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Autore: unannosenzapioggia    11/01/2019    0 recensioni
tell me there are things that you regret
Genere: Angst, Fluff, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Nuovo personaggio, Roger Taylor
Note: OOC | Avvertimenti: nessuno
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ragazzi mamma mia quanto tempo è passato dall'ultima volta che ho postato qualcosa! sono tornata perchè all'improvviso mi sono sentita di nuovo ispirata e ho pensato, perchè no? a inizio dicembre sono andata a vedere Bohemian Rhapsody al cinema (sì contro la mia volontà: cosa avevo in testa) e potete immaginare quello che è successo dopo: il delirio assoluto. mi sono innamorata prima degli attori (Ben Hardy hai il mio cuore) e poi della band, delle canzoni, della loro personalità. e, alla fine, ciliegina sulla torta: mi è partita la crush potente per Roger Taylor (precisamente quello very young che suona la batteria!!! con una certa abilità negli anni 70 facendomi provare cosa che nemmeno potete immaginare).
per cui da tutto ciò è nata questa one shot, che inizialmente doveva essere molto breve e veloce, ma che invece è diventata lunghissima. spero che la lunghezza non vi ostacoli nella lettura: ho inserito tra un tot di paragrafi e l'altro qualche divisorio (ovvero il testo della canzone too much to ask che ha inspirato la storia) in caso voleste fermarvi e riprendere in seguito.
spero davvero che vi piaccia
un bacio, 
Giulia

ps. nel caso aveste visto il film, sentitevi liberi/e di immaginare il vero Roger Taylor o quello interpretato da Ben Hardy: io sinceramente ho cominciato con Ben e poi ho finito per immaginare l'originale (...sono senza dignità)

disclaimer: mi scuso in anticipo (per gli errori grammaticali perchè potrò rileggere anche mille volte, ma ce ne sarà sempre uno a scapparmi, sad) se fatti, date, canzoni, personaggi, personalità dei personaggi, ecc. non corrispondono alla realtà, ma devo ancora approfondire molto la conoscenza di questa band e, avendo scritto molto di getto comandata dall'ispirazione, non mi sono impegnata più di tanto nella smaniosa ricerca di dettagli realistici relativi al contesto
 
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Too much to ask

 

Someone’s moving outside / The lights come on down the drive / I forget you’re not here when I close my eyes / Do you still think of me sometimes?
 
Novembre, 1973
Le luci del palco si spensero all’improvviso, mentre nella stanza risuonavano ancora le urla di migliaia di persone. Migliaia di persone racchiuse in un piccolo spazio, giunte lì da ogni luogo del Regno Unito solo per sentirli cantare. Erano il gruppo di supporto di una band di cui non conoscevano nemmeno il nome, ma solo il fatto che li avessero scelti come apripista dei loro concerti era abbastanza per considerarli buoni amici e futuri possibili colleghi. Uscirono di corsa, portandosi dietro i loro strumenti, cercando di non inciampare nel buio, che aveva sovrastato l’intero grande abitacolo. Roger si alzò con uno scatto tenendo in una mano le bacchette e asciugandosi con l’altra le goccioline di sudore che scendevano lente lungo la sua fronte e che gli creavano prurito quando si mescolavano ai capelli biondi. Corse fuori dal palco, e si scontrò con un uomo a lui sconosciuto, munito di walkie-talkie, che gli porse un asciugamano. Lo usò velocemente, rimettendolo poi nelle mani di quell’estraneo e si allontanò correndo. Non aveva idea di dove fossero gli altri, né cosa stesse succedendo intorno a lui. L’unica cosa che gli interessava era trovare una cabina telefonica, inserire il gettone che teneva nascosto gelosamente nella tasca da tutta la sera e chiamarla. Chiamarla per sentire di nuovo la sua voce, il suo tono scherzoso, per ricordarsi che faccia avesse, per chiederle come stesse e quando sarebbe venuta a trovarlo; chiamarla per riprendere a respirare.
Aveva conosciuto Amelia Clark alle elementari. Lei era una piccola bambina del primo anno: bassa, con il nasino all’insù, qualche lentiggine sul viso e le guance rosate. Aveva gli occhi color cioccolato e i capelli castani raccolti in due codini. La prima volta che l’aveva vista era stato per puro caso. Stava per andare alle medie e di tanto in tanto, agli alunni più grandi veniva affidato il responsabile compito di tener d’occhio i più piccoli durante i momenti di gioco.
Aveva conosciuto Amelia Clark in un giorno di primavera, quando lui, con i suoi capelli biondi quasi rasati a zero e gli occhi azzurri come il mare, era il controllore di turno. L’aveva sentita piangere disperata per essere caduta a terra ed essersi sbucciata un ginocchio. Di fronte a quella faccia sofferente e al sangue che usciva dalla ferita come un torrente in piena, aveva deciso di accompagnarla in infermeria e di restare con lei finchè non si sarebbe calmata.
Quello fu il momento in cui conobbe Amelia Clark, il momento in cui divenne suo amico e quello in cui si innamorò profondamente di lei. Forse a dieci anni, era ancora difficile rendersene conto, ma l’aveva sempre amata. Di questo, ne era sicuro.
Avevano frequentato la stessa scuola media e poi le superiori, seppur in classi diverse. Amelia aveva assistito ai primi amori di Roger, si era ingelosita per poi perdonarlo sempre; era stata partecipe del suo primo concerto in un pub della loro città, aveva sopportato insieme a lui, quando da autodidatta, si arrabbiava perché non riusciva a imparare a suonare la batteria. Aveva sempre vissuto al suo fianco, in silenzio, timida, riservata, ma alla fine anche lei aveva cominciato a sentire qualcosa per lui che andava oltre l’amicizia. A dodici anni, capì che non potevano essere solo amici, che non sarebbe mai riuscita a gestire quel sentimento, quella tensione, quell’imbarazzo che di tanto in tanto venivano a crearsi tra di loro. Non voleva dirglielo, però, per non rovinare la loro profonda amicizia e allo stesso modo, la pensava Roger. Nessuno dei due diceva mai niente: sopportavano che l’altro uscisse con qualcun altro, che l’altro avesse una cotta o si innamorasse temporaneamente di un’altra persona. L’importante era preservare la loro amicizia.
Poi era arrivata l’università, erano arrivate le prime relazioni serie per Amelia e i primi ingaggi veri per Roger. Aveva fondato una piccola band con un paio di compagni di corso e avevano iniziato a suonare nella maggior parte dei pub della loro cittadina. Aveva iniziato a scrivere canzoni, la maggior parte delle quali dedicate a lei, che però faceva finta di non saperlo, di ignorare quel segreto, quei sentimenti nascosti nei testi. Lei, invece, aveva cominciato ad uscire con un ragazzo – Daniel – di cui sembrava essersi davvero invaghita: fu la sua prima relazione seria, il suo primo bacio, la sua prima volta e Roger, di tanto in tanto, si trovava a bollire di rabbia e gelosia per non poter essere al posto di quel “damerino da quattro soldi”, come lo amava definire quando non era in presenza della sua ragazza.
Ritornò alla realtà, riemerse da quei pensieri, quando intravide una cabina telefonica. Era uscito dallo stabilimento e se n’era pentito amaramente: indossava ancora i leggerissimi abiti di scena e fuori era novembre, pioveva e la temperatura era sotto i 20 gradi. Rabbrividì, maledicendosi per non aver nemmeno preso una giacca e si accese una sigaretta. Poi un’altra, e un’altra ancora. Alla fine della quinta, decise di farsi coraggio e alzare quella maledetta cornetta telefonica.
Ogni sera andava in quel modo: era più il tempo che passava a pensarci, a chiedersi come stesse o cosa facesse, che quello speso a parlare effettivamente con lei.
Fece l’ultimo tiro e gettò il mozzicone a terra; recuperò il gettone e senza pensarci di nuovo, lo infilò nella stretta fessura e digitò il numero.
Passarono vari secondi prima che lei rispondesse, ma alla fine lo fece.
«Pronto?» la sua voce risuonò limpida e per un secondo, Roger sentì le gambe tremare. Quel tono così ingenuo, innocente, quasi sorpreso lo riempì di gioia.
«Amy, sono Roger» le rispose, cercando di mandar giù il groppo che aveva in gola. Ogni volta che era costretto a chiamarla, che era costretto a passare interi giorni e intere notti a chilometri da lei, si sentiva come se non fosse stato in grado di sopravvivere, si sentiva solo, disperato e voleva soltanto piangere.
«Ehi, superstar» rispose lei, ridendo. Sentì in sottofondo la tv accesa e la immaginò, mentre si impegnava per restare sveglia e studiare per l’ennesimo esame. Per un momento, gli mancò la routine quotidiana e quasi noiosa dell’università, poi ci ripensò. Pensò a cosa stesse guardando in tv, magari un talk show, un film, qualcosa che le tenesse compagnia e la facesse sorridere dietro quel paio di occhiali da vista pesanti che portava sul naso, da quando aveva otto anni «Com’è andata stasera?»
«Benissimo!» rispose fingendo entusiasmo. Benissimo, ma non c’eri tu, avrebbe voluto dirle. Si guardò intorno, fissando gli occhi sulle goccioline d’acqua che si rincorrevano lungo il vetro della cabina «Abbiamo fatto sold out anche stasera, avresti dovuto vederci!»
Lei scoppiò a ridere di nuovo «Mi fa piacere sentirti così felice»
Roger non seppe cosa rispondere: ogni sera, di fronte a quella frase, il suo cervello andava in tilt. Era felice? Sì. No. Forse. Non lo sapeva nemmeno lui. Forse sì, era felice di poter suonare con i suoi migliori amici, era felice di saper suonare uno strumento e di saper scrivere canzoni, era felice di essere quasi arrivato alla laurea, ma… Ma. C’era sempre quel ma che non lo faceva dormire di notte e spesso, lo faceva digiunare di giorno.
«Tu come stai? Che stai facendo?» le chiese, dopo qualche secondo di silenzio, cambiando argomento.
«Bene» rispose. La sentì distratta: probabilmente era concentrata su qualcos’altro «Sto studiando storia della letteratura! Non posso permettermi di fare la rockstar tutte le sere, come fai tu!»
«Sei sempre la solita secchiona!» esclamò il ragazzo, alzando gli occhi al cielo «E guarda che, nei momenti di pausa, studio anch’io! Credi che sia così sfaticato? Lo sai che i miei mi uccidono se non mi laureo»
«Certo, vallo a dire a qualcun altro, Roger»
Chiuse gli occhi per qualche secondo prima di riprendere la conversazione. Ogni volta che pronunciava il suo nome era come tornare al passato e questo, sì, che lo faceva star male. Gli mancava così tanto che avrebbe voluto urlare come un matto in mezzo alla strada, sotto la pioggia, nel bel mezzo di quel mese freddo e umido che odiava così tanto.
«Oggi mi ha chiamato Daniel» quel nome lo riportò bruscamente al presente. Così forte che gli sembrò di essersi appena svegliato un po’ confuso e con i sensi attutiti dopo aver preso una bella botta in testa. Serrò la mascella e strinse così forte la cornetta che era sicuro le sue nocche fossero diventate così bianche e pallide da fargli male.
«Ah, sì?» rispose atono «E cosa voleva lo stronzo?»
Tante cose erano cambiate da quando Amelia aveva conosciuto Daniel: prima fra tutte, dopo circa sei mesi, si erano lasciati. Anzi, lui l’aveva scaricata con la scusa di aver trovato un’altra. Roger tornò al momento in cui la ragazza glielo aveva raccontato, in lacrime. Ricordò di essere rimasto senza parole e di essersi semplicemente limitato a sedersi sul pavimento freddo del bagno sporco dell’università e di averla stretta al suo petto, mentre piangeva, e di aver cercato di resistere a quelle lacrime, a quel dolore che – lo sapeva, non era suo – ma lo stavano distruggendo. Vedere lei in quelle condizioni era la cosa peggiore al mondo, era come un pugno nello stomaco.
«Mi ha chiesto di parlare» riprese lei, con una voce completamente diversa rispetto a prima. Sembrava triste, amareggiata, delusa dai ricordi «Vorrebbe rivedermi qualche volta»
Respirò profondamente, cercando di trovare le parole giuste, ma non ci riuscì. Ironico, vero? Scriveva continuamente canzoni, usava metafore, rime, perifrasi eppure quando si trattava di lei, non riusciva nemmeno a pronunciare una sillaba.
«E tu che hai risposto?» sbottò con i nervi a fior di pelle. Il solo pensiero d’essere costretto a rivederli insieme lo faceva andare fuori di testa. Attese che lei dicesse qualcosa, ma dall’altra parte della cornetta non sentì arrivare nulla. Sapeva che fosse confusa, ma sapeva anche di avere una certa influenza su di lei. Amelia era sempre attenta a quello che Roger pensava di lei o per lei e questo, molto spesso, le impediva di esprimersi senza pensare alle conseguenze, a come lui avrebbe reagito. Si spazientì ulteriormente «Allora?»
«Io…» sospirò la ragazza, trattenendo le lacrime e respirando profondamente «Non lo so, Roger. Lui si è comportato male con me, ma io-»
«Lo ami ancora, vero?»
Dall’altra parte, non arrivò nessuna risposta, segno che quest’ultima fosse affermativa. Dopotutto, chi tace acconsente, no? Si sentivano solo le voci lontane della tv in casa di Amelia e le auto che sfrecciavano veloci sulla strada bagnata che girava intorno all’edificio, dove fino a pochi minuti prima Roger si era esibito. Quel silenzio così assordante li stava uccidendo entrambi. Avevano il cuore spezzato, eppure stavano cercando in tutti i modi di sopravvivere: Amelia cercando amore altrove, in qualcuno che non conosceva profondamente, in qualcuno che pretendeva di amare solo per sentirsi felice, per convincersi di esserlo davvero; Roger cercando di seppellire i suoi sentimenti nella musica, nelle sigarette e in qualche birra di troppo. Ma non bastava, non bastava mai.
Aspettò ancora qualche secondo, ma Amelia sembrava scomparsa: per un momento si chiese se non avesse chiuso la chiamata per paura di dargli una risposta, ma poi la sentì sospirare e capì che fosse ancora lì, ad aspettare anche lei che qualcuno dei due dicesse qualcosa. Roger non voleva discutere con lei, non voleva urlare in quella cabina telefonica troppo stretta e non voleva sentirla piangere, essendo così lontano, ma non riusciva ad accettare che fosse ancora innamorata di Daniel: non dopo tutto quello che le aveva fatto passare. Non capiva come potesse provare qualcosa per lui, che non c’era mai stato per lei: non l’aveva mai vista piangere disperata, non aveva mai provato la gioia di passare pomeriggi interi chiusi in camera a studiare o semplicemente a guardarsi, non aveva mai provato cosa significasse amarla. Questo lo aveva colpito più della rabbia stessa ed ora, ferito e amareggiato, non sapeva cosa fare o cosa dire.
«Adesso devo andare» disse infine, quasi sottovoce, atono, con la mascella stretta, gli occhi chiusi per trattenere le lacrime e una mano in tasca già pronta ad afferrare una sigaretta da fumare, per rilasciare un po’ di tensione.
«Roger-» lo implorò lei.
«I ragazzi mi stanno aspettando» tagliò corto «Ci sentiamo, va bene?»
Amelia sospirò e si arrese: lo salutò con un ciao veloce e chiuse la chiamata. Roger rimase per qualche secondo con la cornetta tra le mani. Lentamente la riattaccò all’apparecchio ed uscì all’aria aperta, respirando profondamente. Era così furioso che avrebbe potuto prendere a pugni qualcuno. Non si curò nemmeno di accendere la sigaretta che aveva tra le mani: la gettò via ancora intatta e rientrò nell’edificio, camminando spedito. La prima persona che incontrò fu Brian, che lo aspettava appoggiato allo stipite della porta del loro camerino.
«Dove ti eri cacciato? Ti stavamo aspettando!» esclamò, allargando le braccia, quasi spazientito, quando lo vide arrivare. Roger avrebbe tanto voluto ignorarlo, ma sapeva di non poterlo fare. Dall’altra parte, però, non aveva nemmeno voglia di dargli tante spiegazioni: era sicuro, comunque, che l’amico sapesse cosa aveva appena fatto. Alla fine, sapevano tutti, nella band, delle sue chiamate notturne ad Amelia.
«Niente, affari miei» rispose, telegrafico, ribollendo di rabbia.
Lo sorpassò andando dove nemmeno lui lo sapeva, ma Brian lo bloccò, afferrandolo per un braccio «Va tutto bene?» chiese preoccupato.
«Benissimo» rispose «Ma lasciami stare»
Brian sospirò «Va bene, ma volevo solo dirti che stiamo per andare in un pub a bere qualcosa: ti unisci a noi?»
 
Il pub dove erano finiti a bere qualche birra scadente era piccolo e puzzava di fumo e alcool. Era abbastanza vicino allo stabile in cui si erano esibiti e lo avevano raggiunto a piedi. Erano seduti ad un tavolo troppo stretto per quattro persone, ma stavano comunque comodi. La gente, intorno a loro, sembrava averli riconosciuti: le ragazze li fissavano imbambolate, troppo spaventate per avvicinarsi, ma comunque curiose di sapere come fossero da vicino, di cosa profumassero, di cosa parlassero; i ragazzi osservavano le loro fidanzate mentre gemevano alla vista dei Queen seduti alla loro destra o alla loro sinistra. Roger cercava di evitare tutti quegli sguardi languidi e fin troppo invadenti: i suoi occhi erano silenziosi, immobili e fissi sulla quarta birra che il cameriere gli aveva appena portato. Si accese l’ottava sigaretta della serata e bevve un sorso, per poi appoggiarsi allo schienale della sedia, come se fosse stato il materasso di un letto.
I suoi amici stavano parlando senza mai fare pause: il concerto di stasera, quello di ieri, quello di domani, cosa fare alla fine del tour, dove registrare il nuovo album, come registrarlo, qualcuno aveva qualche canzone già pronta?, qualcuno sapeva chi contattare?, con quali ragazze c’avrebbero provato. A Roger girava la testa: si sentiva intontito, seppur non avesse aperto bocca e non fosse stato molto partecipe della discussione. L’unica cosa a cui riusciva a pensare era Amelia ancora innamorata di Daniel, era Amelia che ancora non si decideva a lasciarlo perdere dopo tutto quello che le aveva fatto passare, era Amelia che, ancora, non lo amava come avrebbe dovuto. Era pieno di rabbia, si odiava per non averci provato abbastanza, per aver perso la sua occasione, eppure non riusciva ad essere furioso con lei. Come avrebbe potuto?
«Terra chiama Roger!» esclamò Brian, alzando la voce sopra la musica «Sei con noi?»
«Sì» si limitò a rispondere, bevendo un altro sorso di birra. Che cazzo, pensò, è quasi finita anche questa. Alzò la mano per richiamare il cameriere e ne ordinò un’altra. Brian lo guardò preoccupato, senza dire niente. Il suo migliore amico si stava letteralmente ubriacando e distruggendo con le sue stesse mani davanti ai suoi occhi e non sapeva cosa fare. Non sapeva come aiutarlo.
«Sei strano, stasera» intervenne John «E’ successo qualcosa?»
Prima che potesse rispondere, Freddie scoppiò in una fragorosa risata e si staccò dalla sedia, sporgendosi verso il tavolo, come se avesse voluto confidare a tutti un enorme segreto «Gli mancherà la sua dolce Amy, come al solito. Non è vero, tesoro?»
Quel tono di presa in giro lo fece andare su tutte le furie: cercò di non farci caso e si concentrò sulla nuova birra che aveva di fronte. Ignoralo, Roger, non sa cosa sta dicendo. Non sa cosa si prova.
«Freddie-» lo richiamò Brian, prima che la situazione degenerasse.
«Oh, Brian! Ma cosa avrò mai detto di male?» chiese retorico «E’ ridicolo che ancora tu stia dietro ad una ragazza come lei! Tu ci soffri così tanto e lei magari si starà già sbattendo un altro!»
Quella fu la goccia che fece traboccare il vaso: Roger scattò in piedi, lanciandosi verso Freddie per colpirlo in pieno viso, magari sui denti, ma Brian lo bloccò prima: lo afferrò da dietro, per le spalle, cercando di calmarlo.
«Roger!» tuonò, strattonandolo.
Il ragazzo riuscì al liberarsi dalla stretta dell’amico e quel pugno che voleva dare a Freddie, lo batté sul tavolo, cercando di sfogare almeno una parte della sua rabbia.
«Non ti azzardare-» cominciò, a denti stretti «Non ti azzardare mai più a dire una cosa del genere!»
Il resto del tavolo piombò nel silenzio. Roger si sentiva così ubriaco da non reggersi nemmeno in piedi, ma si alzò comunque, afferrò la sua birra e si diresse lentamente verso l’uscita del bar.
«Dove stai andando?» urlò John «Dai torna qui, Rog! Freddie non intendeva davvero dirlo»
Lui non si preoccupò nemmeno di rispondere: ignorò qualsiasi cosa gli dicessero per convincerlo a tornare indietro, ed uscì definitivamente dal pub. L’aria fredda ed umida di quel novembre lo colpì ancora e gli ricordò la chiamata ad Amy che aveva fatto poco prima.
Si accese un’altra sigaretta, girovagò intorno al locale, reggendosi alle pareti rovinate e bagnate, finchè in lontananza gli sembrò di vedere una cabina telefonica. Senza pensarci tanto, barcollò fino ad essa, vi entrò e si sfregò le mani l’una contro l’altra per riscaldarsi. Poi infilò una mano in tasca, prese il portafoglio e cercò al suo interno un gettone.
Dopo aver trovato solo monete inutili, finalmente ne individuò un paio: ne prese uno, lo inserì e digitò il numero.
Erano quasi le tre del mattino e non gli importava di svegliarla: doveva dirle cosa pensasse di lei, di loro e di quel cretino del suo vecchio fidanzato. Quale migliore occasione se non quando si è ubriachi marci e le parole escono da sole?
Il telefono suonò a vuoto per un paio di minuti. Riagganciò e fece un tiro di sigaretta. Non voleva arrendersi ora. Non ora che sapeva esattamente cosa dire.
Recuperò anche l’altro gettone, ma questo gli cadde a terra. Bofonchiò un «cazzo!» fin troppo stressato, teso, furioso, ubriaco persino per uno come lui e si accucciò per recuperarlo. Era buio pesto all’interno di quel cubo e non vedeva niente. La testa gli girava come un vortice: tastò con le mani toccando chissà cosa, ma alla fine lo trovò. Si alzò di scatto, barcollando, ma riuscì comunque ad inserirlo nella fessura, alzare la cornetta e comporre di nuovo il numero.
La ragazza rispose al secondo squillo.
«Amy» farfugliò con voce roca, senza nemmeno darle il tempo di parlare.
«Sei ubriaco?» fu la prima cosa che ebbe modo di dire.
«Moltissimo» rispose lui, pensando di essere divertente, ma quando la ragazza non rispose nulla a riguardo, tornò serio e si ricordò perché avesse chiamato.
«E’ meglio se ci sentiamo domani» gli disse «Quando avrai smaltito l’alcool-»
«No, aspetta!» esclamò «Io- Non chiamarlo»
«Chi?» rispose lei, confusa. La immaginò sistemarsi gli occhiali pesanti sul naso e aggrottare la fronte.
«Daniel» borbottò «Lui non ti vuole bene come ti voglio bene io, lui non ci tiene a te come faccio io-»
«Roger-» tentò di fermarlo e di mettere fine a quella conversazione. Sapeva dove voleva andare a parare e non era pronta. Lei era sicura di amarlo nel profondo del suo cuore, ma come avrebbe potuto convivere con la lontananza e con l’idea di non poter mai costruire niente perché entrambi volevano proteggere la loro amicizia? Se lui avesse davvero pronunciato quelle parole, non sarebbero mai più tornati indietro.
«No, fammi finire, cristo» la interruppe a denti stretti «Lui non si prende cura di te come so farlo io, lui non ti conosce abbastanza. Lui non ti ama come ti amo io»
«Ti amo anch’io, Roger» rispose Amelia dopo qualche secondo di silenzio. Non pensava che avrebbe mai pronunciato quelle parole, eppure eccola lì, a chilometri di distanza nel pieno della notte a distruggere tutto quello che avevano faticosamente costruito e protetto «Ma non è importante, perché io e te non potremmo mai-»
«Perchè no?!» ruggì, con la voce quasi rotta dal pianto e la bocca impastata dall’alcool e dal fumo.
«Perchè se poi non andasse bene, se poi non ci amassimo abbastanza, io perderei te e tu me»
«Lo sai che non potrà mai succedere»
«Sì, invece» rispose lei, facendo affidamento su tutte le forze che aveva, su quella poca volontà razionale che le era rimasta. Come aveva fatto a reagire così freddamente di fronte a quelle parole? Per un momento, si stupì di sé stessa. Chiuse gli occhi sospirando e una lacrima scese lungo la sua guancia rapidamente, ricadendo sulle coperte «Va a dormire, Roger, è meglio così»
Il ragazzo tirò su con il naso e gli occhi gli si riempirono di lacrime amare che avrebbe voluto rimandare indietro. Ma non lo fece: chiuse la chiamata, lasciandola in sospeso, e si ritrovò da solo e in silenzio dentro quella cabina mentre fuori riprendeva a piovere. Chiuse gli occhi, appoggiandosi al vetro freddo e pianse. Non sapeva con certezza quanto fosse rimasto lì dentro, ma quando decise di andarsene i suoi occhi erano arrossati e gonfi e le nuvole avevano lasciato il posto ad una notte stellata.
Si asciugò il viso con la manica della giacca e finalmente uscì: la prima cosa che vide fu Brian ad aspettarlo, appoggiato ad un muretto. Si avviò verso di lui in silenzio e gli si sedette vicino.
L’amico non disse niente, perché lo capiva; non disse niente perché sapeva che Roger aveva bisogno dei suoi tempi e dei suoi spazi, ma rimase comunque lì, fermo, accanto a lui, come se avesse voluto dirgli «io ci sono, amico. Se hai bisogno di parlare, sono qui»
Roger si portò le ginocchia al petto e singhiozzò un’ultima volta, così Brian circondò le sue spalle con un braccio e lo stritolò contro di sé, in segno di conforto.
«Sono proprio un coglione» bisbigliò triste, con il volto tra le gambe e le lacrime che ricominciavano a scendere in piena.
 


My shadow’s dancing / Without you for the first time / My heart is hoping / You’ll walk right in tonight / Tell me there are things that you regret / ‘Cause if I’m being honest I ain’t over you yet / That’s all I’m asking / Is it too much to ask?
 
Ottobre 1974
Aprì gli occhi lentamente e mise a fuoco: davanti a sé, c’era una scrivania rovinata, alla sua destra un piccolo comodino e alla sua sinistra la finestra. Fuori non c’era il sole: la luce che filtrava attraverso il vetro era grigiastra e la pesantezza di una nebbia fitta si faceva sentire fin dentro quella stanza. Fece ricadere la testa sul cuscino e guardò in alto. Il soffitto era bianco, con qualche crepa, ma non sembrava che girasse vorticosamente come aveva fatto qualche ora prima.
Sbuffò, passandosi una mano sul viso, come per portare via tutta la stanchezza di quegli ultimi giorni, ma un’espressione di dolore e fastidio si fece spazio sul suo volto, quando le dita sfiorarono l’occhio destro. Solo in quel momento, qualche ricordo tornò a galla. La sera prima, come al solito, dopo una giornata intera di registrazioni, era uscito con i ragazzi: erano andati in un pub, avevano bevuto, fumato e poi il buio totale. Gli tornarono alla mente alcuni flash, in particolare la faccia di quello che aveva preso a botte. Non ricordava perché l’avesse fatto, ma sicuramente aveva avuto un buon motivo.
Scacciò quell’immagine e decise di alzarsi, se non fosse stato per il forte mal di testa che lo stava attanagliando. Si mise seduto con difficoltà e, cercando di non ricadere tra le lenzuola, si allungò verso il comodino per vedere che ore fossero: la sveglia segnava quasi le otto. Solo in quel momento, ricordò che avrebbe dovuto svegliarsi alle sette per essere pronto a registrare.
«Cazzo» farfugliò a denti stretti, mentre scendeva dal letto. Si infilò velocemente sotto la doccia, si lavò e in un batter d’occhio, fu pronto. Si pentì di essersi affrettato così tanto: adesso che doveva anche scendere le scale per arrivare al piano di sotto, la testa aveva cominciato a girargli e pregò di non scivolare e rompersi l’osso del collo. Nonostante questo pensiero inquietante, si affrettò giù dalle scale, per poi dirigersi in cucina e ritrovarsi di fronte a tre paia di occhi che, preoccupati per lui, ma comunque furiosi, lo stavano fissando.
«Buongiorno, bell’Addormentato!» esclamò Freddie, accennando un sorriso tirato «… Menomale che ero io quello sempre in ritardo» aggiunse poi, sottovoce, alzandosi dal tavolo e lanciando malamente la tazza vuota nel lavello. Roger chiuse per un secondo gli occhi, accecato dalla forte luce bianca che entrava dalle finestre e sperò che l’amico si zittisse il prima possibile.
«Scusate» disse, meravigliandosi di quanto la sua voce fosse roca e ancora impastata dal sonno e dai postumi della sbronza «Non ho sentito la sveglia»
Si avviò al bancone della cucina per prepararsi un caffè e sentì gli altri ridacchiare. Si voltò lentamente, solo perché aveva paura di cadere da un momento all’altro: sentiva gli occhi pesanti, la testa girare e le gambe tremare.
«Con tutto quello che hai bevuto ieri sera e con le botte che hai preso» cominciò Brian, alzando subito le mani in segno di arresa e di scusa quando aveva visto l’amico lanciargli un’occhiata fulminea «Non avresti sentito nemmeno le trombe»
Fu costretto a dargli ragione, per cui rimase in silenzio. Continuò a dar loro le spalle e aspettò pazientemente che il caffè si riscaldasse. Dopo di che, lo versò in una piccola tazza e finalmente si sedette al tavolo con gli altri.
«Ci spieghi cosa ti è preso ieri?» sbottò John «Insomma, prendere a botte uno sconosciuto solo perché si ha un po’ di tensione da smaltire…»
«Tanto meglio farsi una bella ragazza, no?» intervenne di nuovo Freddie «O magari, anche due»
Brian continuava a stare in silenzio: era quello che conosceva meglio di tutti Roger. Si erano incontrati all’inizio dei corsi universitari e non si erano più lasciati. Sapeva cosa stava passando nella testa di Roger e non voleva stuzzicarlo più del dovuto. Sapeva che farsi una ragazza non era la soluzione giusta per lui. Nessuno di loro aveva assistito alla rissa, o meglio, erano arrivati quando ormai era troppo tardi ma comunque si chiesero cosa avesse potuto fare di male per meritarsi quell’occhio nero.
Per di più, Brian stava temporeggiando: doveva ricordargli una cosa importante, che – ne era sicuro – si fosse dimenticato visti i recenti avvenimenti notturni dell’amico. Non sapeva come dirglielo, non sapeva come ricordargli che da un momento all’altro si sarebbe ritrovato di fronte al suo peggiore incubo, ma anche alla sua migliore fantasia.
«Roger» lo richiamò, alla fine, prendendo coraggio «Ti ricordi che oggi pomeriggio arriva Amelia, vero?»
Il ragazzo si nascose dietro la tazzina e spostò gli occhi dal fondo ancora sporco di caffè all’amico che lo guardava, mentre accennava un sorriso.
«Cazzo» mormorò di nuovo, a denti stretti. Si era completamente dimenticato di lei, non sapeva se lo avesse fatto di proposito o meno, ma non ricordava proprio del suo arrivo «Che giorno è oggi? Non doveva arrivare la settimana prossima?»
Il suo tono di voce era carico di tensione e angoscia: non aveva avuto il tempo di prepararsi, di pensare a cosa dirle. Non la sentiva da un anno, da quella maledetta sera in cui le aveva confessato di amarla. Da quel momento, non aveva più voluto sapere di lei: era a conoscenza del fatto che comunque Amelia continuasse a chiamare Brian per avere loro notizie, ma nemmeno lei si era più azzardata a chiedere di parlare con lui. Non sapeva nemmeno se avesse dato una seconda possibilità a Daniel, non gliene fregava niente, preferiva non sapere piuttosto che soffrire come un cane.
«Fidati di me che oggi è il giorno in cui sarebbe arrivata» rispose Brian, alzandosi e camminando verso di lui. Gli dette un’amichevole pacca sulla spalla «Ti aspettiamo in sala registrazioni»
Tutti gli altri lo seguirono e nel giro di pochi secondi, si ritrovò da solo ed in silenzio in cucina. Bevve l’ultimo sorso di caffè, prese un’aspirina e si preparò ad un’altra giornata di registrazioni. Si chiese come l’avrebbe affrontata sapendo che in serata Amy sarebbe arrivata. Male, ecco come.
Aveva voglia di vederla, di questo era sicuro, aveva voglia di sapere come stesse, di dirle che gli era mancata, ma c’era un lato del suo cuore che ancora era furioso, che era la causa delle sue birre di troppo e, forse, anche di quell’occhio nero. L’ultimo dei tanti che si erano susseguiti nel corso di quel lunghissimo anno.
Si passò una mano tra i capelli, scacciando quei pensieri e raggiunse gli altri.
 
Quando Amelia scese dall’auto che, dall’aeroporto, l’aveva portata in quel posto in mezzo al nulla, rimase piacevolmente sorpresa. Davanti ai suoi occhi, si erigeva un piccolo cottage, color crema e a mattoncini, che sembrava mescolarsi benissimo alla natura verdeggiante della campagna in inglese, alle porte di Londra. Era grazioso: le finestre avevano una larga cornice bianca, la porta era color cioccolato e ai lati di essa, erano stati piantati dei fiori lilla che davano quasi l’idea che fosse la casa delle fate. Aveva un caminetto e vi si arrivava attraverso una stretta strada sterrata che terminava proprio di fronte alla porta d’entrata. Quel posto le inspirava un senso di tranquillità e serenità, proprio quello di cui aveva bisogno in quel momento. Non sapeva nemmeno lei perché fosse lì: forse perché Brian l’aveva invitata, visto che non si sarebbero mossi da lì per qualche settimana? O perché non era un posto poi così lontano da dove viveva lei? O perché era lei a voler vedere loro, visto che le mancavano da morire? O, forse, perché semplicemente Roger aveva avuto ragione su Daniel e lei aveva solo bisogno di vederlo?
Ripiombò nella realtà quando notò la propria valigia, appoggiata a terra, vicino ai fiori lilla. Si voltò di scatto verso l’autista che l’aveva portata fin lì e lo ringraziò, sorridendo. Dopo di che, rimase lì ferma, a guardarsi intorno per prendere coraggio, così ne approfittò per osservare l’auto che faceva manovra e si allontanava su quella stradina, fino a scomparire del tutto.
Adesso era sola, e, a meno che non volesse dormire fuori, doveva assolutamente suonare quel campanello. Fece un respiro profondo, si spostò dietro le spalle i suoi capelli color cioccolato e si dipinse sul volto un bel sorriso felice. Poi suonò: aspettò qualche secondo, notando che il sole stesse tramontando e che in poco tempo, si sarebbe fatto buio.
Fu Freddie ad aprire la porta: quando la vide i suoi occhi si illuminarono di malizia, complicità, ironia e aprì le braccia verso di lei, per abbracciarla.
«Oh, finalmente, Amelia!» esclamò, stritolandola. Lei ricambiò l’abbraccio, felice «Tesoro, quanto tempo! Come stai? Come è andato il viaggio? Oh, perdonami… Vieni, vieni, entra!»
La ragazza si sentì sopraffatta da tutta quella marea di parole e domande che stavano sgorgando senza sosta dalla bocca del ragazzo. Non era mai stata un tipo loquace e aveva sempre preferito il silenzio e una quantità di parole più ristretta e limitata.
«È andato tutto bene, Freddie» rispose, entrando. Si trascinò dietro la valigia e si fermò nell’atrio. Freddie l’aiutò a togliersi la giacca e le prese il bagaglio, appoggiandolo sul primo scalino delle scale, che portavano al piano di sopra. Amelia gli sorrise «Grazie»
«Andiamo» sussurrò lui, ridacchiando e spingendola per le spalle lungo una strada che non conosceva. Superarono alcune stanze: un piccolo salotto, la cucina, un salotto più grande e infine, scesero le scale per andare nel seminterrato. Lì, c’era una porta bianca, che non aveva niente a che fare con il resto dell’arredamento, munita di maniglione antipanico. La riconobbe immediatamente, visto che non era la prima volta che ne vedeva una: era una porta per l’isolamento acustico e ciò significava che al di là di essa, ci fosse lo studio di registrazione.
Senza nemmeno avere il tempo per prepararsi, Freddie l’aprì ed entrò, trionfante in tutto il suo splendore, come era sempre solito fare. Amelia lo seguì, intimidita dalla sua regalità, ma anche da quello che trovò all’interno della stanza.
L’ambiente era rustico come il resto della casa ed era diviso in due stanze più piccole: da una parte c’era la sala macchine, dove erano posizionati gli strumenti dei ragazzi ed i microfoni per la registrazione; dall’altra – più stretta e dove si trovavano in quel momento lei e Freddie – c’era la regia, con tanto di attrezzatura per il mixaggio e l’editing.
«Stanno registrando alcune basi» la informò il ragazzo, mentre osservava i suoi amici. Amelia gli sorrise riconoscente per quell’informazione e focalizzò il suo sguardo sul resto della band.
Avrebbe riconosciuto Brian anche senza sapere che faccia avesse: il suo cespuglio di capelli si riconosceva ovunque. Stava provando alcuni accordi alla chitarra, mentre John e Roger stavano effettivamente registrando un pezzo.
Quando incontrò i capelli biondi e gli occhi azzurri di Roger, sentì il cuore in gola. Per fortuna lui non sembrava essersi accorto della sua presenza, perché continuava tranquillo a suonare la batteria. Era così cambiato da quando l’aveva visto l’ultima volta: era cresciuto, non era più un ragazzino biondo che suonava nei pub della loro città. Non solo era diventato un uomo, ma un uomo di successo. Si imbambolò a fissare il modo in cui suonava la batteria: le era sempre piaciuto e, come gli aveva sempre detto, le sue mani erano morbide e delicate, ma quando suonava era deciso e forte. Ricordò quanto si imbarazzasse lui in passato di fronte a quel complimento e il solo pensiero la fece sorridere.
Distolse lo sguardo quando sentì il fonico borbottare «Va bene… Mh sì, adesso ci siamo. Che ne dici, Freddie?»
Il ragazzo rispose qualcosa che lei non riuscì a capire: il suo sguardo fu attirato dalla scritta luminosa Recording, sopra le loro teste, che si spense all’improvviso. Freddie si affrettò verso la piccola porta che divideva le due stanze e, afferrata Amelia per una mano, la trascinò con sé dall’altra parte.
«Guardate un po’ chi è arrivato!» esclamò, fin troppo felice. Tutti esultarono alla vista di una piccola e stanchissima Amelia che sorrideva loro, contenta di essere lì. Brian e John si avviarono subito nella sua direzione e la strinsero in un abbraccio caloroso.
In tutto questo, Roger rimase fermo e seduto alla sua batteria, come se fosse stato di ghiaccio, di marmo. Come se fosse stato una statua, che non poteva – o non voleva? – muoversi. Rimase per un po’ in quella posizione, cercando di guardarla mentre gli altri le si erano chiusi intorno: era esattamente la stessa di due anni prima. Non aveva preso nemmeno un centimetro, i suoi capelli avevano ancora il colore – e lui sperò anche il profumo – di cioccolato e gli occhi color nocciola. Indossava un giacca e un maglione che le aveva visto un milione di volte e aveva ancora quei pesanti occhiali da vista appoggiati sul naso, costellato da lentiggini. Voleva disperatamente alzarsi, andare da lei, abbracciarla, toccarla, respirare il suo profumo, ma c’era qualcosa che non glielo permetteva. Aveva paura: e se fosse stata arrabbiata? E se gli avesse detto di amare Daniel? E se non avesse voluto vederlo? Se non fosse venuta lì per lui? E se, e se, e se… Troppe domande di cui non conosceva la risposta. Però sapeva di non poterne diventare schiavo: non era da lui, non era il suo carattere. Lui era un tipo impulsivo, che viveva alla giornata, che non aveva paura di quello che la gente pensava o di quello che sarebbe stato il suo futuro. Tutti quei se non potevano definirlo; non glielo avrebbe permesso.
Si alzò lentamente, posò le bacchette e si avviò verso di loro: quando Brian lo sentì vicino, gli fece spazio e lasciò che si ritrovasse di fronte a lei. La prima cosa che vide fu l’espressione preoccupata e stupita di Amelia, dovuta probabilmente al fatto che avesse notato l’occhio nero. Non disse niente a riguardo e abbozzò un sorriso.
«Amy» pronunciò il suo nome come se fosse stato qualcosa di sacro. Averla di fronte, poter pronunciare il suo nome senza che ci fossero di mezzo una cabina telefonica e centinaia di chilometri era la migliore cosa al mondo.
«Roger» lo richiamò lei, trattenendo a stento un sorriso. Si gettò di scatto tra le sua braccia e lo abbracciò, circondando i suoi fianchi. Il ragazzo la strinse a sé: adesso sì, che si cominciava a ragionare.
 
Bussò alla porta della camera degli ospiti ed entrò senza aspettare risposta. Non appena fu dentro, Amelia si voltò verso di lui e sorrise. Non sapeva perché, ma si sentiva schifosamente timido, impacciato, cosa che non gli succedeva mai, eppure gli sembrava di essere uno stupido ragazzino nel bel mezzo dell’adolescenza. Cazzo, pensò, ho venticinque anni, non posso comportarmi così.
Si guardò intorno, temporeggiando, poi si decise a parlare.
«Allora, come è andato il viaggio?» chiese con prudenza. La ragazza stava disfacendo la valigia e lui si mise seduto sul bordo del letto per poterla guardare in faccia.
«Bene» rispose telegrafica. Gli sembrò che fosse più fredda rispetto a prima, ma probabilmente era soltanto paranoico.
«E per il resto? Tutto bene?» continuò poi. Ti prego, non dirmi che ami Daniel, non dirmi che vi sposerete e avrete bambini, ti prego, pensò, mentre la sua espressione facciale era il più possibile rilassata e mentre aspettava una sua risposta.
«Tutto bene» di nuovo fredda e atona. Qual era il problema adesso?
«Sei sicura?» le chiese infine. Voleva capire se avesse sbagliato, se quell’abbraccio di prima era stato solo un frutto della sua immaginazione, se lo odiava, se era furiosa con lui. Qualcosa era pur sempre meglio di niente.
Amelia sbuffò e si sedette sul letto vicino a lui «Cosa è successo al tuo occhio?»
Di tutto quello a cui aveva pensato, non credeva alle sue orecchie: veramente era così preoccupata per il suo occhio? Avrebbero potuto e dovuto parlare di ben altro e invece, eccola lì a dare importanza a qualcosa che non ne aveva.
«Niente» rispose. Adesso voleva essere lui quello evasivo «Risse tra ragazzi»
Lei non aggiunse niente, ma era sicuro che non avesse creduto a quella risposta: era una bugia bella e buona, ma non aveva assolutamente intenzione di dirle cosa ci fosse veramente dietro al suo occhio nero.
«Da quando fai a botte con gli altri?» gli chiese, senza guardarlo in faccia «E da quando fumi come una ciminiera e bevi come un alcolizzato?»
La voragine che si aprì nel suo petto fu più profonda di un burrone e gli fece male: il tono con cui aveva pronunciato quella frase trasudava rabbia, delusione, ma anche dispiacere. E lui odiava, odiava tantissimo, deluderla.
«Ho sempre fumato tanto» disse, infine. Lei alzò gli occhi al cielo, come se – di nuovo – non gli credesse. Lui l’afferrò per un fianco e la costrinse a guardarlo «Amy, te lo giuro: non bevo come un alcolizzato. Ogni tanto bevo, lo sai, e ogni tanto prendo qualche sbronza. Tutto qui»
«Sei sicuro?» sussurrò ad un centimetro dal suo viso; adesso sembrava solo preoccupata. Aveva le lacrime agli occhi, lo vedeva benissimo. Erano così vicini che avrebbe potuto contare le sue lentiggini, così vicini da avere la conferma che profumasse ancora di cioccolato.
«Sto bene» la rassicurò, poi gli sorse un dubbio «Sei arrabbiata con me?»
Sì. No. Forse. Era arrabbiata con lui? Nemmeno lei ne era poi così sicura «Non lo so» rispose infine, dicendo – almeno in parte – la verità.
«Tu, invece? Come stai?» riprese dopo qualche secondo di silenzio, durante il quale Amelia l’aveva guardato dritto negli occhi, sperando che cedesse e le raccontasse tutta la verità. Aveva dovuto far forza su tutto il suo coraggio per non farlo.
«Bene» rispose, poi fece un respiro profondo «Avevi ragione su Daniel: è proprio uno stronzo»
Tutti i muri che aveva costruito intorno a sé per estraniarsi dal mondo e crogiolarsi nel suo dolore da cuore spezzato si frantumarono in mille pezzi di fronte a quelle parole. Non gli importava se lei lo amasse o meno, l’importante era che non amasse Daniel. Sembrava un pensiero egoista, ne era consapevole, ma era il suo profondo amore a parlare. Era così felice che avrebbe potuto fare qualsiasi cosa, anche baciarla e fare l’amore con lei.
«Almeno siamo entrambi d’accordo su qualcosa» rispose, scacciando quel pensiero e sorridendole. Si avvicinò a lei, appoggiandole le labbra sulla fronte, lasciandovi un bacio veloce.
«Roger-» cominciò Amelia, come se avesse voluto dirgli altro, ma furono interrotti da Freddie che entrò in camera, senza un minimo di avvertimento.
«Ragazzi!» esclamò «Pensavamo di ordinare delle pizze per cena, vi unite a noi?»
«Assolutamente sì» rispose Roger, sorridendo ad Amy. Il resto poteva aspettare.
 
Erano passate un paio di settimane da quando Amelia era arrivata: le cose sembravano andar bene tra di loro. Di tanto in tanto, tornavano quella tensione, quell’imbarazzo tra di loro, dovuti a quello che, quasi un anno prima, si erano detti attaccati alla cornetta di un telefono. Nonostante questo, che cercavano di evitare il più possibile, le acque si erano calmate. Durante il giorno, mentre loro si chiudevano a lavorare nello studio di registrazione, la ragazza ne approfittava per studiare, per guardarsi intorno oppure semplicemente per sedersi vicino al fonico e passare intere ore ad ascoltarli. Diceva sempre che le piaceva vederli lavorare, ma mentiva a loro e a sé stessa: in realtà, i suoi occhi erano sempre fissi su Roger, sul modo in cui suonava, in cui muoveva le bacchette con le sue mani, in cui si accorgeva di lei e ricambiava lo sguardo, facendole di tanto in tanto l’occhiolino. Lei arrossiva fino alle orecchie e distoglieva gli occhi, portandoli su qualcos’altro di molto meno interessante. Assisteva alle registrazioni, ai loro litigi su chi dovesse cantare cosa o su chi dovesse scrivere cosa. Alcuni si risolvevano in pochi minuti, altri invece andava avanti per ore.
Era stata partecipe di episodi divertenti come la registrazione dei Galileo di Roger, del suo fastidio quando Freddie glieli aveva fatti ripetere per centinaia di volte, sempre più alti, sempre più in falsetto.
«Cazzo, ma quanti Galileo vuoi?!» aveva sbottato, scocciato «E poi chi è questo Galileo?»
«Roger, smettila di lamentarti» aveva risposto Freddie, dall’altra parte della stanza «Di nuovo. Più alta»
«Se la faccio più alta, soltanto i cani potranno sentirmi!»
Amelia era scoppiata a ridere di fronte a quella risposta e a Roger bastava quello: si mise di nuovo le cuffie e registrò un Galileo più alto.
Amelia si staccò da quel ricordo e ripiombò nella realtà, quando sentì Freddie urlare e discutere animatamente con Roger. Il ragazzo era veramente arrabbiato e sembrava che niente avrebbe potuto riportare la pace in quella piccola stanza.
«…Non possiamo cantare una canzone del genere!» esclamò «Questi non sono i Queen!»
«I Queen sono quello che decido io!» tuonò Freddie, severo. Roger, al suono di quelle parole, non ci vide più: si alzò dalla batteria, lanciò in aria le bacchette e si avventò su di lui: se non fosse stato, di nuovo, per Brian, si sarebbero presi a pugni fino a che non fossero stati troppo stanchi anche per litigare.
«I Queen siamo noi, non sei tu!» urlò, mentre Brian lo teneva fermo per le spalle «Io, quella canzone, non la canto»
«Allora, sei fuori» decise Freddie, con lo sguardo serio, nascondendo un sorriso. Tanto lo sapeva che prima o poi avrebbe ceduto, avrebbe cantato quella canzone e se ne sarebbe anche innamorato.
«Come, scusa?» sibilò Roger a denti stretti. Si liberò dalla stretta di Brian e si avvicinò pericolosamente al viso dell’amico: doveva contenersi, non doveva cedere alla violenza, ma Freddie lo stava mettendo troppo alla prova e non sapeva quanto avrebbe resistito «Non ti azzardare mai più a dire una cosa del genere. Se tu, oggi, esisti e sei qui è perché io e Brian ti abbiamo dato una possibilità. Ricordatelo, Farrokh Bulsara»
A quella provocazione, Freddie rimase in silenzio, abbassando lo sguardo, e allo stesso modo fecero tutti gli altri. Roger guardò Brian e poi cercò Amelia con gli occhi, ma si accorse, ormai troppo tardi, che era andato oltre, che tutti lo stavano giudicando per quello che era: uno stronzo.
Così, girò sui tacchi ed uscì dalla sala registrazione, uscì da quella casa e nessuno lo vide più fino a tarda notte.
Amelia non cenò nemmeno quella sera: era troppo preoccupata per Roger. Non si vedeva dalla mattina, e il fatto che fosse furioso non aiutava per niente. Era uscito, si era inoltrato nella campagna desolata e ancora non si era fatto vivo. Non riusciva a pensarci, tutto ciò che le veniva in mente era uno scenario inquietante e spaventoso.
«E se gli fosse successo qualcosa?» domandò, preoccupata, a Brian, prima di andare a dormire. Tutta quell’angoscia e quella tensione che circolavano nel suo corpo, l’avevano stravolta più del normale «Fa freddo fuori, se-»
«Tornerà, Amy» la rassicurò «Sa cavarsela e magari l’aria fresca lo aiuterà a smaltire la rabbia»
La ragazza annuì, cercando di convincersi e gli augurò la buonanotte. Quando, però, arrivò sulla soglia della porta, una domanda troppo grande e troppo importante per la notte la stava attanagliando, dal momento in cui aveva messo piede in quella casa.
«Brian» lo richiamò, facendolo voltare.
«Dimmi»
«Roger sta bene?» domandò, con le mani che le tremavano.
«Non lo so» rispose il ragazzo «E’ stato un anno intenso e difficile per lui, ma si riprenderà»
Amelia accennò un sorriso e si chiuse la porta della camera alle spalle.
 
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Si rigirò nel letto per l’ennesima volta e sbuffò: non riusciva a prendere sonno. Si mise seduta, allungando un braccio per raggiungere l’abat-jour e accese la luce per leggere l’ora sull’orologio che aveva legato al polso: segnava quasi le due. Erano ormai ore che la casa era immersa nel più totale silenzio, eppure nemmeno questo l’aveva aiutata a prender sonno. Era rimasta solo un’unica vecchia soluzione, che – anche in passato – nella maggior parte dei casi aveva funzionato.
Alla fine, si alzò a fatica, appoggiando i piedi sul pavimento di legno e si avviò alla porta: evitò di accendere luci per non dare fastidio, per cui lentamente e a tastoni, cercando di non cadere, raggiunse finalmente il piano inferiore. Si diresse in cucina, andando dritta al frigorifero. Quando lo aprì, la forte luce biancastra la colpì in pieno viso e fu costretta ad allontanarsi per qualche secondo per abituarcisi e riacquistare una vista completa.
Con gli occhi pesanti e assonnati, cercò il latte: lo prese, per poi versarlo in un pentolino e scaldarlo sul gas. Aspettò qualche secondo, ferma in piedi ed in silenzio, e poi se lo versò caldo in una tazza abbastanza grande. Tutto quell’attività nel bel mezzo della notte era utile, perché non la faceva pensare a Roger. Non era arrabbiata con lui, piuttosto preoccupata, ma sapeva che carattere avesse e che ogni tanto avesse anche bisogno di rimanere da solo per smaltire la rabbia. Avrebbe preferito che, almeno, l’avvertisse riguardo a dove sarebbe andato, ma soprattutto a quando sarebbe tornato.
Scacciò quel pensiero, sospirando, e bevve un sorso di latte: stava per tornare in camera quando, per la prima volta da quando era entrata in quella stanza, notò una luce calda proveniente da dietro la porta che conduceva al seminterrato. Curiosa, si avviò, lasciando la tazza piena di latte a raffreddarsi sul tavolo.
Scese le scale illuminate e quando giunse di fronte alla porta che conduceva alla sala registrazione, notò che fosse accostata e che un piccolo spiraglio di luce le illuminasse i calzini che portava ai piedi. Per un attimo, pensò che ci fosse qualcuno: un estraneo, un ladro, magari, o forse un animale. Poi, riflettendo, pensò che non poteva essere possibile: in pochi conoscevano quella stanza e per un ladro, non conteneva niente di così prezioso, degno di esser portato via.
In silenzio, spostò la porta quanto bastava per passare e se la richiuse alle spalle, con altrettanta attenzione. Quando si voltò, al di là del vetro, nella sala macchine, un solitario Roger era seduto alla batteria con una sigaretta accesa in bocca e le cuffie appoggiate sulle orecchie. Era bello guardarlo mentre suonava così liberamente, quasi in maniera istintiva, quando sapeva che nessuno lo stesse guardando.
Amelia fece qualche passo avanti e aprì la porticina che divideva la regia dalla stanza in cui si trovava il ragazzo e l’attraversò, chiudendosela alle spalle. Si appoggiò al vetro e continuò a guardarlo con ammirazione, ad osservare il modo quasi strabiliante in cui muoveva le mani, teneva le bacchette e faceva vibrare sia la batteria che la sigaretta. Aspettò che lui si accorgesse di lei: non voleva interrompere quella sessione così intensa.
Quando Roger notò una presenza di troppo nella stanza, si fermò di colpo, bloccando con le mani i piatti della batteria e si voltò verso di lei, rimanendo improvvisamente senza parole. Si sfilò le cuffie e spense la sigaretta nel portacenere che aveva accanto a sé, a terra.
Amelia accennò un sorriso timido «Che stai facendo?»
«Stavo rivedendo la base di una nuova canzone» replicò lui, senza guardarla negli occhi. Rimase immobile e seduto di fronte alla batteria e giocherellò con le bacchette.
«È bella» rispose la ragazza, cercando di incoraggiarlo. Ti prego, guardami. Dimmi che va tutto bene, pensò «Di cosa parla?»
«Di quanto io sia stronzo» replicò lui, ancora serio, ancora con gli occhi fissi a terra.
Amelia ridacchiò, divertita e questo fece alzare immediatamente lo sguardo a Roger. La guardò meravigliato, come se non si aspettasse quella reazione. In realtà, non se l’aspettava proprio: pensava che l’avrebbe odiato, gli avrebbe urlato contro, ma non quello. Non quel sorrisino divertito.
«Interessante» riprese la ragazza, sarcastica «I ragazzi l’adoreranno»
Roger tornò di nuovo serio: il senso di colpa lo attanagliò un’altra volta, stringendosi intorno al suo petto come una corda. Poi prese coraggio «E’ arrabbiato con me?»
«Lo sai com’è Freddie» disse Amelia, addolcendo il suo tono di voce, quasi come se avesse dovuto consolare un bambino «Non se la prende mai più di tanto e sa perfettamente che non sarebbe quello che è se non fosse stato per voi. Domattina, ti vorrà di nuovo bene, come se non fosse successo niente»
Roger annuì, rimanendo in silenzio. Poi, finalmente, alzò il suo sguardo chiaro e lo puntò negli occhi scuri di Amy «Tu sei arrabbiata con me?»
La ragazza aveva pensato di fare la sostenuta, di fare quella che porta rancore fino allo sfinimento, ma di fronte a quegli occhi azzurri infranti, dispiaciuti e sensibili, non riuscì a fingere nemmeno per un secondo «No, ma mi hai fatta preoccupare»
Lui sorrise «Non mi sono allontanato poi così tanto: sono stato tutto il giorno chiuso nel capanno degli attrezzi, proprio dietro casa»
Adesso fu il turno di Amelia di sorridere «Sei sempre il solito»
Roger non rispose e per qualche minuto rimasero in silenzio. Era di nuovo quel silenzio teso, imbarazzante, nel quale ci sarebbero troppe cose da dire, da discutere ma dove nessuno ha il coraggio di aprire bocca e metterle in chiaro. La ragazza non sapeva se tornare a dormire, adesso più tranquilla sapendolo al sicuro in casa, oppure se rimanere lì con lui. Si sentiva un po’ persa, confusa, indecisa su cosa dire o fare. Roger, d’altro canto, era ancora seduto alla batteria e giurava di volerla lì con lui, di voler passare un po’ di tempo da soli, ma cosa poteva dire per metterla a suo agio, cosa poteva dire per non rovinare tutto di nuovo?
«Comunque, la canzone è davvero bella» la voce della ragazza richiamò la sua attenzione «E sei davvero bravo alla batteria»
Erano anni che Roger non aveva ormai più bisogno di sentirsi dire una cosa del genere: la sua famiglia lo sapeva, i suoi amici, la sua band, il mondo intero lo sapevano. Ma quando quelle parole venivano da lei, di cui era innamorato così tanto da non riuscire a crederci, era sempre come la prima volta. Era sicuro che le sue fossero le uniche parole sincere, perché Amelia non gli aveva mai risparmiato nulla, gli aveva sempre detto come stessero le cose e gli aveva permesso di aprire gli occhi molte volte. Senza il suo giudizio, molte volte, si era sentito letteralmente perso.
«Tu eri davvero brava al pianoforte» rispose lui, troppo imbarazzato per accogliere interamente quel complimento. Virò su un altro argomento, che comunque fece accennare un sorriso alla ragazza «Lo suoni ancora?»
Lei si chiuse nelle spalle, timidamente, e fece un passo verso di lui «No, purtroppo, o almeno non tanto come prima. Ogni tanto mi siedo di fronte ai tasti, ma ormai è un passatempo raro. E poi, non ho più il mio accompagnatore speciale»
«Mi piaceva ascoltarti» confessò Roger, sorridendo al ricordo di quando suonavano insieme, improvvisamente più loquace. Non sapeva come fosse successo, ma gli era venuta improvvisamente voglia di parlare, parlare, parlare, e recuperare il tempo perduto.
«Lo so» rispose «Anche a me piace ascoltarti, e… Guardarti»
Nello stesso instante in cui pronunciò quelle parole, se ne pentì: arrossì fino alla punta delle orecchie e sperò che si aprisse una voragine nel pavimento e la risucchiasse per evitarle quell’imbarazzo. Nonostante questo, Roger non ne sembrò infastidito, anzi, apparve piuttosto divertito.
«Vieni qui» la invitò, ancora con un sorrisino sarcastico stampato in volto, mentre le chiedeva di avvicinarsi. Amelia fece qualche passo verso di lui, ma la batteria era troppo grande e lui, sfortunatamente, ancora troppo lontano.
Roger si spostò leggermente più indietro, sullo sgabello su cui era seduto, in modo da lasciare un piccolo spazio per lei, tra le sue gambe.
«Vieni qui» ripetè, indicandole con gli occhi lo spazio libero «Vediamo se sei così brava anche alla batteria come lo eri al pianoforte»
«Roger-» cercò di divincolarsi lei, facendo qualche passo indietro. Non pensava che fosse una buona idea, era sicura che sarebbe finita molto male, ma come poteva dire di no a quegli occhi? Va bene, pensò razionalmente cercando di mantenere la calma, mi siedo lì, provo a suonare, mi alzo e torno a dormire: posso farcela.
«Andiamo, dai» la richiamò «Ti aiuto io!»
Amelia superò la batteria, vi girò attorno e si ritrovò a fianco di Roger, che con un sorrisino divertito la invitò di nuovo a sedersi. Sospirò profondamente, borbottando cose che nemmeno lei comprendeva a pieno e si sistemò tra le gambe del ragazzo, sentendo immediatamente la schiena aderire al suo petto.
Rabbrividì a quel contatto, con il cuore che batteva come se avesse voluto esplodere, ma cercò di non farvi caso; o meglio, non voleva assolutamente che lui notasse che effetto le facesse, che lui notasse quanto quella vicinanza fosse quasi insopportabile per lei.
«Bacchette» le sussurrò all’orecchio, telegrafico, passandole l’oggetto. Amelia le afferrò di scatto, in maniera robotica. Poi sussultò, quando sentì di nuovo la sua voce così vicina a lei «Le cuffie meglio di no, le tengo io»
Lo guardò appoggiarle a terra e poi fu di nuovo dietro di lei: erano così vicini, così attaccati che poteva sentire il suo cuore che batteva, il suo respiro, il movimento impercettibile delle sue labbra, i suoi capelli che le pizzicavano il collo e quell’odore nauseante di nicotina, che diceva sempre di odiare, ma che, indosso a lui, era perfetto.
«Mi raccomando» riprese Roger, appoggiando le sue mani su quelle fredde e tremanti di Amelia, per guidarla «Mani delicate, ma battuta forte»
Lei sorrise «Non usare le mie stesse parole contro di me» sussurrò, convinta che lo sentisse «E comunque, non credo proprio di farcela: è troppo difficile»
Roger non la stava nemmeno più ascoltando: era troppo preso dal sopravvivere ai loro due corpi così vicini. Per quanto riuscisse a ricordare, non erano mai stati così corpo a corpo: quel contatto, anche se lui stesso l’aveva richiesto, lo stava facendo andare fuori di testa e non gli importava della batteria o del fatto che non sapesse suonarla: voleva soltanto sentirla così vicina e così sua.
«Questo cos’è?» la voce curiosa della ragazza lo riportò alla realtà. Si sporse leggermente in avanti, oltre la sua spalla per vedere cosa indicasse.
«Quello è il rullante» rispose «Il tamburo principale della batteria»
«E quello?»
«La grancassa» continuò «E’ il tamburo dalla tonalità più bassa»
Seguirono un’altra decina di domande del genere e alla fine, Roger capì dove volesse andare a parare Amelia. Era il suo modo per superare l’imbarazzo: fare domande, ascoltare le risposte e spostare l’argomento su qualcos’altro di assolutamente meno interessante e più neutro.
«Adesso che sai tutto, vogliamo procedere?» chiese infine, divertito.
Amelia non rispose e rimase per qualche secondo in silenzio: ascoltò il proprio battito cardiaco e poi quello di Roger: non riusciva a capire quale dei due battesse più forte, eppure sapeva che entrambi era incontrollabili, erano lontani dall’essere cuori calmi e tranquilli. Aveva una voglia matta di metter fine a quel gioco stupido e stringerlo forte a sé: non le importava come, dove o quando, ma aveva un disperato bisogno di farlo. E sapeva anche che se ne sarebbe pentita amaramente, che agire con impulso non era qualcosa che rientrava nelle sue corde, ma aveva così tanto bisogno di farlo che niente l’avrebbe fermata.
Appoggiò le bacchette a terra e prima che Roger potesse replicare, cercò di voltarsi verso di lui: non ci riuscì completamente, visto il piccolo spazio e le gambe del ragazzo a bloccarla, ma fu abbastanza.
«Roger» sussurrò, guardandolo negli occhi. Il suo sguardò tracciò il volto del ragazzo: prima gli occhi, poi il naso e infine le labbra. Non posso farlo, pensò, non posso rovinare tutto così. Alzati, Amelia, va via.
Prima ancora che potesse fare qualsiasi cosa, fu Roger a prendere l’iniziativa: le afferrò il viso tra le mani e fece combaciare le loro labbra in un bacio così tanto desiderato, disperato e passionale che per qualche secondo entrambi temettero di morire asfissiati. Amelia voleva scappare, ma non lo fece: anzi, si aggrappò con tutte le sue forze alla maglietta del ragazzo e rispose a quel bacio, come se fosse stata l’ultima cosa da fare prima di morire. Roger si interruppe, riprendendo fiato, e fece scivolare le labbra lungo il collo della ragazza, lasciando baci infuocati, caldi, quasi insopportabili lungo tutta la lunghezza, fino alle clavicole, per poi tornare indietro.
«Non dovremmo-» mormorò confusa Amelia.
Un bacio.
«Lo so»
Un altro bacio.
«Non voglio rovinare tutto»
Un altro bacio ancora.
Poi Roger si fermò, per guardarla negli occhi «Non rovineremo niente»
«Giuramelo» lo pregò Amelia, senza staccargli la mani di dosso: per quanto fosse convinta di commettere un enorme errore, non vedeva l’ora di baciarlo ancora.
«Te lo giuro: non ci sarà mai niente, niente, niente che possa rovinarci» le assicurò Roger, serio «Promesso»
La ragazza gli sorrise, arrendendosi a quello sguardo azzurro, per poi avvicinarsi di nuovo a lui e baciarlo. Roger la strinse al petto e la sollevò, facendola ridere, ed evitando di inciampare nella batteria e nei vari fili della corrente sparsi a terra, camminò fino all’accogliente divano marrone di pelle, adagiandola lì sopra come se fosse stata un pezzo di cristallo, per poi spogliarsi entrambi dei loro vestiti e di tutte le loro paure. Sarebbe stata una notte intensa.
 
«C’è ancora il livido»
«Mh?» bofonchiò Roger, aspirando un’altra boccata dalla sigaretta che aveva appena acceso. Erano quasi le quattro del mattino e loro ancora erano sdraiati nudi e abbracciati su quel divano dopo aver fatto l’amore per una, due, tre volte. Amelia era accoccolata contro la spalla del ragazzo e se ne stava in silenzio mentre lo guardava fumare e pensare a chissà cosa. Magari stavano pensando la stessa cosa: che succede adesso? Come si risolve questa situazione? Adesso cosa siamo, cosa facciamo, come ci comportiamo? E allora, per paura di dire qualcosa, tutti quei pensieri li aveva soffocati e aveva scelto la strada più semplice: cambiare argomento.
«Il livido è ancora lì» ripetè, sfiorandoglielo con un dito «Ti fa male?»
«Naaah» rispose lui, sorridendole. Poi, spense la sigaretta e si voltò verso di lei, per guardarla meglio. In quelle ultime due ore non era riuscito a staccarle gli occhi e le mani di dosso: per la prima volta da quando la conosceva, l’aveva baciata, toccata, l’aveva fatta sua e non c’era mai stata sensazione più bella in tutta la sua vita. Anche in quel momento, sebbene volesse dirle e farle tutt’altre cose, non riusciva a non pensare a come l’aveva baciata, a come lei si era aggrappata a lui come se avesse avuto paura di scivolare via, a come si erano amati, a come i loro corpi si erano incastrati perfettamente l’uno dentro l’altro. Non riusciva a pensare ad altro.
«Vuoi sapere davvero cosa è successo?» le chiese infine.
«Tantissimo» confessò lei «Voglio capire perchè fai a botte con tutti»
«Non faccio a botte con tutti…» la rimbeccò lui, dandole un buffetto sul naso «O almeno, non sempre… Comunque, questo benedetto occhio nero me lo sono fatto perché ero un po’ brillo, sono uscito dalla discoteca ed era buio pesto, sono inciampato e son caduto di faccia»
Lei sollevò un sopracciglio, sorpresa, cercando di non ridere «E allora perchè hai fatto credere a tutti di aver scatenato una rissa?»
Roger le sorrise sornione e si accese un’altra sigaretta. Si sarebbe dovuto svegliare presto quel giorno, magari farsi una doccia veloce e rendersi presentabile, ma non gli importava. Non, finchè era insieme a lei. Le regalò un bacio veloce sulla guancia e sospirò, in maniera quasi drammatica «Perchè devo mantenere la mia reputazione da cattivo ragazzo, no, dolcezza
 
Quando si svegliò, quella stessa mattina, si accorse immediatamente di non essere più sul divano della sala registrazioni. Riconobbe il soffitto bianco con qualche crepa e si rese conto di essere nella propria camera. La luce grigiastra della nebbia filtrava da dietro le tende leggere della finestra e l’orologio segnava quasi le sette e mezza. Si mise seduta sul letto, rendendosi conto di essere vestita: indossava solo una maglietta che, chiaramente – vista la taglia, non era la sua. Sorrise: Roger probabilmente l’aveva riportata di sopra non appena si era addormentata, per evitare che qualche sguardo indiscreto arrivasse in sala registrazione prima dell’orario stabilito.
Scacciò quel pensiero imbarazzante e si stiracchiò, allungando verso l’alto le braccia e verso il bordo del letto le gambe. I suoi piedi erano congelati, così recuperò un paio di calzini da sotto il cuscino e se li infilò velocemente.
Fece per scendere dal letto per dirigersi al piano di sotto per la colazione, quando notò, appoggiato sul comodino, un piccolo foglietto bianco piegato. Pensando che fosse un biglietto scritto e lasciato da Roger, lo aprì felice per leggerlo, ma la sua espressione cambiò drasticamente quando si rese conto di cosa fosse: un assegno bancario.
Aggrottò la fronte, confusa: non capiva cosa significasse, cosa comportasse, chi lo avesse lasciato e a quale scopo, ma quando lesse il proprio nome, quello di Roger e l’enorme cifra di soldi a lei destinata, tutto fu subito più chiaro. Non riusciva a crederci.
Senza nemmeno pensarci, fumante di rabbia e con le lacrime agli occhi, s’incamminò al piano di sotto, scendendo di corsa le scale, nonostante le sue gambe tremassero e il suo sguardo fosse offuscato, e piombò in cucina come un uragano. Quattro paia di occhi si alzarono dai caffè che stavano bevendo e la guardarono sorpresi, senza sapere il perché di tutto quel baccano: soltanto gli occhi di Roger sapevano come mai fosse lì, in mutande con soltanto la sua maglietta indosso, con i segni violacei che le aveva lasciato sul collo, con in mano l’assegno e con gli occhi rossi di lacrime. Soltanto lui sapeva della decisione che aveva preso, del danno irrevocabile che aveva fatto, ma anche del perché avesse agito in quel modo. Aveva combinato un disastro, ma non voleva trascinare anche lei nella sua vita fin troppo incasinata. Quando la vide camminare diretta verso di lui, appoggiò la tazza sul tavolo e si preparò: non avrebbe nemmeno tentato di fermarla, perché sapeva che, nonostante tutta la sua buona volontà, lei avesse ragione.
«Che cazzo significa questo, Roger?» urlò, con la voce tremante e le lacrime che le rigavano le guance. Non le importava niente degli altri tre, era troppo ferita per darsi una calmata. Appoggiò le mani sul suo petto, premendo l’assegno contro di lui, e lo spinse indietro: sforzo inutile, visto che il ragazzo non si mosse di un centimetro «Io non sono una delle tue puttane, lo sai, vero?!»
Roger chiuse per un momento gli occhi, cercando di metabolizzare. Stava soffrendo come un cane al pensiero di averla distrutta così, ma c’aveva pensato per tutta la notte, mentre l’aveva guardata dormire e aveva scritto una canzone per lei. L’amava con tutto il cuore, l’amava come mai avrebbe potuto amare qualcun altro, ma non poteva rimanere. Doveva tornare a casa, dimenticarlo e farsi una vita perché lui, così incasinato, confuso, sempre con una sigaretta in una mano e una birra nell’altra, non era quello giusto per lei. Non avrebbe mai potuto renderla felice.
«Lasciami spiegare, Amy» la pregò, prendendole le mani per costringerla a guardarla.
«Non ti azzardare a toccarmi» sibilò lei, a denti stretti, divincolandosi dalla sua stretta e allontanandosi di qualche metro «Mi avevi promesso che niente al mondo ci avrebbe rovinato»
Roger ricacciò indietro le lacrime e tirò su con il naso. Per un secondo, incontrò lo sguardo comprensivo di un Brian che aveva capito perfettamente e per un secondo ancora, avrebbe voluto scoppiare a piangere. Ricordava bene quelle parole, quel giuramento, eppure gli era sembrato più giusto agire in quel modo. Per lei, per il suo futuro.
«Mi dispiace» disse infine, quasi sottovoce. Amelia lo guardava furiosa, senza sapere più cosa fare o cosa dire. Stringeva ancora tra le mani quell’assegno bagnato dalle lacrime e giurò a sé stessa, lì di fronte a quegli occhi azzurri, che non l’avrebbe mai più voluto vedere in vita sua, che un cuore spezzato in quel modo così atroce non se lo meritava e che niente avrebbe mai sistemato le cose. Non lo avrebbe mai perdonato.
«Sei proprio uno stronzo» mormorò, infine, dandogli le spalle e rifugiandosi in camera per piangere liberamente e preparare la valigia per tornare a casa.
Una volta scomparsa, la cucina calò nel più assoluto silenzio: Roger si sedette per paura di svenire da un momento all’altro e gli altri rimasero immobili come statue.
«Perchè le hai fatto questo?!» sbottò all’improvviso John, inalberandosi più del dovuto. Brian gli appoggiò una mano sulla spalla, invitandolo a calmarsi. Lui si ricompose, rattristandosi «Lei stravede per te»
«E io stravedo per lei» mormorò il ragazzo, con lo sguardo fisso nel vuoto «Ma merita una vita e un ragazzo migliori. Ero così accecato dall’idea di essere quello giusto per lei da non rendermi conto di non essere abbastanza: la mia vita è troppo incasinata e non c’è spazio per questo»
 


Waiting here for someone / Only yesterday we were on the run / You smile back at me and you face lit up the sun / Now I’m waiting here for someone
 
Luglio 1975
Si chiuse la porta del bagno alle spalle e si avviò giù per le scale, con i capelli biondi e umidi che gli ricadevano sulle spalle. Erano arrivati a King’s Lynn da qualche ora. Fuori il sole batteva forte, anche se non era particolarmente caldo per essere ormai fine luglio.
Quel ritorno a casa non era stato programmato, ma i ragazzi avevano insistito tanto: avevano implorato Roger di prendersi una pausa, tornare a casa e riposarsi, proprio in occasione del suo compleanno. A lui non andava proprio di tornare, di rivedere la sua famiglia: in realtà, ad essere sinceri, non voleva rimettere piede in quella cittadina per non essere costretto ogni santo giorno ad aprire la porta di casa e ritrovarsi di fronte a lei, di fronte ai suoi occhi furiosi, ai suoi capelli lunghi e mossi e al suo sguardo carico di rimprovero. Non ce la faceva proprio, ma alla fine Freddie aveva insistito così tanto, l’aveva pregato così tanto che, pur di non essere più costretto a sentirlo parlare, aveva ceduto. E adesso, si ritrovava in cima alla rampa di scale della casa dov’era cresciuto, con i suoi genitori felici di vederlo, sua sorella che ci provava spudoratamente, ma senza successo, con Brian e con la sua band momentaneamente accampata in giardino. Sapeva che non avrebbe resistito a lungo, ma sarebbero rimasti solo per un fine settimana, per cui si ripromise di avere pazienza e sopportare qualsiasi cosa e qualsiasi persona.
Ritornò alla realtà, quando sentì la voce di sua madre chiamarlo dal piano di sotto: si affrettò giù dalle scale, quasi correndo, ed entrò in sala, rimanendo spiazzato. Di fronte a sé, sua madre e quella di Amelia stavano bevendo una tisana bollente, mentre Clare e Amelia – la sua Amelia – stavano in silenzio sedute sul divano, in attesa che si scatenasse l’inferno.
Roger rimase fermo sulla soglia senza sapere che fare: sorridere? Salutare? Parlare con Amelia? Rivolgersi a sua madre? Scappare? Sperare che un buco si aprisse sul pavimento e lo risucchiasse? Morire? Quella situazione lo stava facendo impazzire: non era pronto per sostenere lo sguardo e l’espressione della ragazza, eppure lei era lì, seduta vicino a sua sorella e sapeva fin troppo bene che sua madre lo avrebbe rimproverato se non fosse stato gentile e non avesse salutato tutti i presenti.
Ho ventisei anni, cazzo!, pensò, faccio quello che voglio: per cui mantenne gli occhi fissi sulla bevanda fumante appoggiata sul piccolo tavolo di vetro e si rivolse alla donna.
«Che c’è, mamma?» sbottò, cercando di nascondere il suo nervosismo. Sentiva lo sguardo fisso di Amelia sulle sue spalle e giurò di sentirsi bruciare vivo. Faceva così male da mettersi a piangere.
«Ti ricordi di Brigit? La madre di Amy» rispose sua madre, sorridendo, dopo avergli tirato un’occhiata di rimprovero per non aver salutato nessuno. La evitò di proposito, ma fu costretto a seguire la mano della donna che indicava la ragazza. Gli rivolse un sorriso tirato, pur di dare soddisfazione a sua madre, ma lei rimase impassibile, rivolgendo la parola a Clare.
«Sì» rispose semplicemente lui, rivolgendo un sorriso di convenienza alle due donne.
«Bene» continuò sua madre «Siccome non abbiamo spazio per tutti qui, si è gentilmente offerta di ospitarvi tutti e quattro»
«Che cosa?!» esplosero all’unisono Roger e Amelia «Mamma» riprese lui «Non è necessario, davvero. Possiamo andare in albergo, non è problema»
Dopo il suo trasferimento per via dell’Università e per il fatto che non fosse mai a casa a causa della band, suo padre aveva trasformato la sua vecchia camera da letto nel suo nuovo ufficio, per cui non solo non c’era spazio per Freddie, John e Brian, ma anche lui stesso non aveva più un posto dove dormire. Lo sapeva benissimo e si erano già organizzati per trovare un piccolo albergo in città, ma non si aspettava davvero un invito del genere. Come poter rifiutare senza offendere sua madre, Brigit, ma soprattutto Amelia? O forse sarebbe stata felice di non averli tra i piedi?
«Oh, ma non è assolutamente un problema!» esclamò la donna, riportandolo alla realtà «Abbiamo una camera per gli ospiti e quella di mio figlio che non vive più con noi. Ah, e poi c’è un letto in più in camera di Amelia!»
Roger chiuse gli occhi per un momento, cercando una via di fuga: era impossibile rifiutare, era sicuro che avrebbe perso contro di loro, ma allo stesso tempo era impensabile dormire sotto lo stesso tetto, a due passi dalla sua camera o, peggio ancora, nella stessa stanza insieme.
Si voltò verso di lei, cercando una risposta, ma il suo volto continuava ad essere impassibile: sapeva che fosse troppo arrabbiata con lui, che fosse passato quasi un anno ma che la ferita bruciasse ancora come se fosse passato un solo giorno. Insomma, sapeva che non l’avrebbe aiutato, nemmeno se fosse l’ultima cosa da fare prima di morire.
Alla fine, sospirò, si accese una sigaretta e fece un tiro. Guardò entrambe le donne negli occhi e si arrese «Va bene»
«Oh perfetto!» esclamò Brigit «Amelia, tesoro, accompagna i ragazzi a casa: vi raggiungerò tra poco»
Roger fece immediatamente dietro front e s’incamminò a chiamare i ragazzi, pur di non dover camminare fianco a fianco con lei. Non lo faceva per evitarla, ma semplicemente perché non sapeva cosa dire per spiegarle, per farsi perdonare; aveva paura di qualsiasi cosa potesse uscire dalla sua maledetta bocca e paura di quello che avrebbe potuto rispondere lei. Prima o poi, avrebbe dovuto affrontare il problema, ma non era ancora pronto.
Radunò la band e in silenzio seguirono la ragazza a casa: la sua si trovava di fronte a quella della famiglia Taylor. Erano praticamente identiche, ma posizionate a specchio: per cui tutto ciò che a casa di Roger si trovava a sinistra, a casa di Amelia era a destra, e viceversa. Erano due belle case: due villette dal tetto color mattone e dall’intonaco giallo pastello; avevano un bel giardino e un piccolo portico di legno bianco.
Una volta in casa, Amelia li guidò al piano di sopra, facendo da apri fila. Camminava di fronte a loro, in silenzio, incapace di aprir bocca. Era felice che fossero lì, che per qualche giorno fossero tornati a casa, ma quello che era successo con Roger continuava a far capolino nella sua mente e non sapeva come comportarsi, come sentirsi. Era arrabbiata? Sì, così tanto da volerlo prendere a schiaffi, ma era riuscita a dimenticarlo? Era riuscita a smettere di essere innamorata di lui? No, assolutamente no. Questo, probabilmente, non sarebbe mai accaduto. Per il momento, però, preferiva rimanere in silenzio.
Sorrise, mentre saliva le scale e li sentiva lamentarsi per le valigie pesanti che erano costretti a portare su per un numero abbastanza limitato di scalini, ma che a loro sembravano infiniti.
Una volta al piano di sopra, si fermò nel piccolo corridoio su cui si affacciavano varie porte.
«In fondo c’è il bagno» disse telegrafica, cercando di evitare gli occhi azzurri di Roger «Questa» continuò, appoggiando una mano sulla maniglia della porta alla sua destra «è la stanza degli ospiti: ci sono due letti. Poi quella è la stanza di mio fratello e quella lì davanti è la mia: c’è un letto libero anche lì»
I quattro ragazzi si guardarono per qualche secondo negli occhi, rimanendo in silenzio. Roger sapeva esattamente cosa stesse passando loro per la testa: chi avrebbe dormito in camera di Amelia? Chi si sarebbe sacrificato? Certamente, pensavano, il loro amico non lo avrebbe fatto, ma anche prendere il suo posto sarebbe stato un problema per lui? Si sarebbe ingelosito? Anche la ragazza aveva perfettamente capito quale fosse il problema, ma non voleva assolutamente essere colei a dover scegliere.
Alla fine, Brian sbuffò sonoramente e recuperò la sua valigia. Si incamminò, lievemente infastidito, verso la porta della camera e si voltò a guardarli, come se fossero tre bambini capricciosi «Dormirò io con Amelia, va bene?»
Roger finalmente respirò, tranquillo. Non che non volesse dormire con lei – l’avevano fatto talmente tante volte che aveva perso il conto – ma non gli sembrava il caso farlo questa volta. La tensione tra loro si tagliava con il coltello: era forte, pesante, troppo difficile da sopportare e sapevano benissimo entrambi che non sarebbero riusciti a resistere in quella stanza per più di dieci minuti senza fulminarsi con occhiate furiose e senza scannarsi vivi a forza di urlarsi cose che volevano ferire, ma che non pensavano davvero.
«Io e Freddie possiamo prendere la camera degli ospiti» disse, dopo qualche secondo, John indicando la porta vicino a sé.
Nessuno ebbe da obiettare: Roger prese la valigia, che aveva appoggiato al muro ed entrò nell’ultima camera rimasta. Ricordava perfettamente la disposizione dei mobili e del letto, visto che prima di essere amico di Amelia era stato anche uno dei migliori amici di suo fratello. Avevano frequentato la scuola superiore insieme, ma poi due percorsi diversi e totalmente opposti all’Università li avevano decisamente divisi, spingendoli verso interessi, amicizie e stili di vita completamente differenti.
Sorrise divertito e immerso nei ricordi, quando notò il suo vecchio giradischi appoggiato sulla scrivania o i poster dei loro cantanti preferiti, appesi ancora alla parete, sopra al letto. Continuando a guardarsi attorno, appoggiò la valigia sul letto, lasciandola chiusa. Non c’era bisogno di disfarla visto che sarebbero rimasti solo per pochi giorni: giusto il tempo di festeggiare il suo ventiseiesimo compleanno e poi se ne sarebbero andati di nuovo.
Abbandonò lì la sua roba ed uscì dalla camera: si avviò direttamente verso quella di Amelia quando sentì tutti i ragazzi chiacchierare con lei nella sua stanza. Si appoggiò allo stipite della porta, in attesa che si accorgessero di lui e li ascoltò. La sua attenzione alle loro parole durò ben poco, visto che i suoi occhi si posarono sulla figura della ragazza: più passavano gli anni e più diventava bella. Aveva sempre quel viso e quell’aria da bambina, eppure era sicuro che qualcosa in lei fosse cambiato. Odiava pensare che fosse stato a lui la causa di ciò: aveva l’impressione che non fosse più così sorridente e spensierata come era stata in passato, ma non poteva accettare che fosse stata colpa sua. Si soffermò con lo sguardo sui suoi capelli, che le ricadevano ancora scuri e mossi sulla spalle, sulla sua schiena magra, e scese giù con gli occhi fino a quelle gambe pallide e magre, che aveva stretto con forza quando avevano fatto l’amore. Il ricordo di quel momento gli causò un giramento di testa, ma gli bastò socchiudere gli occhi per qualche secondo per riprendersi. Scacciò quell’immagine così lontana dalla sua testa e cercò di trovare qualcos’altro di meno importante su cui concentrare la sua attenzione.
«Rog, a te va bene, allora?» la voce di Brian lo riportò alla realtà. Si staccò dallo stipite e fece un passo verso di loro.
«Scusate, non stavo ascoltando» ammise, stringendosi nelle spalle. Amelia si era voltata verso di lui, quando Brian aveva parlato, ma era rimasta in silenzio, senza dar voce ai suoi pensieri.
«Stavamo pensando di andare al mare domani» gli spiegò John «E poi domani sera usciamo a festeggiare il tuo compleanno»
Roger alzò le spalle «Mh va bene» rispose senza entusiasmo. Nessuno lo notò, fortunatamente, ad eccezione di Amelia che per un momento pensò che il ragazzo non la volesse presente per i festeggiamenti.
Aspettò che gli altri ragazzi lasciassero la stanza e quando furono soli, si avvicinò per parlargli. La verità è che non sapeva cosa dirgli: era ancora arrabbiata con lui, ma non capiva perché non la volesse a festeggiare con sé. Roger la guardò per qualche secondo, senza dire niente. Non era ancora pronto a parlare, per cui fece dietro front e si incamminò verso la propria stanza – o verso il piano inferiore, l’importante era uscire da lì.
«Roger-» lo richiamò lei, prima che scomparisse dalla sua vista. Il ragazzo si bloccò di scatto e si voltò verso di lei «Se non vuoi che io venga domani, puoi dirmelo, non è un problema, lo sai-»
«No» la fermò immediatamente lui «No, voglio che tu ci sia»
Sul volto della ragazza, apparve un sorriso timido. Con le guance lievemente arrossate, alzò i suoi occhi color cioccolato e li puntò in quelli azzurri di Roger «Allora ci sarò»
 
Rispetto al giorno precedente, quella mattina si era alzato di buon umore: il sole splendeva nel cielo, non c’era nemmeno una nuova all’orizzonte ed era un magnifico giorno per andare al mare. Non si sentiva più triste o amareggiato come il giorno precedente: non sapeva se fosse dovuto al fatto che fosse il suo compleanno e avrebbe festeggiato tutto il giorno o al fatto di essere riuscito a scambiare qualche parola con Amelia, senza che lei lo trafiggesse con il suo sguardo furioso. Sapeva di non aver sistemato le cose con lei, ma il solo fatto che ci tenesse così tanto ad essere presente al suo compleanno gli aveva fatto capire quanto la loro amicizia fosse più importante. Forse era meglio così: sapeva di dover ancora affrontare la questione, ma con quelle poche parole che si erano scambiati, avevano sigillato una piccola tregua. Sperava solo che durasse il più a lungo possibile.
Si misero in viaggio in tarda mattinata, prima di pranzo, semplicemente perché nessuno di loro aveva sentito la sveglia e avevano finito per dormire fino a tardi. Il viaggio non fu particolarmente lungo, a differenza di quella giornata di mare che si concluse prima di cena, nonostante tutti ebbero l’impressione che fosse trascorsa in un attimo.
Quando si sedettero a tavola, quella sera, erano tutti stanchissimi, ma felici della giornata appena trascorsa. Persino Roger e Amelia, seduti rigorosamente vicini, avevano scherzato, riso, si erano divertiti senza pensare troppo. Avevano cercato di rimanere in superficie, di non mettersi mai in situazioni troppo imbarazzanti per loro, ma comunque avevano passato una bella giornata. Adesso sedevano tutti nel giardino di casa Taylor: sua madre aveva preparato i suoi piatti migliori ed infine, un’enorme torta campeggiava sul tavolo.
A Roger importava poco di tutto quel cibo: era ovviamente contento di festeggiare i suoi ventisei anni, di essere insieme alla sua famiglia e ai suoi amici, ma l’unica cosa che gli interessasse guardare e ascoltare era Amelia. Quella sera i suoi occhi marroni brillavano di felicità, erano pieni della luce del sole che aveva colpito i loro colpi per tutta la giornata. Il suo viso era leggermente abbronzato, costellato di tante piccole lentiggini che ricoprivano le sue guance come se fossero uno spruzzo di zucchero filato. I suoi capelli erano ancora umidi e più mossi del solito. Indossava un semplice vestito bianco a maniche corte e leggermente scollato, che le arrivava sopra le ginocchia. Camminava scalza sull’erba fresca e sembrava quasi eterea.
Roger non riusciva a staccarle gli occhi di dosso e giurò a sé stesso che, se non avesse smesso di tentarlo così tanto, non sarebbe riuscito ad arrivare a fine serata senza metterle le mani intorno ai fianchi, tirarla a sé e baciarla, come se fosse l’ultima cosa da fare prima di morire. Ma doveva trattenersi: per il bene suo e di Amelia, per mantenere la pace e la loro povera amicizia appesa ormai ad un filo sottilissimo, doveva resistere e rispettare i suoi spazi.
«Smettila di fissarla così» la voce di Brian lo riportò alla realtà. Erano seduti vicini, a fumarsi una sigaretta, dopo aver finito di cenare, mentre Amelia stava parlando con Clare, nella parte opposta del giardino. Ogni tanto, la ragazza si voltava e gli sorridere e lui non poteva far altro che ricambiare. «Sei imbarazzante»
Fece l’ennesimo tiro di sigaretta e si voltò verso l’amico con un sorriso sornione stampato sul volto «Lo so» rispose «Ma chi se ne frega»
«Che pensi di fare con lei, Rog?»
Lui gettò a terra la sigaretta ormai finita «Non lo so, mi sembra di non riuscire più a capirla. Oggi ci siamo divertiti, abbiamo scherzato e parlato, ma cosa succederà quando dovremo affrontare l’argomento? Perché succederà, Brian: prima o poi uno di noi due scoppierà e succederà il finimondo»
«Potresti parlarle prima che accada, non pensi?»
Il ragazzo non rispose, ma continuò a fissarla sperando che tutto potesse risolversi da solo e senza grandi spargimenti di sangue. Infine, si alzò e si rivolse all’amico con un sorriso quasi fastidioso e pieno di sé stampato sul volto: tipico di Roger «Allora vogliamo andare?»
 
Era stato Freddie ad insistere per poter essere colui a scegliere un pub dove festeggiare il compleanno del batterista. Pensava di avere ampia scelta, ma dopo aver fatto il giro del centro per una decina di volta, fu costretto ad accontentarsi di quei pochi che King’s Lynn metteva a disposizione. Entrarono in uno dei più grandi: quando ancora Roger e il fratello di Amelia frequentavano la scuola, quello era uno dei posti più gettonati dai ragazzi di quella città. Era rimasto esattamente lo stesso, nonostante si fosse ingrandito, fosse stato cambiato qualcosa nell’arredamento e ci fosse molta più gente rispetto a sette, otto anni prima.
Si addentrarono nel locale, facendosi spazio tra la gente e Roger sorrise quando vide Amelia arricciare il naso per l’incontenibile puzza di fumo e alcol che regnava al suo interno. Si guardarono in giro in cerca di un tavolo libero, ma erano tutti pieni di gente, così optarono per un paio di sgabelli liberi di fronte al bancone. Brian fece sedere Amelia e John e gli altri rimasero in piedi tra i due ragazzi seduti. Ordinarono delle birre e brindarono ai 26 anni del batterista.
Roger era in piedi incastrato tra lo sgabello della ragazza e quello di John e non potè fare a meno di guardarla da vicino per qualche secondo, con la coda dell’occhio: non voleva che si accorgesse di quanto fosse palese la sua voglia di starle vicino, ma non riusciva a trattenersi. Il semplice vestito bianco della cena era stato sostituito da una minigonna di jeans a vita alta e una camicetta azzurra annodata proprio sopra l’ombelico. Aveva notato come tutti i ragazzi del locale si fossero voltati a guardare questa misteriosa ragazza che era appena entrata, scortata da i quattro ragazzi più famosi d’Inghilterra. Si era ingelosito, doveva ammetterlo, perché Amelia, quella sera, era davvero una visione. Però aveva dovuto trattenersi di fronte a quegli sguardi, a quelle parole sussurrate: non aveva alcun diritto su di lei, questo lo sapeva benissimo, eppure gli sembrava che fosse sua, che nessun altro potesse amarla e farla sentire come aveva fatto lui.
«Rog, tutto bene?» la sua voce, sovrastata dalla musica, lo riportò al presente. La guardò senza capire, poi quando seguì il suo sguardo e notò con quale forza stesse stringendo la bottiglia di birra, capì. Rilassò le dita e le sue nocche ripresero colore «Tutto bene»
Amelia finse di credergli e si strinse nelle spalle: lo guardò rivolgere la parola a Brian, nonostante si sentisse ben poco, così ne approfittò per guardarsi intorno. Non era mai stata in quel pub: suo fratello, per qualche ragione a lei conosciuta, non aveva mai voluto che vi ci mettesse piede. Però non le sembrava così male: era spazioso, allegro, pieno di gente e di musica: chissà quale strana paranoia aveva convinto suo fratello a rifiutarsi di farla entrare lì dentro. Nonostante questo, si sentiva un po’ a disagio: non era mai uscita da sola con quattro ragazzi: li conosceva molto bene tutti quanti, ma aveva visto gli sguardi che le persone le avevano rivolto. Ma soprattutto aveva notato come tutte le ragazze del locale si fossero messe a parlottare tra loro una volta aver riconosciuto la band. Alcune di loro si erano messe ad urlare i loro nomi, altre continuavano a camminare alle loro spalle, facendo finta di spingerli, di imbattersi in loro: tutto pur di attirare la loro attenzione. Non le biasimava: probabilmente lo avrebbe fatto anche lei, ma ciò che le aveva dato più fastidio era l’ammontare di ragazze che c’avevano provato spudoratamente con Roger in sua presenza. Non sapevano chi fosse ed era consapevole di non aver alcun diritto su di lui, ma per un momento si era sentita messa da parte, come se Roger, anche solo per un secondo, si fosse dimenticato di lei.
Rimpiombò bruscamente nella realtà, distogliendo gli occhi dal resto del locale, quando sentì un paio di mani grandi appoggiarsi sui suoi fianchi. Si voltò di scatto, pensando che fosse Roger ma quando lo vide parlare tranquillamente con gli altri, fu costretta a voltarsi dalla parte opposta: un ragazzo dai capelli rossi e riccioluti la stava guardando dispiaciuto.
«Scusami!» esclamò alzando le mani e allontanandosi di un passo «Non si riesce a camminare qui dentro! Mi hanno spinto e per non cadere, mi son dovuto aggrappare a te!»
«Va bene, tranquillo» rispose Amelia, sorridendo timidamente.
Lui scosse la testa, facendole capire di non aver sentito nulla, così si avvicinò così tanto a lei da sentire il suo profumo «Scusa, cosa hai detto? Non ho capito!»
La ragazza avvampò a causa di quella vicinanza estranea, ma rispose comunque avvicinando le labbra all’orecchio del ragazzo «Ho detto di non preoccuparti!»
Lui annuì sorridendo e si sedette sullo sgabello vicino a lei «Come ti chiami?»
«Sono Amelia, piacere» rispose sorridendo.
Il ragazzo le si avvicinò di nuovo: trattenne il respiro quando sentì le sue labbra pericolosamente vicino al proprio orecchio. Indietreggiò leggermente, ma cercò di non fargli notare quella piccola punta di disagio.
«Ti va di ballare?» le chiese infine, prima di allontanarsi di nuovo e sorriderle, mentre le tendeva la mano verso la sua.
Amelia annuì sorridendo: non le andava molto di farlo, ma non voleva nemmeno essere maleducata. Pensò immediatamente di avvertire gli altri, ma quando si voltò nella loro direzione e si accorse che fossero tutti impegnati in una conversazione abbastanza animata, preferì rinunciare. Era sicura che entro una decina di minuti sarebbe tornata e che loro non si sarebbero nemmeno accorti della sua assenza.
Così si voltò di nuovo verso il ragazzo, prendendogli la mano, e si lasciò trascinare in mezza alla folla per ballare. Roger si girò di scatto, proprio mentre l’amica si allontanava da lui e corrugò la fronte, quando notò la mano della ragazza intrecciata a quella di un estraneo. Tutto il buonumore che aveva avuto fin a quel momento svanì in un istante nel nulla: ancora seduto sullo sgabello, si appoggiò con la schiena al bancone, con una mano occupata dalla birra e l’altra da una sigaretta e prese a fissare intensamente i due mentre ballavano. Sapeva perfettamente, sapeva fin troppo bene di essere patetico. Si stava comportando come uno stupido padre protettivo, eppure stavo morendo di gelosia. Non voleva che tenesse la mano ad altro, che ballasse con un altro, che abbracciasse un altro, che baciasse, che amasse un altro. Era egoista da parte sua pensare una cosa del genere, ma non riusciva a convincersi del contrario. Quando c’era di mezzo Amelia, niente aveva più senso, niente poteva essere pensato in maniera logica e razionale. Gli altri tre ragazzi seguirono Roger e all’improvviso si ritrovarono tutti e quattro a fissare qualcosa nel bel mezzo del pub.
«Cosa stiamo guardando esattamente?» domandò dopo qualche secondo Freddie, mentre scrutava quel piccolo spazio pieno di fumo, senza capire perché, all’improvviso, si fossero voltati tutti.
John e Brian alzarono le spalle, senza riuscire a rispondere. Rimasero in silenzio e buttarono giù un sorso di birra. Roger non aveva nemmeno ascoltato o visto cosa facessero i suoi amici, perché troppo concentrato a tenere gli occhi fissi su Amelia, ma a Freddie bastò seguire la traiettoria dei suoi occhi per capire esattamente quale fosse il problema.
«Ancora?!» sbottò, annoiato «Lascia perdere, Rog, non ne vale la pena»
Roger avrebbe risposto, avrebbe risposto molto volentieri all’ennesima provocazione inutile dell’amico, fatta solo ed esclusivamente di proposito per farlo arrabbiare, ma non ne ebbe il tempo. All’improvviso, senza nemmeno accorgersene, il ragazzo dai capelli rossi con cui stava ballando Amelia si era avvicinato a lui, con uno sguardo che mescolava disprezzo, minaccia e più di tutto, qualche birra di troppo. Quando aprì bocca per parlare, Roger represse un conato di vomito nel momento in cui l’alito del ragazzo colpì le sue narici: ma quanto cazzo ha bevuto?, pensò, sistemandosi sullo sgabello.
«Amico, qualche problema?» chiese Roger senza nemmeno guardarlo negli occhi.
«Hai tu qualche problema?» rispose l’altro, biascicando le parole. Possibile che Amelia, adesso ferma tra loro due, non si fosse accorta di quanto fosse arrogante e ubriaco il suo bel principe azzurro?
«Io?»
«Sì, tu» continuò l’altro, puntandogli un dito contro la giacca di jeans che Roger stava indossando. Si alzò immediatamente dallo sgabello, con due occhi scuri come la pece e un’espressione che avrebbe fatto venire i brividi a chiunque, ma quello non sembrava per niente spaventato «E’ da mezz’ora che fissi me e la mia ragazza»
Il biondo sollevò un sopracciglio divertito: non solo era ubriaco, ma pure pazzo «Semmai saranno dieci minuti e poi lei non è la tua ragazza» quelle parole, però, gli uscirono di bocca come un ringhio affannato. Dovette fare appello a tutte le sue forze per non gettarsi contro di lui e stenderlo a terra.
Amelia e gli altri stavano osservando la situazione in silenzio, senza proferire parola, ma sapevano tutti esattamente cosa stesse per succedere. Sapeva che Michael – così le aveva detto di chiamarsi, mentre ballavano – lo avrebbe provocato di nuovo e sapeva anche che Roger non sapeva resistere alle provocazioni. Sarebbe scattato immediatamente.
«Roger» lo ammonì lei, tirandogli un’occhiata supplichevole. Per sua fortuna, lui sembrò ascoltarla e si appoggiò di nuovo allo sgabello, appoggiando la bottiglia di birra ormai vuota, sul bancone di legno.
«Nemmeno la tua, a quanto vedo» riprese a denti stretti l’altro. Gli si avvicinò di più: adesso bastava un semplice sussurro perché potesse sentirlo «Stasera non sarai tu ad accompagnarla a casa, a baciarla, e non sarai tu a fartela sul sedile posteriore della macchina»
A quelle parole, non ci vide più: scattò in piedi con un balzo e si scaraventò contro di lui, colpendolo dritto in viso. L’altro, sebbene fosse brillo, non cadde, ma gli sorrise mentre il labbro inferiore gli sanguinava. Nonostante ciò, alzò anche lui la mano e la chiuse in un pugno serrato prima di colpire l’occhio di Roger.
Amelia fece un passo indietro, incapace di fare qualsiasi cosa: glielo aveva chiesto di non rispondere, di non farsi prendere dalla rabbia, di mantenere la calma, ma ancora una volta non ne era stato in grado. Voleva dispiacersi per lui, ma si accorse, dalle mani che le tremavano e da come stava stringendo dolorosamente la mascella, che era furiosa. Furiosa perché non la vedeva, non l’ascoltava, non le dava mai retta. Era arrabbiata perché pensava di averla superata, di poterci mettere una pietra sopra, perché pensava che fosse cresciuto e maturato. Invece, era sempre il solito cretino. Si asciugò velocemente una lacrima che le era scesa sulla guancia e pregò che qualcuno li fermasse.
Vide Roger prepararsi per colpirlo di nuovo, ma Brian lo bloccò e, per sfortuna oppure no, fu lui questa volta ad essere colpito dall’altro. Barcollò all’indietro, ma recuperò immediatamente le braccia dell’amico, obbligandolo a fermarsi.
Soltanto in quell’attimo, Roger capì il casino che aveva combinato: gli faceva male l’occhio e quando si toccò la tempia con la mano si accorse che stesse sanguinando. Ma non gli importava. Alzò gli occhi e la prima cosa che incontrò fu lo sguardo cupo di Amelia: capì immediatamente di averla persa. Quella era stata l’ultima prova, l’ultima possibilità che aveva avuto e l’aveva sprecata. Era consapevole che quel ragazzo, che adesso era stato allontanato dal locale, era ubriaco, era triste forse e aveva parlato senza pensare; sapeva che non avrebbe mai dovuto cedere alle sue parole, eppure l’aveva fatto. Per avere 26 anni, continuava ad essere stupidamente patetico.
«Amy-» tentò, ma lei si allontanò da lui facendo dietro front e uscendo a passo spedito dal locale.
 
- - - - -
 
Erano passate da poco le due e in casa regnava il silenzio. In realtà, anche in quella stanza nessuno si azzardava ad aprire bocca, eppure il silenzio, lì, sembrava così assordante da fare male. Roger era seduto sul tavolo, mentre Brian su una sedia. Gli altri erano andati tutti a dormire, dopo aver concluso in quel modo così tragico la serata.
«Tieni» Amelia sorrise a Brian, passandogli del ghiaccio affinchè lo mettesse sullo zigomo per limitare il danno. In realtà, c’era ben poco da fare visto che sotto l’occhio del ragazzo si era già formato un livido giallastro.
«Grazie» rispose lui, appoggiandoselo sulla pelle calda, mentre una smorfia di dolore si faceva strada sul suo viso.
Amelia si rivolse a Roger: aveva provato a rivolgerle la parola durante tutto il viaggio di ritorno, di scusarsi, di giustificarsi dicendole te lo giuro, non lo farò più, ma lei non l’aveva nemmeno ascoltato. Era stanca di ascoltare le sue promesse. Alla fine, lui si era arreso e lei rilassata.
Adesso, era seduto sul tavolo, in rigoroso silenzio, con un occhio gonfio e un piccolo taglio sulla tempia, il cui sangue era rimasto incrostato persino nei suoi capelli biondi, rendendoli grumosi e appiccicati. Senza nemmeno guardarlo in volto, inzuppò un piccolo pezzo di cotone nel disinfettante e glielo appoggiò delicatamente sulla ferita.
«Ahi» mormorò lui di getto, ma Amelia non replicò.
«Tienilo fermo» si limitò a dirgli. Recuperò un cerotto e ve lo applicò.
«Amy, possiamo parlarne?» le chiese alla fine, con un po’ di paura nella voce. Non voleva che andassero a dormire con quel peso addosso: quella giornata era andata fin troppo bene e, adesso, non poteva finire così. Perché quella calma, quella tregua che avevano faticosamente stabilito non poteva essere recuperata, ricostruita? Perché doveva essere così difficile?
«Sono stanca» rispose lei, senza nemmeno guardarlo in faccia. Anzi, rivolse le sue parole a Brian, sorridendogli tristemente «Me ne vado a letto. Buonanotte»
«Buonanotte» sussurrò l’amico, mentre la guardava scomparire nel vano delle scale. La sua attenzione fu catturata da Roger, che sbuffò sonoramente. Brian gli tirò un’occhiataccia «Quando pensi di risolverla? Come fai ad andare avanti così? Non ce la faccio nemmeno io»
«Ma vaffanculo» ringhiò Roger, scendendo di colpo dal tavolo. Fece per uscire dalla cucina, per dirigersi verso le scale, ma l’amico lo fermò bruscamente afferrandolo per un braccio.
«Basta, Roger!» sbottò «Finiscila per favore e risolvi questa situazione! Ti piace? Bene, allora diglielo. Non ti piace? Allora non dirglielo, ma fa qualcosa perché nessuno riesce più a reggere questa situazione»
Roger si calmò e abbassò lo sguardo «Non è facile»
«Lo so» rispose Brian, ma la sua voce adesso era più dolce. Era come se stesse consolando un bambino «Ma devi parlarle perché questa cosa è diventata più grande di voi, non riuscite a gestirla e vi sta facendo male»
«E’ peggio di quanto pensassi» gemette «Perché non potevo accontentarmi di una qualsiasi, una come quelle che mi sono fatto per mesi interi mentre eravamo in tour? Con loro, sembrava tutto più semplice»
«Eri felice con loro, però?»
Roger ci rifletté per un secondo: alcune di quelle ragazze lo avevano fatto sentire davvero bene, avevano fatto e detto qualsiasi cosa lui volesse senza lamentarsi, senza contraddirlo, eppure tutte loro – nessuna esclusa – mancavano comunque di qualcosa.
«No» rispose infine.
«E con Amy sei felice?» continuò Brian, sperando che capisse «Quando hai fatto l’amore con lei, eri felice?»
Il ragazzo chiuse per un momento gli occhi, cercando di reprimere quelle immagini: ricordare quel momento lo avrebbero solo fatto stare più male, ricordare il modo in cui si erano toccati, baciati, amati lo stava facendo impazzire. Ma, in tutto questo, come al solito, Brian aveva ragione.
Scosse la testa, divertito, al pensiero «Felice come non lo sono mai stato prima in vita mia»
L’amico sospirò, sorridendogli incoraggiante «Allora sai già quello che devi fare» rispose semplicemente, dandogli una leggera pacca sulla spalla «Buonanotte, Rog»
 
Amelia, possiamo parlare? Non possiamo andare avanti così, non possiamo continuare a distruggerci a vicenda, a vivere con il fiato sospeso la nostra vita, non possiamo-
«No, troppo drammatico» farfugliò, passandosi una mano tra i capelli biondi, scompigliandoli.
Amelia, senti: lo sai, sono innamorato di te. Vogliamo fare qualcosa, sì o no?
«Cazzo, no, troppo diretto» sbottò.
Amelia-
«Che stai facendo?» si voltò di colpo verso la porta della propria camera, notando la figura di Brian appoggiata allo stipite, con le braccia incrociate e uno sguardo piuttosto confuso.
«Niente» rispose, quasi imbarazzato «Stavo… Cercando delle parole per una canzone»
L’amico alzò un sopracciglio e si allontanò dalla porta. Sapeva chiaramente che stesse mentendo, ma voleva assecondarlo «E le hai trovate?»
«Ancora no»
Brian gli accennò un sorriso e sparì definitivamente dalla sua vista. Camminò lungo il piccolo corridoio, cercando di non far rumore e di non attirare l’attenzione e bussò alla porta della camera di John e Freddie. Entrò senza aspettare risposta e trovò i due ragazzi seduti per terra, impegnati a scribacchiare su uno spartito, provando qualche nuovo pezzo.
«Oh, finalmente!» esclamò Freddie, alzando la testa dal foglio, con fare teatrale «Sei venuto a darci una mano?»
Brian alzò le spalle con nonchalance e si appoggiò al letto «Mi sembra che ve la stiate cavando piuttosto bene anche da soli»
«Bhè, sì» sentenziò John «Se consideri che manca metà della band»
«Comunque» riprese Freddie, appoggiandosi alla parete che aveva alle spalle «Volevi qualcosa?»
Il ragazzo rimase qualche secondo in silenzio, chiedendosi se quella fosse la cosa migliore da fare. Non gli sembrava giusto mettersi fra Roger e Amelia, infilarsi in una situazione che non gli apparteneva e che non capiva del tutto, visto che non ne era pienamente coinvolto, ma era stanco di vedere il suo amico sempre triste, frustrato e irritato; era stanco di sentirlo mentre si lamentava costantemente, anche per le cose più stupide, solo perché ce l’aveva a morte con sé stesso. Ma, più di tutto, gli dispiaceva vedere due dei suoi più cari amici soffrire come cani solo perché erano troppo sopraffatti dai loro sentimenti da non riuscire nemmeno a scambiarsi una parola. Nonostante tutto, non credeva che chiedere aiuto a John e Freddie fosse la cosa giusta da fare: anche loro erano stanchi della situazione, ma non era qualcosa che li toccava più di tanto. Ne erano indifferenti e preferivano scherzarvici sopra, piuttosto che trovare una soluzione.
Alla fine, sospirò e si fece coraggio.
«Dobbiamo risolvere questa cosa tra Roger e Amelia»
«Brian» sbottò John, lievemente infastidito «Sono affari loro: sono abbastanza grandi da risolvere la situazione da soli»
«Non penso proprio» rispose l’altro «Ma li hai visti? Non riescono a stare nella stessa stanza per più di cinque minuti»
Freddie si alzò, senza dire niente e sistemò i fogli sparsi a terra sulla scrivania. Brian non capiva perché non avesse replicato, visto che aveva sempre la battuta pronta quando si trattava di prendere in giro Roger e Amelia. Lo guardò mentre sistemava tutto ciò che era sparpagliato a terra e mentre si avvicinava alla porta della stanza, pronto ad uscire. Proprio in quel momento, appoggiò una mano sulla maniglia e si voltò verso i due ragazzi.
«Venite con me» ordinò «La risolviamo subito, questa situazione»
Camminò fuori dalla camera velocemente, come un uragano in piena, e i due lo seguirono cercando di non perderlo di vista. Rimasero dietro di lui quando si fermò di fronte alla stanza di Amelia ed entrò senza nemmeno bussare.
La ragazza alzò di scatto la testa quando li vide, tutti e tre, fermi sulla soglia della porta: aggrottò la fronte e si sfilò gli occhiali, per capire cosa stesse succedendo. Prima ancora che avesse la possibilità di dire qualcosa, Freddie l’afferrò bruscamente per un braccio e, farfugliando un vieni con me irritato, la trascinò fuori, dirigendosi verso la camera in cui, ancora, Roger stava cercando di trovare le parole giuste.
Aprì la porta senza tante smancerie, la fece entrare sotto gli occhi atterriti e confusi del ragazzo e del resto della band e sfilò la chiave dalla toppa.
«Adesso voi rimarrete qui fino a che non avrete risolto le cose»
I due si guardarono senza parole e prima che potessero replicare, Freddie era già sparito, chiudendo la porta a chiave.
Amelia, improvvisamente conscia di quello che era appena successo, cominciò a ribollire di rabbia e si scaraventò contro la porta, battendovi i pugni più forte che poteva.
«Freddie!» urlò «Apri immediatamente!»
Non ricevette nessuna risposta: nonostante questo, non si arrese e continuò ad imprecare contro i suoi amici per una decina di minuti.
«Lascia stare» fu Roger a parlare, che fino a quel momento era rimasto in silenzio. Non che fosse contento di come Freddie si fosse comportato, di come Brian – ne era sicuro – si fosse fatto comprare in quel modo e lo avesse tradito, ma forse quella sarebbe davvero stata l’occasione per risolvere le cose. Bene o male, non lo sapeva, ma almeno avrebbero chiarito.
La ragazza al suono della sua voce, si voltò verso di lui e con uno sguardo furioso, si incamminò nella sua direzione e finì per colpirlo sul petto senza spostarlo di un centimetro.
«E’ solo colpa tua!» urlò «Se tu non ti fossi comportato come uno stronzo, adesso non saremmo qui!»
«Non mi sono comportato da stronzo» sentenziò, pentendosi di quelle parole. Aveva agito per il suo bene, ma l’aveva fatto male. Quindi sì, era stato un po’ stronzo «Tutto quello che ho fatto, l’ho fatto per te»
«Ah, per me?!» esclamò lei, fintamente sarcastica, con la voce che le tremava e le lacrime nascoste dietro gli occhi «Dirmi che mi ami mentre sei ubriaco, fare l’amore con me per poi darmi un dannato assegno come se fossi una puttana e prendere a botte un ragazzo ubriaco solo per una provocazione nei miei confronti… Ti sembra di aver fatto tutto questo per me, Roger? Sei serio?»
Il ragazzo chiuse gli occhi per evitare di arrabbiarsi più di quanto non fosse già: è vero, aveva agito male ma non poteva seriamente essere arrabbiata con lui, in quel modo.
«Tu, invece pensi di essere stata da meno?» urlò finalmente, dando sfogo alla sua rabbia «Mi hai detto per telefono di Daniel, sei stata con lui sapendo quello che provavo-»
«Adesso è colpa mia?!» esclamò, incredula. Non poteva credere alle sue orecchie, non poteva davvero credere che la stesse incolpando per aver voluto bene ad un’altra persona «Non puoi essere serio. Tu lo sai perché ho dato un’altra possibilità a Daniel? Vuoi saperlo? Perché lui c’era quando avevo bisogno di lui, lui era , Roger, non continuamente a centinaia di chilometri da me!»
Con uno scatto, il ragazzo si avvicinò pericolosamente a lei, mettendola – letteralmente – con le spalle al muro. Non poteva sopportare quelle parole: lui l’aveva sempre amata, protetta e niente gli avrebbe fatto cambiare idea. Sapeva che stava dicendo quelle cose solo per ferirlo, ma c’era riuscita così bene che non era più in grado di trattenere la sua rabbia e di distinguere tra verità e bugia. Le andò così tanto vicino, con uno sguardo così cupo, che per un momento lei ebbe paura.
«Non ti azzardare-» cominciò, con la voce tremante «Non puoi pensare una cosa del genere» sussurrò poi, ad un centimetro dalle sue labbra. Aveva talmente tanta voglia di baciarla, da non riuscire a resistere. Ma non poteva cedere: si allontanò da lei, lasciandola respirare. Cercò di calmarsi e di controllare il suo tono di voce. Trovare le parole non era facile, avere un groppo in gola e un macigno sopra al petto a fargli male non rendevano le cose più semplici, ma poteva provarci «Ti ho dato quei soldi perché volevo… Volevo che tu potessi avere tutte le possibilità del mondo: quando sei venuta a trovarci, un anno fa, mi hai detto di avere avuto difficoltà a pagare la retta universitaria dopo la morte di tuo padre, e quindi ho pensato di aiutarti»
A quelle parole, Amelia rimase in silenzio, ma si sentì profondamente stupida per non aver capito prima. Nonostante questo, non riusciva a sbollire la rabbia e la delusione che provava per lui.
«E poi» riprese, dopo qualche secondo «Quei soldi ti sarebbero serviti a vivere senza di me, a farti una vita senza di me, senza i miei casini, le mie troppe sigarette e la mia batteria; a costruirti un futuro con qualcuno che potesse davvero amarti e prendersi cura di te, ogni giorno»
Una lacrima scivolò silenziosa lungo la guancia di Amelia, segno che qualcosa in lei fosse cambiato. Eppure, quando lo guardava e ci pensava, non riusciva a togliersi di dosso quella sensazione di delusione, frustrazione che aveva nei suoi confronti. Quei soldi avrebbe potuto anche aiutarla, ma non era quello il modo di darglieli, non era stato quello il modo di dirle che fosse innamorato di lei. Roger – di questo ne era sicura – era la persona più buona al mondo, ma sbagliava di continuo, si metteva nei casini di continuo e lei era stanca di perdonargli sempre qualsiasi cosa.
Tirò su con il naso, sperando che lui non notasse i suoi occhi gonfi e lo guardò, senza lasciare trasparire alcune emozione.
«Bhè, almeno sappiamo che saranno ben spesi, no?» disse infine, con tono cattivo. Voleva ferirlo di proposito, come lui aveva fatto molte volte con lei «Magari troverò davvero qualcuno che tenga me sul serio»
Detto questo, girò sui tacchi senza nemmeno dargli il tempo di replicare: imprecò, cercando di convincere Brian ad aprire quella maledetta porta e scomparve dietro di essa, lasciando Roger senza parole, seduto sul bordo del letto, con le ginocchia strette al petto e gli occhi pieni di lacrime amare.
 
Si rigirò sotto le coperte per l’ennesima volta, senza riuscire a prendere sonno. Era buio pesto in quella stanza, il silenzio regnava sovrano: l’unica cosa udibile era il suo respiro e il movimento quasi ritmico e senza sosta delle sue gambe sotto le lenzuola leggere. Era andata a letto presto quella sera, troppo stremata dallo studio e dalla litigata che aveva avuto con Roger: nonostante questo però, erano ormai ore che non riusciva a chiudere occhio.
Tutto ciò a cui riusciva a pensare erano le parole di Roger, i suoi occhi colmi di lacrime e il dispiacere dipinto sul suo volto. Come aveva fatto a non capirlo prima? Come aveva fatto a non vedere che tutto quello che lui aveva sempre fatto era soltanto per lei e la sua felicità? Perché era stata così impulsiva? Era comunque stanca di perdonargli sempre qualsiasi cosa, come se fosse un angelo senza peccato, ma alla fine, poi, cosa aveva fatto di così male da scatenare quella sua rabbia incontenibile? Davvero non poteva meritarsi il suo perdono?
Quel pensiero la colpì come un pugno nello stomaco: si alzò di scatto, mettendosi seduta sul letto e sospirò: no, non poteva uscire da quella stanza, non poteva – per l’ennesima volta – fare qualcosa di troppo esagerato, non poteva finire ad urlare di nuovo spiegando le sue ragioni. Si convinse così tanto che alla fine, si sdraiò di nuovo e tirò le lenzuola fino sopra la sua testa, sospirando in maniera drammatica. Perché non riusciva a decidersi? Conosceva Roger da quasi vent’anni, era innamorata di lui da una decina e si stavano rincorrendo senza successo ormai da tre: era loro di metter fine a quella storia. Eppure, aveva paura: e se Roger fosse stato veramente furioso con lei dopo la loro discussione? Se fosse ripartito il giorno seguente senza nemmeno rivolgerle la parola? Ma soprattutto, se se ne fosse andato senza mai più farsi rivedere?
No, questo no.
«Al diavolo» borbottò, alzandosi in fretta e appoggiando i piedi sul pavimento di legno fresco. Si incamminò fuori dalla propria camera, dirigendosi verso quella in cui stava dormendo Roger. Nonostante la sua buona volontà, si bloccò quando si ritrovò davanti alla porta. Fece un respiro profondo, cercando di controllarsi e appoggiò la sua mano tremante sulla maniglia.
Finalmente aprì, ma non udì alcuna reazione proveniente dall’esterno. Anche quella stanza era altrettanto buia: si richiuse la porta alle spalle, cercando di fare il minimo rumore, e camminò lentamente allungando le mani in cerca del letto. Sperò di non cadere e svegliare tutta la casa, ma quando toccò finalmente il materasso, si rilassò.
Senza nemmeno accorgersene, si infilò sotto le lenzuola, avvicinandosi al ragazzo. Le dava le spalle e sembrava – almeno, era questa la sua impressione – che stesse dormendo. Facendosi coraggio, gli si avvicinò ulteriormente fino a che non fu così vicina da sentire il proprio petto aderire alla sua schiena. Rabbrividì a quel contatto e una scarica elettrica, che le sembrò mortale, partì dalla sua schiena per finire alla punta dei suoi piedi, facendole venire la pelle d’oca.
Istintivamente, circondò il fianco esposto di Roger con un braccio e si schiacciò contro di lui. Avrebbe voluto rimanere lì per sempre, oppure solo per qualche minuto: giusto il tempo per respirarlo, toccarlo, amarlo e poi se ne sarebbe andata per sempre. Lui non si sarebbe accorto di niente.
Mentre era impegnata a pensare a tutte queste cose, il corpo del ragazzo si mosse, facendola sobbalzare. Si era svegliato ed ormai era troppo tardi per scappare. Nessuno dei due cambiò posizione, ma entrambi aspettavano che l’altro parlasse.
Amelia sospirò e prese coraggio «Roger»
Aspettò qualche secondo, sperando che lui si voltasse o semplicemente le dicesse qualcosa, ma non accadde. Si mordicchiò il labbro inferiore, pensando che in quell’istante fosse davvero arrabbiato. Aveva così tanta paura di perderlo che qualsiasi cosa le venisse in mente, non era abbastanza per convincerlo a ascoltarla.
«Mi dispiace» sussurrò contro la sua spalla. Lo sentì irrigidirsi contro di lei, ma decise di non arrendersi «Non penso tutte quelle cose che ti ho detto… L’ho fatto solo per ferirti, perché- Mi dispiace»
Roger continuava a rimanere immobile e per un attimo, la ragazza pensò che si fosse addormentato o che quei pochissimi cenni di vita fossero stati soltanto il frutto della sua immaginazione. Non ebbe il tempo di pensare oltre, che il ragazzo finalmente si voltò verso di lei. Non poteva vederlo, per via del buio, ma poteva sentire le sue mani sui propri fianchi e il suo respiro caldo contro la propria bocca.
«Sei stata davvero brava, allora» sussurrò infine, con una punta di sarcasmo e di fastidio nella voce «Sei riuscita a ferirmi proprio come volevi»
Lei deglutì e sentì il cuore in gola: è vero, aveva sbagliato ma il pensiero di non riuscire a convincerlo del contrario la faceva star male «Mi avevi promesso che niente ci avrebbe rovinato»
Cercò di trattenere un singhiozzo: il ragazzo cercò le sue mani e la strinse a sé in un abbraccio «E continuo a pensarlo. Abbiamo sbagliato entrambi, ma non possiamo continuare così»
Amelia alzò leggermente la testa, sperando di vederlo, di notare la piccola luce che sempre splendeva nei suoi occhi, ma il buio sovrastava ogni cosa. Si avvicinò ulteriormente a lui e quando fu sicura di essere vicina al suo viso, vi appoggiò le labbra. Roger gemette sotto il tocco della sua bocca e rispose al bacio, con fin troppa enfasi, finendo per sovrastarla con tutto il suo corpo. Recuperando quel poco di lucidità che il bacio di Amelia gli aveva sottratto, si staccò dalla sua bocca, scendendo lungo il collo e lasciandole una scia di baci fino al colletto della maglia che stava indossando.
Poi si fermò, troppo spaventato dal pensiero di andare oltre e sbagliare di nuovo. Voleva prima essere sicuro che lei fosse lì, con lui, che sentisse quello che sentiva lui, che l’amasse come lui amava lei; che volesse il suo amore più di qualsiasi altra cosa. Ricadde a peso morto accanto a lei e rimase in silenzio.
Amelia, per fortuna, lo conosceva come le sue tasche e non aveva replicato all’interruzione di quel momento, che avrebbe sinceramente portato avanti tutta la notte.
«Mi perdoneresti se ti dicessi che ti amo?» sussurrò poi, in quel silenzio buio. Lo sentì ridacchiare e si rilassò: forse non era stata una così brutta idea.
«E tu?» replicò lui, accarezzandole i capelli «Mi perdoneresti per l’ennesima volta se ti dicessi che ti amo?»
«Mh, devo pensarci» rispose lei, reprimendo una risata.
«Stronza» sbottò lui.
Amelia si accoccolò contro il suo corpo e gli lasciò un bacio dolce sul collo «Ti perdonerei anche se non me lo dicessi»
Lo sentì rilassarsi e irrigidirsi allo stesso tempo: se non avesse smesso di baciarlo, sarebbe impazzito «Ma suona così bene: ti prego, dimmelo» la implorò quasi.
La ragazza sorrise soddisfatta e divertita: gli piaceva vederlo così sottomesso a lei, al suo tocco, alle sua labbra, e avrebbe voluto stuzzicarlo ancora, ma decise di fermarsi. Fermarsi ad amarlo, una volta per tutte.
«Ti amo, Roger Taylor» mormorò infine, mentre un sorriso si faceva spazio su entrambi i loro volti «Così tanto che mi scoppia il cuore»

 
 
 
 
 
 
 
  
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