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Autore: Parmandil    15/01/2019    0 recensioni
Per molti secoli i popoli della Via Lattea si sono interrogati sui grandi misteri del cosmo. Cosa c’è oltre la Grande Barriera che avvolge la galassia, impedendo alle navi di uscire? Chi ha costruito le megastrutture come la Sfera di Dyson? Da dove viene la sorprendente somiglianza genetica fra gli umanoidi, una somiglianza tale che le diverse specie possono persino incrociarsi? Alcuni hanno visto un’unica mano dietro questi misteri: quella dei Progenitori, la stirpe ancestrale da cui tutti gli umanoidi hanno tratto origine. Ora queste antiche domande avranno finalmente risposta.
Ristrutturata dopo l’ultima battaglia, l’Enterprise-J si lancia arditamente all’esplorazione della galassia di Andromeda, arrivando là dove nessuno è mai giunto prima. Troverà nuovi e formidabili alleati, ma si scontrerà anche con la forza più distruttiva dell’Universo: la Scourge. In una corsa contro il tempo, i nostri eroi cercheranno di rintracciare i creatori della Scourge... e di loro stessi. I legami saranno sottoposti alle prove più dure e ciascuno di loro affronterà i propri demoni, mentre il viaggio al centro di Andromeda somiglia sempre più a una discesa negli abissi dell’Inferno... e della mente.
Genere: Avventura, Azione, Science-fiction | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Nuovo Personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate
Capitoli:
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Star Trek Universe Vol. VI:

Scourge

 

 

SPAZIO, ULTIMA FRONTIERA.

QUESTI SONO I VIAGGI DELLA

NAVE STELLARE ENTERPRISE.

LA SUA MISSIONE È ESPLORARE

STRANI, NUOVI MONDI,

SCOPRIRE NUOVE FORME DI VITA

E NUOVE CIVILTÀ,

FINO AD ARRIVARE LÀ

DOVE NESSUNO È MAI GIUNTO PRIMA.

 

 

-Prologo:

Data Stellare 2535.151

Luogo: settore di Norpin

 

   La statua marmorea di Zefram Cochrane, alta venti metri, scricchiolò mentre andava fuori asse e cadde di schianto, sotto la spinta di un raggio traente. Il braccio, arditamente teso verso le stelle e la promessa del futuro, si spezzò all’altezza della spalla quando colpì il suolo. Il volto del grande scienziato andò in pezzi, cancellandone lo sguardo audace. Lo schianto formidabile risuonò in tutta l’area museale e per un tratto della foresta, tanto che gli uccelli abbandonarono spaventati i rami e si levarono in volo. L’enorme folla radunata tutt’intorno proruppe in grida di giubilo.

   Era un giorno soleggiato a Bozeman, Montana, e questo aveva incoraggiato le famiglie ad assistere all’evento. Al cadere della statua, gli adulti applaudirono e i bambini, osservandoli, li imitarono, convinti che fosse una cosa buona. Approfittando di un momento di pausa nei lavori, parte del pubblico riuscì ad avvicinarsi alla statua. I primi ad arrivare vi sputarono sopra, fecero gesti volgari o presero a calci i frammenti di marmo. Un uomo con una chitarra mise un piede sulla faccia mutilata di Cochrane e prese a strimpellare qualche nota, tra i fischi d’incoraggiamento dei presenti. Molti si abbracciarono o presero a ballare. Fu solo con molta fatica che gli operai riuscirono a far indietreggiare la folla, per procedere con le operazioni di sgombero. I resti della statua furono rimossi e al loro posto fu sistemata una nuova scultura, molto più grande. Raffigurava una donna afro-americana, dai capelli cortissimi e grandi occhi intensi.

   «Come vedete, amici telespettatori, tutto è avvenuto in fretta e senza incidenti» disse il giornalista, mentre veniva inquadrato dal drone-olocamera. «Per chi non avesse seguito il dibattito degli ultimi giorni, un rapido riassunto. Dopo lunghe trattative la Flotta Stellare, la Soprintendenza dei Beni Culturali del Montana e la Fondazione Cochrane hanno raggiunto un accordo sull’annoso problema della statua di Bozeman. In questa località, nel 2063 Zefram Cochrane partì per lo storico volo a curvatura 1, e sempre qui stabilì il Primo Contatto coi Vulcaniani. La statua che lo raffigura fu posta subito dopo la sua scomparsa, ed è stata per secoli uno dei monumenti più noti e visitati della Terra.

   Ma negli ultimi anni, la statua – e la figura stessa di Cochrane – hanno subito una profonda rivalutazione storica, che li ha resi controversi e oggetto di dure critiche. Di Cochrane è stato messo in luce il carattere collerico, bipolare, incline all’alcolismo. Peggio ancora, se n’è svelato l’atteggiamento misogino e sprezzante, anche verso i suoi più stretti collaboratori, come Lily Sloane» aggiunse il giornalista, accennando alla statua.

   «Gli storici di oggi mettono in luce il fondamentale apporto dato da Sloane al progetto Phoenix, tanto da affermare che il motore a curvatura debba più a lei che a Cochrane stesso. E come dimenticare che fu Lily Sloane a collaborare con l’equipaggio dell’Enterprise-E, quando i Borg tentarono di sabotare il Primo Contatto? Il sondaggio Olonet promosso dal Federal News ha parlato chiaro: per il 73% dei votanti è Lily Sloane che merita una statua, assai più del collega. Zefram Cochrane è ormai considerato un simbolo divisivo, un esempio di Umanità Tossica che non ha posto nel nostro secolo. Come ha dichiarato il Governatore, sostituire la statua era un imperativo morale, prima ancora che un dovere civico. E dato l’esito del sondaggio, noi del Federal News aggiungiamo che si è trattato di una grande prova di democrazia. Ma sentiamo la voce dei presenti! Voi che ne dite, è in corso una presa di coscienza degli errori passati... o un revisionismo storico, come dicono i detrattori?» chiese il giornalista, accostandosi a una famiglia.

   «Ma quale revisionismo, questa è giustizia!» rispose con foga una delle due madri. «Zefram Cochrane è un pessimo esempio per i giovani. Incarna tutto ciò che dobbiamo lasciarci alle spalle... anzi, tutto ciò che dobbiamo combattere. Io insegnerò ai miei figli a ispirarsi ai veri eroi della Storia: Lily Sloane, Erika Hernandez, Michael Burnham. Abbasso i falsi idoli!» strillò appassionatamente.

   «La saggezza non sta nell’abbattere i vecchi idoli... sta nel non sostituirli con dei nuovi» borbottò Alexander Chase, disattivando l’olovisore che gli aderiva alla tempia. La statua, la folla chiassosa e la radura bordata di pini svanirono attorno a lui, sostituiti dal suo piccolo alloggio sull’Enterprise. Doveva smetterla di guardare il Federal News al mattino, si disse: gli guastava l’umore per il resto della giornata. Ricordava bene i dibattiti sulle statue, e su altre questioni simili, che imperversavano all’Accademia di Flotta. Assumere una posizione conservatrice significava attirarsi l’odio implacabile di coloro che si definivano moderni e tolleranti. Era lieto d’essersi lasciato quell’ambiente soffocante alle spalle... lieto che il suo primo incarico nella Flotta l’avesse portato sull’Enterprise-I, la nave ammiraglia. Lì nello spazio profondo, lontano dagli ammorbanti dibattiti della Terra, ci si poteva ancora confrontare con l’ignoto.

   «Comandante Plovios a Guardiamarina Chase, a rapporto nel mio ufficio». La voce del Primo Ufficiale veniva dal comunicatore che Chase si era appena appuntato sull’uniforme.

   «Arrivo, signore» disse il giovane, con un fremito. Perché quella convocazione inaspettata? Non aveva fatto errori, nei pochi mesi trascorsi sull’Enterprise. Né si era messo in evidenza... per il momento. Ma le cose sarebbero cambiate, si disse. Anche se era solo un Guardiamarina junior, fresco d’Accademia, ce la stava mettendo tutta per far bene il suo lavoro. Voleva fare carriera, lui... nella Sezione Comando. Quello era il suo obiettivo, il motivo che l’aveva spinto ad arruolarsi. Che il Primo Ufficiale gli avesse finalmente assegnato una missione sul campo? Considerando dov’era l’Enterprise, sarebbe stato il massimo.

   Il giovane Guardiamarina diede un’occhiata alla finestra del suo alloggio. Osservò le sterminate vastità dello spazio, trapunto di stelle... e ne vide il confine. Era una superficie grigia e opaca, organizzata in un reticolato uniforme, che si estendeva a perdita d’occhio. Si trattava di una sfera, ma le sue dimensioni immani la facevano sembrare piatta. Non era un pianeta, né una stella, né altra cosa di origine naturale. No, era il prodotto di un’intelligenza e una tecnologia ineguagliate nella Galassia. Di fronte alla Sfera di Dyson, l’immane guscio che racchiudeva un’intera stella, l’Enterprise era piccola e insignificante come un microbo.

 

   «Sto formando le squadre per la missione esplorativa, Guardiamarina, e leggendo la sua scheda personale ho visto che ha dedicato la sua tesi accademica proprio alla Sfera di Dyson» disse senza preamboli il Comandante, accarezzandosi i baffi da pesce gatto. Come tutti i Benziti aveva un grosso cranio glabro, dal naso schiacciato, e la pelle azzurra. I mini-respiratori nelle narici gli permettevano di condividere l’ambiente con le altre specie umanoidi. «Vorrei sapere il perché» aggiunse.

   «Per molte ragioni» rispose Chase con prudenza. «Si tratta della più grande megastruttura conosciuta, l’unica del suo genere. Eppure, malgrado sia nota da tempo, resta ancora un enigma. Chi l’ha costruita? Generazioni di studiosi l’hanno esplorata senza trovar traccia degli artefici: né immagini, né archivi. Dai resti delle città possiamo arguire che fossero umanoidi, ma questo è tutto. Sappiamo che hanno dovuto abbandonare la Sfera quando la stella centrale è diventata instabile, ma ignoriamo dove si siano recati. Non sappiamo nemmeno se esistano ancora... e dire che, considerando la superficie interna della Sfera, dovrebbero essere più numerosi di tutti gli altri popoli della Via Lattea sommati!».

   «Già, un bell’enigma» convenne il Primo Ufficiale. «Ma forse siamo più vicini alla soluzione. E visto il suo interesse per l’argomento, lei sarà in squadra. Le ho già inviato i dettagli dell’operazione sul d-pad. Sarà la sua prima missione sul campo, dico bene?» chiese, scrutandolo attentamente.

   «Sì, signore».

   «Allora buona fortuna, Guardiamarina. Chissà che il suo interesse per la Sfera non la conduca a qualche scoperta!» disse il Benzite, incoraggiante.

 

   Di lì a poco, Chase si affrettava verso la sala teletrasporto 3, per unirsi alla squadra cui era stato assegnato. Era per questo che si era arruolato, si disse, sentendo l’adrenalina scorrergli nelle vene: per esplorare le meraviglie del cosmo e svelarne i segreti. Ma il suo umore cambiò bruscamente quando, svoltato un angolo, s’imbatté in alcune vecchie conoscenze. Erano cinque in tutto: un Luriano, un Sulibano, un Pakled, due Cardassiani. Lo avevano angariato in Accademia e continuavano a farlo in servizio. Ora bloccavano il corridoio; era evidente che lo stavano aspettando.

   Chase si guardò attorno, in cerca d’altri corridoi o turboascensori che gli permettessero di aggirare l’ostacolo, ma non ce n’erano a portata di mano. E non voleva fare dietro-front, per non sembrare debole.

   «Guarda, guarda!» disse il Luriano, che era il capobanda. «Il nostro amico Alex va in missione! Credi che risolverai il mistero della Sfera, quando tanti esperti non ce l’hanno fatta?».

   «Faccio solo il mio lavoro, come tutti gli altri» rispose Chase, evitando il suo sguardo. Cercò di passare, ma gli alieni ingombravano il corridoio e non intendevano scostarsi. «Scusate, ma ho fretta» aggiunse.

   «Noi invece no!» ridacchiò il Sulibano. «Perché non resti a fare due chiacchiere?».

   «Farebbe una cattiva impressione, se arrivasse in ritardo alla sua prima missione» rispose il Luriano. «E Mister Perfettino non vuole che accada, vero? Non vuole mica rimanere Guardiamarina a vita!» latrò, avvicinando il faccione lungo e grigiastro al volto di Chase.

   «Tu lo vorresti?» chiese il giovane.

   «Io non sono uno sporco Umano!» berciò l’alieno, spalancando l’enorme bocca. «Sono qui per far carriera, e non tollero che tu mi metta in ombra!».

   «Mai pensato di farlo» assicurò Chase.

   «Ma sentitelo!» berciò il Pakled, i cui occhietti miopi erano quasi invisibili sotto le immense sopracciglia cespugliose. «Gli Umani cercano sempre di metterci in ombra. Ma la vostra supremazia nella Flotta è finita. Siamo più numerosi di voi, sull’Enterprise e sulle altre navi. Vuol dire che sei nel nostro territorio, Cheese!» avvertì.

   «Mi chiamo Chase; non è difficile da ricordare» rispose l’Umano, squadrandolo con sufficienza. I Pakled erano la specie federale con il quoziente intellettivo più basso. Non avevano mai inventato nulla; tutta la loro tecnologia era stata rubata ad altre specie, prima che la Federazione li accogliesse, regalandogliene altra ancora. I pochi in servizio sulle astronavi beneficiavano del Programma Federale per le Pari Opportunità, vale a dire che erano lì solo per una questione di quote, non perché se lo meritassero.

   «Oh oh, fai il bullo!» gongolò il Luriano. «Tipico comportamento Umano».

   «La presenza umana sull’ammiraglia è una vergogna» disse un Cardassiano.

   «Va contro secoli di progresso sociale» aggiunse l’altro.

   «Sentite, non voglio problemi, d’accordo?» disse Chase, fissando il pavimento. Ne aveva già avuti abbastanza in Accademia. Cercò di passare, ma gli alieni lo trattennero a forza. Il Luriano lo afferrò per le spalle e lo schiacciò contro la parete.

   «Te lo dico una volta per tutte: non c’è posto per te sull’Enterprise» gli grugnì all’orecchio. «Non farai carriera. Anzi, non durerai altri sei mesi su questa nave. E lo sai perché? Perché non meriti di stare qui. Dillo ad alta voce!» ordinò, sbattendolo contro la paratia.

   Chase lo fissò sprezzante e tenne la bocca chiusa. Piccato, il Luriano lo sbatté di nuovo, con violenza. «Dillo, vigliacco!» inveì.

   «Vigliacchi siete voi, che vi accanite in cinque contro uno!» ruggì una voce femminile. Serleen N’Rass irruppe come una leonessa fra le iene, in difesa di Chase. La Caitiana aveva la criniera fulva agitata e le zanne in vista; gli occhi gialli scintillavano inferociti. Il Sulibano e i Cardassiani indietreggiarono immediatamente. Il Pakled esitò un attimo. Non appena la sua mente torpida comprese la situazione, anche lui si fece indietro.

   «Perché parteggi per questo rifiuto Umano?» chiese il Luriano con disgusto, continuando a pressare Chase contro la paratia.

   «L’Umano è mio amico e se gli torci un capello dovrai vedertela con me» avvertì Serleen, soffiando come un felino arrabbiato. Estrasse gli artigli della mano destra e li puntò alla gola del Luriano, fissandolo con sguardo assassino. Era completamente diversa dalla Caitiana allegra e scherzosa che tutti conoscevano. Il suo corpo snello era teso come una molla e le pupille verticali fissavano incollerite l’energumeno, mentre gli artigli snudati gli sfioravano la gola. Era capacissima di colpire.

   «Non ci sarà sempre lei a proteggerti» sibilò il Luriano, lasciando finalmente andare Chase. «Sappiamo dov’è il tuo alloggio!» aggiunse a mo’ di minaccia, puntandogli contro l’indice. Poi si ritirò in tutta fretta, scortato dai gregari. Il gruppetto svoltò l’angolo e sparì dalla vista – ma non dai pensieri – dei due amici.

   «Serleen, che farei senza di te?» disse Chase, sorridendo fiaccamente.

   «A volte me lo chiedo» sbuffò la Caitiana, rinfoderando gli artigli. «Prima l’Accademia, adesso qui. Devi smetterla di farti mettere i piedi in testa!».

   «Erano più di me e non volevo che la situazione degenerasse» si giustificò Chase. «Sai, devo unirmi al gruppo 7 per esplorare la Sfera...».

   «Ci sono anch’io nel gruppo 7» disse Serleen, impaziente.

   «... e una rissa prima della partenza mi avrebbe messo in cattiva luce. È la mia prima missione sul campo, devo essere impeccabile» proseguì Chase. «Quei cretini lo sanno, ecco perché mi hanno attaccato ora. Non ho voluto prestarmi al loro gioco».

   «Probabilmente hai ragione» ammise la Caitiana, più comprensiva. Si avviarono verso la sala teletrasporto, di buon passo per recuperare il tempo perso. «Comunque devi imparare a farti valere. Quel pezzo di dren ha ragione su una cosa: non ci sarò sempre io a toglierti dai casini. Lo capisci? Non lasciare che quel branco di deficienti ti minacci, o non la smetteranno più. Se vuoi essere un vincente, affronta i tuoi problemi!» lo esortò, con la foga che le era caratteristica.

   «Di questi tempi, sembra che il problema sia appartenere alla specie umana» disse Chase, di malumore. «Uno dei motivi per cui mi sono arruolato è che la Flotta era sempre stata immune da questi guai. Ma è cambiata... non è più la Flotta di una volta» sospirò, malinconico.

   «Non lo è» convenne Serleen. «Ma è quella in cui viviamo, porca miseria!».

 

   L’Enterprise-I, dall’inconsueto scafo a punta di freccia, si avvicinò alla superficie grigia della Sfera di Dyson, che ormai occultava metà delle stelle con la sua mole. Scoperta ufficialmente dall’Enterprise-D nel 2369 (benché l’USS Jenolan vi fosse precipitata già nel 2294), la Sfera era l’unica del suo genere nota alla Federazione, nonché la più imponente megastruttura mai rinvenuta nella Via Lattea. Era anche la più antica, avendo un’età stimata di milioni di anni. Circondava una stella di tipo G, simile al Sole ma decisamente più vecchia. Il diametro di 200 milioni di km le forniva una superficie interna di 250 milioni di pianeti terrestri: più di quanti ve n’erano nell’intera Galassia, secondo le stime. Ciò significava che, quand’era abitata, la Sfera ospitava una popolazione più numerosa di tutte le specie umanoidi sommate. Allora dov’erano finiti gli abitanti? A meno che avessero realizzato un’altra Sfera di Dyson, da qualche parte, erano troppi per nascondersi.

   Oltre agli immani problemi ingegneristici che un simile progetto comportava, la Sfera poneva domande filosofiche. Perché imbarcarsi in un simile sforzo, invece di colonizzare i mondi abitabili, come facevano la Federazione e le altre potenze galattiche? Perché restare così tenacemente aggrappati a un singolo sistema stellare, ormai morente? Anche supponendo che fosse il sistema d’origine dei creatori, non c’erano pianeti da analizzare per cercarne le tracce. Non c’erano nemmeno pianeti nani, asteroidi o comete. Tutta la materia era stata spianata e reimpiegata per costruire la Sfera. Molta altra, probabilmente, era stata risucchiata dalla stella stessa, un procedimento noto come “star-lifting”. La cosa più sconcertante era che lo strato esterno del guscio si componeva di carbon-neutronio, uno stato ultradenso della materia, che lo rendeva impervio agli asteroidi interstellari e a quasi tutte le armi note. La quantità di materia da compattare, e i problemi pratici del procedimento su così vasta scala, allibivano gli scienziati federali.

   L’Enterprise si diresse verso una depressione simile a un cratere, che spezzava la monotonia della superficie grigia. Era una delle migliaia di portali che costellavano la superficie esterna della Sfera, a intervalli regolari, per consentire l’ingresso delle astronavi. Ogni portale era circondato da antenne, perlopiù ancora attive, che emettevano segnali subspaziali a bassa intensità. Se un vascello si avvicinava a un portale ed effettuava una chiamata, innescava il sistema di guida automatica. L’ingresso si apriva e potenti raggi traenti agganciavano l’astronave, guidandola all’interno. La prima volta che ciò era accaduto, con l’Enterprise-D, la nave era stata trascinata all’interno contro la volontà degli occupanti. I raggi traenti si erano rivelati incompatibili con i sistemi energetici federali, tanto da danneggiare l’astronave, anche perché l’Enterprise aveva azionato i propulsori all’indietro cercando di non farsi catturare. Per fortuna, da allora era stata fatta molta strada. La Flotta Stellare aveva mappato gli ingressi e con i giusti segnali subspaziali aveva scoperto come entrare e uscire senza problemi. Nessuna nave rischiava più di rimanere intrappolata all’interno.

   L’Enterprise-I emise il segnale standard e il portale si aprì lentamente, dividendosi in quattro. Altrettanti raggi traenti agganciarono l’astronave e la guidarono dolcemente all’interno, superando lo spessore del guscio. Subito l’Enterprise fu investita da un violento flusso di particelle cariche: il “vento solare” della stella. In previsione del pericolo, la nave aveva già alzato gli scudi.

   Questo era uno degli aspetti più curiosi della megastruttura. Di regola le emissioni elettromagnetiche della stella – luce, calore, radiazioni – erano trattenute dal guscio. Perciò la Sfera era difficile da rilevare, a meno che un’astronave non passasse nelle immediate vicinanze. Solo gli effetti gravitazionali erano percepibili, ma fino alla scoperta ufficiale della Sfera si credeva che in quella zona vi fosse una concentrazione di Materia Oscura. Ecco perché, dopo la scomparsa della Jenolan, erano passati ben 75 anni prima che l’Enterprise-D giungesse a far luce sul mistero. Ma una volta entrati nella Sfera, tutto cambiava.

   Negli ultimi secoli, il vento solare era divenuto così intenso da rendere indispensabili gli scudi. Era il motivo per cui l’immensa superficie interna era stata abbandonata. In origine riproduceva un pianeta abitabile, con varie zone climatiche, oceani e un’atmosfera respirabile. La gravità in superficie era assicurata da piastre gravitazionali, alimentate (come i portali e i raggi traenti) dall’energia solare. Tutto era predisposto per imitare il più possibile un pianeta di classe M. Solo la notte era bandita da quel mondo cavo, che un tempo era senz’altro abitato, e da una popolazione incalcolabile, come indicavano i resti urbani. Ma invecchiando, la stella era entrata in una fase di grave instabilità. La sua temperatura e luminosità erano aumentate, come anche le eruzioni e i brillamenti solari, che scatenavano improvvisi picchi di radiazioni. La Sfera di Dyson era stata costruita per dissipare il calore e le radiazioni in eccesso, ma il loro continuo aumento si era fatto insostenibile, obbligando i costruttori ad abbandonarla del tutto. Per ironia della sorte l’enorme megastruttura, costruita smembrando il sistema stellare, era rimasta vuota.

   Nei 166 anni trascorsi dalla sua scoperta, le condizioni erano notevolmente peggiorate. La superficie interna continuava ad arroventarsi, facendo evaporare gli oceani, distruggendo le ultime tracce di vita vegetale e i resti delle città. L’atmosfera era ormai opaca, densa e caldissima. Tuttavia la Flotta Stellare continuava a studiare la megastruttura, per comprenderne la fantastica tecnologia, in parte ancora attiva. Centinaia di missioni scientifiche erano state organizzate per mappare ed esplorare l’immensa superficie interna, con i resti delle città, purtroppo compromessi da secoli di abbandono, di radiazioni e di calore.

   Oltre a questi fattori, sembrava che le città fossero state “smontate”, evidentemente dai costruttori stessi prima di andarsene, per evitare che le tecnologie più sofisticate finissero in mani altrui. Le fabbriche e i laboratori erano scomposti negli elementi di base, disposti a terra con ordine. Lo stesso valeva per gran parte delle opere pubbliche. Degli edifici civili – case e palazzi – restavano solo gli scheletri, depurati proprio da ciò che avrebbe permesso di conoscerne meglio gli abitanti. Tutti i congegni erano stati smontati a livello molecolare, evidentemente con qualche forma di nanotecnologia altamente selettiva. Soprattutto non c’era alcuna immagine dei costruttori: niente statue, quadri, olografie, insomma nulla che permettesse di ricostruirne l’aspetto. Solo la dimensione di corridoi e porte indicava che avevano dimensioni simili a quelle umane. E dai rari ritrovamenti d’oggetti di uso comune, come sedie e posate, o anche abiti, si era dedotto che fossero umanoidi. Questo era tutto. Si erano formulate molte teorie sull’identità degli artefici e sul loro attuale domicilio, ma finché non si fosse trovata qualche prova, restavano tutte congetture.

 

   L’Enterprise sfrecciò verso quello che, per convenzione, era considerato il polo nord della Sfera. Da una parte la stella sfolgorava, emettendo intense radiazioni elettromagnetiche. La sua fotosfera arancione era costellata di macchie scure; grandi eruzioni ad arco si sollevavano lentamente. Sull’altro lato la superficie della Sfera era bruna. Il suolo riarso era quasi invisibile, poiché gli oceani erano evaporati, opacizzando l’atmosfera. Forti venti spazzavano la superficie, senza trovare ostacoli in grado di fermarli. Immani tempeste di sabbia, migliaia di volte più estese dell’intera superficie terrestre, chiazzavano la faccia interna della Sfera. L’attrito di così tante particelle cariche creava fantastiche aurore variopinte, tempeste di fulmini e altri fenomeni elettromagnetici.

   Nella sala teletrasporto 3, Chase e Serleen attendevano con trepidazione di sbarcare, assieme al resto della squadra. Sopra l’uniforme d’ordinanza indossavano sofisticate tute spaziali, aderenti e flessibili, studiate per intralciare il meno possibile i movimenti.

   «Pronti al trasferimento» avvertì il tecnico del teletrasporto. La squadra si recò sulla pedana. Chase sentì battere forte il cuore, al pensiero che stava finalmente per visitare la più straordinaria megastruttura della Galassia. Ma sebbene non dubitasse della solidità delle tute, era lieto che la sua missione non lo portasse sull’infernale superficie.

   Tra le scoperte recenti di maggior interesse, infatti, vi erano alcune sale controllo ricavate nello spessore del guscio, specialmente nelle zone polari. Lì il calore e le radiazioni della stella non erano ancora saliti oltre i livelli di guardia. C’erano ambienti adatti agli umanoidi, con apparecchiature non del tutto smontate. Se si fosse trovato un database integro, o anche solo un’immagine dei costruttori, si sarebbe finalmente fatta luce sul mistero.

   L’Enterprise raggiunse il polo nord e cominciò a trasferire le squadre esplorative nelle intercapedini della Sfera. Era un’operazione delicata, perché il vento solare interferiva con il teletrasporto. Il segnale, inoltre, doveva attraversare centinaia di metri di materia ultradensa. Fortunatamente le navi di classe Altair erano equipaggiate con un teletrasporto ultimo modello. Il raggio passò attraverso gli scudi della nave, un trucco realizzabile solo conoscendone l’esatta frequenza, per non esporre l’Enterprise alle radiazioni. Con tutte queste limitazioni, gli esploratori furono trasferiti due alla volta, e solo dopo aver inviato cilindri di prova, contenenti materia organica.

   Alexander e Serleen furono gli ultimi della loro squadra ad essere trasferiti. Si materializzarono in un ambiente semibuio, ampio ma dal soffitto basso. I colleghi, giunti prima di loro, stavano piazzando dei riflettori per avere una luce più stabile e abbondante di quella delle torce da polso. Chase si guardò intorno con interesse. Il pavimento, le pareti e il soffitto erano di metallo grigio scuro, così poco riflettente da sembrare pietra. Però non c’era polvere, non essendovi pertugi da cui potesse penetrare. Per quanto fosse in stato d’abbandono, era difficile credere che quella sala fosse così antica. Da quanto tempo nessuno metteva piede lì? Mille anni, diecimila? Chi era stato l’ultimo a farlo? Forse i proprietari si aspettavano di tornare, prima o poi. Non immaginavano che quell’ambiente sarebbe rimasto inviolato per millenni.

   «Temperatura 9ºC, umidità 5%, pressione 947 millibar» disse Serleen, leggendo i dati proiettati all’interno del casco. «Saranno state queste, le condizioni ambientali adatte ai costruttori?».

   «Non la temperatura» rispose Chase distrattamente, guardandosi attorno. «Dev’essere crollata vicino allo zero assoluto per secoli, e solo di recente ha preso a rialzarsi, man mano che l’interno della Sfera si arroventa. Fra cent’anni farà caldo anche qui. Gli altri valori probabilmente non sono cambiati molto. Siamo in una cavità ricavata nel neutronio... è decisamente a tenuta stagna».

   Chase tacque e contemplò la sala con emozione, quasi con riverenza. Sulle pareti c’erano venature che disegnavano grandi ovali, come se fossero schermi visori. Ma dentro gli ovali la superficie era metallica, come i muri circostanti, senza dispositivi per proiettare le immagini. Supponendo che fossero davvero schermi, forse erano olografici, si disse il giovane. C’erano anche delle specie di consolle, ma senza comandi in vista. Una delle cose più frustranti, nell’esplorazione della Sfera di Dyson, era che ancora non si era trovato nulla di scritto. Non si conoscevano fonti letterarie, né registrazioni audio, insomma nulla che rivelasse il linguaggio dei costruttori. Non si sapeva nemmeno quali segni grafici componessero il loro alfabeto, e quali usassero per i numeri e i calcoli matematici. Trovare fonti scritte o audio era quindi uno degli obiettivi prioritari della missione. Anche in mancanza di lunghi testi da tradurre, si sarebbero potuti fare confronti con le lingue e gli alfabeti noti, individuando le somiglianze che potevano dare un volto ai costruttori.

   «Non c’è dubbio, è una sala controllo... se non proprio un centro di comando» mormorò Chase. Davanti ad alcune postazioni c’erano persino delle poltroncine. Il giovane resistette all’impulso di sedersi, per scoprire se erano ancora comode, e si avvicinò a una parete, notando che anche lì c’erano venature.

   «Ma i comandi dove sono?» chiese Serleen, osservando interdetta le consolle piene di ghirigori metallici.

   «Forse sono proprio questi» ipotizzò Chase, sfiorandoli con la mano guantata. Non ci furono reazioni. «Immagino che siano guasti o privi d’energia. Ma da qualche parte ci sarà un computer. Troviamolo e sveleremo i segreti della Sfera».

   «Radiazioni entro i livelli di guardia. Non rilevo agenti patogeni, né alcun tipo di contaminazione» informò una collega biologa. «Permesso di togliere il casco?» chiese al caposquadra.

   «Negativo, prima condurremo esami più approfonditi» rispose il Tenente. «Ora dividiamoci; abbiamo molti ambienti da esplorare. Rimanete in coppia e state vicini ai droni rilevatori. Appuntamento qui fra un’ora. Cercate apparecchi ancora in funzione. Massima attenzione per le fonti scritte e iconografiche» raccomandò.

   La squadra si divise in tante coppie, ciascuna delle quali imboccò un percorso diverso, seguendo un drone rilevatore. Questi congegni galleggiavano a due metri da terra, procedendo a passo d’uomo, e mappavano costantemente tutto ciò che incontravano. Condividendo i dati raccolti, tracciavano una mappa tridimensionale dell’ambiente alieno. Sulla plancia dell’Enterprise, il Capitano e gli ufficiali superiori vedevano crescere in tempo reale la mappa dell’installazione.

   «Se si è conservato qualcosa dei costruttori, non può che essere in quest’intercapedine» commentò Chase, mentre lui e Serleen percorrevano un lungo corridoio. «Se solo trovassimo il computer...» ripeté.

   «Posto che i proprietari non l’abbiano formattato, prima d’andarsene» obiettò Serleen. «Considerando come sono stati meticolosi all’interno della Sfera, mi stupirei se non l’avessero fatto».

   «Mah, ho la sensazione che abbiano tenuto operative queste sale fino all’ultimo, mentre evacuavano la struttura» disse Chase, guardandosi attorno con circospezione. «Forse speravano di tornarci, se la stella si fosse calmata».

   «E se tornassero adesso?» chiese provocatoriamente la Caitiana. «Non dico in questo momento preciso... intendo adesso che la Federazione presidia la Sfera».

   «In tal caso, spero che non se la prendano per l’intrusione» disse l’Umano. «Dopotutto la Sfera era qui... e anche se hanno smontato le città, è evidente che non hanno voluto distruggerla completamente. Dovevano immaginare che qualcuno sarebbe venuto a dare un’occhiata».

   «Ma tu credi che siano ancora vivi?».

   «È probabile, considerando il loro numero» rispose Chase. «Qualunque cosa in grado di sterminare un popolo così numeroso avrebbe fatto piazza pulita anche delle altre specie... noi compresi».

   «Ma se erano così tanti, e così potenti, che fine hanno fatto?» chiese ancora Serleen. Sapendo che l’amico aveva studiato a lungo la Sfera, non esitava a fargli tutte le domande che le frullavano in testa.

   «Bella domanda!» ridacchiò Chase. «Gli archeologi federali se lo chiedono da generazioni. Forse i costruttori sono ascesi a un piano di puro pensiero. Forse si sono rifugiati in una realtà virtuale. O forse sono emigrati in un’altra galassia. Chi può dirlo? Certo, non sarebbe male se avessero lasciato qualche traccia di sé, e magari l’indicazione della nuova residenza. Invece hanno fatto di tutto per cancellare le tracce. Si direbbe che non vogliano essere conosciuti, né seguiti. Mi domando il perché...» aggiunse meditabondo.

   «Spero che non abbiano la coscienza sporca» disse Serleen.

   Poiché erano giunti davanti a un portone chiuso, Chase prese un’unità di sblocco dalla sua valigetta degli strumenti. Era un sottile disco metallico, largo un palmo, che aderì alla porta quando ve lo applicò. Attivato, il congegno individuò la direzione di scorrimento del portone, dal basso verso l’alto. Si mosse in quella direzione, aderendo tenacemente, per costringerlo ad aprirsi. Siccome la pesante lastra metallica faceva resistenza, Serleen prese un’altra unità di sblocco e la mise di fianco alla prima. Insieme, i due congegni riuscirono ad alzare lentamente il portone, con un lungo e sgradevole cigolio.

   Emozionati, Alexander e Serleen entrarono in un vasto salone, consci di essere i primi a visitarlo dopo millenni. Era immerso nelle tenebre; solo le loro torce da polso ne illuminavano qualche sprazzo. Le pareti, scure e scabre, erano leggermente concave, oltre che percorse da costoloni sporgenti. I federali avevano l’impressione di entrare in una vasta cassa toracica. Ad ogni passo udivano le suole delle tute che ticchettavano contro il pavimento metallico. Il drone si alzò di quota, per esaminare meglio il salone. L’unico arredamento erano massicce panche, poste a intervalli regolari, come se quella fosse una sala conferenze. O una cattedrale, si disse Chase. Ma se era un luogo di culto, dov’erano le immagini sacre? Il Guardiamarina puntò la torcia verso le pareti, disadorne come al solito. Beh, si disse, non tutte le religioni facevano uso d’immagini. Sulla vecchia Terra, due delle tre fedi monoteiste erano aniconiche. In realtà non c’era nulla in quella stanza che facesse pensare a un tempio, salvo la forma organica, diversa dalle altre, e le panche. Eppure l’idea gli ronzava in testa. Si disse che era illogico: una specie tecnologicamente progredita come quella doveva essersi lasciata alle spalle le antiche fedi.

   «Direi che qui non c’è niente» commentò Serleen. «Vogliamo andare? Anche il drone ha finito...» disse, impaziente di esplorare altre sale.

   «Aspetta» disse Chase, procedendo tra le file di panche. Avanzò verso la parete di fondo del salone, coperta di venature metalliche in rilievo. Non erano motivi ornamentali, né cornici vuote... questi erano veri e propri simboli, divisi in più righe. Formavano una lunghissima iscrizione, che copriva quasi interamente la parete, lasciando però uno spazio vuoto al centro.

   «Finalmente la scrittura!» esultò Serleen. «Riprendi tutto, drone. È una grande scoperta... e l’abbiamo fatta noi!» gongolò. Il drone pigolò in assenso.

   «Io credo di averne fatta un’altra» disse Chase, cupo. Si era inginocchiato accanto a un mucchietto di polvere e lo stava esaminando con il tricorder. «Vediamo... carbonio, azoto, ossigeno, idrogeno. Tracce di calcio, fosforo, potassio, sodio e zolfo. Uhm... questa è chimica organica. Si direbbe che qualcuno sia morto qui. Ma non posso stabilire con precisione a quale specie appartenesse».

   «E quando sarebbe morto? Un miliardo d’anni fa?» chiese Serleen, stupita dallo stato dei resti.

   «Solo cinquecento anni, a giudicare dal carbonio-14» rilevò Chase. «Non è detto che fosse uno dei costruttori... forse era solo un visitatore, come noi. E qualcosa l’ha ridotto in questo stato». I due Guardiamarina si guardarono attorno, innervositi.

   «Sai, mi sono appena ricordata di un impegno urgente» disse Serleen, affrettandosi verso l’ingresso. Ma non era neanche a metà strada che il portone si chiuse di schianto, in barba alle unità di sblocco.

   «Frell!» imprecò la Caitiana. «Guardiamarina N’Rass a Tenente Bodhi, mi riceve? Io e Chase siamo rimasti bloccati in un salone! Tenente, riesce a sentirmi?!» esclamò, sempre più agitata. Dal comunicatore non giungeva alcuna risposta.

   Anche Chase fece un tentativo, senza esito. Controllò il drone e scoprì che pure quello aveva perso il collegamento con gli altri. C’era come un campo di dispersione, che impediva le comunicazioni.

   «Guardiamarina N’Rass a chiunque sia in ascolto... rispondete, per favore. Guardiamarina N’Rass a Enterprise... dite qualcosa, maledizione!» gridò Serleen, camminando avanti e indietro, come una leonessa in gabbia.

   «Va bene, calmati» disse Chase, afferrandole le mani. «Quando i nostri colleghi non ci vedranno tornare, verranno a cercarci. Forse hanno già notato che il drone ha smesso di trasmettere. E siccome questa è l’ultima posizione che ha inviato, sanno dove siamo. È solo questione di tempo, prima che ci tirino fuori».

   «Hai ragione... ma questo posto mi fa venire la claustrofobia!» disse Serleen, dando un calcio al portone. «Spero che non ci mettano troppo a liberarci. Non voglio finire come... quello lì!» disse la Caitiana, accennando al mucchietto di elementi chimici.

   Chase aggrottò la fronte, preoccupato, ma invece di avvicinarsi ai resti polverizzati tornò alla parete di fondo. Usando sia il drone che il tricorder, esaminò l’iscrizione. Notò che i simboli grafici erano pochissimi, appena quattro, e si ripetevano in sequenze all’apparenza caotiche. Talvolta lo stesso simbolo era riportato più e più volte di seguito. Le linee di testo erano separate da un fregio a doppia elica intrecciata. Fu quello a fugare ogni dubbio.

   «Sono basi azotate» comprese il giovane. «Adenina, timina, citosina, guanina. Assieme agli zuccheri pentosi e ai gruppi fosfati formano i nucleotidi, gli elementi base del DNA».

   «Vuoi dire che qui sopra è riportato un codice genetico?» s’incuriosì Serleen, dimenticando temporaneamente la claustrofobia.

   «Ci puoi scommettere; lo sto già traducendo» confermò Chase, lavorando con il tricorder. Trascorse qualche minuto di silenzio.

   «Allora, cos’è? O chi è?» chiese Serleen, impaziente.

   «Siamo... noi» mormorò Chase, colpito.

   «Come?!» esalò la Caitiana.

   «Non c’è dubbio» confermò l’Umano, osservando le letture del tricorder. «Questa particolare sequenza si trova nel genoma di tutte le specie umanoidi conosciute. Solo che... è incompleta. Manca la parte centrale, vedi?» spiegò, indicando il vistoso vuoto al centro.

   «Che stai cercando di dirmi... che è una specie d’enigma?» chiese Serleen, serissima.

   «Più che probabile. E il nostro amico, qui, potrebbe aver dato la risposta sbagliata. Forse non ha capito la domanda, o forse non apparteneva esattamente a una specie umanoide» annuì Chase, indicando il mucchietto di polveri chimiche.

   «Aspetta... so cosa ti frulla in testa, ti conosco troppo bene» disse Serleen, fissandolo allarmata. «Vuoi inserire la sequenza giusta... non puoi fare sul serio! Hai visto com’è finito l’ultimo che ci ha provato?!» sbraitò.

   «Posso farcela» assicurò Chase.

   «Ma non volevi aspettare che ci salvassero? Cos’è questa smania?!» protestò la Caitiana.

   «Beh, chiaramente la struttura in cui ci troviamo è ancora... viva, o attiva. Mettila come vuoi, ma reagisce agli stimoli» ragionò Chase. «Se le si dà lo stimolo sbagliato, la risposta può essere violenta. Ma temo che anche l’assenza di segnali sarebbe interpretata come inadeguatezza. E può darsi che non ci siano solo le nostre vite in gioco. I nostri compagni di squadra sono nelle stanze qui attorno e l’Enterprise è in orbita dentro la Sfera. Immagina che accadrebbe, se questa decidesse che è un’astronave ostile».

   «In un secolo e mezzo di studi, non sono state trovate armi...» obiettò Serleen.

   «Bastano i raggi traenti dei portali per fare a pezzi una nave, specialmente se non se l’aspetta. E chissà che altro si nasconde in queste intercapedini!» controbatté l’Umano. «No... ci è stata fatta una domanda e dobbiamo rispondere» disse con decisione.

   «E sai come fare?» chiese Serleen, inquieta.

   «Beh, gli artefici dovrebbero venirci incontro. In fondo, vogliono che rispondiamo» disse Chase, armeggiando con il tricorder. «Ah, ecco... rilevo un debole segnale subspaziale. La sequenza corrisponde con il codice genetico che abbiamo davanti, il che ci fornisce l’indispensabile abbinamento simbolo/segnale. Ora non dobbiamo fare altro che tradurre il segmento genetico mancante in segnali che il drone può emettere».

   Nell’arco di pochi, tesissimi minuti, i due amici completarono la traduzione con il tricorder e istruirono il drone perché la ritrasmettesse in segnali subspaziali. Chase sentiva il sudore che gli imperlava la fronte, malgrado la tuta lavorasse per mantenere bassa l’umidità. Il minimo errore poteva costare la vita, e forse non solo a loro due. Per sicurezza, confrontò la sequenza genetica incriminata con quella di molte specie umanoidi, accertandosi che non ci fossero variazioni. Ne trovò solo un paio, ma giunse alla conclusione che erano mutazioni recenti e isolate. Non poteva privilegiarle rispetto alla sequenza più antica e diffusa.

   «L’ora della verità» mormorò il giovane, avviando la trasmissione. Fu questione di un istante. I due Guardiamarina chiusero gli occhi, come aspettandosi il disastro... ma i secondi passarono senza che accadesse nulla. Dopo un po’ si azzardarono ad aprire gli occhi. Guardarono di sbieco la parete, immutata, e poi si scambiarono un’occhiata nervosa.

   «Forse questa roba non funziona più» ipotizzò Serleen. «Ci siamo preoccupati per nien...». Come per contraddirla, qualcosa si mosse. Rivoli di metallo scorsero sulla parete, fluidi come il mercurio, ma aderenti alla superficie. Disegnarono nuovi simboli che riempirono lo spazio vuoto. La sequenza genetica era completa. Ci fu un tremito, accompagnato da un boato, e l’intera parete si sollevò, rivelando un ambiente segreto.

   Più che una sala era un’alcova di grandi dimensioni. La sua disposizione, in fondo alla “navata”, la faceva somigliare vagamente all’abside di una cattedrale. Al centro troneggiava un basamento con un’iscrizione, sormontato dalla statua argentea di una creatura umanoide.

   Alexander e Serleen si avvicinarono in soggezione, senza dire alcunché, e la osservarono da varie angolazioni. Il fatto che la statua torreggiasse su di loro dipendeva solo dalla base: quando Chase l’esaminò con il tricorder, vide che la scultura in sé era alta appena 175 cm. Probabilmente era a grandezza naturale, rifletté. Ritraeva un’aliena che indossava una veste semplice, lunga fino ai piedi. I suoi lineamenti erano abbozzati, quasi fetali: occhi infossati nel cranio, orecchie ridotte a poco più che fori, naso schiacciato. Non aveva capelli. Il cranio voluminoso era un po’ allungato all’indietro e presentava una lieve scanalatura in sommità, come a segnare la divisione tra gli emisferi cerebrali. Le mani avevano cinque dita e proporzioni del tutto umane.

   «È una Proto-Umanoide» mormorò Chase con riverenza. «Ma certo... questo spiegherebbe molto...».

   «Credevo che i Proto-Umanoidi fossero una leggenda» obiettò Serleen. «Le basi scientifiche della loro esistenza sono... beh, discutibili».

   «Non più» rispose Chase, leggendo i dati sul tricorder. «La scultura è in lega di platino-iridio, praticamente eterna. Potrebbe avere milioni di anni. L’aspetto coincide senz’altro con la firma genetica lasciataci dai Proto-Umanoidi. Quanto all’iscrizione sul basamento... uhm, questi caratteri sono diversi da quelli sul muro» notò. Profondamente incisi, erano semplici puntini e lineette, talvolta dritte, talvolta piegate a V. Li sormontava un cerchio con un grosso punto al centro.

 

 

•‖• < ― > •‖•

 

   «Mi sa che finalmente abbiamo trovato il loro alfabeto» commentò Serleen, soddisfatta. «Peccato ci sia solo questa breve iscrizione! Sarà il suo nome, e magari la sua qualifica o il suo grado» aggiunse, accennando alla statua. «Sempre che sia una figura storica e non mitica».

   «Chissà come si pronunciava» disse Chase. «Hai notato che è un palindromo? Si legge allo stesso modo nelle due direzioni. E questo simbolo raffigura senz’altro la Sfera di Dyson... se non è l’emblema dell’intera civiltà» proseguì, indicando il cerchio con il punto centrale.

   «Tenente Bodhi a guardiamarina Chase e N’Rass, tutto a posto?». La voce del caposquadra giunse da entrambi i comunicatori.

   «Direi di sì» rispose Serleen, notando che l’ingresso del salone si era riaperto.

   «Non riuscivo a contattare le squadre e nemmeno l’Enterprise, per via di un campo di dispersione, ma ora è cessato» spiegò il Tenente, sollevato. «Raduniamoci al punto d’arrivo per capire cos’è successo».

   «Noi crediamo di saperlo, signore» disse Chase, scrutando la statua di platino-iridio. «Se ha di nuovo la nostra posizione, è meglio che venga a dare un’occhiata».

 

   Quella sera, redigendo il suo rapporto missione, Chase si chiese se descrivere semplicemente i fatti o aggiungere anche le sue considerazioni personali. Il ritrovamento della statua aveva risposto ad alcune domande, ma – come spesso avveniva nell’esplorazione – ne aveva sollevate molte altre. Alla fine Chase espose le sue riflessioni, pur sottolineando la necessità di procedere nell’esplorazione delle intercapedini.

   Il punto più delicato, naturalmente, era l’attribuzione della Sfera all’opera dei Proto-Umanoidi, la stirpe ancestrale che avrebbe originato tutte le successive specie umanoidi della Via Lattea. La loro stessa esistenza era congetturale, ipotizzata dai raffronti genetici fra le specie attuali, dai resti di antiche megastrutture e dall’osservazione che molti popoli umanoidi furono trasferiti da un pianeta all’altro in epoche remote. Ma solo dal XXIV secolo i Proto-Umanoidi avevano un volto, grazie alle ricerche del professor Galen, famoso archeologo federale. La sua scoperta aveva cambiato il modo in cui gli umanoidi si percepivano l’un l’altro, anche se era lungi dall’essere accettata da tutti.

   Terminato il rapporto, Chase si recò al ponte ologrammi. Sebbene fosse tardi, non si stupì di vederlo attivo. Sapeva chi lo stava usando. Superò l’ingresso ad arco e si trovò in un ambiente desertico, pieno di antiche rocce consumate dal tempo e dagli agenti atmosferici. Era il letto di un antico mare prosciugato. Il sole di quel mondo morente tingeva le rocce di sfumature ocra, beige e rosate. Chase seguì un percorso breve e accidentato che lo condusse a uno spiazzo. Qui lo attendeva la Proto-Umanoide, vestita con un semplice abito bianco. L’ologramma era stato bloccato da Serleen, che l’osservava a pochi passi di distanza, appoggiata alla parete rocciosa. Colori a parte, la Proto-Umanoide era identica alla statua che avevano rinvenuto nella Sfera di Dyson. Aveva la pelle di un rosa scuro, quasi marroncino, ma gli occhi infossati erano chiari. Il cranio glabro e un po’ allungato aveva una fitta trama di vene in sommità.

   «Riecco la nostra amica» esordì Chase. «E questo è Vilmor II?» chiese, accennando al paesaggio desolato.

   Serleen annuì. «È qui che l’equipaggio dell’Enterprise-D completò la ricerca del professor Galen sui marcatori genetici inter-specie. Li misero in relazione, ne estrassero un algoritmo e lo tradussero in questo messaggio. Computer, replica!» ordinò la Caitiana.

   La Progenitrice si mosse leggermente e parlò, con voce lenta e chiara. «Vi starete chiedendo chi siamo, perché abbiamo fatto questo e com’è possibile che io sia qui davanti a voi, l’immagine di un essere di così tanto tempo fa» esordì. Il suo atteggiamento era composto e sereno, ma negli occhi grigio-azzurri aleggiava un velo di malinconia.

   «La vita si è evoluta sul mio pianeta prima di tutte le altre, proprio in questa parte della Galassia. Abbiamo lasciato il nostro mondo, esplorato gli astri... e non abbiamo trovato nessuno come noi» spiegò la Proto-Umanoide, con triste rassegnazione.

   «La nostra civiltà ha prosperato per molti secoli, ma cos’è in fondo la vita di una razza, in confronto alle vaste estensioni del tempo cosmico?» aggiunse filosoficamente. «Sapevamo che un giorno saremmo scomparsi, che niente di noi sarebbe sopravvissuto, così vi abbiamo lasciato un’eredità. I nostri scienziati hanno inseminato gli oceani primordiali di molti mondi, in cui la vita era ancora ai primordi. I marcatori genetici hanno indirizzato la vostra evoluzione verso una forma fisica simile alla nostra, cioè a questo corpo che vedete davanti a voi» disse solennemente, sollevando le palme delle mani. «Che ha, naturalmente, la stessa forma del vostro... perché voi siete il risultato finale. I marcatori genetici contenevano anche questo messaggio, i cui frammenti sono stati sparsi da noi in molti mondi diversi.

   La nostra speranza era che arrivaste tutti insieme, in amicizia e fratellanza, a sentire questo messaggio. E adesso che mi vedete e riuscite a sentirmi, la nostra speranza si è realizzata. Voi siete un monumento... non alla nostra grandezza, ma alla nostra esistenza. Questo desideravamo: che anche voi conosceste la vita, e che teneste viva la nostra memoria» disse umilmente. Dopo di che la sua voce si fece più bassa e intima, come per dare un consiglio o un ammonimento: «C’è una piccola parte di noi in ognuno di voi... e di conseguenza, qualcosa di voi in tutti gli altri. Ricordatevi di noi!».

   Il messaggio, giunto dagli abissi del tempo, era terminato. «Computer, blocca» ordinò Serleen, prima che la Proto-Umanoide svanisse. Voleva osservarla ancora. «Ricordo quando vidi l’ologramma a scuola, per la prima volta» disse la Caitiana, girandole intorno. «Già allora mi sembrò una cosa strana. E col tempo i dubbi sono aumentati» ammise, corrucciata.

   «Eppure lo proiettano ancora, nel Giorno della Federazione» sorrise Chase, ironico.

   «La Federazione lo usa come propaganda, per favorire la convivenza tra specie» rispose Serleen, impaziente. «Per carità, va bene... ma il messaggio è stato creato in modo poco scientifico».

   «So cosa intendi» annuì Chase. «Il professor Galen basò tutto sull’osservazione che molte specie presentano marcatori genetici comuni, pur provenendo da pianeti diversi, anche molto lontani fra loro. Raccogliendoli dai quattro angoli della Galassia, mise insieme questo messaggio commovente. Ma quant’è affidabile un lavoro del genere? Dopotutto la scelta dei marcatori genetici e del modo di correlarli è arbitraria. Con qualche piccola modifica si può farle dire qualunque cosa» disse, indicando la Progenitrice. «Avrai visto anche tu quei video umoristici in cui la fanno cantare e ballare, o le fanno dire scemenze, o le cambiano la testa. Non sono tutte parodie da quattro soldi. Alcuni sono lavori “seri”, cioè fatti inserendo altri marcatori genetici o impostando altre matrici di traduzione. Certo, la Federazione continua a sostenere la bontà della teoria di Galen, visto che le fa comodo. Ma finora l’esistenza dei Precursori non era dimostrata. Noi abbiamo trovato la prima, vera prova. Quella statua di platino-iridio è identica alla Progenitrice... quindi è probabile che il metodo di Galen fosse corretto» concluse.

   «Non so... la sua teoria s’incastra male nel quadro dell’evoluzione per selezione naturale» obiettò Serleen. «Sembra una riedizione del vecchio Disegno Intelligente. Personalmente non mi piace l’idea che questi esseri siano i nostri... antenati, o creatori» disse a disagio, squadrando la Progenitrice.

   «Anche noi siamo creatori, in un certo senso» notò Chase. «Abbiamo realizzato androidi, ologrammi... ogni genere d’Intelligenza Artificiale. E in linea di massima, l’abbiamo fatto per motivi egoistici: perché ci aiutino nel lavoro, o c’intrattengano. Non è una bella cosa da dirgli in faccia, ma è così. Almeno i Progenitori non ci hanno costretti a lavorare per loro. Anzi, se è vero che sono tutt’uno coi Preservatori, si sono impegnati per proteggere molti popoli dall’estinzione, trasferendoli su altri pianeti».

   «Se sono la matrice originale, tutti noi siamo... copie, o varianti di quel progetto» ragionò Serleen. Quell’idea la turbava, anzi la destabilizzava nel profondo. Si sentiva privata della sua identità, della sua originalità.

   «Anche se ci hanno creati... o hanno favorito in qualche modo la nostra evoluzione... non vuol dire che siamo i loro burattini» sostenne Chase, intuendo il suo pensiero. «Abbiamo la nostra vita, il nostro arbitrio. Come ha detto la Progenitrice, c’è una parte di loro in ognuno di noi... ma ci sono anche delle differenze, che ci rendono unici».

   «Computer, accedi al database genetico» ordinò Serleen, colta da un’intuizione. «Confronta il DNA di tutte le specie umanoidi note, basandoti sulle possibilità d’incrocio interspecie. Se gli umanoidi s’incrociassero per milioni di anni, fino a confluire in una popolazione omogenea... quale sarebbe il suo aspetto?» volle sapere.

   «C’è un elevato margine d’incertezza, dovuto alle molte variabili» rispose il computer. «Lo studio più rigoroso è stato compiuto dieci anni fa su Babel, da un’equipe di antropologi e genetisti federali. La ricerca è disponibile su Memory Alpha, all’indirizzo...».

   «Mostrami la ricostruzione e basta» tagliò corto la Caitiana.

   «Eseguo» disse il computer.

   Una seconda figura umanoide, sempre vestita di bianco, comparve accanto alla Progenitrice. La somiglianza era impressionante. Identiche per statura e corporatura, avevano lo stesso testone calvo e la stessa pelle beige. Gli occhi della nuova arrivata erano meno infossati e il cranio non presentava né scanalatura centrale, né vene in evidenza. Ma a parte questi dettagli, le due aliene erano così simili da sembrare membri della stessa specie.

   «Dall’Uno al Molteplice, e poi di nuovo all’Uno» mormorò Chase, colpito. «Chissà... se non riusciremo a trovarli, forse ci trasformeremo noi in loro! Spero che ne valga la pena».

   «Non so... ci sono ancora così tanti punti oscuri in questa faccenda...» mugugnò Serleen, poco convinta. «I marcatori genetici più antichi che ci accomunano risalgono a quattro miliardi d’anni fa. Secondo la teoria di Galen, è quello il periodo in cui i Proto-Umanoidi furono attivi. E la Progenitrice ha confermato che il suo popolo inseminò il brodo primordiale» aggiunse, indicando l’incriminata. «Ma la Sfera di Dyson sembra abbandonata da pochi millenni. Quale specie tecnologica dura così a lungo? Siamo parecchi ordini di grandezza fuori scala! Le civiltà più antiche che conosciamo hanno pochi milioni d’anni, e perlopiù sono ascese in forme di puro pensiero, come gli Organiani. Perché i Precursori, che sono di gran lunga i più vecchi, non ci sono riusciti?».

   «Non so che dire» ammise Chase. «Forse non sono realmente così antichi, oppure hanno avuto dei problemi ad ascendere. Forse hanno viaggiato avanti nel tempo per vedere il frutto delle loro fatiche» suggerì.

   «Ma che fine hanno fatto?» insisté la Caitiana. «Se fossero rimasti attivi fino a tempi così recenti, sarebbero entrati in contatto con specie che esistono ancora oggi; specie confluite nella Federazione. Invece, niente!».

   «Magari preferiscono semplicemente stare in disparte» disse Chase, facendo spallucce. «Chi lo sa... per quanto ci lambicchiamo il cervello, li conosciamo ancora troppo poco. Forse un giorno ne sapremo di più. Ma può anche darsi che non scopriremo mai la verità» aggiunse, scambiando uno sguardo sconsolato con l’amica. A pochi passi da loro, gli ologrammi della Progenitrice e dell’Erede – il passato e il futuro – stavano immobili ed enigmatici.

 

   
 
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