando il feretro entrò nella cappella di san Giorgio a Windsor, alle campane a lutto fecero eco i rintocchi degli edifici pubblici di tutto il Paese. Nelle stazioni ferroviarie tacquero gli annunci degli arrivi e delle partenze, mentre i treni sostavano nell’aperta campagna. Per strada, le carrozze accostarono e i vetturini scesero insieme ai passeggeri, ai tramvieri fermi a lato dei loro mezzi, ai passanti raccolti in silenzio nelle piazze: tutti parteciparono della stessa eternità a cui andava incontro Vittoria del Regno Unito, nella sua bara posta su un affusto di cannone.
      La perdita della nonna lasciò nel cuore di Eddy un vuoto immenso: ancora più di May, la grande regina l’aveva compreso e protetto, rimproverando bonariamente i suoi eccessi di fantasia, prendendo le sue difese ogni volta che al principe veniva rimproverata la sua indolenza, la mancanza di volontà, la scarsa intelligenza.
      In piedi accanto al padre che quella stessa mattina, nel corso di una cerimonia ufficiale, era stato proclamato re col nome di Edoardo VII, il principe Alberto Vittorio si era lasciato andare pubblicamente allo sconforto, attirandosi le solite critiche:
      “Non è neppure in grado di controllarsi. Sarà una disgrazia per tutti, quando diventerà re.”
      Quella volta, la critica era giunta direttamente dalla fila di blasonati che occupavano i posti dietro di lui. Ignorando la stretta di May sul suo braccio, per una volta tanto Eddy ritenne opportuno rispondere a tono: si voltò dunque incrociando gli sguardi esterrefatti dell’imperatore di Germania, Guglielmo II, e dell’erede al trono di Austria e Ungheria, arciduca Francesco Ferdinando.
      Non sapendo a chi rispondere, si limitò a sussurrare:
      “Non è mai una disgrazia piangere per qualcuno che si ama sinceramente.”
     Questa battuta fece naturalmente il giro del mondo: complice la commozione generale, la popolarità della Casa regnante raggiunse picchi mai visti, con grande soddisfazione di Edoardo VII.     
     “Avete effettivamente mancato di cortesia nei confronti dei nostri ospiti”, osservò più tardi il re, “ma devo ammettere che in un frangente come questo, anche la nostra beneamata Vittoria avrebbe risposto per le rime, e probabilmente con maggiore impertinenza.”
     Nella sua qualità di principe ereditario, Eddy si trovò presto ad affiancare il re nel suo ruolo pubblico. Finché era stata in vita, Vittoria del Regno Unito aveva puntualmente estromesso il futuro Edoardo VII dal governo: nessun documento ufficiale era mai capitato, neppure per sbaglio, sulla scrivania del suo figlio maggiore.
      Consapevole del fatto che regnare esigesse un minimo di pratica, Edoardo ritenne opportuno coinvolgere non solo Alberto Vittorio, ma anche colui che occupava il secondo posto nella successione al trono, ossia il principe Giorgio.
     Nel tentativo di cavare qualcosa da quei mucchi di carte, Eddy ricorreva puntualmente a sua moglie: nella maggior parte dei casi le passava direttamente i fascicoli, e poiché Mary di Teck si appoggiava a Giorgio furono questi ultimi, di fatto, a imparare a regnare. 
      Dal canto suo, oltre che alla lettura nella quiete serafica della sua biblioteca, Eddy amava dedicarsi a iniziative umanitarie: era membro di decine di associazioni che si occupavano di migliorare le condizioni degli ospedali, dei ricoveri per anziani, degli orfani e i minori impiegati per dodici ore al giorno nelle fabbriche e nelle miniere.
      Neppure May era al corrente di tutte le iniziative a cui partecipava, e sicuramente avrebbe trovato sconveniente che il marito frequentasse certi quartieri, portando carbone e sacchi di farina nelle case, lavando piaghe infette negli squallidi stanzoni delle degenze, accarezzando le teste degli orfani sempre piene di pidocchi.
      Per evitare di essere giudicato un insensato persino da sua moglie, nonché per una forma invincibile di pudore, Eddy non rivelò mai a nessuno come occupava il tempo libero dalle carte di suo padre. Solamente Vittoria l’aveva sempre saputo, incoraggiandolo a essere un re benefattore.
     La pressione che Eddy si trovò a sostenere durante il regno di Edoardo VII fu senza dubbio enorme: i più semplici incarichi che gli furono assegnati, affinché cominciasse a prendere confidenza col suo ruolo politico, si rivelarono altrettanti ostacoli insormontabili.
      Fu May a preparare il discorso per l’inaugurazione di un nuovo parco giochi per i bambini a Sandringham. Fu invece Giorgio a leggerlo, perché all’ultimo momento la timidezza di Eddy aveva preso il sopravvento.
     Di lì a breve, tutti i compiti di affiancare il sovrano nelle sue attività furono portati avanti dal nuovo sodalizio tra Giorgio e Mary di Teck: di fatto estromesso da questioni che pure non avevano mai stimolato il suo interesse, Eddy era ben lontano dal sentirsi sollevato.
      La sua sensibilità lo avvertiva dei pericoli legati all’amicizia e ai molteplici argomenti che suo fratello condivideva con May. Il suo temperamento non lo spingeva ad affrontare le questioni di petto: si limitò a esprimere il proprio disappunto chiudendosi nel mutismo. Di lì a poco rinunciò definitivamente ad apparire in pubblico e a partecipare ad eventi mondani.
     La sua assenza da cerimonie, parate e inaugurazioni divenne un’abitudine a cui nessuno fece più caso: al punto che tra il popolo erano in molti a credere che l’erede al trono fosse il principe Giorgio, e che Mary di Teck fosse la sua consorte.
     Negli ospedali sovraffollati e fatiscenti, nelle case umide e buie della povera gente Eddy si presentava in incognito, come gli suggerivano ragioni di sicurezza ma soprattutto la sua inguaribile ritrosia. In quegli ambienti oppressi dalla fame e dal freddo, dove nessun valore avevano le formalità imposte dall’etichetta, usciva finalmente dal mondo dei sogni per calarsi nella realtà.
     La sua intelligenza assopita si risvegliò: Eddy sapeva intuire i bisogni più urgenti e indovinare i mezzi più adatti a soddisfarli con una disinvoltura, un acume e persino un senso dell’umorismo che parevano opera di magia.
     Presso le associazioni di cui era membro onorario e principale benefattore, era stimato per la sua cortesia, l’amabile pazienza, la disponibilità a farsi carico dei servizi più umili: come a dire che non si limitava a versare nelle casse buona parte del suo vitalizio, ma che quando si trattava di consegnare una partita di legna o un sacco di carbone, Eddy metteva a disposizione senza indugio le sue regali spalle. La sua proverbiale indolenza spariva completamente quando si trattava di salire decine di rampe fino ai sottotetti più squallidi, dove vivevano i piccoli spazzacamini, o di scendere nei vicoli intasati di ogni genere di immondizie, dove campavano a stento intere famiglie.
     L’unica condizione su cui non transigeva era la riservatezza: nessuno doveva sapere che a tirare i carretti ricolmi di stoviglie, medicinali e coperte era il duca di Clarence, erede designato al trono d’Inghilterra. Riguardo a questo, Eddy era irremovibile: quando una delle associazioni commise l’imprudenza di spendere il suo nome allo scopo di ottenere un prestito bancario, Eddy sborsò sull’unghia la somma necessaria, ma a partire dal giorno dopo non si fece più vedere.
Calarsi nel mondo reale, che non era quello dei discorsi preparati a tavolino ma quello più immediato della necessità, gli faceva scorrere il sangue due volte più veloce, e gli metteva letteralmente le ali ai piedi: al punto che nei quartieri di Londra e Sandringham era conosciuto come l’atleta.
     “Sono un atleta danese,” amava scherzare Eddy calandosi nel ruolo e imitando l’accento di sua madre, Alessandra di Danimarca “ho praticato il pugilato per anni, quindi vedete bene di non farmi arrabbiare.”
      Alto almeno una spanna più di tutti i volontari, con i capelli chiari e un chiarissimo sorriso, Eddy non faceva nessuna fatica a recitare la parte del pugile vincitore di mille incontri: anche se al tappeto c’era finito spesso da quando era bambino, sentirsi utile a una causa gli donava un tale vigore che nessuno avrebbe potuto scambiarlo per quell’ombra che sfigurava puntualmente accanto a Edoardo VII. 
     Malgrado la simpatia e persino le prodezze che sfociavano nella leggenda - non sapeva nuotare, eppure si diceva che avesse salvato un suicida buttandosi nel Tamigi e cavandogli dalle tasche le dozzine di pietre che lo dovevano affondare - il principe Alberto Vittorio conservava inalterata la sua semplicità: ne fu prova un fatto che si verificò durante uno degli ultimi inverni del regno di Edoardo VII.
     In quel periodo, Eddy si sentiva particolarmente avvilito: aveva ricominciato a soffrire di febbricole e attacchi di spossatezza, come se la signora dagli occhi rossi fosse tornata all’attacco.
    Quello stesso pomeriggio, capitando per caso nel soggiorno del Clarence Cottage, gli era sembrato di vedere May intrattenersi in atteggiamenti sin troppo confidenziali con il principe Giorgio. Entrambi erano chini sulla grande scrivania a consultare dei documenti, sicché quella vicinanza ben poteva imputarsi alla concentrazione: però la mano di Giorgio posava con apparente noncuranza sopra a quella di May, e sul volto di lei affiorava un sorriso appena percettibile, un rossore che forse era dovuto al calore del caminetto, e forse invece no.
     Questa scena ispirò a Eddy un disgusto così potente da spingerlo ad allontanarsi dalla tenuta, per ritrovarsi a vagare, solitario e già a tarda ora, per le vie della città vecchia di Sandringham. 
      Fu là che si sentì rivolgere la parola da un tizio che faceva capolino da un vicolo.
      Aveva iniziato a nevicare fino dalla mattina, e il marciapiede era un candido tappeto senza rumore.
     “Heilà, bel signore!” e poiché Eddy, soprappensiero, aveva tirato dritto: “signore, dico a voi! Fa freddo questa sera, e questo è un brutto quartiere. Forse vi siete perso? In cambio di due penny, vi accompagno dove volete!”
     Eddy sostò, incerto. Nella pozza di luce giallastra dei lampioni apparve un volto giovane, dall’aria sveglia e singolarmente attraente. Un ricordo lontano affiorò improvvisamente nella mente del principe:
      “Sir Stephen di Cambridge? Cosa ci fate qui?”
      Il giovane scoppiò a ridere: “Ma quale sir Stephen! Io sono Ian, e magari fossi sir!”
      Eddy avvertiva il peso di una stanchezza infinita:
      “Cosa posso fare per te, Ian?”
      “Semmai sono io che posso fare qualcosa per voi, sir. In cambio di dieci penny, anzi facciamo dodici, tutto quello che volete.”
      “Ragazzo, non voglio offenderti” replicò Eddy, severo, “ma non sono interessato a questo genere di scambi.”
      “Andiamo, bel signore, qua fuori è molto freddo, a casa mia è ancora peggio e io non ho neppure un pezzo di carbone da mettere nella stufa. Stasera con questo tempo non c’è nessuno in giro, niente affari niente minestra, e neanche un goccio di gin. Se non siete interessato, almeno potreste offrirmi qualche cosa da bere.”
      Pochi minuti dopo, il bel signore era seduto in una taverna bassa e buia come una grotta, raccolta intorno a un grande camino infernale che era anche la maggiore fonte di luce.
      Accasciati qua e là con la testa sui tavoli, o sulla fila di panche che girava tutt’intorno a un muro di pietre vive e spifferi tormentosi, gli altri avventori parevano fantasmi: un girone di anime che pareva aspettare soltanto il proprio turno per finire tra quelle fiamme, al momento occupate ad arrostire lunghi spiedi di frattaglie.
     L’unico a dare segni di vita, oltre all’oste che si aggirava nella penombra, era il giovane accompagnatore di Eddy: già sbronzo, il ragazzotto continuava a chiacchierare in preda a una felicità lugubre e insensata.
      Le sue mani spaccate in più punti dal gelo erano in preda a un tremito incontenibile: anche se in quella locanda, satura di fumo e del fetore di tutte le possibili miserie, almeno non c’era freddo.
      Accanto a quegli stracci di carne che pendevano dagli spiedi, nel camino bolliva un paiolo di minestra punteggiata da occhi gialli di unto: il colore era indefinibile ma l’odore era buono, sicché Eddy invitò il suo ospite a ordinare da mangiare, anziché limitarsi a tracannare un bicchiere dopo l’altro.
      “Ma certo, bel signore!” rise l’altro completamente ubriaco, “tutto quello che volete, a vostra disposizione!”
      La voce di Ian era stridula, e intrisa di una tale disperazione da riuscire a forare quella cappa di inerzia che avvolgeva i presenti: alcuni degli avventori alzarono il capo, salvo poi ripiombare nel loro sonno di sasso; altri, appena più svegli, si voltarono a guardare quei due seduti al tavolo in angolo, uno composto e chiaramente imbarazzato, l’altro uno straccione come ce ne sono tanti.
      Eddy abbassò gli occhi, sentendosi osservato: aveva l’impressione che tutti riconoscessero in lui non soltanto l’atleta danese, ma addirittura il principe ereditario in persona.
      Quando l’oste si avvicinò per sussurrargli all’orecchio, stava già per rispondere “vi sbagliate, non sono io.” Ma l’oste si limitò semplicemente ad avvisarlo:
     “Non andate con quello, signore, è malato. Se lo desiderate, ho un paio di ragazze brave e in salute. Al vostro posto, quel tizio non lo toccherei neppure con un dito. Non vedete come trema? Gli si legge chiaro in faccia che sta per morire”.
 
~~†~~
 
      Abbazia di Westminster, 22 giugno 1911

 
      La fronte di Eddy bruciava, e il principe ebbe un brivido al contatto con le lunghe dita dell’arcivescovo di Canterbury, che gli tracciarono un segno di croce sul capo, sul palmo delle mani ed infine sul cuore: a fianco della massima autorità della Chiesa anglicana, il decano di Westminster, un ometto basso e paffuto che pareva affogare nelle vesti cerimoniali, reggeva l’ampolla dell’olio e un cucchiaio finemente intarsiato, da cui si sprigionava una fragranza così intensa che persino l’arcivescovo, complice l’emozione e certo la pesantezza dei paramenti, ebbe una sensazione di mancamento. Quanto a Eddy, fin dall’inizio della cerimonia di incoronazione aveva l’impressione che la gigantesca navata, affollata di teste coronate e di rappresentanze dei dominions e delle colonie, a tratti ondeggiasse come un guscio di noce su un mare in tempesta: simile alla Bacchante tra i flutti del nubifragio, nella notte in cui era apparso, nella caligine spettrale della bonaccia, l’Olandese Volante.
      Assiso sul trono, nella penombra di un baldacchino che sapeva di polvere ma almeno riparava i suoi occhi arrossati dall’eccesso di luce, Eddy si rilassò: approfittò del fatto che la cerimonia dell’unzione era considerato un rito riservato al sovrano, che aveva luogo senza il concorso del popolo e quindi lo sottraeva, almeno per un poco, agli sguardi indiscreti.
     Quasi un anno prima, il canto della Guardiana era tornato a farsi sentire in una notte di luna a Clarence Cottage: il giorno successivo re Edoardo VII, affetto da una bronchite trascurata per troppo tempo, dopo una breve agonia aveva lasciato questo mondo all’età di sessantotto anni, di cui nove di regno.
      Era il 6 maggio 1910, un quarto d’ora prima del rintocco di mezzanotte.
      L’annuncio era stato dato nella formula consueta: “Il Re è morto, lunga vita al Re!”
      In quella stessa notte, il principe ereditario era stato proclamato sovrano del Regno Unito di Gran Bretagna e Irlanda, e imperatore d’India con il nome di re Vittorio I.
     Secondo la tradizione, la cerimonia dell’incoronazione seguì a distanza di molti mesi, una volta esaurito il periodo del lutto: nel caso di Eddy trascorse un intero anno, che fu impiegato nei preparativi per l’evento, di cui Mary di Teck si occupò personalmente.
      Il principe Giorgio ebbe un incontro chiarificatore con suo fratello: “Inizia un tempo difficile ma io sarò al vostro fianco, con la stessa fedeltà con cui ho agito finora. E potete star certo che la mia parola è sincera.”
      Eddy accettò di buon grado le scuse del fratello: non badò al fatto che Giorgio, molto probabilmente, era interessato a mantenere il proprio ruolo di consigliere acquisito sotto Edoardo VII, magari trasformandolo in una sorta di reggenza più o meno diretta.
      Quando Eddy guardava a Giorgio, rivedeva il bambino che aveva condiviso con lui le lunghe ore di studio e di noia sotto la direzione del canonico Dalton; vedeva gli occhi di suo fratello appesantirsi, mentre il precettore scandiva le declinazioni latine con quella voce incolore che propiziava il sonno, salvo poi ridestare i suoi apatici alunni con un colpo di bacchetta seguito da uno starnuto. Più avanti negli anni, aveva ritrovato accanto a sé Giorgio nelle vesti del cadetto che prendeva le sue difese a bordo della Britannia; e poi del ragazzino che giocava a Robin Hood, strappando i calzoncini per arrampicarsi sugli alberi della tenuta di Sandringham.
      L’affetto che Eddy provava per i suoi si nutriva di aneddoti, di ricordi custoditi con la medesima cura dei Gioielli della Corona: che ora, dopo una lunga opera di ripulitura e restauro, gli venivano offerti durante le varie fasi di quella cerimonia che si stava protraendo da più di due ore.  
      Il nuovo re aveva già ricevuto lo scettro sormontato dalla colomba, simbolo dello Spirito Santo, e quello con la Croce, a sigillo del giuramento prestato poco prima:
    “Promettete solennemente e giurate di governare il popolo del Regno Unito di Gran Bretagna e Irlanda e di tutti i territori appartenenti alla nostra Patria, e di esercitare il vostro potere secondo la legge, usando il discernimento della retta giustizia e la virtù della compassione in ogni circostanza?[1]
     “Agirò con compassione” aveva mormorato Eddy, tra sé. Poi di seguito ad alta voce, ansante per la febbre e la fatica che gli costava starsene inginocchiato davanti all’arcivescovo:
     “Lo farò, come è mio dovere.”
      Di nuovo l’alto prelato aveva preso la parola, mentre le ginocchia di Eddy imploravano pietà:
     “Giurate di mantenere il Regno Unito nella religione riformata protestante come stabilito dalla legge, e di preservare la Chiesa d’Inghilterra e la sua dottrina?”
     “Tutte queste cose, io le prometto” rispose Eddy secondo la formula di rito. “Tutto ciò che ho promesso, m’impegno a mantenerlo e a metterlo in pratica”.
      E di seguito, con un filo di voce: “Che Dio mi aiuti”.
    Quest’ultima affermazione, pur prevista dal protocollo, era giunta dalle profondità del suo animo fiaccato da continui malesseri, dolori misteriosi e febbricole ricorrenti che non trovavano spiegazioni, a parte le innumerevoli diagnosi che giravano, come di consueto, nelle chiacchiere della corte.  
     Molti medici in proposito erano stati consultati, compresi i più rinomati cattedratici chiamati a consulto dall’estero: Guglielmo II, imperatore di Germania nonché nipote della compianta Vittoria, aveva inviato i più illustri accademici delle università tedesche, e altri erano giunti grazie alla rete di parentele che Vittoria, a suo tempo, aveva tessuto grazie ai suoi nove figli e quarantadue nipoti, in tutta l’Europa.
      Nella sala da ricevimento del Clarence Cottage aveva avuto luogo un congresso medico in piena regola, che peraltro era sfociato nell’impossibilità di ricondurre a un quadro clinico conosciuto la grande varietà di segni e di sintomi che affliggevano il principe:
      “Potrebbe essere sifilide, ma nell’ultimo stadio dovrebbero prevalere i disturbi della coscienza”, osservò uno dei medici della corte, evidentemente disposto a dar credito alle solite voci riguardo alle supposte aberrazioni del principe, “mentre lo stadio caratterizzato da febbre e cefalea è di breve durata, e non suole certamente trascinarsi per anni.”
       “Potrebbe trattarsi di consunzione, ma manca il dato dell’espettorato sanguigno.”
       “Esimi colleghi, non avete considerato l’ipotesi più semplice, ossia che possa trattarsi di un banale raffreddore, che tende a riproporsi in quanto trascurato. Vedete bene l’esempio di Edoardo VII, e dove può condurre la semplice negligenza.”
     Mentre i grandi luminari procedevano ormai a tentoni e per esclusione, un giovanotto imberbe appena uscito da Oxford riuscì a raggranellare il coraggio necessario per prendere la parola:
       “A mio parere, si tratta di una forma di malinconia. Una sofferenza dell’anima, che tende a ripercuotersi sugli umori del corpo.”
       Il giovanotto fu immediatamente tacciato di presunzione dai colleghi più esperti:
      “La malinconia, com’è noto,” precisò uno dei professori di Norimberga, col tono didascalico di chi parla a uno scolaretto, “rientra nella classificazione delle malattie della mente, e non porta certo febbre, cefalea persistente e dolori articolari.”
     “Eppure la malinconia riconosce anche sintomi fisici,” rincarò il giovane talento di Oxford, “quali la debolezza e l’affaticamento, e anche l’inappetenza. I dolori articolari potrebbero essere dovuti al clima di queste zone, notoriamente umido, e al processo di invecchiamento, considerato che il principe ha già quarantasei anni.”
      “Esimi colleghi, è il colmo” sbottò a quel punto un altro dei luminari tedeschi, “a quanto pare siamo giunti fin qui per prendere lezioni da uno studentello.”
    L’illustre consesso rischiò a quel punto di trasformarsi in rissa: fu May a riportare l’ordine, presentando le proprie scuse e ringraziando tutti i presenti, ma precisando altresì che “questo interessante e fruttuoso dibattito è causa di disturbo al riposo dell’ammalato.”
     May aveva parlato per conto di Eddy, il quale aveva seguito tutta la discussione dai propri appartamenti: senza neanche il bisogno di aguzzare troppo l’orecchio, visti i toni di voce e i volumi stentorei raggiunti dalla disputa. In poche parole, aveva espresso a May il proprio punto di vista:
    “Rimandate a casa quegli imbecilli, rispediteli a Vienna, a Parigi, a Norimberga, da dove diavolo vengono. E fate venire qui quel ragazzo di Oxford. A partire da questo momento, lo si consideri di pieno diritto medico personale di Sua Maestà il Re.”
     Nei mesi che seguirono, Eddy fece del giovane il proprio confidente. Riconobbe che gran parte dei suoi acciacchi erano dovuti, principalmente, alla stanchezza di vivere, una stanchezza per cui l’arte medica non conosceva rimedio.
   “Parlarne può servire,” suggerì il nuovo medico, che rispondeva al nome suggestivo di Victor König, “aiuta a sgombrare l’animo da molte preoccupazioni, e a valutare i fatti con maggiore chiarezza.”
     Eddy lo prese in parola: in presenza di May, sfogò la sua amarezza nel trovarsi di fatto estromesso dal regno a causa della propria mancanza d’intelletto.
    Quella stessa mancanza era stata motivo di scandalo proprio negli ultimi mesi di vita di suo padre, quando la famiglia di un nobile della corte, che frequentava i sobborghi con il nome di Ian, l’aveva accusato di aver contagiato il ragazzo: costui, ormai all’ultimo stadio di una malattia che il senso del pudore vietava di nominare, era stato internato a forza in un manicomio.
    Ridotto all’ombra di se stesso, guardato a vista nel reparto degli agitati e sottoposto spesso alla camicia di forza, il giovane aveva approfittato di un attimo di distrazione degli inservienti per scardinare le sbarre di una finestra e a gettarsi di sotto: era precipitato in un fortunale di vetri infranti, e quando lo ritrovarono, quattro piani più sotto, era ridotto a una povera carcassa sfigurata.
     Per tutto il tempo della degenza, Ian si era vantato di essere stato l’amante dell’atleta danese dei bassifondi, o meglio del principe ereditario: Sandringham era una piccola città, e tutti erano a conoscenza della vera identità dell’atleta, per quanto lui si ostinasse a nasconderla, evidentemente allo scopo di dar sfogo ai suoi vizi. E anche di questo tutti si facevano beffe.
    Re Edoardo VII era intervenuto personalmente, offrendo una somma alla famiglia di Ian a patto che la supposta parte lesa si cucisse la bocca, andasse a vivere all’estero con una buona rendita e di loro non si sentisse parlare mai più.
    Eddy non era stato neppure interpellato, ad ulteriore prova di quanto poco valesse la sua versione dei fatti.
   Di lì a pochi mesi re Edoardo era spirato, ufficialmente per una bronchite che lo assillava da tempo, in realtà - secondo Eddy - per il cruccio di avere messo al mondo un incapace.
   “Io non ho mai sfiorato quel tale neppure con il pensiero”, assicurò Eddy a May, “ho cercato di trovargli un’occupazione, ho ottenuto per lui un sussidio grazie agli enti benefici che operano a Sandringham. Questa è la verità e tuttavia non conta nulla, perché persino la parola di gente sconosciuta, di volgari ricattatori, valeva più della mia agli occhi di mio padre.”
   “Il vostro compito è il regno,” rispose May, pensosa, “e regnare significa anche affrontare le meschinità e rialzarsi a testa alta. Ricordate cosa vi dissi quel giorno, quando parlammo a lungo nella vostra biblioteca? Da allora, voi non vi siete più confidato con me, eppure ve lo ripeto: anche in questa difficoltà, avrei voluto essere accanto a voi.”
   “Voi c’eravate, May” rispose Eddy, sfinito, chiudendo gli occhi per concedersi un poco di riposo, “voi siete sempre con me.”
 
~~†~~
 
       Nell’abbazia di Westminster, la cerimonia era giunta al culmine: per mano dell’arcivescovo, fu posata sul capo del nuovo sovrano la Corona Imperiale di Stato. I presenti salutarono con la tradizionale acclamazione, “Dio salvi il re!”, mentre Eddy si sentiva svenire dal mal di testa sotto al peso di quasi un chilo di pietre preziose e intarsi in filigrana.
       Solitamente, in questa fase si utilizzava la Corona di sant’Edoardo: l’imponente manufatto con cui il re confessore, patrono dell’Inghilterra e protettore dei sovrani, era stato incoronato nella notte di Natale del lontano 1065.
      Di seguito preservata dalle alterne vicende della storia, la corona del re santo era stato utilizzata nei secoli da tutti i suoi successori: finché Vittoria non era intervenuta a innovare il protocollo anche in questa occasione, decretando che l’augusto gioiello, con i suoi due chili e passa di peso, era decisamente troppo pesante:
        “Quel giorno”, aveva detto alludendo alla sua incoronazione, “avrò già il mal di testa per parecchi motivi: non aggiungiamoci anche questo.”
      Decisa ad alleggerire il peso del regno laddove era possibile, Vittoria del Regno Unito commissionò la realizzazione della Corona Imperiale di Stato: la sua grandiosità ovviamente incideva sul peso, che si riuscì a ridurre, grazie alla manodopera di orefici sapienti, a poco meno di un chilogrammo.
      Durante il suo lungo regno, Vittoria la utilizzò ogni anno in occasione della cerimonia di apertura del Parlamento. Soggetta ad essere manipolata con più frequenza, capitò che una volta la Corona cadesse dal cuscino che la reggeva in corteo. Il gioiello subì conseguenze rovinose, e Vittoria non mancò di rilevare l’aneddoto sul suo diario, non senza umorismo:
         “…era così ammaccata da avere tutto l’aspetto di un pudding spiaccicato, su cui qualcuno, senza pensarci, fosse passato sopra.”
        In occasione dell’incoronazione di Vittorio I, il pudding fu ricomposto e alleggerito in alcune sue parti, per ordine di May:
        “Sua Maestà soffre di frequenti cefalee. Facciamo dunque il possibile affinché sopravviva all’intera funzione.”
      In effetti, e anche se sbiancato da un pallore spettrale, Eddy era ancora in piedi quando si giunse all’ultimo atto del rituale: durante la cosiddetta processione finale, era previsto che il re si recasse nella cappella di sant’Edoardo, annessa all’abbazia, per deporre sull’altare la corona e tre spade, portate solennemente da altrettanti valletti; la Spada della Giustizia temporale, quella che simboleggiava la Giustizia spirituale ed infine la Sword of Mercy, la Spada della Clemenza.
       Di questa si diceva che la lama fosse stata spezzata un angelo, per impedire ai sovrani di commettere ingiustizie.
     Tra i simboli del regno, era l’unico con cui Eddy si sentiva in sintonia: del resto anche lui, quel giorno, si sentiva spezzato da un peso insormontabile, che non sarebbe riuscito a reggere con le sue sole forze nemmeno per un giorno.
     “Non credo di potercela fare,” aveva confidato a Mary di Teck poco dopo la morte di Edoardo VII. “forse dovrei abdicare a favore di mio fratello.”
     “Voi siete il re benefattore, e vostro fratello vi aiuterà. Potete regnare insieme.”
      Eddy aveva fissato May lungamente, e l’espressione di lei gli era parsa sincera.
     Ora Mary di Teck lo seguiva in processione, dopo essere stata incoronata col titolo di regina consorte. Eddy avvertiva la quieta forza di lei sostenerlo alle spalle, mentre percorreva la lunga navata dell’abbazia fino all’immenso portale, spalancato nella luce del pieno giorno. Aveva la sensazione che la corona lo stringesse in una morsa. Sotto ai numerosi strati delle vesti da cerimonia, il corpo si riempì di un sudore gelido: aveva l’impressione che qualcosa dentro di lui stesse lottando per fuggire, liberarsi dal peso di quelle membra indolenzite e febbricitanti.
     “È la mia anima che se ne va,” rabbrividì Eddy, impressionato dalla calma con cui era arrivato a formulare questo pensiero: il suo spirito avvertiva la stessa profonda quiete e la stessa distanza che molti anni prima avevano condotto le spoglie di Vittoria, ormai alleggerite dal peso dell’anima, attraverso il mare aperto, a bordo di una piccola imbarcazione diretta verso il tramonto.
     “Regnerà mio fratello, a partire da domani”, pensò in un istante di premonizione.
      Non provò dispiacere, e neppure rimpianto per quella vita che lo stava abbandonando lasciandogli in cambio una quieta malinconia.
     Il sole era ormai alto nel mezzogiorno, quando uscì dalla penombra della navata di Westminster: nella luce lo accolse lo strepito degli applausi, due ali di folla immensa che gettava fiori ai suoi piedi, il luccichio delle armi del picchetto d’onore. In lontananza, l’eco dei colpi sparati a salve in vari punti della città.
    Il resto della giornata trascorse nella fatica, tra bagni di folla e gli omaggi da parte dei rappresentanti delle colonie e dei dominions, e a seguire un pranzo interminabile in onore degli ospiti coronati giunti da tutta Europa.
     A metà del pranzo in questione, apparve chiaramente che le condizioni di salute del re erano peggiorate: la mano gli tremava, il viso era tirato e se possibile ancora più pallido della mattina.
      A intervalli soffriva di momenti d’assenza, e dava l’impressione di non rendersi conto di dove si trovava: il suo sguardo limpido e azzurro vagava sui presenti con un’espressione stupita, come se non riuscisse a comprendere che cosa ci faceva là tutta quella gente.
      Il suo aspetto spettrale cominciò a essere notato dai presenti, dapprima con discrezione, poi sempre con maggiore preoccupazione.
     In almeno due momenti non riuscì a riconoscere il kaiser Guglielmo II, che gli sedeva di fronte, e addirittura il principe Giorgio. All’inizio si pensò che scherzasse, ma quando faticò in maniera evidente a riconoscere May, fu chiamato seduta stante il medico personale, sir Victor König.
    “Mi sento bene, ora.” Queste furono le ultime parole di Eddy, prima di sprofondare in uno stato comatoso da cui non si ridestò più. Prima di pronunciarle, Vittorio I accennò un breve sorriso, che pareva provenire da un’immensa distanza. Chi riuscì a coglierlo, perché realmente durò lo spazio di un attimo, riferì che in quel momento il viso del re sprigionava una luce particolare: il suo volto pareva improvvisamente ringiovanito, nel pieno delle forze, al punto che lo stesso Guglielmo II, spiazzato, ebbe a osservare:
    “Con un po’ di riposo, la Vostra Maestà riprenderà senz’altro il suo vigore.”
    Eddy annuì, volse un ultimo sguardo alla tavola dei suoi ospiti, ammutoliti sulle rispettive poltrone e congelati nel silenzio più assoluto. Poi chiuse gli occhi e si abbandonò sulla spalla del dottor König, e fu in quel momento che May lo sentì: un lamento gridato da una voce di donna, e cadenzato dal battito ritmico delle mani, si stava avvicinando, provenendo da chissà dove.
     Poiché si era alzato il vento, quella strana cantilena s’intrufolò a folate da una finestra aperta: quando May si alzò per richiuderla e si sporse a guardare nel parco sottostante, non vide nessuno.
    Eppure quel canto era reale, era persino dolce: esprimeva un dolore sincero ma contenuto, senza alcuna traccia di disperazione. Non portava con sé l’angoscia della morte né infondeva timore, com’era accaduto quando la Guardiana della famiglia era giunta dall’al di là per annunciare la morte della grande Vittoria, e di re Edoardo VII: adesso, la sua voce ricordava le canzoni che cantano le mamme per addormentare i loro piccoli, perché non facciano brutti sogni e non abbiano paura del buio.
    La regina May chiuse gli occhi, si appoggiò al pesante tendaggio della finestra, e solo per un istante, si fermò ad ascoltare.
 

[1] La formula è in realtà molto più lunga e articolata, e si compone di più domande. Ho ritenuto opportuno sintetizzare per non appesantire la narrazione.
  
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