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Autore: MadAka    12/01/2019    2 recensioni
Tutto ha inizio con un disegno. Perché è proprio un disegno quello che si trova Ewan, cantante degli Shards, nella tasca dei pantaloni al termine di un concerto. Due figure ben rappresentate su carta, lui e una ragazza e nessun indizio per risalire all'autrice.
Contro ogni previsione, il pensiero di individuare chiunque gli abbia dedicato quel piccolo bozzetto si appropria di lui, portandolo a incontrare una persona che sentiva già di conoscere.
Genere: Romantico, Sentimentale, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
Capitoli:
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You feel the knife in your gut | But you’re so scared of what you want | You bite you lip, and hold your tongue | What are you hiding?”

Kodaline. Ready To Change

 

 

Casa di Amelia, Little St, Glasgow, 14 settembre

Ore 6:18 PM

 

Davanti all’appartamento in cui viveva, Amelia non riuscì a evitare il paragone con quello che si era lasciata a Londra e in cui era stata nell’ultimo mese. La luce, forse, era l’elemento che l’aveva portata a fare quel confronto mentale.

Glasgow le era mancata, molto, così come Pani e la casa che condivideva con lei, con le porte cigolanti e un paio di tapparelle difettose. Rientrare lì le aveva fatto piacere, sebbene avesse desiderato di tornarvi in uno stato d’animo ben diverso. Aveva sperato di rincasare a Glasgow felice, realizzata, con la mente piena di idee e il cuore carico di ricordi. Invece, ora, si sentiva svuotata di ogni emozione, un guscio su cui anche le cose più belle sarebbero potute scivolare; così vuota e così delusa da se stessa da non aver neanche versato una lacrima. 

Nel viaggio di quattro ore che separava Londra da Glasgow, l’Inghilterra dalla Scozia, la sua mente aveva cercato invano di trovare qualcosa su cui focalizzarsi che non fosse Ewan. Aveva tentato di ascoltare canzoni che non fossero quelle degli Shards, di fare il possibile per non aggiungere ferite a quelle che si era fatta e a quante già possedeva. Alla fine si era assopita ma, forse, risvegliarsi in viaggio su un treno e ricordare per quale ragione vi fosse aveva solo peggiorato la situazione.

Pani non era ancora rientrata. Amelia, che conosceva a menadito gli orari dell’amica, sapeva che sarebbe tornata a breve. Si trascinò la valigia fin nella sua camera e rimase sulla soglia per almeno un minuto a osservare quello che era da anni il suo rifugio sicuro, il posto in cui poteva disegnare senza interruzioni, in cui poteva dimenticarsi di ogni delusione; la sua tana piccola, accogliente e tappezzata di fotografie.

Cominciò a togliere i vestiti dal trolley, facendo piccoli mucchietti sul letto, in un silenzio disturbato solo dai rumori che provenivano dall’esterno. Aveva appena ultimato quel lavoro quando sentì la porta di casa aprirsi. Si affacciò sulla soglia di camera sua e incrociò lo sguardo di Pani, che sembrò impiegare un po’ per riconoscerla.

«Ami» esclamò. «Sei tornata?» La domanda aveva un suono strano, come se non si spiegasse la presenza dell’amica lì; dopotutto Pani era stata informata della questione della proroga che avrebbe dovuto tenere Amelia a Londra fino alla metà di ottobre.

Dopo quel primo momento di confusione, però, l’amica si avvicinò e strinse la coinquilina in uno dei suoi abbracci più affettuosi. «Mi sei mancata» disse, la testa affondata nei suoi capelli. L’altra le rispose che quel sentimento era reciproco e per la prima volta da ore si lasciò andare a un sorriso, stretta in quell’abbraccio.

Quando Pani si separò da lei, le posò entrambe le mani sulle spalle e la guardò negli occhi. «Ma che è successo? Non dovevi rimanere fino a ottobre?»

Amelia sapeva che avrebbe potuto dirle tutto e ricevere in cambio l’aiuto di cui aveva bisogno, ma non ne fu in grado. Si strinse nelle spalle, cercando una mezza verità da usare in sostituzione, qualcosa da dire affinché non fosse così palese il modo in cui era fuggita. «Beh, visto che alla fine mi mancano davvero poche grafiche non era necessario che rimanessi ancora là. Sai com’è, il mio alloggio era comunque una spesa che hanno preferito tagliare.» Fece del suo meglio per sembrare convincente e forse ci riuscì davvero, perché l’amica assunse un’aria dispiaciuta.

«Cavolo» disse questa, «ci sarai rimasta male.»

Amelia non avrebbe usato quelle esatte parole, ma in fin dei conti non aveva neanche rivelato la realtà dei fatti. Aveva mentito prima agli Shards e ora alla sua migliore amica. Fuggire dalla realtà non era mai una soluzione e sapeva le si sarebbe ritorto tutto contro. Tuttavia in quel momento non riusciva a fare altrimenti.

Alla fine cercò di non apparire triste quanto si sentiva. Si strinse appena nelle spalle, abbozzando un sorriso. «Beh, il mio nome sulle grafiche c’è comunque. Mi dispiace aver lasciato gli Shards, d’accordo, ma non posso dire di essere triste per quello che è successo.»

Pani arricciò le labbra. «Sì, direi che hai perfettamente ragione.» Dopodiché parve esaltarsi molto più di prima. «Devi raccontarmi tutto, anche le cose all’apparenza più insignificanti» esclamò, calcando con cura la parola “tutto”.

«Ti dispiace se prima mi faccio una doccia? Ne ho un bisogno folle.» Amelia pensò che quello potesse essere un buon modo per guadagnare un po’ di tempo. Aveva bisogno di riordinare le idee e pensare con cura a cosa – e quanto – poter dire. 

«Oh, sì, giusto, scusa» rispose in fretta Pani. «Hai ragione, sarai stanca. Ne parliamo a cena, magari. Potremmo uscire, che ne dici?»

La coinquilina si disse d’accordo con la proposta. Forse uscire le avrebbe fatto bene. Si avviò per andare nella sua stanza, ma la voce dell’amica la fermò: «Solo una curiosità.» Amelia sapeva già dove sarebbe andata a parare. Si preparò a ricevere la fatidica domanda, l’equivalente dell’ennesima pugnalata.

«Che mi dici di Ewan?»

La ragazza avrebbe voluto dire che era una stupida – e che quello era solo un eufemismo – che aveva rovinato ogni possibilità avesse mai avuto con Ewan, che lei non era all’altezza di quel ragazzo e certo non lo sarebbe stata ora, dopo il modo in cui era scappata. Non una di queste parole uscì dalle sue labbra. Si strinse nelle spalle, facendo una fugace smorfia. «Non...non ha funzionato.»

L’amica si lasciò sfuggire un lungo sospiro. «Accidenti» borbottò. «E pensare che avevo già iniziato a pensare a come chiamare la vostra coppia.» Sporse il labbro inferiore, dispiaciuta e Amelia rise a quel gesto. Insieme a Pani avrebbe potuto riprendere controllo della sua vita, lo sentiva. Gli amici erano sempre stati la cosa migliore della sua esistenza e, per sua fortuna, viveva sotto lo stesso tetto di qualcuna in grado di farle trovare una ragione per sorridere anche quando ogni cosa sembrava andare in frantumi.

«Dai, non fare così» cercò di rassicurarla Amelia. «Appena esco dalla doccia ti racconto tutto.»

Si avviò in camera per prendere dei vestiti puliti e lì si chiese cosa avrebbe potuto raccontare alla coinquilina riguardo a Ewan. “Tutto” voleva dire ogni cosa, ovvero il fatto che se fosse rimasta a Londra si sarebbe certo innamorata di quel ragazzo, di cui apprezzava i pregi e perfino i difetti – come il suo perenne essere in ritardo, eccetto che ai concerti. Non poteva dire tutto; nemmeno alla sua migliore amica, non finché la consapevolezza delle sue azioni continuava a scavarle dentro gallerie profonde, quasi toccando punti che Amelia a malapena sapeva potessero provare dolore e rimorso.

 

 

 

 

St. Vincent St, Glasgow, 10 ottobre

Ore 3:35 PM

 

In tre settimane la vita era capace di prendere una svolta drastica, imboccare un sentiero nuovo con una sterzata. Al contempo, però, era anche capace di resettarsi completamente, in quel lasso di tempo breve per alcuni ed eterno per altri.

In quel frangente della propria esistenza, Amelia apparteneva alla serie di persone per cui tre settimane equivalevano a un’eternità.  Aveva ultimato le grafiche per gli Shards, lavorando come non aveva fatto a Londra, dedicando ogni minuto della sue giornate a quei disegni. Si era tenuta in costante contatto con Jacob – soddisfattissimo di quei lavori – e con Chris e Chase, che le avevano inviato spesso messaggi per chiederle come stava. Ma non con Ewan. Il cantante non l’aveva più cercata dopo che se n’era andata da Londra e lei non sapeva come dargli torto di ciò. D’altro canto nemmeno Amelia aveva tentato qualcosa per riallacciare i rapporti. Proprio come aveva fatto con le e-mail, di cui ne aveva iniziate a decine senza mai inviargliene una, aveva più e più volte aperto la chat WhatsApp con il nome del ragazzo scritto sopra, pensando a qualcosa da dirgli, a un modo per scusarsi, ma ogni volta finiva con il rileggere alcuni passaggi delle conversazioni, sentire un nodo formarsi in gola e chiudere tutto con l’ennesimo nulla di fatto. 

Ewan le mancava tantissimo. Era in assoluto la cosa che più le mancava di Londra. Non ascoltava più gli Shards ormai; anche in quel momento dagli auricolari che teneva inforcati uscivano note e parole di Ready To Change dei Kodaline. Forse un giorno sarebbe riuscita a tornare ad ascoltare le canzoni di quello che rimaneva, senza alcun dubbio, il suo gruppo musicale preferito, ma trovava che in quel momento fosse ancora troppo presto. 

Era in una caffetteria-libreria, la sua preferita in tutta Glasgow, chiamata Molière. Stava sorseggiando un infuso alla mente e leggendo il libro che aveva appena acquistato. Con sé aveva anche il portatile e le sarebbe piaciuto lavorare un po’ a qualche grafica, ma non aveva voglia di estrarre il pc. Inutile dire che non aveva alcuna commissione, al momento. In fin dei conti le nuove grafiche degli Shards non erano ancora state rese pubbliche, perciò era impossibile che qualcuno al di fuori della band, del manager e di Jacob avesse visto uno dei suoi lavori. Tuttavia sapeva anche che quel lavoro non poteva darle la certezza di ottenere le attenzioni che lei tanto sperava, consentendole finalmente di entrare a pieno regime nel mondo della grafica. Stava anche pensando di cercarsi un lavoro nuovo, almeno per tornare ad avere quell’entrata mensile assicurata con cui coprire le spese della casa e concedersi un concerto ogni tanto. 

Alzò gli occhi dal libro, fissandoli in un punto qualsiasi della piccola libreria. Continuava a rimuginare su Londra, sulla sua carriera da grafica, su Ewan. Così non si aiutava. Come poteva riprendere il controllo di sé e della sua vita se costantemente andava a rivangare su quanto gliel’aveva stravolta? Perché, in fin dei conti, questo aveva fatto Ewan: le aveva stravolto quell’equilibrio che aveva trovato, sebbene fosse stato fatto di giornate pressoché identiche, di convinzione sulla mediocrità dei propri lavori e di consapevolezza che, forse, qualcuno di cui valesse la pena innamorarsi non lo avrebbe mai trovato. Certo, quello non si poteva definire il miglior equilibrio del mondo, ma ridimensionare le proprie aspettative le aveva consentito di superare indenne anni di giornate all'incirca uguali, in cui bastava una birra in compagnia e un selfie di gruppo per migliorare le cose.

Poi era arrivato Ewan e, come un uragano, aveva cambiato le cose in Amelia con una velocità sorprendente. Le aveva fatto capire che c’era sempre qualcosa, in un giorno, che valeva la pena di essere approfondito e reso speciale, che le sue doti di grafica potevano essere apprezzate, che c’era del talento in lei e, soprattutto, che qualcuno di cui valesse ancora la pena di innamorarsi esisteva, sebbene meritasse una persona in grado di ricambiare senza alcuna esitazione quel sentimento, cosa che a lei risultava complicata, se non impossibile. 

Chiuse il libro, capendo che non sarebbe riuscita a proseguire oltre e si concentrò sul suo infuso alla menta, ormai freddo. Fuori dalle vetrate poteva vedere la pioggia scrosciare sulla città, rendono il pomeriggio buio. Spense anche la musica, così da udire il suono dell’acqua, qualcosa che le aveva portato serenità fin da quando era piccola. Cercò di non pensare a niente, ma le risultò impossibile come ogni altra volta in cui si cimentava invano in quell’assurdo tentativo. Non esisteva modo per fermare una mente pensante, alcuno, e lo sapeva.

Per sua fortuna il cellulare interruppe il flusso del suo cervello. Puntò gli occhi sullo schermo illuminato, scoprendosi a desiderare di vedere un solo nome in sovrimpressione. Tuttavia, quel nome non era comparso. Amelia afferrò il telefono. Lo portò all’orecchio, inumidendosi le labbra prima di rispondere.

«Ciao Amelia, sono Philip.»

Il “buon Phil” salutò la ragazza con tono raggiante. Era il fotografo di fiducia di Amelia, l’uomo che le aveva ormai sviluppato tutti i cinquantaquattro rullini che avevano iniziato ad affollare la stanza della giovane da quando aveva acquistato la sua piccola Diana anni prima. Fra lei e il fotografo si era instaurato un buon rapporto di amicizia, soprattutto perché ormai più nessuno, a detta di Phil, si presentava con un rullino a colori da far stampare – quelli che loro due chiamavano in simpatia i “C-41”. Per lui, fotografo nato negli anni della pellicola, il ritorno al mondo analogico di Amelia era stato qualcosa di molto positivo, quasi sentisse di non aver trascorso gli anni migliori della sua vita a lavorare su qualcosa che sarebbe presto finito nel dimenticatoio.

Il contagioso ottimismo di Philip fu in grado di far sorridere la ragazza anche nello stato in cui si trovava. «Ciao Phil» gli disse. Avrebbe voluto aggiungere che ormai il suo numero lo aveva salvato in rubrica da parecchio, che non serviva si presentasse ogni volta, ma preferì non farlo. Si immaginò l’uomo nel suo studio di fotografia, alto più di una montagna, la pelata lucida, due baffoni a manubrio degni di una competizione e una delle innumerevoli polo della nazionale di rugby scozzese indosso.

«Spero di non disturbarti» proseguì lui, «ma ti ho chiamata perché le tue foto sono pronte da giorni e non sei ancora passata a ritirarle. Pensavo te ne fossi dimenticata e ho preferito avvisarti.»

Amelia si passò una mano sulla fronte, buttando indietro la testa. Philip aveva ragione, se ne era dimenticata eccome e, forse, non aveva neanche tanta voglia di andarle a riprendere. Aveva portato due rullini a far sviluppare il giorno dopo il suo rientro a Glasgow, settimane fa, ormai. Era entrata nello studio del fotografo quasi in uno stato di trance, salutando il proprietario – ormai un amico – e lasciandogli i rullini sul bancone, contrassegnati dal numero 55 e 56. “Per quando hai tempo”, gli aveva detto prima di uscire. Chiaramente Phil aveva stampato le foto con la stessa tempistica di sempre, ovvero in un paio di giorni – alle volte Amelia sospettava che lui le “mettesse avanti” i lavori perché si trattava di fotografie su pellicola.

«Come stanno i miei C-41?» chiese lei, cercando di mascherare la situazione.

«Oh, benone. Ci sono molti scatti belli. Sei stata a Londra, eh?» Scoppiò nella sua potente risata, a cui di solito Amelia andava dietro, ma non in quel momento. Aveva nominato Londra, la capitale, il contenuto non unico di quei rullini. Forse avrebbe fatto meglio a lasciare quelle foto dov’erano, a non recuperarle; tuttavia non poteva fare una cosa del genere a Phil, era suo amico e un fotografo di tutto rispetto, che meritava di essere retribuito per il suo lavoro. Con che faccia gli avrebbe portato il rullino 57 senza prima prendere i due che ora erano là ad aspettarla?

Prese una boccata d’aria e chiuse gli occhi. «Passo a prenderli ora, che ne dici?»

«Va benissimo, tanto sai dove trovarmi.»

Una nuova risata e, questa volta, rise anche la ragazza. «Allora a fra poco. E grazie, me ne ero dimenticata, infatti.»

Si salutarono e Amelia chiuse la chiamata. Mise il libro nella borsa, tirò su fino al limite la cerniera della felpa e si avviò fuori dalla piccola libreria-caffetteria, l’ombrello tenuto di traverso per proteggerla dalla pioggia che scendeva di taglio.

Il negozio di Philip era sovrastato da una storica insegna in ferro battuto – o, almeno, Amelia era convinta fosse in ferro battuto – da cui era sempre stata affascinata. La pioggia era calata di molto quando entrò nello studio fotografico. Il proprietario era impegnato con un cliente, ma salutò la giovane con un cenno della mano appena la vide varcare la soglia. Mentre aspettava che si liberasse, Amelia si guardò un po’ intorno, sulla moltitudine di fotografie che decoravano il locale a testimonianza delle capacità del fotografo. Ormai conosceva a menadito quelle immagini, ma non poté fare a meno di guardarle anche quel giorno per quanto erano belle.

Quando il cliente se ne fu andato, Phil si voltò per afferrare qualcosa nello scaffale che aveva alle sue spalle. Fece scorrere sul piano, fino alla ragazza, due piccole buste in carta e altrettanti cilindretti in plastica opaca, contenenti i negativi sviluppati.

«Ti ho già detto che mi piacciono molto?» le chiese lui, sorridente.

«Hai accennato alla cosa per telefono» rispose Amelia. Aveva gli occhi posati sulle buste in carta con i positivi stampati. Avrebbe voluto vedere quelle foto, ma sapeva che cosa vi avrebbe trovato. Il rullino 55 conteneva per più di metà foto di Londra, molte scattate dagli stessi Shards. E il 56 era stato iniziato e finito nella capitale, inutile anche solo sospettare avesse un contenuto differente dal precedente.

«Quanto sei stata là?»

Lei sollevò gli occhi sul fotografo al suono di quella domanda. Per un primo istante non capì di cosa stesse parlando, dopodiché collegò fra loro le cose. «Un mese.»

«Ah, una bella vacanza» scherzò l’uomo.

Amelia sorrise. «No, per lavoro. Sono stata chiamata a realizzare le grafiche per la nuova tournée di un gruppo musicale.»

«Pensa un po’. I miei complimenti. E questo gruppo si chiama?»

«Shards.» Le sembrò strano il suono che le uscì dalle labbra, come se il nome della sua band preferita le fosse d’un tratto diventato estraneo.

«Mai sentiti» borbottò Philip, battendo il conto sulla cassa che aveva accanto.

Amelia estrasse il portafoglio, contenta di sapere che, a breve, si sarebbe cambiato argomento.

«Allora, il solito per due» disse lui, senza aggiungere altro. Mise sopra le fotografie stampate anche un paio di album, un omaggio che continuava a fare alla ragazza nonostante casa sua già strabordasse di album fotografici – per lo più perché lei preferiva sistemare in altro modo le fotografie stampate.

Amelia gli allungò il bancomat e appena ebbe finito di pagare afferrò le sue cose e le infilò in borsa, con la cura che sempre riservava al suo materiale fotografico. Ringraziò il fotografo e gli augurò buona serata, dopodiché si avviò diretta verso casa. Fece il tratto di strada senza ascoltare musica, concentrandosi solo sul ticchettio delle gocce di pioggia sull’ombrello, le quali riacquistavano forza di tanto in tanto, per poi calare di nuovo di intensità.

Quando arrivò a casa, come ben sapeva, Pani non era ancora rientrata. Si cambiò i vestiti, tamponandosi con un asciugamano le punte dei capelli che non era riuscita a proteggere dall’acqua. Con indosso una delle sue felpe più larghe e comode, Amelia svuotò la borsa del suo contenuto, spargendolo sul letto come faceva ogni volta. Afferrò i cilindretti contenenti i negativi e li andò a sistemare nella vecchia ventiquattrore che le aveva regalato sua madre, insieme a tutti i cinquantaquattro rullini sviluppati in precedenza. Dopodiché si voltò verso il letto, dedicando la sua attenzione alle buste in carta con i positivi stampati. Non se la sentiva di aprire quelle buste, svuotarle dal contenuto, guardare le foto. Sapeva già cosa vi avrebbe visto e, al tempo stesso, come si sarebbe sentita. Forse a distanza di qualche giorno o settimana, le sarebbe risultato più semplice.

Sospirò, pensando di prepararsi un altro infuso alla menta. Ne aveva bevuto uno da poco ma aveva bisogno di qualcosa che l’aiutasse a calmarsi. Raggiunse la cucina e fu lì che capì che non era una bevanda calda ciò che le serviva. Aprì il frigorifero e afferrò una birra. La stappò e ne bevve il primo sorso come se non bevesse da secoli. Dopo il secondo goccio tornò nella sua stanza, fermandosi però sulla soglia della porta. Fissò il punto del letto su cui stavano le buste con le foto a lungo, finché, d’impulso, non decise di guardarle. Si allungò sul letto ad afferrarle, poi si sedette in terra, posando la birra accanto a sé.

Per prima forzò la busta con impresso a pennarello il numero 55. Nella stanza regnava un silenzio assoluto, sospeso. Estrasse le prime foto e il cuore iniziò a batterle con forza maggiore. Una decina di immagini, quelle che tirò fuori subito, le aveva scattate prima di raggiungere Londra e le riconobbe tutte. Forse avrebbe fatto meglio a fermarsi, guardare quelle fotografie e richiudere nella busta le altre, ma non lo fece. Prese un nuovo sorso di birra e continuò ad afferrare un positivo dietro l’altro, riconoscendo la capitale inglese, i posti e, poi, le persone. I volti degli Shards le scorsero sotto gli occhi uno a uno. Li aveva immortalati chiedendo loro una foto, oppure quando non se l’aspettavano o mentre erano intenti a fare altro, risultando naturali.

I colori dei positivi analogici sembravano sbiaditi, consumati, una particolarità che lei amava. Vedere Ewan con quei colori era come metterlo sotto una luce diversa, effimera e impalpabile. Quelle fotografie avevano la consistenza dei ricordi; anzi, quelle fotografie erano ricordi, e Amelia sapeva che se quelli si fossero potuti afferrare sarebbero stati le immagini che ora teneva fra le mani.

Ormai non riusciva più a staccarsene. Ne scorreva una e subito voleva vederne un’altra, nonostante il nodo che le si stava formando in gola e la sensazione opprimente che si faceva largo nel petto. Si era lasciata alle spalle qualcosa di sconvolgente in quanto a emozioni e bellezza, qualcosa che la stava rendendo felice. Forse aveva sbagliato ad andarsene nel modo in cui aveva fatto, ma non aveva trovato una soluzione differente e ora le sembrava troppo tardi per rimediare in qualche modo ai suoi sbagli. Inoltre continuava a rimanere il fatto che aveva paura; di cosa cominciava a non saperlo più nemmeno lei, ma non si era dimenticata quella sensazione di non essere abbastanza per Ewan che era stata una delle cause principali del suo improvviso allontanamento.

Però, ora, lui le mancava allo stesso modo in cui poteva mancarle qualcosa di vitale e prezioso, qualcosa di irrinunciabile. Il nodo in gola le si chiuse con forza e, per la prima volta da quando aveva lasciato Londra, le venne da piangere. Prima di quel momento era riuscita a non versare una sola lacrima ma lì, con le foto sparpagliate come petali di fiori intorno a sé, non riuscì a trattenere il pianto. Debole e stupida, questo si ripeté nella mente, in cerca del coraggio necessario per prendere un’iniziativa. 

Sentì l’ingresso di casa aprirsi e, per non farsi vedere da Pani, spinse la porta della camera con il piede, così da socchiuderla. Cercò di asciugarsi gli occhi ma altre lacrime arrivarono a bagnarli. Si maledisse; maledisse le sue scelte la sua codardia, quella incapacità di provare a concedersi qualcosa di bello a causa di un passato ingombrante.

Sentì i passi della coinquilina avvicinarsi e la sua voce levarsi nella sua direzione. Pani spalancò la prota. «Pensavo che magari stasera potrem–» Si bloccò subito alla vista dell’amica, seduta in terra, circondata da fotografie e inutilmente intenta ad asciugarsi gli occhi. 

«Ami che è successo?» le chiese, preoccupata. Si fece strada con garbo fra i positivi di stampa, sedendosi sul pavimento accanto ad Amelia. Quest’ultima non riuscì a rispondere prima di essere scossa da nuovi singhiozzi, ricominciando a piangere. 

Le ci vollero diversi minuti e tutta la calma che Pani riuscì a trasmetterle perché si placasse, sentendosi pronta a raccontare quella verità che aveva tenuto nascosta anche alla migliore amica. Le disse perché era rientrata prima, la vera ragione per cui aveva lasciato Londra. Il senso di impotenza che aveva provato a Piccadilly Circus, di come, da quel momento, anche il solo pensiero di Ewan le provocasse fitte di angoscia dovute a quel suo passato che sembrava intenzionato a ostacolarla ogni volta e dal quale lei si faceva sottomettere. Infine le disse quello che aveva capito quel pomeriggio, ovvero che Ewan le mancava allo stesso modo in cui può mancare qualcuno di cui si è innamorati, ma continuava a essere paralizzata dalla paura di vedere le cose andare come con Eric, o con Richard, e provocarle dentro un’altra ferita incurabile. 

Quando si fu calmata, vomitando addosso all’amica paure e consapevolezze, si zittì e allungò a Pani la bottiglia di birra – forse le avrebbe fatto comodo un goccio per riprendersi dalla confessione appena ricevuta. La ragazza ne bevve un generoso sorso, poi un altro, svuotando la bottiglia e lasciando che questa rotolasse sul pavimento. Si girò verso Amelia e la guardò nei suoi occhi arrossati.

«Oh, tesoro.» Era sempre così che esordiva Pani per prendersi cura dell’amica, con un “Oh, tesoro”, l’equivalente a parole di un abbraccio. «Perché non me lo hai detto?»

Amelia smise per un momento di asciugarsi il volto con il fazzoletto che Pani le aveva recuperato dal marasma di oggetti sparsi sul letto e la guardò con fare ovvio.

«Oh, giusto, me lo hai appena spiegato» si corresse Pani. Iniziò a tamburellare con le dita sul ginocchio, pensando. «Perché non gli scrivi?» propose, illuminandosi. «Digli quello che hai detto a me, sono certa che capirà.»

L’altra impiegò un po’ prima di parlare; si sentiva la bocca impastata e già sapeva che la sua voce avrebbe avuto un suono diverso. «Non posso, non sarebbe giusto.» Il tono era roco proprio come si aspettava. «Me ne sono andata senza dargli una spiegazione, non posso scusarmi e tentare di motivare la cosa attraverso un messaggio. È così che Eric mi ha scaricata, se ti ricordi, e abbiamo sempre sostenuto che avesse fatto schifo.»

«Una verità imprescindibile» sostenne Pani, facendo un “pop” con le labbra. «Beh, allora hai solo due possibilità: chiamarlo o lasciare le cose come stanno.»

«Non posso chiamarlo, non riuscirei a dirgli una sola parola» ammise affranta Amelia.

«Allora vai da lui.»

La mancanza di reazione dalla coinquilina le valse come una risposta. Pani capiva la paura, l’ansia della migliore amica, tuttavia aveva anche capito che, quella volta, se avesse ponderato correttamente le parole sarebbe riuscita a imprimere in Amelia la spinta necessaria per aiutarla ad agire e andare a prendersi quanto le spettava – o, almeno, provarci.

Prese una boccata d’aria, pensando alle parole migliori da usare, dopodiché disse: «Ami, io ti conosco alla perfezione, ormai lo sai, e so che c’è una cosa che ti caratterizza: tu non balli. Ma calcò con cura quell’ultima parola, «con gli Shards lo fai, balli eccome. Io penso che questo significhi molto. C’è un legame speciale che ti unisce a quella band e a Ewan in particolare e intendo da prima che vi conoscente. Il fatto che tu abbia capito di essere innamorata, o quasi, di lui non fa altro che rafforzare quel legame. 

«Perciò, vuoi farti scappare l’unico uomo che ti abbia mai fatta ballare? Non puoi sapere come andrà a finire fra voi, chi ti dice che tutto si romperà? Nessuno può saperlo. Ma se rimani qui, se non lo chiami o non gli scrivi, allora sì che tutto si rompe e finisce. Anzi, è già finito.»

Le spostò i capelli su una spalla, così da riuscire a vederla bene in viso. «Non voglio costringerti a fare nulla, sai che non sono il tipo e capisco che tu sia spaventata da come potrebbero andare le cose, specie vista la sfilza di stronzi che non hanno fatto altro che ferirti. Quello che voglio dirti è che non dovresti precluderti la possibilità di essere felice solo perché, forse, qualcosa potrebbe andare storto.»

Pani smise di parlare, regalando all’amica uno dei suoi sorrisi migliori. Quella ragazza aveva una capacità unica di usare le parole, era chiaro che la laurea in giornalismo se la fosse meritata tutta. Nelle parole che aveva appena finito di pronunciare c’era tutto ciò che Amelia sperava di sentirsi dire, l’incitamento di cui aveva bisogno. Ripensò a quanto appena detto da Pani, riflettendo sul da farsi. Non aveva paura, peggio: era terrorizzata. Sapeva il significato di una delusione amorosa importante fin troppo bene. Il suo cuore si era già strappato due volte e lei lo aveva ricucito a fatica, con punti deboli che facevano ancora male e che cedevano ogni volta che il forte sentimento che le aveva provocato tali ferite era in procinto di affiorare dentro di lei. Tuttavia non poteva sapere se le cose con Ewan sarebbero andate come con Eric, o con Richard. Non poteva sapere se fra loro avrebbe funzionato davvero, se lui l’avrebbe amata per sempre, insieme a quell’ingombrante bagaglio che l’eternità costringe a portare con sé. E se Ewan fosse stato quel ragazzo, quello con cui avrebbe trascorso il resto dei suoi giorni e lei se lo fosse lasciato scappare, allora non si sarebbe mai perdonata la cosa. Alle delusioni provocate dagli altri sapeva sopravvivere, ormai l’aveva capito, anche se facevano male; alle sue, invece, non avrebbe mai saputo come reagire. Doveva provarci e decise di farlo.

Le serviva solo un biglietto per Londra.

  
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