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Autore: Parmandil    12/01/2019    1 recensioni
Tre storie. Tre viaggi. Tre ricerche che confluiscono nella battaglia più tragica della storia federale.
Quando l’ISS Enterprise dell’Impero Terrestre attacca la Federazione, già provata da anni di conflitto, solo una nave può tenerle testa: la sua gemella federale. Il Capitano Chase dovrà dar fondo alle sue abilità strategiche per sconfiggere il suo alter-ego dello Specchio, prima che s’impadronisca dell’arma più pericolosa e distrugga la nascente alleanza coi Romulani.
Nel frattempo, quattro improbabili eroi incontrano un naufrago del tempo e s’incaricano di recuperare la sua più grande invenzione, il Tox Uthat, salvandolo dai pirati temporali. Nelle mani giuste, l’Uthat sarà l’arma finale contro le Sfere; in quelle sbagliate condannerà definitivamente la Federazione.
Ma la più grande minaccia sarà svelata dai tre ufficiali dell’Enterprise che indagano sui nuovi alleati del Fronte Temporale. Dalle giungle soffocanti al fondo dell’oceano di Vorgon, fino agli abissi di un pianeta oscuro e morente, scopriranno il vero volto del nemico. Una specie antica, nemica della luce, pronta a riprendere il dominio della Galassia.
Stavolta le difese della Terra non basteranno. Stavolta le speranze andranno infrante. E tutto finirà tra le fiamme.
Genere: Avventura, Azione, Science-fiction | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Berlinghoff Rasmussen, Nuovo Personaggio, Romulani
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate
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-Capitolo 9: Sudore, lacrime e sangue

 

   La scrivania di Chase era ancora solcata dalla crepa che questi aveva provocato sbattendovi il pugno, al culmine dell’alterco con il dottor Korris. Il Capitano lo notò durante una pausa dal suo lavoro. Stava ancora leggendo il rapporto dei danni alle strutture federali, che si aggiornava di momento in momento, per stabilire dov’era più urgente inviare il personale dell’Enterprise. Gran parte della nave era già svuotata. Ma Chase voleva mantenere un equipaggio sufficiente a governarla, nel caso che il Fronte avesse lanciato un altro attacco.

   Con la distruzione delle principali strutture federali, il centro di comando provvisorio della Flotta era la Stazione Jupiter. Orbitante attorno a Giove, era la più grande stazione del sistema solare ancora intatta. Le autorità civili si erano invece radunate a Parigi, dove il palazzo presidenziale si era conservato. Milioni di sfollati erano stati trasferiti su Atlantide, l’isola artificiale recentemente inaugurata nell’Oceano Atlantico. Lo scoppio della guerra, tre anni prima, aveva rallentato il programma di popolamento: un fatto provvidenziale, ora che c’era bisogno di ampi territori in cui collocare milioni di persone. La Flotta avrebbe voluto trasferirvi anche i profughi da Luna, Marte e altre colonie del sistema, ma tutto era complicato dal fatto che quei mondi erano stati colpiti con armi biologiche. Il pericolo che il contagio si diffondesse anche sulla Terra era troppo grande. Così i luoghi colpiti erano stati messi in quarantena. Solo il personale medico autorizzato poteva spostarsi fra l’uno e l’altro, con molti controlli di sicurezza.

   Più leggeva gli aggiornamenti, più Chase si rendeva conto della portata storica degli eventi. C’erano un prima e un dopo, divisi dall’attacco, dopo il quale niente era più come prima. La Federazione era cambiata e avrebbe dovuto cambiare ancora radicalmente se voleva sopravvivere. Gli equilibri istituzionali che l’avevano sorretta per quattrocento anni erano saltati e il futuro era terra incognita.

   Eppure una parte della Federazione ignorava ancora l’accaduto. Le anomalie gravimetriche erano sempre lì, a ostacolare le comunicazioni subspaziali e gli spostamenti delle astronavi. Sarebbero occorse settimane, forse mesi perché la notizia raggiungesse ogni propaggine della Federazione e fosse udita dalle altre potenze galattiche. Chase si chiedeva come avrebbero reagito queste ultime. Per adesso i segnali che venivano dagli altri sistemi federali non erano incoraggianti.

   Già nelle prime ore dopo l’attacco, decine di pianeti federali avevano fatto domanda per diventare la nuova capitale. Nelle piazze, così come sull’Olonet, s’inneggiava alla fine della – presunta – Supremazia Umana. Persino gli Umani delle colonie extrasolari, intervistati, facevano discorsi sul “destino” e il “karma”, che secondo loro aveva punito la madrepatria per la sua arroganza. Era la retorica del Movimento per la Pace Galattica, sempre presente in clandestinità. Non c’era niente da fare, si disse Chase: c’era qualcosa di spregevole in certa gente. Invece di portare aiuto, stavano già pensando a quali vantaggi trarre dalla carneficina. Si poteva solo sperare che, come dopo la Terza Guerra Mondiale, fossero rimaste abbastanza brave persone per ricostruire dalle macerie.

   Lasciando questi cupi pensieri, Chase tornò a osservare la crepa sulla scrivania. Ogni volta che la vedeva si riprometteva di farla riparare e ogni volta se ne dimenticava, distratto da ben altre incombenze. Ma ora che intere città erano rase al suolo, Chase decise di lasciarla lì, come promemoria. L’avrebbe accomodata solo se il Fronte Temporale fosse stato sconfitto.

   «Capitano, comunicazione urgente per lei dalla Stazione Jupiter» avvertì la voce di Terry. «È ancora l’Ammiraglio Nelscott».

   «Passamelo qui» rispose Chase distrattamente. Quando l’Ammiraglio si materializzò in forma olografica, non alzò neanche lo sguardo dagli ordini di servizio che stava redigendo. Era la terza chiamata di Nelscott quel giorno. «Bentornato, signore. Com’è andato il briefing coi Romulani?» chiese.

   «Non c’è male» disse Nelscott, che sembrava invecchiato di dieci anni in pochi giorni. «Il Pretore sta tornando su Nuovo Romulus col suo Falco da Guerra e altri due di scorta, ma ha accettato di lasciare qui gli altri, per difenderci. Non so di preciso quanto resteranno, ma...».

   «Ogni minuto è prezioso. Grazie, Ammiraglio» disse Chase. «Ha degli ordini?».

   «Vi stiamo inviando i dettagli sulle operazioni di soccorso» rispose Nelscott. «Con te volevo solo chiarire le linee generali. Per il momento resta in orbita terrestre. C’è bisogno dell’Enterprise, se il nemico tornasse. Ma con le navette sì, i tuoi ufficiali possono raggiungere altre zone del sistema. Mi raccomando, però: rispettate le procedure di quarantena».

   «Potremmo aiutarvi con la Majestic» suggerì Chase.

   «Due rimorchiatori la stanno già portando alla Stazione Jupiter» spiegò l’Ammiraglio. «Arriverà in giornata».

   «Ma ne vale la pena? Voglio dire, è recuperabile o...».

   «I miei ingegneri dicono di sì. Certo, la sezione motori è distrutta, la gondola di sinistra non c’è più... ma il disco è ben conservato. Possiamo agganciarlo a un’altra classe Altair».

   «Questo ci porta al problema dei cantieri» disse Chase, alzandosi finalmente a fronteggiare l’Ammiraglio. «Immagino che alla Stazione Jupiter possano occuparsi della Majestic... ma ci vorrà un anno e non gli resterà spazio per altre navi. Dovremmo dare la priorità alle riparazioni più rapide».

   «Ci stiamo attrezzando» assicurò Nelscott. «Stiamo rimettendo in funzione i vecchi cantieri abbandonati. Navi trasporto ne porteranno altri prefabbricati, rapidi da montare. Inoltre... qualcosa si muove su Plutone» aggiunse, con lo sguardo complice delle grandi occasioni. «La Sezione 31 potrebbe metterci a disposizione i suoi cantieri segreti... che a quel punto non saranno più segreti, ma tant’è».

   «Sarebbe ottimo» convenne Chase. «Se non riesco a contattare Sheev, glielo dica lei: se apre Plutone, mi restituisce il favore che mi deve».

   «Devi avergli fatto un favore bello grosso!» si stupì Nelscott.

   «Enorme» confermò il Capitano, con sguardo tagliente. «Due miei ufficiali sono ancora in infermeria».

   «Uhm... a proposito dell’infermeria, preparati a ricevere altri feriti dalla Terra» disse l’Ammiraglio. «E a sbarcare altro personale medico, se puoi privartene».

   «Sono due cose difficili da conciliare» obiettò Chase. «Abbiamo già convertito le zone disabitate della nave a infermerie improvvisate, gli alloggi vuoti a sale di degenza. I dottori lavorano senza sosta da... dal giorno dell’attacco» spiegò. Aveva talmente perso la cognizione del tempo che non sapeva neanche quanti giorni fossero passati: due, tre? «Ma tornando ai cantieri, mi dica: che ricadute ci saranno sulla produzione, realisticamente? Terry ha ipotizzato una riduzione del 90%».

   «L’85%, secondo i miei ingegneri» corresse Nelscott. «Dovremo puntare soprattutto sui cantieri di Beta Antares e di Trailain IV. Li stavamo già ampliando... ma bisognerà difenderli a dovere» aggiunse. «Bene, torno al mio lavoro... se non hai altre domande».

   «Solo una» disse Chase. «Come mai gli scudi planetari erano già attivi, quand’è arrivato il nemico? Mi sembra di capire che nessuno si aspettasse l’attacco».

   «Come, non te l’ho detto?» si stupì l’Ammiraglio. «No, credo di no. Con tutto questo caos... beh, te lo dico ora. Siamo stati avvisati. Lei non aveva prove... ma mi ha contattato, e le ho creduto. Perché so che ti fidi di lei».

   «Aspetti, di chi sta parlando?» chiese il Capitano. Gli sembrava di essersi perso una parte del discorso e stava cercando di ritrovare il filo.

   «Della dottoressa Neelah» rivelò Nelscott. «Si è materializzata nell’ufficio del Presidente con un teletrasporto temporale, assieme a un Gorn che sostiene di essere il tuo cuoco. Erano bagnati fradici e gridavano che l’Apocalisse era vicina... molto teatrale, come entrata in scena. Le forze di sicurezza volevano arrestarli, ma quando mi hanno chiamato ho fatto pressione per il loro rilascio. Poi c’è stato l’attacco e... non so dove siano finiti, ma Parigi è stata risparmiata, quindi confido che stiano bene. Pensavo che ormai ti avessero contattato. Sarà colpa di questo caos se hanno problemi».

   «Chiamo subito Parigi» disse Chase, con il cuore che batteva forte e il viso accalorato. «Devono rintracciarli: è merito loro se la Terra non è stata spaccata in due. Chase, chiudo».

 

   Molte cose accaddero in quei giorni. Milioni di persone si cercavano disperatamente in tutto il sistema solare. Alcuni riuscivano a trovarsi, altri continuavano a cercare. Molti non sapevano nemmeno se i loro cari fossero vivi o morti.

   Su Plutone, nei laboratori di ricerca avanzata della Sezione 31, apparve una navetta temporale. Per la prima volta la Phoenix tornava nel luogo in cui era stata costruita. Era danneggiata: il nucleo temporale aveva riparazioni di fortuna e si era del tutto scaricato. Dall’ingresso posteriore uscì un Bynario sporco e inebetito. Fu identificato come 01010011, membro della squadra di progettazione della crono-navetta. Quando i colleghi riuscirono a cavargli qualcosa, scoprirono che aveva perso il suo gregario. Per un Bynario, era la perdita più intima e dolorosa che potesse esserci. Gli sventurati che la subivano non si riprendevano mai del tutto; molti rimanevano in stato catatonico.

   La situazione fu notificata all’Enterprise. Il Capitano Chase e l’Ingegnere Capo Grenk ne discussero a porte chiuse e convennero che il trauma subito da 0 era troppo profondo per permettergli di riprendere servizio. Così, quando arrivò la lettera di dimissioni, Chase le accettò. Il Bynario prese il primo trasporto in partenza per il suo pianeta natale. Lì c’erano medici e psicologi specializzati che potevano aiutarlo, per quanto possibile, a metabolizzare la perdita. La Guerra delle Anomalie continuava; ma per 0, la guerra era finita per sempre.

 

   Sull’Enterprise un’Aenar e un Gorn si materializzarono sulla pedana del teletrasporto. Trovarono il solo Chase ad accoglierli. Congedato il tecnico del teletrasporto, il Capitano aveva manovrato lui stesso i comandi.

   «Capitano...» mormorò Raav, scendendo per primo. Nel passare accanto a Chase scambiò una breve occhiata d’intesa. Uscì svelto dalla sala, lasciando soli gli altri due. Solo allora Neelah scese dalla pedana. Contrariamente al suo solito, non fece battute sarcastiche e non cercò di svicolare. Andò verso il Capitano adagio, con le antenne basse e lo sguardo incerto.

   «Ciao» farfugliò. «Non sapevo se ti avrei rivisto. Non sapevo nemmeno se tu avresti voluto rivedermi. Sono successe così tante cose... e avrei potuto gestirle meglio, se solo...». Le mancò la voce. Da tre giorni non sentiva altro che catastrofici bollettini di guerra. La Sicurezza di Flotta l’aveva interrogata sul suo viaggio nel tempo e l’avrebbe fatto ancora, passata la crisi.

   Chase non rispose, ma si avvicinò, fissandola con intensità. Le posò le mani sulle spalle, come per sincerarsi che fosse lì in carne e ossa. Poi, di scatto, l’attirò a sé e la baciò. Fu il bacio più lungo, più dolce, più commosso che si fossero mai scambiati. Quando si separarono, avevano entrambi le lacrime agli occhi.

   «Non importa cos’è successo» disse Chase, carezzandole la guancia. «Non sono mai stato così felice di vederti. Ti amo, Neelah, e non voglio perderti di nuovo».

   «Nemmeno io» disse l’Aenar in un soffio. «Qualunque cosa accada, voglio rimanere sull’Enterprise. Ma devo parlarti di quel che è successo nel passato. Ho incontrato uno scienziato, Kal Dano, e ho trovato la sua invenzione, il Tox Uthat. È lo strumento che ci farebbe vincere la guerra, ma è perduto...».

   Si avviarono nel corridoio, parlando fittamente per tutto il tragitto da lì al laboratorio di Neelah. Chase sbloccò l’ingresso, che era stato sigillato dopo la scomparsa della dottoressa, ed entrarono. Quel laboratorio era uno degli ambienti più isolati della nave; i sistemi anti-intrusione erano degni della Sezione 31. Lì, al riparo da orecchie indiscrete, Neelah rivelò la parte più importante della sua esperienza nel passato. Fornì dettagli che, per il momento, non aveva rivelato nemmeno alla Flotta. Quando terminò il resoconto, Chase era assorto.

   «Sei sicura che il Tox Uthat possa distruggere le Sfere?» chiese il Capitano.

   «Beh, ovviamente mi manca la prova pratica» ammise la scienziata. «Ma Kal Dano mi ha trasmesso le nozioni basilari e non credo di sbagliarmi. Il Tox Uthat altera la costante cosmologica. In un certo senso somiglia alle Sfere, ma può innescare un collasso gravimetrico che le annienterebbe».

   «Proprio l’arma che ci serve...» sospirò Chase. «Non è colpa tua, se è smarrito; ti sei trovata in una situazione disperata. Ma sei certa di non poter localizzare la base Vorgon?».

   «Mi spiace, non ho trovato nomi né coordinate» confermò l’Aenar, avvilita. «Ma non credo che fosse il loro mondo natale. Ajur e Boratus erano una piccola fazione: criminali, più che soldati o spie. Gli serviva una base nascosta».

   «Allora l’Uthat è perso per sempre» concluse il Capitano. «Anche se Grenk rimetterà in sesto la Phoenix, non posso autorizzare una missione di recupero. La linea temporale è già abbastanza ingarbugliata. Ulteriori interventi creerebbero paradossi imprevedibili... le cose di cui è fatta la Guerra Temporale».

   «Forse c’è un’altra strada» rivelò Neelah. «Quando ho avuto il Tox Uthat fra le mani, ho visto la sua traccia quantica. Dovrei parlarne con Terry e Grenk, ma... in linea teorica, credo si possa costruire un sensore temporale per captarlo».

   «Cioè potreste localizzarlo?!» si stupì Chase. «Non credevo fosse così facile. Com’è che i Vorgon non l’hanno rintracciato subito?».

   «Non avendolo mai visto da vicino, non conoscevano la traccia quantica» spiegò la dottoressa. «Ma c’è dell’altro. Per captarlo deve comunque emettere qualche segnale... un sensore temporale è pur sempre un sensore. Quindi ci serve che qualcun altro trovi l’Uthat e lo accenda».

   «Distruggendo una stella?».

   «Non è necessario che lo usi» precisò la scienziata. «È come accendere un banco polaronico dell’Enterprise. L’arma si attiva, riceve energia, emette un segnale rintracciabile... ma ancora non spara. Con l’Uthat è la stessa cosa».

   «Ci serve comunque che qualcuno, nel futuro, trovi l’Uthat e ci si balocchi» osservò Chase. «Mi sembra improbabile. Nessun altro sa dell’arma... tranne il misterioso informatore dei Vorgon» si corresse.

   «Lui sa quanto basta» disse Neelah. «Conosce le coordinate della base Vorgon. Se ha qualche servitore nel XXVII secolo, lo manderà in perlustrazione e scoprirà che è stata allagata. Probabilmente ne sarà contento. Anche se l’Uthat è sott’acqua, è ancora integro e incustodito. Quel Tizio del Futuro se ne impossesserà facilmente. Non conosciamo ancora la sua fazione, ma... sono tutte pericolose».

   «Mi hai detto che non può viaggiare nel tempo» ricordò Chase. «Riesce solo a trasmettere la sua voce e un’immagine confusa».

   «Una sagoma grigia, sì» confermò l’Aenar. «Ma non gli serve altro. Se è l’unico a conoscere l’ubicazione dell’Uthat, può recuperarlo nel suo presente. Non gli servono crono-navette o teletrasporti temporali... è il tempo stesso che gli fa da fattorino».

   «Mi stai dicendo che una fazione sconosciuta della Guerra Temporale potrebbe impadronirsi di una delle armi più potenti mai concepite?» chiese il Capitano, agghiacciato. Gli sembrava di sprofondare in un pantano: più si dibatteva, cercando una via d’uscita, più i paradossi temporali lo sommergevano. Come si poteva vincere una guerra del genere?

   «In pratica sì» ammise Neelah, sconfortata. «Ecco perché spero in quel sensore temporale. Ci permetterebbe di stanare il Tizio del Futuro prima che faccia qualcosa d’irreparabile».

   «Purtroppo non sappiamo ancora niente di lui» sospirò Chase. «Ma tu eri lì, l’hai visto da vicino. E so che hai occhio per i dettagli. Perciò dimmi... hai notato qualcosa che ci permetta d’identificare almeno la sua specie? Un particolare del volto o dell’abito. Oppure un gesto, una parola, un modo di dire. Pensaci!».

   «Era una sagoma grigia e sfocata, senza alcun dettaglio visibile» spiegò Neelah, lo sguardo vacuo mentre si sforzava di ricordare ogni particolare dell’incontro. «Penso che lo facesse apposta, per conservare l’anonimato. Però sembrava che avesse i capelli a caschetto. E il vestito, o l’uniforme, gli faceva le spalle quadrate. Aveva una postura militaresca, la voce secca di chi è abituato a dare ordini. Anche l’atteggiamento, il modo d’esprimersi, sembravano quelli di un militare».

   «Hai detto capelli a caschetto e uniforme con le spalle quadrate» ripeté lentamente Chase. «Vuoi dire che...?».

   «Non ne sono certa» si affrettò a dire Neelah. «Forse era una proiezione olografica e il suo vero aspetto è completamente diverso. Ma da quel che ho visto, sì... sospetto che fosse un Romulano».

   L’Umano e l’Aenar tacquero a lungo, rimuginando sulle implicazioni. L’aria stessa sembrava impregnata di dubbi e timori. Ogni scoperta sollevava nuovi interrogativi e la fine del tunnel era ancora lontana. Intanto la Federazione era allo sbando e sempre più specie si alleavano con i Costruttori di Sfere.

 

   «Diario dell’Ufficiale Medico Capo, data stellare... quella che è» biascicò il dottor Korris, faticando a tenere gli occhi aperti. «Mi sembra di vivere in un incubo. Da quattro giorni affrontiamo la peggiore crisi umanitaria che abbia mai visto. Ricordo che, quando salii sull’Enterprise, rimasi strabiliato dalla capienza delle infermerie, dalla modernità degli strumenti, dalla professionalità dello staff. Pensai che non c’era emergenza superiore alle nostre forze.

   Volete saperlo? Stiamo affrontando un’emergenza superiore alle nostre forze. Ho trasformato due terzi dell’Enterprise in un ospedale improvvisato e ancora non basta. I feriti continuano ad arrivare, molti in condizioni critiche, e non so più dove metterli. Sto usando come infermieri anche il personale generico della nave e Terry ha attivato tutte le proiezioni di cui è capace. Eppure non stiamo dietro al lavoro. Io e i miei colleghi risentiamo della mancanza di sonno. Temo che, da un momento all’altro, la fatica ci faccia commettere qualche errore coi pazienti. Devo fare in modo che tutti, me compreso, dormano qualche ora, a turni scaglionati.

   La situazione non migliorerà, almeno non a breve. Dopo la Terra e la Luna, ci sono Marte e i planetoidi minori di cui occuparci. Lì il nemico ha rilasciato armi biologiche, che stanno infettando la popolazione attraverso l’aria e l’acqua. Se non riusciamo a fermare subito il contagio, le vittime supereranno quelle del bombardamento iniziale. È una situazione disperata, non so proprio come ne usciremo. Fine registrazione».

   Lottando contro la stanchezza, Korris passò tra le file di lettini medici, controllando i segni vitali dei pazienti e somministrando ipospray a quanti ne avevano bisogno. Quando si fu accertato che tutti fossero stabili, andò verso un’altra fila di bio-letti, circondati da tendine azzurre per questione di privacy. Ne scostò una e vide che la paziente aveva ripreso i sensi.

   «Ben svegliata, Comandante» la salutò, controllando i suoi segni vitali.

   «Korris! È bello rivederla... ma dov’è Lantora? Sta bene?» chiese ansiosamente Ilia, alzandosi con il busto. Una fitta di dolore al ventre la costrinse a riadagiarsi.

   «Sta come lei... più o meno» rispose il dottore. «È vivo e si riprenderà. Eravate conciati male, quando vi hanno trasportati in infermeria. Ferite da taglio, emorragie interne, ossa incrinate. Per non parlare dei danni da decompressione e congelamento. Pochi secondi di ritardo e vi avremmo persi. Invece eccovi qui, in via di guarigione» sorrise Korris.

   «Devo vedere Lantora e fare rapporto al Capitano» disse Ilia, cercando ancora di alzarsi.

   «Alt! Lei è ancora mia paziente, lo dico io quando si può alzare» avvertì Korris. Le posò una mano sulla spalla, esortandola gentilmente ma con fermezza a rimanere sdraiata. «Il suo Simbionte ha subìto un grave trauma. Ora si sta riprendendo, ma ha bisogno di riposo assoluto per almeno una settimana».

   «Ma devo...».

   «Può compilare il suo rapporto da qui» disse Korris, consegnandole un d-pad. «Quanto a vedere il suo collega, eccolo». Scostò la tendina azzurra, rivelando il bio-letto adiacente. Lantora era lì, sveglio, e fissava il soffitto. Rispetto a quando Ilia l’aveva visto l’ultima volta, sembrava rinato: era pulito, con le ferite rimarginate e i capelli in ordine. Ma c’era qualcosa di diverso in lui: una malinconia nello sguardo, una solennità nella voce. Non era lo stesso Xindi con cui aveva lasciato l’Enterprise.

   «Salve, Comandante» disse Lantora, inclinando appena la testa verso Ilia. «Alla fine ce la siamo cavata. Chi l’avrebbe detto?».

   «Oh, Lantora!» esclamò Ilia, con voce rotta dall’emozione. Avevano trascorso ore appesi al muro, nella prigione Na’kuhl, in attesa della morte. Stavano fianco a fianco, sofferenti, ma non potevano raggiungersi. Adesso però Ilia tese il braccio verso lo Xindi e questi ricambiò, stringendole con forza la mano. Si tennero a lungo, scambiandosi lo sguardo profondo di chi è sopravvissuto all’inferno. «Come sta il tuo...» esitò la Trill, quando si separarono.

   «Il mio occhio? Benissimo» rispose Lantora, indicandosi quello sano. «È l’orbita vuota che mi mette un po’ a disagio» aggiunse, girando finalmente il viso. Una garza bianca gli copriva l’orbita e gran parte della metà sinistra del volto.

   «Ho rigenerato i tessuti circostanti, ma l’occhio non c’è più» disse Korris sommessamente. «Però non si disperi. La nostra tecnologia oculistica è molto sofisticata. Appena possibile le impianterò una protesi indistinguibile dall’originale. Per fortuna ho la sua cartella clinica con le scansioni dell’occhio perduto. E posso imitare quello superstite».

   «Fantastico, divento un Borg» mormorò Lantora. «Chiamatemi Zero di Zero».

   «Non deve sentirsi menomato... milioni di persone hanno occhi artificiali e conducono una vita normale» cercò d’incoraggiarlo Korris. «Pensi anche al Capitano Chase: lui ha un braccio meccanico, ma nessuno potrebbe immaginarlo... tranne quando picchia sulla scrivania».

   «Già, posso chiederle tutti i gadget» ridacchiò Lantora, ritrovando un po’ di buonumore. «Può darmi la vista a raggi X?».

   «Vedo con piacere che non ha perso l’umorismo» sorrise Korris. «Ora, se permettete, ho molti altri pazienti di cui occuparmi» aggiunse, facendo per andarsene.

   «Ehi, un momento!» fece Lantora. «Potrei mettermi una benda nera sull’occhio. Così l’Enterprise sembrerebbe una nave pirata. Se ci mettiamo degli orecchini d’oro e qualcuno tiene un animaletto sulla spalla...».

   «Non c’è dubbio che lei si sia ripreso, Tenente» commentò Korris.

   «Un’ultima cosa, dottore» lo trattenne Ilia. «Vorrei che ci mandasse Terry».

   «Ah, capisco» fece Korris, senza più sorridere. Sapeva che una proiezione dell’IA era partita con loro e non aveva fatto ritorno. «Le sue proiezioni sono un po’ dappertutto, ve ne mando una».

 

   Terry ascoltò con attenzione il resoconto di Ilia e Lantora, interrompendoli solo sporadicamente per chiarire alcuni dettagli. Quando seppe tutto, restò un attimo in silenzio, fissando il pavimento. «Quando ho proposto di mandare una mia proiezione con voi, sapevo che poteva finire così» disse senza enfasi. «Almeno averla in squadra vi ha aiutati a sopravvivere. Significa che ha fatto il suo dovere».

   «Terry, non riesco a immaginare cosa significhi tutto questo per te» disse Ilia, mortificata. «Sarà come aver perso una parte di te stessa...».

   «Sto bene, Comandante. La mia funzionalità non è compromessa» assicurò Terry.

   «Ma io non sto bene» insisté la Trill. «Vederti morire e poi ritrovarti qui...».

   «Posso fare qualcosa per aiutarla?» chiese l’IA, serena e impeccabile come sempre.

   «Ascolta... durante il nostro viaggio, l’altra Terry è cambiata» spiegò Ilia, con difficoltà. «Verso la fine sembrava meno un ologramma e più un’Organica. Ci considerava suoi amici. E aveva paura di morire. Io... vorrei rivederti, nei prossimi giorni, per cercare di spiegarti a fondo quel che è successo. Non so se tutto questo ha senso, ma... vorrei trasmetterti quel che l’altra Terry ha imparato, se ci riesco» aggiunse, un po’ impicciata.

   «Se lo ritiene utile, Comandante» concesse Terry. Stava per congedarsi, quando Lantora la richiamò.

   «Quel che vogliamo dirti è che sei più di un computer. Prova ad agire di conseguenza» suggerì lo Xindi. «Ascolta una canzone, invece di scaricarla direttamente nel tuo software. Leggi barzellette e cerca di afferrarne il senso. Indossa un abito vero, invece di farteli sempre olografici, e magari vesti casual quando non sei in servizio. Insomma, prova a vivere più come un’Organica. Potresti anche farti assegnare un alloggio».

   «Sono idee interessanti» ammise Terry. «Ci penserò».

 

   «Allora, vi sembra fattibile?» chiese il Capitano.

   «Signore, non saprei neanche da dove cominciare!» protestò Grenk, grattandosi i capelli radi in cima al testone.

   «Un sensore temporale è fattibile in teoria, ma in pratica non è mai stato realizzato» spiegò Terry. «Tra l’altro non sappiamo quasi nulla del Tox Uthat».

   «Lavorerò con voi, vi dirò tutto quello che so» promise Neelah. I quattro si erano incontrati nell’hangar 5, dove la Phoenix era appena rientrata. Ora che aveva aperto Plutone alla Flotta Stellare, la Sezione 31 aveva anche reso la crono-navetta ai proprietari.

   «Non possiamo cominciare subito» spiegò il Tellarita. «Con questo finimondo sono sommerso di lavoro. Anche le mie squadre tecniche sono tutte impegnate per rappezzare la Flotta. Certa gente si aspetta che vada su un’astronave e la ripari così» disse, schioccando le dita.

   «Prima o poi lasceremo il sistema solare e avrà più tempo» disse Chase.

   «Beh, dovrò prima rimettere in sesto la Phoenix» notò Grenk, guardando sconsolato la navetta temporale. «Sapere dov’è l’Uthat non ci servirà a nulla, se non potremo raggiungerlo. Povero me... quando lavoravo sulla Phoenix, i Bynari erano sempre lì ad aiutarmi. Ora dovrò far senza quei ragazzi».

   «L’aiuterò io» promise Terry.

   «Bene... e se necessario coinvolgeremo altro personale» disse il Capitano. «Voglio essere chiaro: appena superata l’emergenza, la Phoenix e il sensore temporale saranno le vostre priorità».

   «Rimetteremo a nuovo la Phoenix, ma sul sensore non posso farle promesse» avvertì l’Ingegnere Capo. «Non so nemmeno se sia realizzabile».

   «Ho visto un bel po’ di tecnologia temporale nel mio viaggio» disse Neelah. «Vi assicuro che si può fare. È solo questione di... tempo».

 

   «È permesso?» chiese T’Vala, un po’ esitante, scostando la tendina azzurra.

   Nel vederla, Lantora rimase come inebetito. Aveva ancora la garza sull’occhio, ma per il resto stava bene. «Certo... avvicinati» farfugliò. Accanto a lui, Ilia gli fece l’occhiolino e tirò la tendina che li separava, per dargli un po’ di privacy.

   T’Vala si accostò al lettino e osservò Lantora con attenzione, indugiando sull’occhio bendato. Un muscolo le si contrasse nella gola. «Sono lieta che sia di nuovo qui» disse, restando in “modalità vulcaniana”. «L’Enterprise non era la stessa, senza di lei. Abbiamo sentito tutti la sua mancanza».

   «Ve la siete cavata bene» obiettò Lantora. «Mi hanno detto com’è andata con l’Enterprise dello Specchio e i Romulani. Mi sono perso un sacco di cose, mentre giocavo all’esploratore».

   «La sua missione non è fallita» disse T’Vala con decisione. «Lei e il Comandante ci avete fornito moltissime informazioni sui nemici».

   «Le abbiamo pagate a caro prezzo» mormorò lo Xindi, pensando a Terry e al resto della squadra. «A proposito, ho sentito che sei stata tu a lanciare l’Enterprise verso la nave di Vosk, per salvarci. Grazie».

   «Dovere, Tenente. E poi, con chi mi sarei allenata ad Anbo-jytsu?» chiese T’Vala. «Spero che riprenderemo gli incontri quanto prima».

   «Mi sa che per un po’ avrò un angolo cieco» disse Lantora con un sorriso mesto, accennando all’occhio perduto.

   «Conosco tecniche di lotta vulcaniana che enfatizzano altri sensi, oltre alla vista» rispose prontamente T’Vala. «Potrei insegnargliele».

   «Grandioso!» sbuffò Lantora. «E a parte questo, tutto rimane come prima».

   «Non vedo cosa dovrebbe cambiare» rispose la mezza Vulcaniana, sempre formale. «Ora, se vuole scusarmi...» disse, ritraendosi.

   «Eh, no!» protestò lo Xindi, afferrandole il polso. «Non te la cavi così!». L’attirò a sé, mentre lui stesso si alzava dal lettino, e la baciò. Gli sembrò che le labbra morbide di T’Vala valessero più di tutte le medicine della Flotta Stellare. Prolungò quel momento il più possibile, sentendo T’Vala, inizialmente rigida, che si rilassava. Quando il bacio finì, rimasero abbracciati.

   «Scusa, ma non capirò mai il tuo lato vulcaniano» disse Lantora, il respiro un po’ affannoso. «Perciò mi rivolgo alla Betazoide che è in te. Ti amo, T’Vala. Ho pensato a te ogni giorno, quando eravamo lontani. Ti ho pensata quando sono stato ferito e quando stavo appeso al muro in quella nave. Il timore di non rivederti mi ha fatto quasi impazzire. Mi sono giurato che, se l’avessi scampata, ti avrei detto cosa provo. Non pretendo che tu ricambi, ma... almeno devi saperlo». In realtà, da come la stringeva ancora, era chiaro che sperava di essere corrisposto.

   «Lo sapevo» rispose T’Vala, fissandolo con gli occhi nerissimi, quasi tutti pupilla. «E non solo perché sono telepatica. Il tuo attaccamento era evidente. Ma volevo sentirtelo dire».

   «E...?» incalzò Lantora, sui carboni ardenti.

   «Ti amo anch’io, stupido Primate» si sciolse T’Vala, e stavolta fu lei a baciarlo. Quasi gli cadde addosso sul lettino. «E non preoccuparti per la mia metà vulcaniana. Quella mi serve per essere efficiente sul lavoro. Ma nella vita privata so essere molto Betazoide» assicurò.

   «Meno male!» fece Lantora, sollevato. Le carezzò i capelli a caschetto, scendendo lungo la guancia. «Dopo la tua esperienza nello Specchio, temevo che non volessi più saperne di me».

   «I nostri alter-ego si amavano, a modo loro» ricordò T’Vala. «Perché non dovrebbe funzionare anche fra noi? Ti chiedo solo di non tenere la benda sull’occhio. Somiglieresti troppo al Lantora dello Specchio» si raccomandò, sollevando l’indice.

   «Peccato, stavo pensando che darebbe un look piratesco alla plancia» fece Lantora, fintamente dispiaciuto. «Ma per te questo e altro. E poi, Korris mi ha già fatto un discorso sulle meraviglie degli occhi artificiali... deve averne un cassetto pieno, da qualche parte. Ehi, che dici se ne approfitto per potenziarmi la vista? Che so, potrei rilevare le mine occultate o le anomalie temporali. Oppure ci sono i buoni, vecchi raggi X» sogghignò.

   «Per vedere sotto le uniformi delle altre donne? Te lo scordi, bello. Se vuoi che questa cosa funzioni, devi accontentarti di vedere sotto la mia» avvertì T’Vala, ingelosita.

   «Volevo solo vedere la tua faccia» la rassicurò Lantora, ridendo. «Sì, penso proprio che funzionerà, fra noi» disse, tornando ad abbracciarla.

 

   «Un succo di pesce. Caldo, mi raccomando» disse Korris.

   «Eccolo qui» fece Raav, passandogli una bottiglietta dalla forma sbilenca e un bicchiere. Erano nel settore bar che faceva d’anticamera all’Antro del Drago e a quell’ora il dottore era l’unico cliente. Se ne stava appoggiato al bancone con l’aria di chi vuole prendersi una sbornia. Si versò il succo, grigio e denso come melassa, fino all’orlo, e lo svuotò tutto d’un sorso.

   «Sei incredibile» commentò Raav. «La cucina bajoriana è apprezzata in tutta la Galassia. Ma ogni volta che vieni qui, mi chiedi roba cardassiana».

   «Che ci posso fare? Ho il palato di mio padre» disse il mezzo Cardassiano, posando il bicchiere. Tornò a riempirlo, ma stavolta se lo rigirò tra le dita. «Allora hai deciso di rimanere» commentò. «Non me l’aspettavo. Tutti gli altri ristoratori della nave se la sono svignata da un pezzo».

   «Non credo di rischiare più qui, che su un qualunque pianeta federale» obiettò Raav. «Prima Khitomer, poi il sistema solare... nemmeno gli Scudi Planetari riescono a difenderci» disse cupo.

   «Beh, male non fanno» obiettò Korris. «Almeno la Terra è risparmiata dal contagio. Ma sugli altri pianeti, le armi virali continuano a fare vittime. Non ho mai visto virus come quelli... si adattano, mutano, resistono a ogni terapia» sospirò.

   «Ma voi dottori troverete una cura, no? Ci riuscite sempre» disse il Gorn, speranzoso.

   «La distruzione del Comando Medico è stata un brutto colpo» spiegò Korris. «Sai, stavano cercando di curare i danni delle anomalie. Certi pazienti accusano terribili perdite di memoria: ogni mattina si svegliano senza ricordare cos’è successo dal giorno in cui sono stati colpiti. Per fortuna abbiamo recuperato quasi tutte le ricerche dai database degli altri ospedali terrestri. Ma alcuni dottori sono morti e altri risultano ancora dispersi. Credo che l’Enterprise, al momento, abbia le infermerie migliori del sistema solare. Ecco perché mi sto facendo spedire tutto quel che sappiamo sulle nuove epidemie. Con ogni aggiornamento il bilancio si aggrava. È una lotta contro il tempo... tra un attimo torno in infermeria» disse, e si scolò il secondo bicchiere.

   «Ma l’Enterprise non rimarrà a lungo nel sistema solare» obiettò Raav. «Presto faranno sbarcare i pazienti e ci manderanno in missione da qualche parte».

   «Continuerò a cercare una cura col mio staff» promise Korris. «Non avrò pace finché non l’avrò trovata». Per un po’ rimasero in silenzio, rimuginando sulla situazione. Poi Korris pagò il succo di pesce e lasciò il bar, portandosi sottobraccio la bottiglia mezza piena.

 

   L’atmosfera turbinosa di Giove era uno spettacolo maestoso. Le bande colorate di gas scorrevano a centinaia di km orari, segno dell’energia furiosa racchiusa nelle profondità del gigante gassoso. Qua e là spiccavano piccole macchie, in realtà enormi tempeste anticicloniche. Quanto alla Grande Macchia Rossa, per secoli il segno più distintivo del pianeta gigante, si era dissolta da tempo.

   Dalla sala conferenze della Stazione Jupiter, dotata di finestra panoramica, la vista era straordinaria. Ma quel giorno nessuno se ne lasciava distrarre: la situazione era troppo grave. Le armate del Fronte Temporale imperversavano nei quadranti Alfa e Beta, con attacchi-lampo spesso diretti ai convogli in fuga dalle anomalie. Le nuove armi chimiche e biologiche introdotte da Vorgon e Na’kuhl si sommavano all’effetto disastroso delle anomalie nel mietere vittime. Ad ogni ora giungevano nuove, allarmanti notizie dai fronti di guerra. Era il momento di prendere decisioni cruciali per la sopravvivenza.

   La Stazione Jupiter ricordava l’Hangar Spaziale Terrestre nelle linee generali, ma le strutture fungiformi erano due, ciascuna dotata di tre “ombrelli” sovrapposti, ed erano più esili. Ristrutturata più volte, aveva subìto di recente un’implementazione di armi e scudi, che le aveva permesso di resistere alle poche navi Vorgon inviatele contro. Con la distruzione dell’Hangar Spaziale, era la più grande stazione rimasta nel sistema solare e uno dei luoghi più fortificati. In quel momento molte astronavi l’attorniavano, vigilando sulle autorità lì riunite. C’era l’Enterprise, che aveva sbarcato i feriti ed era pronta a tornare in missione. C’era la Martok, l’incrociatore del Cancelliere Kuntagh, massima autorità dell’Impero Klingon. E c’era la Jarok, l’ammiraglia del Pretore Neral, leader della Repubblica Romulana. Le tre navi colossali erano accompagnate da navi-scorta più piccole e caccia.

   La sala conferenze della stazione era gremita. Finiti i posti a sedere, il pubblico si era allineato in piedi lungo le pareti. I droni-olocamera ronzavano discretamente, puntati sul palco delle autorità. Qui erano radunati i leader politici e militari delle tre grandi potenze. Il Presidente federale e gli Ammiragli di Flotta sedevano fianco a fianco con il Cancelliere e il Pretore, anch’essi accompagnati dai loro entourage. Il pubblico era composto soprattutto da responsabili civili della Federazione e da giornalisti. C’erano anche dei semplici cittadini, scelti fra i volontari che avevano contribuito alle operazioni di soccorso. Sapevano che doveva essere fatto un annuncio importante, ma ne ignoravano la natura e parlottavano fra loro cercando d’indovinarlo.

   Quando le luci si abbassarono, il pubblico si zittì all’istante. Il Presidente Ektius salì sulla pedana dell’oratore, alzata di un ulteriore gradino rispetto al palco. «Benvenuti» esordì. «Saluto voi e quanti ci stanno seguendo dai mondi federali, klingon e romulani. Nell’ultimo mese, le nostre delegazioni hanno compiuto un intenso lavoro diplomatico, consapevoli che dobbiamo prendere decisioni drastiche per garantire la sopravvivenza. E ora siamo riuniti per un annuncio di portata storica. Ma voglio affidare il preambolo a colui che si è adoperato senza posa per questa triplice intesa e che ha salvato il sistema solare dall’annientamento. Sto parlando del Capitano Chase dell’USS Enterprise!» esclamò, stringendo calorosamente la mano al Capitano.

   Un mormorio perplesso attraversò il pubblico, abituato all’immagine non esaltante di Chase diffusa dai media. Ma le parole e i gesti del Presidente erano inequivocabili e quando Chase salì sul palco gli applausi scrosciarono. Il Capitano non se ne stupì. Per la maggior parte degli umanoidi, il confine fra canaglia ed eroe era molto sottile. Comunque la scelta di affidare a lui il preambolo l’aveva sorpreso. Ma riflettendoci aveva compreso la scelta. Agli abitanti della Federazione serviva un simbolo: qualcuno che combattesse di persona, uno per cui tifare. Chi meglio del Capitano dell’Enterprise, impegnato sul fronte ma estraneo agli schieramenti politici?

   «Salve, onorevoli autorità» esordì Chase. «E salve a tutti voi cittadini». Il cuore gli batté forte: quel che stava per dire sarebbe stato filmato e ritrasmesso su centinaia di pianeti. Ogni parola, ogni espressione, ogni minimo gesto sarebbe stato vagliato da eserciti di giornalisti, commentatori, psicologi, politologi. E forse dagli storici, se fosse rimasta una Storia da studiare. Ma a lui era stato detto solo quella mattina che avrebbe parlato e non aveva fatto in tempo a preparare un discorso come si deve.

   «Oggi siamo qui riuniti non per piangere i morti, ma per tenere in vita i superstiti» riprese il Capitano con più vigore, parlando praticamente a braccio. «Affrontiamo la più grande sfida mai lanciata alle nostre civiltà. Molti secoli fa John Adams, secondo Presidente degli Stati Uniti d’America, disse: “Devo studiare la politica e la guerra in modo che i miei figli abbiano la possibilità di studiare la matematica e la filosofia, la navigazione, il commercio e l’agricoltura, per poter fornire ai loro figli la possibilità di studiare la pittura, la poesia e la musica”. Oggi affrontiamo di nuovo questa sfida drammatica.

   Il nostro nemico più astuto e spietato, Vosk, sostiene che la Federazione sia un esperimento sociale fallito, che stava già crollando prima del suo attacco. Per quanto mi ripugni ammetterlo... c’è del vero. Perché questa non è la Federazione che i nostri avi hanno edificato. Quella Federazione era fondata sul dovere, la lealtà, il sacrificio... e su tanto duro e onesto lavoro. Oggi non è più così».

   Un mormorio costernato corse fra il pubblico, ma Chase lo ignorò. Il suo discorso era polemico, ma non poteva essere altrimenti: doveva risvegliare le coscienze, o tutti gli sforzi diplomatici sarebbero stati vani.

   «Abbiamo lasciato proliferare spinte autodistruttive in nome di un malinteso senso di tolleranza. Abbiamo rinunciato a far rispettare le nostre leggi. Ci siamo cullati nell’autocompiacimento per il presente e nel disprezzo per un passato che consideriamo barbaro e scorretto, ma che è alla base del nostro attuale benessere. In breve, abbiamo tagliato il ramo che ci sosteneva» disse con foga.

   «Un anno fa, l’autoproclamato Movimento per la Pace Galattica ha distrutto Khitomer, trucidando un miliardo di cittadini, nel tentativo di spingerci a una resa che significa lo sterminio. Un mese fa, i cadetti dell’Accademia hanno ignorato i ripetuti allarmi degli insegnanti e si sono lasciati massacrare. Se questo è lo stato della Federazione e della Flotta – le istituzioni a cui ho dedicato la vita – ebbene, Vosk ha ragione. Se odiamo a tal punto noi stessi, se dubitiamo così tanto della nostra causa, che vinca il Fronte! Anche i nostri fratelli Klingon e Romulani sanno che significa perdere l’unità. Troppe volte sono stati colpiti da insensate guerre civili». Chase respirò a fondo, avviandosi al clou del discorso.

   «Ma io rifiuto di arrendermi, di credere che siamo giunti all’epilogo. So che in questa Galassia martoriata battono ancora dei cuori onesti e volenterosi. A loro dico: muovetevi! Fate la differenza, o non la farà nessun altro. Ricostruite una casa o un’astronave. Curate i feriti e gli ammalati. Arruolatevi nella Flotta per respingere il nemico. Fate che le vostre parole e le vostre azioni abbiano un significato che trascende voi stessi.

   Non applauditemi! Ricordate questo: la libertà va conquistata col sudore, le lacrime e il sangue. È giunta l’ora di versarli. Ma è anche il momento di riorganizzarci, rinnovando gli assetti istituzionali. Pertanto i mondi federali, Klingon e Romulani confluiranno in una nuova Unione Galattica! Questa è l’ultima frontiera... esploriamola insieme!» concluse, riecheggiando un antico discorso del Capitano Archer, e restituì il palco al Presidente.

   Il pubblico esplose in grida d’entusiasmo misto a stupore, che rimbombarono in sala. Chi era seduto si alzava in piedi e tutti agitavano le mani o altre appendici. Il frastuono era assordante. Chase si domandò come doveva essere sui pianeti che stavano seguendo in diretta la conferenza. Probabilmente erano nel caos. Molti cittadini saranno stati sbigottiti, spaventati o anche infuriati dal suo annuncio. Questa riforma li avrebbe sconvolti più dell’attacco al sistema solare. Ma non era stato lui a deciderla: era la Storia che faceva il suo corso.

   Il Capitano tornò a sedersi, scambiando un’occhiata d’intesa con l’Ammiraglio Nelscott, e lasciò al Presidente l’arduo compito di calmare gli animi. La conferenza era appena all’inizio: i tre leader maggiori dovevano rivolgersi ai loro popoli per fornire dettagli sull’Unione Galattica. Chase li conosceva già, perciò ascoltò distrattamente.

   «L’Unione Galattica sarà un’istituzione più snella e agile, adatta alle nuove sfide» stava dicendo il Presidente. «Naturalmente ci vorranno anni, anzi decenni per definirne gli assetti istituzionali. Per adesso l’Unione comporterà un crescente coordinamento nella lotta contro il Fronte Temporale e nell’impegno per salvare i rifugiati...».

   Chase notò che l’Enterprise faceva capolino dalla finestra panoramica. Spiccava contro le nubi striate di Giove, incantevole come sempre e pronta a nuove missioni. In plancia, in sala macchine e negli altri ambienti l’equipaggio ascoltava in diretta la conferenza. Probabilmente lo stavano vedendo anche in quel momento, a margine delle inquadrature. Fissò una delle telecamere e sorrise, certo che i suoi ufficiali avrebbero capito.

   Ripensò a loro, uno dopo l’altro. Non a tutti i tremila che prestavano servizio sull’Enterprise, ovviamente. Pensava a quella cerchia ristretta che aveva lavorato più sodo, combattuto più duramente e si era conquistata la sua stima incrollabile. Ilia, che appena dimessa dall’infermeria era tornata subito in plancia, a dirigere le operazioni di soccorso. Terry, che ultimamente si comportava in modo più umano e si era scelta persino un alloggio personale. Lantora, al quale l’occhio artificiale non aveva tolto né la determinazione né il senso dell’umorismo. Grenk, che aveva riparato la Phoenix e già faceva progetti sul sensore temporale. Korris, che si era adoperato senza sosta per soccorrere i feriti e ora studiava contromisure contro le epidemie. T’Vala, abile nel guidare l’Enterprise fuori da ogni trappola, così come nel suggerire un modo logico per superare gli ostacoli. Neelah, forse la mente più brillante a bordo, nonché l’amore della sua vita. E Raav, che forniva a tutti gli altri i drink e i consigli grazie a cui riuscivano a fare così bene il loro lavoro. Quelle persone erano la sua famiglia. E sebbene per la neonata Unione Galattica fosse scoccata l’ora più buia, con loro a fianco Chase non temeva il futuro.

 

 

FINE

 

 

   
 
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