Del dolce sapore
di una maledizione
Dentro di te
Impossibile
calmare i battiti del suo
cuore, il respiro, il tremore che la sconvolgeva e partiva da dentro
– dal
centro di se stessa, dal punto più profondo e nascosto della
sua anima stupita
e sconvolta. Spalle al muro, i biondi capelli irrimediabilmente sciolti
sulle
spalle, Sigyn abbassò le ciglia scure, ma non ebbe la forza
di scostare la mano
dal cuore dolorante e dal battito irregolare, primo, inequivocabile,
segno di
un destino assurdo e beffardo. Nevicava. Piccoli fiocchi bianchi
danzavano
nell’aria rendendo l’atmosfera ovattata, onirica,
irreale. Nel silenzio fatato
di quell’istante fuori dal tempo, osò chiedersi se
non stesse sognando. Se non
fosse immersa in un incubo, uno di quelli così vividi e
reali che rimangono
appiccicati all’anima anche al risveglio, oscuri e densi come
presagi. Le
mancava l’aria; sentiva la testa leggera e le gambe troppo
pesanti e pensò che
sarebbe svenuta, perché il dolore, per le Norne, quello, era
reale: partiva dal
centro del cuore e si irradiava in ogni vena, bruciante e assoluto. Si
accasciò
lentamente, ripiegandosi come se potesse, tramite quel gesto istintivo,
proteggersi.
Aveva immaginato
per sé un futuro
diverso Sigyn, dea della fedeltà per un disegno
imperscrutabile di Skuld.
Fedele al suo cuore e fiera di quest’interpretazione del
fato, aveva attraversato
con sicura grazia ogni momento della sua esistenza, fino a dimenticarsi
completamente della profezia della Voluspa, ancora troppo lontana nel
tempo e
nello spazio. Anzi, era arrivata a sperare che le Norne non avessero
intrecciato il filo rosso del suo destino con nessuno. Una prospettiva
rara che,
dopo un iniziale smarrimento, alla fine si era rivelata decisamente
consolante,
persino auspicabile. Nessun laccio significava essere liberi di
decidere per sé
senza vincoli imposti dal caso, perché c’era
qualcosa di spaventoso e magnifico,
nell’attrazione inequivocabile che legava ogni essere vivente
all’altra metà
della sua anima perduta e ritrovata. Un annullamento che dicevano fosse
la
sublimazione di ogni desiderio, anelito, speranza, ma che suggeriva
anche
l’instaurarsi di una schiavitù eterna, di un
legame che aveva il sapore di una
maledizione. In un mondo dove non
c’è scelta e anche la
morte è scritta tra le righe di una vecchia profezia
pronunciata da una
veggente cieca e forse folle, l’amore imposto dal destino
è solo l’ennesima catena.
Dei passi si
confusero con il battito
forsennato del suo cuore. Era Thor. Le si avvicinò pallido e
nervoso, con le
labbra tirate e un’ombra cupa che gli velava lo sguardo
franco e azzurro. Non
dormiva da troppe ore e sul suo volto virile c’erano ancora
le tracce
inconfondibili dell’ultima battaglia, vinta per un soffio. Le
sue spalle larghe
e possenti erano leggermente incurvate, schiacciate da un peso
inesorabile, da
una disperazione stanca e senza soluzione. Il suo amore,
pensò Sigyn amara,
aveva la purezza della spontaneità e della scelta. Non era
scritto nel cuore né
scorreva nelle vene; per questo era perfetto. Gli invidiò la
possibilità di
guardarsi attorno e amare chi volesse. Non come lei, che non osava
nemmeno pensare
al suo destino già segnato.
“Vi
appartenete,” le disse a
bruciapelo, senza mezzi termini. “Mio fratello sta morendo e
voi due vi
appartenete.”
Sigyn si morse
le labbra e sostenne
il suo sguardo, ma non riuscì ad alzarsi. Il dolore la
inchiodava ancora contro
quella parete. La frase del principe degli Asi era, allo stesso tempo,
un
ordine e una supplica e un ammonimento su cui gravava il peso di un
fato
tremendo. Se lui morirà, morirai
anche
tu. Non fisicamente, ma dentro. La tua anima si prosciugherà
e ti sentirai,
fino alla Voluspa, vuota, spezzata, incompleta. Il tonante le
tese una
mano, ma lei scosse il capo e, traballando, si rialzò da
sola, seguendolo
attraverso i corridoi zeppi di barelle, feriti, guaritori. Rifecero lo
stesso
tragitto che la ragazza aveva percorso correndo non più di
una manciata di
minuti prima: un lasso di tempo che, nella mente di Sigyn, si era ormai
dilatato a dismisura, come avviene talvolta quando si sogna. Le
sembrò che
fossero passati anni, decenni dal momento in cui il fato le si era
rivelato bruciandole
il cuore. Con occhi pietosi, prestò attenzione a
ciò che prima aveva notato,
sì, ma non abbastanza.
Asgard aveva
vinto l’ultima, atroce battaglia, ma non la guerra e il
prezzo che aveva dovuto
pagare per poter sventolare, ancora una volta, i vessilli conquistati
dei
nemici sconfitti, era stato altissimo.
Loki
di Asgard volse con difficoltà il capo, vedendoli arrivare.
Puntò loro addosso
i suoi occhi febbricitanti quasi trasparenti, color
dell’acqua, e provò a
increspare le labbra in qualcosa che assomigliava a un ghigno mesto.
Respirava
a fatica. Il petto nudo, coperto solo dalle bende intrise di sangue, si
alzava
e abbassava a un ritmo che suggeriva quanto gli costasse anche solo
tenere le
palpebre aperte.
La
vide avanzare verso il letto su cui forse sarebbe morto – che
fine indegna, per
un Ase, morire sotto l’occhio pietoso di un guaritore,
anziché nel fango della
battaglia – e avvertì di
nuovo quello
strappo all’altezza del cuore. S’inumidì
le labbra nel tentativo di far uscire
dalla gola l’ennesima delle sue frasi beffarde, pungenti,
affilate come rasoi.
Non gli riuscì.
Vide
Sigyn tirare su la manica dell’abito per mostrare al
guaritore la pelle bianca,
mentre quello le stringeva un laccio attorno al braccio e le infilava
un ago
sotto la pelle. La osservò serrare le labbra, incrociare con
i suoi gli occhi
grigi, liquidi, dolci. L’aveva ammirata? Le Norne avevano
deciso che i fili
delle loro vite avrebbero dovuto intrecciarsi insieme, fondendosi in
una cosa
sola come il sangue che avrebbero condiviso. Sigyn, pallida e seria in
volto,
non guardava l’ago, ma continuava a fissare lui. Loki
Laufeyson aveva fatto
ogni cosa in suo potere per evitare quel momento e ingannare le Norne.
Sentì il
sangue della ragazza fluirgli nelle vene, avvertì, grazie ai
sensi acuiti dal
seiðr, il potere di quel liquido vermiglio che avrebbe impedito
al suo cuore di
fermarsi, sentì le sue membra contrarsi sotto la spinta di
quell’impulso vitale
che il caso aveva voluto derivasse da lei, solo
da lei.
“È
un’aberrazione unire la fedeltà
all’inganno. È un errore delle Norne, una beffa
del destino.” Raccolse le parole e disse questo, prima di
perdere i sensi.
♦
“Devi
stenderti. Sei pallida, dovresti riposare.” La voce di Thor
era carica di
qualcosa a metà strada tra il senso di colpa e
l’imbarazzo.
Sigyn
parve non ascoltarlo. Era rigidamente seduta accanto al dio
dell’inganno, intenta
a scrutarne ogni lineamento e a farlo suo. Non era la prima volta che
lo
vedeva, ma la consapevolezza di essere legata a lui per sempre e che
fosse vivo
grazie a lei, glielo fece apparire improvvisamente sotto una luce
nuova,
diversa, strana. Si soffermò sulla mascella affilata, sul
naso diritto e
virile, sulle sopracciglia scure, sulle labbra sottili appena segnate
da una
vecchia cicatrice rimediata, chissà come, in battaglia. I
suoi occhi
scivolarono sul fisico slanciato e asciutto, incredibilmente tonico,
fatto di
muscoli e nervi pronti a scattare. Le numerose fasciature non
riuscivano a
nascondere le forme scultoree del suo corpo. Petto ampio e largo,
torace di
guerriero, braccia scolpite dall’uso costante e prolungato
dei suoi pugnali
affilati. Nemmeno ora che era privo di sensi, Loki sembrava innocuo.
C’era, in
lui, una perenne tensione che le fece pensare alle fiamme guizzanti di
un falò
che si rincorrevano, lambendosi e sfiorandosi. Era bello, certo. Di
più, era perfetto.
L’aveva mai pensato? Prima di
quel pomeriggio, era mai giunta a quella considerazione o il
ragionamento
appena fatto era solo frutto del destino?
Alle
volte, le sue amiche si erano divertite a commentare le gesta eroiche
degli affascinanti
figli di Odino, per poi lanciarsi in paragoni e apprezzamenti
interrotti da
risatine basse e imbarazzate. Alla domanda secca su chi dei due
preferisse,
Sigyn aveva sempre risposto sicura che, certamente, come tutte, avrebbe
desiderato essere corteggiata da Thor, ma il pensiero di Loki e delle
tenebre
che si tirava appresso le aggrovigliava lo stomaco, generando una ridda
di
sensazioni che non aveva mai avuto il coraggio di confessare. Si era
ritrovata
più volte a detestare, però, le amiche
più impavide che osavano dar voce a ciò
che lei non sapeva nemmeno se era giusto provare: il figlio ribelle di
Odino
era bello, e non aveva importanza che si dedicasse allo studio del
seiðr e
padroneggiasse anche le arti più oscure, né che
le sue abilità diplomatiche si
sposassero fin troppo spesso con una crudeltà
d’intenti rara. Chi era, Loki,
per lei?
Thor
le posò una delle sue mani grandi e forti sulla spalla e
Sigyn, finalmente, si
riscosse. “Potrei servirgli ancora,” gli
ricordò con voce atona. “Hai sentito
cos’ha detto il guaritore.”
“Sei
sfinita.”
Lei
si voltò appena, increspando le labbra in un sorriso mesto.
“Ti dispiace. Adesso ti
dispiace.”
Accanto
a loro, Loki era ancora privo di sensi, ma il colorito leggermente
più roseo
indicava come, lentamente, si stesse riprendendo, vincendo la feroce
battaglia
contro la morte che l’aveva portato a un passo dai cancelli
di Hel. Un braccio
elegante dell’Ase giaceva abbandonato sopra coperta e Sigyn
si domandò se fosse
giusto o lecito, prendere la mano dell’ingannatore tra le
sue. Se lui se ne
sarebbe accorto, se quel tocco lo avrebbe consolato in qualche modo.
Era la sua
anima gemella e il destino aveva
sancito che avrebbero dovuto amarsi e innamorarsi, ma lei non era certa
di
provare qualcosa se non vuoto, sgomento, terrore. La blanda
fascinazione che il
principe cadetto le suscitava non poteva essere quel sentimento
profondo e totale
che spezzava le vene, lasciava sfiniti.
Thor
si schiarì la voce. “Non lo sapevo.”
Era
sincero, Sigyn ne era consapevole, eppure non riuscì a
perdonargli la violenza
e la mancanza di tatto che le aveva dimostrato nelle ultime due ore.
Non si era
fatto scrupolo alcuno nell’irrompere nella sua casa
trascinandola via e gridando
che doveva fare il suo dovere e aiutarlo. Ai suoi genitori sbigottiti e
preoccupati, ma soprattutto a lei, aveva regalato la verità
così com’era, nuda
e cruda, senza abbellimenti né giustificazioni. Non
c’era tempo, certo. La vita
del dio degli inganni era appesa a un filo sottilissimo e
già i suoi occhi incredibilmente
verdi avevano iniziato a velarsi. Senza
il tuo sangue, mio fratello morirà. Sei la sua anima gemella.
“Per
quello che vale,” proseguì il tonante con un
sospiro, gettando un’occhiata
preoccupata al letto dove Loki giaceva ancora privo di conoscenza,
“l’ho saputo
oggi anche io ed ero sconvolto quanto te. Posso immaginare come tu ti
senta,
adesso.”
Un
sorriso triste, dita che tormentavano la gonna di velluto scuro.
“No, non
puoi.”
“Sigyn,
è il destino.”
“Voglio
rimanere sola. E preferisco rimanere qui, in questa stanza con lui, ma
non per
il motivo che immaginate tu o i guaritori.”
Thor
parlò con gli inservienti. Dopo qualche minuto, le portarono
una branda dove
potesse stendersi, una coperta, una bevanda calda e nutriente che fosse
in
grado di scaldarle l’animo spezzato, costretto in un vincolo
che le sembrava
alieno, che cozzava contro i suoi principii, ideali, sogni. Loki.
Un
nome breve, immediato, composto di due sole sillabe, capace,
però, di
racchiudere al suo interno promesse oscure e un destino infausto. Era
il figlio
maledetto di Odino, l’astuto principe e mago che si divertiva
a seminare e
incantare, imbrogliare e truffare. Una mente brillante e astuta quanto
letale,
che non si era fatta scrupolo di mentire e corrompere perché
bruciata da una
sete di potere che, forse, nemmeno il trono di Asgard avrebbe potuto
saziare fino
in fondo. Occhi verdi, sguardo inquieto, voce ironica sempre in bilico
tra
verità e menzogna. Condannato e fuggito dalla sua prigionia
per eludere il
Titano che, alla fine, lo aveva quasi
ucciso. Ecco l’uomo che Sigyn avrebbe dovuto amare.
“Te
lo chiedo di nuovo: posso fare qualcosa per te?”
La
voce di Thor era stanca, eppure non priva di una nota gentile. Ora che
lei
aveva fatto ciò che doveva e le condizioni del fratello
apparivano, seppur
critiche, stabili, ogni traccia della furia con cui l’aveva
trascinata presso i
guaritori era svanita.
Sigyn
sorseggiò la bevanda calda, concentrandosi sul volto ancora
pallido di Loki.
Esitò un momento, perché ciò che si
apprestava a chiedere al dio del tuono
contravveniva alle leggi di Asgard, ma ricordò le ultime
parole che
l’ingannatore aveva pronunciato prima di perdere i sensi e
pensò che avesse
ragione: la fedeltà e l’inganno insieme erano
un’aberrazione, un ossimoro. Eppure.
“Portami
uno dei pomi di Iðunn[1].”
“Sei
troppo giovane,” sospirò Thor scuotendo la testa.
“Voglio
sapere cosa si sente. Le Norne mi hanno legata a tuo fratello: se
mangerò la
mela, m’innamorerò di lui, scoprirò che
è il solo che voglio e posso amare.
Così dicono le nostre leggi. Prima o poi deve accadere
comunque, no?”
“Ti
faresti solo più male. Hai la prova che è vero.
È vivo grazie a te.” Il primo
figlio di Odino si rese conto di capire il senso della sua richiesta.
Avrebbe
violato la consuetudine degli Aesir, vero, ma in fondo lui non era
stato
costretto a fare lo stesso per salvare la vita di Loki? Non le aveva
imposto un
fardello che suo fratello, da parte sua, aveva accuratamente tenuto
nascosto non
solo a lei, ma a chiunque?
“È
diverso, Thor. Lo sai.”
Thor
aggrottò la fronte, incerto sul da farsi. Uscì
dalla stanza avvolta nella
penombra, limitandosi a lanciare solamente un ultimo sguardo alla
figura supina
del fratello e a quella, sottile, della ragazza. Anime
gemelle. Gli tornò alla mente il lampo di
divertita sfiducia
che illuminava gli occhi verdi di un giovanissimo Loki quando, per una
ragione
o per l’altra, si ritrovavano a parlare
dell’argomento. Già allora, i discorsi
del futuro dio degli inganni erano intrisi di una logica lucidissima,
inscalfibile, razionale. Sosteneva si trattasse di autosuggestione. Di
un’illusione,
in cui il malcapitato di turno sprofondava perché vittima
della superstizione
che girava attorno a quel concetto di predestinazione che lui riteneva
fondamentalmente ingiusto. Con il passare del tempo,
l’esperienza aveva avuto
modo di mostrare a Loki gli effetti della presunta, enorme bugia.
Impassibile,
ma forse solo all’apparenza, era stato costretto a valutare
con occhio critico
come i destini che le Norne tessevano e intrecciavano con apparente
disinteresse si fondessero effettivamente gli uni con gli altri.
L’anima
gemella non era un mito o una fiaba romantica, ma esisteva davvero:
altrimenti,
come riuscire a spiegare la forza dei legami che si venivano a creare
da un
momento all’altro? Donne e uomini che, fino al giorno prima,
non si erano mai
nemmeno guardati, dopo aver mangiato i pomi di Iðunn, non solo
cristallizzavano
il loro aspetto nella perenne giovinezza propria degli Aesir, ma si
guardavano
con occhi nuovi e cadevano nella trappola di un’attrazione
fatale che c’era
perché così era stato scritto.
Quando
era toccato a Loki e a Thor, di diventare adulti e mordere il frutto della conoscenza,
il cibo degli dèi, i fratelli si erano guardati negli
occhi per cercare una traccia qualsiasi del mutamento. Nessuno dei due
aveva
avvertito alcuna differenza. Padre Tutto e le antichissime leggi degli
Aesir
avevano stabilito fosse giunto per loro il momento di fermare il tempo
e i
giovani principi, che scalpitavano per diventare adulti, avevano
adempiuto senza
riflettere troppo sulle implicazioni che il morso dato alla mela
avrebbe
comportato nelle loro vite. Combattevano già da anni, del
resto, da quando avevano
le guance lisce come quelle delle ragazze, perché
così vuole la tradizione
degli Aesir. Loki e Thor, giovani, arroganti e tronfi
com’erano, non si erano
risparmiati mai nulla, trascinati dal desiderio di veder brillare,
nell’unico
occhio di Odino, una scintilla, una sola, d’orgoglio.
Così avevano mangiato il
pomo gustandone la polpa dolciastra ed erano diventati uomini, pur
senza
esserlo davvero. Semplicemente, avevano compiuto un rito di passaggio
che li
avrebbe portati, presto, a divenire tali, aprendo alle Norne la
possibilità di riconoscere
– sentire – chi
fosse lei, l’anima
gemella, l’altra metà del proprio cielo.
All’inizio,
avevano scherzato a lungo sul fiabesco e strano incontro. Erano
ragazzi,
dopotutto. Nelle taverne dove andavano a festeggiare la buona riuscita
di
qualche prodezza o durante i banchetti allietati da qualche ospite
straniera o
da ancelle particolarmente affascinanti, entrambi avevano finto
platealmente d’innamorarsi
in virtù del goliardico impulso a gonfiare ogni evento,
finanche l’attrazione,
attribuendogli connotati esagerati, farseschi. Giocavano e,
così facendo,
dissacravano il timore di un legame che appariva come odioso.
L’ombra cupa e
incombente dell’agognato Hliðskjálf aveva
fatto il resto, cancellando dai loro
volti le risate e gli scherzi legati a quel destino non cercato
né voluto – donare
la propria anima a un altro essere vivente in virtù di
qualcosa deciso da Skuld[2],
che cosa assurda – ma mentre Thor aveva continuato a
guardarsi distrattamente attorno
senza trovare in nessun luogo l’anima gemella promessa, Loki,
invece, l’aveva
incontrata. E non gliene aveva fatto parola.
Il
dio del tuono non avrebbe dovuto stupirsi per quella scelta, in fondo.
Suo
fratello era questo. Un bugiardo, un mistificatore, dotato
d’una mente scaltra
quanto contorta. Dietro a quel suo ghigno astuto, perennemente
increspato, si
era nascosta, a suo tempo, l’ira terribile che lo aveva
spinto a rivelare ai giganti
di ghiaccio di Jotunheim i sentieri noti a pochissimi che conducevano
ad
Asgard. Lo aveva fatto per mettersi in luce con Odino, per persuaderlo
di
essere lui il figlio degno, per vincere una partita truccata in
partenza. Loki era
stato al suo fianco per secoli. Insieme avevano giocato, vissuto,
lottato fino
a prevedere esattamente l’uno le mosse dell’altro,
ma, nonostante questo, suo
fratello gli aveva tenuto nascosto, per chissà quanto tempo,
di aver incontrato
la propria anima gemella. Sentiva di essere stato tradito, eppure, allo
stesso
tempo, non resisteva all’impulso di domandarsi cosa potesse
aver significato,
tenere dentro di sé così a lungo una simile
consapevolezza, correre un rischio tanto
grande. Il
perché non lo avesse rivelato alla diretta interessata,
invece, gli era fin
troppo chiaro, purtroppo.
♦
La
morte aveva un tocco freddo, penetrante e, forse, persino viscido.
A
Loki Laufeyson restò in mente questo pensiero, mentre
riemergeva a fatica dalle
nebbie d’oblio in cui era precipitato. Riprendere conoscenza
fu doloroso. Il
suo corpo d’Ase – di Jotunn, in realtà
– non era avvezzo a una tale sofferenza:
mai, nella sua lunga vita di guerriero scaltro ed esperto, aveva
riportato
ferite tanto gravi. Era arrivato lì con uno squarcio
orrendo. Lo avevano
ricucito e, di questo, ne aveva contezza nella sofferenza sparsa che
gli
mordeva i muscoli a ogni movimento, respiro, battito del cuore, quasi.
Gli ci
volle del tempo, per ritornare in sé e capire esattamente
dove fosse, cos’era
successo. I ricordi si mescolavano continuamente ai sogni, alle idee e
agli
incubi, creando una matassa che persino lui, il brillante dio
dell’inganno,
trovò dapprincipio troppo complesso sciogliere.
Iniziò
aggrappandosi a delle certezze e s’accorse, con un brivido,
che erano poche.
Il
Titano lo voleva morto perché non gli era riuscito di
controllarlo, non fino in
fondo, almeno. Loki si era liberato dagli influssi della Gemma della
Mente che
avevano esasperato quanto già c’era di oscuro nel
suo petto, slegandosi dalla
tenaglia di una schiavitù intollerabile; aveva alzato
fieramente il capo
ribellandosi contro il piano aberrante di un mostro[3].
Tentò
di muoversi, ma i punti ancora freschi gli strapparono un gemito basso.
Il
Titano lo voleva morto perché non poteva controllare il
caos; meglio spezzarlo,
allora, punendo l’irriverenza di colui che aveva osato, per
curiosità o bisogno,
farsi consumare dal potere delle Gemme al solo scopo di scoprire quale
fosse il
punto di rottura, il limite da non superare. Un gesto inevitabile e
razionale,
intrapreso in virtù di un ostinato desiderio di sopravvivere
in attesa di tempi
migliori.
La
nascita è una misteriosa e imprevedibile scommessa delle
Norne, ma la morte,
quella, può essere scelta, decisa. La perenne oscillazione
tra il male e il
bene tra cui il dio degli inganni si era diviso nel corso della sua
esistenza
in nome di una neutralità glaciale e spesso egoistica, si
era infine piegata
verso l’alleanza necessaria con Thor.
Loki
recuperò
il ricordo del momento preciso in cui lui e il fratello si erano
lanciati lo
sguardo d’intesa e l’impercettibile sorriso che li
aveva trasformati, di nuovo,
nella squadra perfetta che aveva reso Asgard grande. Sì, le
Norne avevano
tessuto un destino crudele, per Loki figlio di Laufey e di Odino:
lasciato a
morire su un picco di ghiaccio, era stato salvato solamente dalla
pietà
mescolata all’arguzia di un re astuto in cerca
dell’ennesima reliquia da rubare,
ma aveva avuto finalmente l’occasione di poter morire in
maniera degna, da re,
sul campo di battaglia.
La
sua fibra particolarmente robusta, tuttavia, l’aveva in
qualche modo tradito,
condannandolo a un’agonia da cui, forse, non si sarebbe
ripreso. Se la lancia
con cui Thanos lo aveva trafitto fosse riuscita a ucciderlo sul colpo,
il suo
destino si sarebbe compiuto; invece, era ancora più o meno
vivo e la lotta
contro il Titano e la morte era ancora aperta, sebbene disperata.
Deglutì
a fatica. Cercò nella sua mente ancora annebbiata dai
farmaci, l’immagine di
Thor che, disperato, invocava il suo nome ordinandogli di sopravvivere,
tamponava la ferita orrenda con le mani e tentava di tenerlo sveglio; avrebbe fatto qualsiasi cosa per non vederlo
morire un’altra volta davanti ai suoi occhi. Una
consapevolezza vaga e
nuova lo raggiunse: batté più volte le palpebre
per svegliarsi totalmente,
definitivamente. Era in una delle stanze dei guaritori
perché suo fratello,
alla fine, era riuscito a portarlo in salvo, ma qualcosa era andato
storto,
terribilmente. Volse a fatica il capo di lato: accanto al suo letto,
c’era una
piccola branda su cui era stesa lei, per le Norne. Lei.
La
memoria della battaglia lasciò posto alle immagini sbiadite
e confuse degli
ultimi momenti concitati che aveva vissuto prima di perdere
definitivamente i
sensi. Rivide i volti pallidi e terrorizzati dei guaritori, sorpresi
che fosse
ancora vivo nonostante l’orrenda ferita e tutto il sangue
perso, disillusi
all’idea che potesse superare la notte. Udì
nuovamente la voce stentorea di
Thor maledire e minacciare di ucciderli a mani nude se non avessero
fatto
qualcosa, avvertì ancora una volta il brivido di terrore che
lo aveva colto quando
aveva capito che suo fratello si era detto disposto a cedergli il suo
sangue
lì, ora. Raccogliendo le ultime forze rimaste, aveva
strappato dal proprio
braccio l’ago che doveva servire a trasferire nelle sue vene
il fluido vitale
del fratello[4].
Si erano guardati negli occhi per un momento e Loki, ormai allo stremo
e tormentato
dal dolore, gli aveva rivelato quel segreto che celava da anni, che non
aveva
osato neppure ammettere a se stesso. La voce era uscita dalla sua gola
simile a
un rantolo spezzato.
“Sigyn!
Tu non puoi, tu mi ucciderai. Solo lei, serve lei… serve il suo sangue.” Le ultime parole,
le aveva
pronunciate boccheggiando. “È l’anima
gemella, Thor.”
[1]
Nella mitologia norrena, i pomi di Idunn servivano a mantenere gli
dèi giovani.
In questa storia hanno anche un’altra funzione, come si
scoprirà leggendo:
servono a indicare alle persone chi è la loro anima gemella,
la soulmate.
[2]
Skuld è la Norna che fila il futuro, Urd il passato e
Verdandi il presente. La
funzione delle Norne scaldiche è simile a quella delle
Parche.
[3]
Le ultime dichiarazioni della Marvel sostengono che Loki fosse sotto
l’influenza della Gemma della Mente. Ho cercato di coniugare
il canone con
quanto si vede nei film e rendere coerente questa
“brillante” trovata.
[4]
Essendo un soulmate! AU ci troviamo in una realtà
alternativa dominata da
codeste regole. Per quanto concerne la trasfusione: Asgard possiede
astronavi e
i suoi abitanti sanno usare armi automatiche; è ragionevole
che pur in un ambiente
differente dal nostro, dove i medici diventano i guaritori, alcune
pratiche
come la trasfusione esistano e vengano svolte accanto alle pratiche
runiche
(?).