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Autore: Black Swallowtail    15/01/2019    1 recensioni
“Hum954, rispondi. Hum954, rispondi. C'è una nuova locazione, nuove coordinate.”
Sicuramente il ronzio fastidioso appena dietro alla mia testa è quello della radio.
Senza dubbio, questa voce distorta, fuoriuscita da abissi elettronici tanto lontani da non poterli nemmeno immaginare, viene dalla radio.
Buongiorno, provo a dire alla macchina, ma ancora una volta riesco ad emettere solo un patetico e basso guaito. Animalesco, ferale, non umano. Mi tasto la gola, come se potessi trovare la fonte del disturbo. So benissimo cos'è. È inutile toccare. Quando non si usa qualcosa per tanto tempo, inizia ad arrugginirsi.
“Hum954, ecco le nuove coordinate. Verranno ripetute due volte. Sei pregato di annotarle e memorizzarle. Non ci saranno ulteriori comunicazioni fino a domani.”
Genere: Introspettivo, Science-fiction | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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954

 

Hum954, rispondi. Hum954, rispondi. C'è una nuova locazione, nuove coordinate.”

 

Sicuramente il ronzio fastidioso appena dietro alla mia testa è quello della radio.

Senza dubbio, questa voce distorta, fuoriuscita da abissi elettronici tanto lontani da non poterli nemmeno immaginare, viene dalla radio.

Le coperte ruvide che erano così morbide nel mio sogno, grattano la pelle e sembrano quasi volermi avviluppare come un bozzolo. E d'altronde, non sono nemmeno vere coperte.

Scosto il telo accartocciato e pungente, lasciandolo scivolare a terra senza un rumore; troppo sottile per dare anche solo l'impressione di un buon riposo, troppo pungente. Troppo funzionale, effettivamente.

Con gli occhi ancora pesanti, ma già aperti, sbarrati, mi tiro in piedi di scatto. Un'abitudine ormai impiantata nel mio essere, un riflesso a cui rispondo come un animale – quando la radio si accende, io sono sveglio.

È la migliore sveglia, quando riesco a dormire; ed è il suono più vicino a quello di un essere umano, questa voce che a malapena filtra attraverso le statiche, il rumore bianco. Le comunicazioni sono difficili, arrivano a fatica in un luogo sperduto nel nulla come questo. I tralicci riescono a malapena a stare in piedi.

La coperta... no, il telo, di quel colore nerastro lucido, come un sacco della spazzatura, scivola dalle mie gambe, staccandosi dalla mia pelle come un serpente che faccia la muta. Quando si strappa, lo sento come perdere la forma del mio corpo, come se stessi uscendo da un sarcofago. Ci ho fatto l'abitudine. All'inizio, mi faceva sentire soffocato. Non riuscivo a respirare ed annaspavo, cercando di strapparmela di dosso. Solo quando ho capito che, rilassandosi, si allontana e si strappa via, ho capito che è come un animale che senta la paura.

Questo ronzio, queste parole ripetute automaticamente, come un sussurro meccanico all'orecchio, sono attutite, a fatica riescono a solleticare i miei sensi. Sento una parte di me che insiste, dice che dovrei alzarmi e andare a premere il pulsante, la manopola su quel cassone scuro per confermare la posizione.

Eppure, mi sento schiacciato orribilmente dall'indolenza. Forse è per via della scalata di ieri, ma il mio corpo è pesante e lento, come se anche solo tirarmi a sedere fosse uno sforzo disumano. Allungo la mano a stropicciarmi gli occhi, la luce dell'alba smorta e lattea filtrano attraverso le finestre posticce; più che finestre, ricordo a me stesso, sono buchi nella lamiera. Chiamarli con un altro nome non cambierà il loro squallore.

Onestamente, non capisco perché mi disturbi ancora, questa cosa, questo “squallore.” Se ci fosse qualcuno a vedermi, forse potrei sentirmi infastidito. Ma se non c'è nessun altro—

Hum954, rispondi. C'è una nuova locazione, nuove coordinate. Se tra due minuti e ventisei secondi questo messaggio non riceverà risposta, inizieranno i protocolli di presunta morte o sparizione.”

Vorrei dirgli di smetterla, che non sono morto, sono solo troppo stanco per alzarmi. Ma sarebbe inutile, oltre che una bugia. Nessuno può sentirmi, da questo lato, nessuno può comunicare con me, o forse nessuno può; ci ho fatto l'abitudine. Ci ho provato per anni. Ad un certo punto, mi sono rassegnato.

Sarebbe una bugia, poi, perché non sono davvero stanco. Sono solo terribilmente indolente. Oscenamente incapace di alzarmi, di premere il pulsante e di segnare sulla mappa sgualcita la nuova meta.

Ci sono volte in cui vorrei solo dormire un altro po'... No, anche questa è una bugia. Dormire è una condanna per me. Non solo perché il telo, la coperta, mi si avvolge addosso come un sudario; i miei sogni sono una delle cose peggiori che potesse capitarmi. Sono troppo vividi, troppo tangibili. Mi sveglio con una fitta al petto, sperando siano reali abbastanza da persistere, quando apro gli occhi.

Purtroppo, in quei momenti, quando effettivamente riesco a sognare, una parte del mio cervello soffocato e stanco capisce che si tratta di una bugia. Quei momenti, tra veglia e sonno, in cui sono consapevole che sia tutto un'illusione... Sono assolutamente i peggiori.

Quando ci penso, mi rendo conto che non è così male, alzarsi da questo giaciglio scomodo. Mi dico che, qualsiasi cosa mi riserbi il mondo fuori, sicuramente è meglio di rimanere sdraiati, insaccati, ad illudersi amaramente.

Mi passo una mano sul volto, la barba solletica le dita. Non ricordo quando è stata l'ultima volta che mi sono rasato. Non ho mai avuto il tempo, negli ultimi mesi. Forse dovrei—

Un minuto e quindici secondi all'inizio della procedura. Hum954, rispondi. C'è una nuova locazione, nuove coordinate. Se tra un minuto e dodici secondi questo messaggio non riceverà risposta, inizieranno i protocolli di presunta morte o sparizione.”

Apro la bocca, secca e riarsa, la gola fa male quando inizio a preparare una risposta. Una risposta secca quasi quanto il deserto delle mie corde vocali, che nasce e muore prima di arrivare alla mia bocca. Solo un grugnito di fastidio, di quelli che escono fuori quando il mio corpo protesta per la fatica.

Abbasso gli occhi verso il pavimento, cercando di fermare la nausea improvvisa. Stringo le tempie, perché mi sembra che la testa debba rotolare via dalle spalle e cadere sul pavimento sudicio e gelido.

Il tavolo di fronte a me, così rozzamente intagliato, mi sembra lontanissimo dal letto. Mettermi in piedi mi provoca di nuovo una punta di nausea, violenta ed improvvisa. Talmente violenta ed improvvisa da farmi credere di stare per vomitare. Fortunatamente, non ho mangiato, ieri.

Forse è per questo che mi sento uno straccio, o forse è solo il sogno, forse sono solo io che sto andando a pezzi. Forse è il rumore della radio che mi chiama, forse è il ricordo ancora vivido del corpo, forse è il fatto che stamattina l'aria è talmente fresca da mandarmi un brivido lungo la schiena.

Strisciare fino al tavolaccio è un'impresa titanica. Sedersi sullo sgabello scricchiolante, dalla plastica slavata, di un verdognolo spento, mi sembra una punizione, più che una ricompensa.

Non ricordo quando mi sono sentito comodo, seduto qui davanti. Probabilmente mai. Non si può stare comodi se il corpo è un macigno.

Eccola, la macchina parlante. Vecchia amica, vorrei dire, ma non sono in vena. La mia mano fruga faticosamente alla ricerca del bottone, nero, sulla fiancata, nera, di questa enorme cassa a pile, nera. Con la stanza che mi ruota attorno e le mani callose che non sento nemmeno, riesco ad avvertire appena la forma familiare del bottone scrostato.

Lo premo delicatamente, come ogni giorno. È una sorta di rituale. Buongiorno, provo a dire alla macchina, ma ancora una volta riesco ad emettere solo un patetico e basso guaito. Animalesco, ferale, non umano. Mi tasto la gola, come se potessi trovare la fonte del disturbo. So benissimo cos'è. È inutile toccare. Quando non si usa qualcosa per tanto tempo, inizia ad arrugginirsi.

Hum954, ecco le nuove coordinate. Verranno ripetute due volte. Sei pregato di annotarle e memorizzarle. Non ci saranno ulteriori comunicazioni fino a domani.”

Sì, so come funziona. Lo faccio ogni giorno, non devi ricordarmelo sempre.

Chiaramente, una voce registrata e metallica come questa non può rispondermi. Fa solo il suo lavoro. Come io faccio il mio, dopotutto; per cui, cercando a tastoni la mappa arrotolata, la trascino rapidamente sotto al mio sguardo appannato.

Sfocata e consunta, bagnata, strappata, piena di orecchie, macchie, segni di matita, scarabocchi a penna, appunti. Una vita intera ridotta a due o tre annotazioni su questa carta straccia.

La accarezzo appena, nello srotolarla. Perfino la carta straccia ha un valore intrinseco; sopratutto se la carta straccia è una mappa. Sopratutto se tiene conto dell'esistenza sempre identica di un uomo.

Ok, sono pronto.

Hum954, ecco le nuove coordinate.”

Il rumore bianco e le statiche che fanno incespicare la voce sono il primo ostacolo di ogni mattina. Anche oggi, minacciano di rendere incomprensibili le coordinate e la testa, che non la smette di martellare, le orecchie, che non la piantano di ronzare, non fanno che rendermi la vita difficile.

Dopo aver snocciolato il codice una seconda volta, la radio ha un lungo momento di pausa, come se aspettasse una mia reazione.

Mi alzo in piedi, le gambe che protestano e minacciano di lasciarmi cadere. Barcollo fino al vaso in acciaio deformato, incrostato di ruggine e sporcizia, e mi lascio crollare sulle ginocchia.

Sento il petto che si alza e si abbassa, come un mantice. Le labbra si schiudono, alla disperata ricerca di aria, ed ogni boccata è gelida, velenosa. Mi passo una mano tra i capelli.

Non si può dimenticare. Non ci si può fare la scorza. Qualcuno aveva detto, tempo fa, che ci si fa l'abitudine.

Idiota io, a credergli. Non puoi abituarti. Non c'è modo. Impari solo a conviverci.

La bile si ferma all'ingresso della gola. Fa talmente schifo che vorrei mettermi un dito fino in fondo, ma poi mi ritroverei steso a terra, esausto.

Se c'è una cosa che non posso permettermi, è perdere tempo. Per cui, mi spingo sui talloni, per alzarmi in piedi. Attraverso le finestre, i buchi nelle pareti di lamiera, riesco ad intravedere l'altopiano verdeggiante, con il fiume che gli serpeggia attraverso, come uno squarcio. Una vena, un po' di vita silenziosa.

La bile schizza fuori dalla bocca in un riflesso inaspettato, che soffoca perfino la mia imprecazione.

Mentre sputo fuori il liquido nerastro dal mio corpo, la radio continua a ronzare.

Hum954, ti auguriamo una buona missione. Si prega di sintonizzarti domani per il nuovo incarico.”

Grazie, vorrei dirgli. Grazie, ma non so se tornerò.

Non posso rispondere, mentre il vomito mi scivola attraverso le labbra negli ultimi amari, ributtanti rivoli.

Non posso rispondere, perché la radio funziona solo a senso unico.

Lo so benissimo.

Però provo a farfugliare lo stesso qualcosa. Magari questa è la volta buona.

Solo rumore bianco e statiche, perché i tralicci stanno per crollare, i loro cavi consunti e battuti dalla pioggia acida dei temporali.

La tuta è abbandonata ai piedi del letto, con l'attrezzatura non lontana. Ieri ero troppo spossato per metterle in ordine; o almeno, è quello di cui voglio convincermi. È solo stanchezza, no? Solo stanchezza.

Almeno ho avuto il buonsenso di lasciare i pod fuori, a caricarsi. Altrimenti, mi sarei dovuto arrangiare, come due settimane fa... o tre. Non ricordo più, e sinceramente non importa.

Ho scoperto che tentare di mettere in ordine delle giornate troppo simili è inutile. Inizi a perdere la concezione del tempo dopo poco. Io credo di non averla mai avuta, in realtà. Quindi, preferisco dare per buona qualsiasi cosa che ricordi. Mi fa stare meno male. Mi fa sentire meno smarrito, a dirla tutta.

L'acqua fatica ad arrivare, attraverso i tubi corrosi dalla rugine. Poco più che pezzi di ferro cavi con qualche bullone a tenerli insieme. Inizia a sgorgare dal rubinetto contorto e piegato solo dopo tre o quattro tentativi, è di un'orrenda sfumatura marrone. Fangosa, melmosa, abbastanza da convincermi a non toccarla.

L'acqua del ruscello, nell'altopiano, è sicuramente migliore di questa. Ci sono state volte in cui mi sono dovuto trattenere, dall'andare a berla, farne un po' di scorta. Ormai anche la sola idea di camminare fin lì mi sembra un sogno da bambini.

La sete è più forte del disgusto. D'altronde, ho già vomitato, per cui peggio di così non potrebbe andare. L'acqua marroncina si accumula tra le mie mani a coppa, gelida e pungente, e lascia un vago alone sulla pelle arrossata e callosa. La butto giù in un sorso, cercando di non farla passare troppo per la bocca.

Il sapore stopposo ed acidulo mi dà un nuovo conato, ma riesco a trattenermi.

Non posso alzare troppo gli occhi sullo specchio. Non mi va di vedere come sono ridotto. Preferisco fare finta che vada tutto bene.

Ed ora che l'ho detto, mi sembra tutto un po' più falso, mi sembra di avere la bocca piena di cenere. Più secca di prima. Forse è per l'acqua inquinata.

La tuta è ai piedi del letto, spunta a malapena dalla coperta nerastra e spiegazzata. La sollevo con disgusto, ancora tiepida. Trattiene il calore d'estate, lo disperde d'inverno. Al prezzo, certo, di sentirti costantemente sull'orlo del soffocamento. Come se ti stessero per seppellire vivo.

Getto la coperta di nuovo sul materasso posticcio, la schiena dolorante e che protesta, rabbiosa, quando mi piego ad afferrare la tuta e l'imbracatura. Il suo colore grigiastro, blando, l'ho sempre trovato sinistramente perfetto.

È gelida, quando la indosso, e impiega qualche secondo a trovare la forma del mio corpo, il tessuto interno che aderisce come una ventosa. Non limita i movimenti e non è ingombrante, per quello ho già l'imbracatura ed il resto degli attrezzi. Avendola addosso, sembra quasi di vestire una seconda, appiccicosa pelle.

Ci si fa l'abitudine, però. Dopo un po' di tempo, sembra quasi sbagliato non indossarla. Ci sono volte in cui non me la tolgo. Preferisco dormirci, perché mi sembra più sicura della mia pelle. Più vera.

Una sensazione divorante.

Guardo la mappa, le coordinate. Il crepaccio a nord-est, quattro ore all'andata, cinque o sei al ritorno, a meno che non piova, a meno che non si rompa l'attrezzatura, a meno che non riesca a trovare...

Tiro la lampo laterale, un rumore di metallo scorre sui morsetti. Interrompe il filo dei miei pensieri, come la superficie di un vetro scheggiato. Vorrei riuscire a non pensare, ma la solitudine fa questo, ad un certo punto.

Arriva un momento in cui tutto intorno a me diviene nauseabondo. Falso, incolore, insapore; e a quel punto, non resta che guardare dentro. Perché a volte è meglio guardare il pozzo torbido delle interiora, dei pensieri sfilacciati, sconclusionati, che sentire il silenzio assordante.

Ogni giorno, quando guardo la tuta gettata a terra, mi dico che ormai ci ho fatto il callo. Ormai non è qualcosa che può sfiorarmi. È una conseguenza della quotidianità, di una vita scandita dal ripetersi delle stesse azioni.

Ma è una bugia.

No, non è vero. Puoi abituarti a tante cose. Anche alla tuta, alla coperta. All'acqua stagnante di ruggine, al cibo liofilizzato e pieno di gelatina. Ma non a questo. Non al silenzio assordante.

Non all'essere un granello di sabbia.

Un suono in una valle.

Un respiro nel vuoto.

Mi sistemo la tuta, spazzo via un po' di terra, fango appiccicoso ed indurito, qualche filo d'erba rimasto sull'avambraccio. Le lettere impresse sopra le pieghe luride sono il numero identificativo. Ho solo una vaga idea della loro utilità, ma so che ha a che fare con la morte. In vita, come in morte, solo un numero, qualche lettera. Un codice.

I codici sono sacrificabili, credo. Gli esseri umani, invece...

Apro la porta in lamiera, cigola sui cardini arrugginti. La brezza esterna, frizzante, ha l'odore della mattina, del ruscello umido, del fango battuto dalla pioggia. La luce ancora è dolorosa, agli occhi, nonostante sia appena l'alba.

La testa inizia a girare impazzita, per un secondo. Mi sembra di perdere la terra sotto i piedi, di stare per crollare sulla roccia gelida.

A volte, faccio fatica a metabolizzarlo tutto insieme, l'esplosione di sensazioni fuori dalla porta. O forse è solo l'acqua. Forse solo il cibo che ho abbandonato sul comodino.

Lo sperone mangiato dalla pioggia sembra più piccolo di ieri. Magari si tratta solo di una mia sensazione, magari sto solo immaginando tutto di nuovo. I tre pod sono poggiati nelle loro basi di carica, sul fianco della catapecchia.

Qualcuno mi aveva detto che dare i nomi alle cose, dei veri nomi, aiuta a rimanere in sé. Una parte di me è sicura che lo abbia letto da qualche parte. Se avessi parlato con qualcuno, me ne ricorderei.

Dare nomi non mi riesce bene, mi ritrovo ad osservare il vuoto e all'improvviso tornano alla memoria dei ricordi annacquati, come rivoli di pioggia, quella chiara e fresca, contro il casco della tuta. Preferisco continuare a chiamarli Alpha, Beta e Gamma, piuttosto che torturarmi con i fantasmi del passato. Quando il passato non può tornare da me.

Mi piego sui talloni, le ginocchia piegate che scricchiolano faticosamente, per sganciare ogni pod dalla stazione di carica; i loro piccoli alettoni si attivano di scatto, un suono secco di plastica ed acciaio. Un suono stridente, in questo silenzio totale.

I tre pod si sollevano leggermente da terra, la sfiorano senza toccarla. Fluttuano, producendo quel basso ronzio che è il sottofondo di ogni mia marcia. Inserisco docilmente le coordinate sui tre pannelli di comando, li metto in attesa con un rapido tocco e faccio un passo indietro.

Mi sono dimenticato lo zaino all'interno, senza cavo non posso portarli in giro. Anche questo, un copione collaudato. Due minuti in cui posso guardarli immobili, tondeggianti, che fluttuano goffamente.

Senza ordini, non si muovono, rimangono in attesa di essere istruiti. Macchine che obbediscono, efficienti. Instancabili, certamente.

Alpha, Beta e Gamma. Macchine vuote con un solo scopo nella vita.

Barcollando ancora per il mal di testa, varco l'uscio. Il mio stomaco è pieno di quell'acidità violenta che mangia dall'interno. Sento il sapore della bile che punge la lingua, quando la saliva si accumula.

La lattina abbandonata sul comodino è di un colore grigiastro. Ci sono delle parole, sopra, sull'etichetta lucida, ma non le ho mai lette. Mi farebbe ancora più senso mangiare.

È un atto meccanico, quello della scatoletta sigillata. Premo il pollice, un po' di pressione. Uno sbuffo d'aria e la pellicola se ne va, si stacca come se non ci fosse mai stata.

La gelatina all'interno è ancora più ributtante, stamattina. Una voce nella mia testa dice che dovrei prenderla. Che sono quattro giorni che non mangio. Che senza mangiare, il mal di testa aumenta.

Ci si sente più piccoli.

Più dispersi.

La gelatina all'interno è trasparente, inodore, insapore. La pietanza, qualunque cosa sia, è come se non ci fosse. Mi chiedo se non sia nella mia testa. Forse non c'è nulla, ed è solo gelatina.

Poggio la lattina al suo posto, con un tonfo. Il riecheggiare metallico della colpa. Nessuno mi ha mai detto di prenderla per forza. Il mio stomaco non lo sopporterebbe.

Vomiterei di nuovo, mi ritroverei ad ansimare sul pavimento. Non posso perdere tempo, non posso sentirmi male.

Stare a letto inerme mi dà una sensazione di torpore, di strano, vago terrore.

Per distrarmi, mi volto a cercare il resto dell'equipaggiamento, tra la spazzatura gettata sul pavimento scheggiato.

Lo zaino è pesante come sempre. L'ho poggiato contro il tavolo, grosso e nero com'è, con quei bordi gialli, inconfondibile. Come se aspettasse, con tutti i suoi meccanismi. Come se volesse partire.

Un cavo penzola inerte dalla tasca destra. Dalla terza tasca a destra, in realtà. Il cavo per trainare i pod, perché non si perdano o non ne sia compromesso il funzionamento. Lo tiro sulle spalle, le sento gemere. Protestano, ancora una volta. Le cinghie sfregano contro la carne viva, la pelle arrossata.

Mi asciugo un po' del sudore dalla fronte, appiccicoso, salato. Il casco mi osserva ancora a terra, in attesa. Il respiratore è ancora macchiato di rosso, da ieri. Il sangue si è seccato, ma lo vedo ancora, scuro, raggrumato. Uno squarcio sul labbro, il solito incidente di percorso.

Lo rigiro tra le mani guantate, ne sento a malapena la forma, i graffi, le scheggiature. Ognuno di essi ha una storia che non riesco a ricordare. Solo dettagli, frammenti sparsi, di giornate invischiate in una ragnatela.

Questo, penso, mentre tocco l'incrinatura laterale, di fianco alla tempia, questo è di ieri... No, di una settimana fa, forse di più. È difficile fare ordine. Vuol dire ricordare dettagli che si annebbiano da soli.

La caduta è stata violenta. Il sapore del sangue più amaro di quanto ricordassi. Pungente abbastanza da farmi stringere i denti.

Ma quel dolore diffuso, quel sapore acre, mi hanno dato un brivido.

Il guanto della tuta è ruvido, sul viso. Il mondo sfocato dai pensieri si fa più nitido, quando mi costringo ad uscire ancora una volta. L'impatto con l'esterno è meno traumatico.

I pod fluttuano dove li avevo lasciati, con quel loro sibilo. In questa immobilità, sembra insopportabile. Ma i rumori familiari, a volte, mi alleggeriscono il peso sulle spalle. Il peso del mondo esterno che si chiude su di me.

Li guardo, asettici, incolori, di quel grigio indifferente. Identici, se non fosse per il numero sul fianco destro, tondeggiante. Portarne tre è uno sforzo non indifferente. Mi chiedo se basti Alpha, questa volta.

Il cavo penzola oscilla tra l'indice ed il medio. Mi avvicino ad Alpha, inserendo l'ingresso nel buco laterale; faccio passare un paio di metri attorno a lui, sulle cinghie in ferro, per assicurarlo allo zaino. C'è un basso suono, un clack secco, quando termino l'operazione.

Metto gli altri pod a riposo sulle piattaforme, nuovamente in carica. Per evitare il peggio, se dovessi svenire sull'uscio. Se dovessi tornare.

Ogni uscita ha un punto di domanda. Potrebbe succedere ogni cosa.

Potrebbe essere una caduta accidentale in un crepaccio. Potrebbe essere inciampare, soffocare in un fiume.

Potrebbe essere la tentazione di vedere cosa succederebbe, se chiudessi gli occhi sotto al cielo umido di pioggia.

So che un giorno, nessuno risponderà alla radio. Un giorno, si attiverà il protocollo di morte o sparizione. Forse quel giorno sarò a letto, troppo stanco, troppo svuotato.

Forse non ci sarò più. Un granello di polvere.

Arrivo sullo spuntone di roccia, l'uscita dalla cavità sul fianco della collina di roccia nerastra ed irregolare. Sotto di me, a qualche decina di metri, l'altopiano si stende a perdita d'occhio.

Mi rigiro il casco tra le mani, come se tenessi in mano un altro viso. La macchia rossa sembra più vivida, sotto la luce.

Ne osservo ancora i dettagli. Ne conto le incrinature. Come se in ognuno di questi segni potesse esserci una risposta.

Ma so benissimo che si tratta solo di graffi. Infilo il casco nella tasca sinistra, la seconda sinistra, dello zaino, nel suo alloggiamento. Un altro scatto.

Tendo la corda del pod, per fargli cenno di avvicinarsi. Gli stivali della tuta sono ad un soffio dal baratro. La vallata, l'altopiano, si allunga fino a dove arriva l'occhio. Il fiume serpeggia, lo trapassa, senza un rumore.

Silenzio.

Poco più che un punto grigio su una scoscesa, irta stradina nera, muovo un passo sul sentiero consunto e polveroso per scendere a valle.

I sassi neri e scintillanti rotolano giù nello strapiombo, mentre cautamente metto un passo dopo l'altro. La discesa è difficoltosa, non importa quante volte la si faccia. Stretta, infida, il terreno scuro che si confonde e sembra sfumare. A volte, minaccia di farsi a pezzi sotto i piedi. A volte, sembra voler svanire e lasciarmi camminare sul fumo.

Il ronzio del pod che tocca il terreno mi scuote. Le suole degli stivali sfiorano l'erba flaccida, gli steli si piegano lentamente, tornano al loro posto, come se nulla fosse. Non lascio traccia del mio passaggio. Non lascio traccia della mia esistenza su questo suolo.

Il sistema di riciclo d'aria del casco produce aria fetida ma non appanna lo strato di plexiglass. Mi viene voglia di strapparmelo. Mi chiedo come sia respirare aria vera. La solita domanda di rito, che ripeto meccanicamente a me stesso.

Una specie di controllo regolare, come quelli elettronici silenziosi della tuta. Dati invisibili snocciolano numeri su numeri che mi ricordano di essere biologicamente vivo. E finché sono vivo, devo continuare a trascinarmi in avanti.

Il sole fa rilucere appena il ruscello in lontananza. Le mie gambe protestano per un secondo, ma si fermano, rimango in piedi con le braccia a penzolare sui fianchi.

Questi sono gli istanti di assoluto silenzio. Nessun rumore, all'interno di questa bolla; solo un vago ronzio di apparecchiature, un messaggio di allerta al lato dello schermo, e valori che mi dicono che, al di fuori, c'è qualcosa. Un suono che non posso udire, ma so che esiste, quello del vento che scuote appena i ciuffi erbosi.

Una parte di me si gela, al solo pensiero, si irrigidisce. La tuta mi avverte che il mio battito cardiaco sta aumentando. Mi porto una mano all'imbracatura, cercando affannosamente il piccolo palmare integrato, lo schermo giallastro si accende quando i guanti ne sfiorano la superficie.

Sotto i raggi di luce non riesco a vedere bene la piccola mappa riprodotta, anche se non c'è molto da osservare. Di solito, ci sono solo due piccoli punti, uno grigio ed uno grigio ma più chiaro, con delle tonalità che la mia testa processa come se non fossero altro che schizzi. Do un colpo con l'indice, lo schermo reagisce; l'obiettivo viene segnato da due numeri. Quattro cifre. Un posto da qualche parte.

Sono momenti che durano un istante. Ed è meglio così. Fermarsi a pensare corrode.

Il mio battito cardiaco è in aumento.

Lo so. Me ne sono accorto.

Funziono ancora, in qualche modo.

Mi getto uno sguardo alle spalle. Lo squarcio che attraversa l'altopiano è già distante e le nuvole all'orizzonte divorano la luce. Sento più freddo, ma lo schermo mi dice che non è così. Che mi sto immaginando tutto. Lo dice senza saccenza, senza ostilità.

Mi sento il viso appiccicoso ma il riflesso di toccarlo incontra solo il casco, un riflesso innato persistente. I miei polmoni si dilatano, cercando aria, aria vera, ma trovano solo la miscela filtrata e appiccicosa. Ogni boccata è una lenta tortura, ogni volta la bocca si secca un po' di più.

Il pod avanza adagio alle mie spalle, senza alcun suono. Ogni tanto mi volto per controllare sia ancora qui, un gesto meccanico, inutile. Se si separasse, se l'imbracatura si spezzasse, me ne renderei conto. Non sentirei più il peso familiare. Inizierei a chiedermi cosa possa essere successo. Una domanda inutile, perché non è mai successo. Non succederà.

L'erba inizia a farsi sempre più rada, mano a mano che avanzo lungo il percorso. Ci sono volute due o tre ore, per rendermene conto. Nella mia memoria appannata, ogni viaggio è sbiadito. Non ricordo i dettagli, ma solo i miei stivali che si alzano e si abbassano. Ricordo la schiena curva, il calore del corpo, ogni meccanica azione per rimanere vivo, ogni respiro. Eppure, la strada è una pozza di fango indistinta.

L'ho riconosciuta solo quando sono arrivato in prossimità del vecchio crepaccio. Sento uno sfrigolio nelle interiora. Il respiro per un istante minaccia di sparire e ogni boccata è nauseante. Un capogiro rabbioso, d'un tratto, come se dovessi vomitare. Sputare tutto fuori, ogni goccia. Ripulirmi di quello che ho dentro e che mi corrode.

Mi lascio cadere in ginocchio, annaspando, le mani che affondano nel terreno bagnato. Cerco a tentoni, seguendo un istinto innato che non ricordavo fosse mio, fino a che non mi trovo stretto ad un palo d'acciaio, poco più che una barra di ferro divorata dalla ruggine e dall'acido. Stringo la mano attorno al collo, annaspo per cercare l'imbracatura, per slacciare il casco.

Aria. Ho bisogno di aria. Aria vera. Ho bisogno di respirare, ho bisogno di vedere qualcosa. Non ce la faccio. Sto soffocando. Sto soffocando, ok, lasciami togliere...

Caracollo a terra, sfinito. I messaggi si susseguono sullo schermo in plexiglass, messaggi di allerta, grigi anche questi, grigi spenti e smorti, un colore universale, un colore che vedo ovunque. Grigio cielo. Grigio erba. Grigio morte.

Messaggi che indicano un tentativo di rimozione del casco in ambiente esterno.

Messaggi che indicano una momentanea perdita della lucidità.

Una sensazione di annegare.

Una sensazione di morire.

Una sensazione di non riuscire a trovare ossigeno.

Una momentanea perdita di lucidità.

Chiaro, semplice. Brutale.

Il palo di acciaio è scivoloso di pioggia, quando provo ad afferrarlo per rimettermi in piedi. Le gambe faticano ancora a tenermi dritto, ma non posso fare altro. Non ho molto tempo. Dodici ore tra andata e ritorno. Tre ore di sonno. La radio si accende, mi dice dove andare. Poi di nuovo fuori dalla casa in lamiera.

Hum954, queste sono le coordinate.

Grazie. Grazie delle coordinate, anche oggi. Grazie per avermi ricordato che esisto. Per avermi ricordato che la mia esistenza è funzionale a qualcosa.

La vecchia placca d'acciaio che un tempo dondolava sul palo è scomparsa. Era grigia, certo. Ma aveva qualcosa in più. Aveva delle lettere sopra, che non riesco a ricordare, e dei numeri. Per tanto tempo è rimasta ferma accanto a questo crepaccio.

Non l'ho mai letta. Credevo che sarebbe rimasta qui per sempre. L'ho sempre ignorata.

Ora che non c'è, mi trovo fermo davanti a questa barra di acciaio e mi sembra sbagliata. Sembra che ci sia un buco. Sento una sorta di vuoto nello stomaco, una sorta di formicolio indescrivibile nelle viscere, fino al petto, che si arrotola alla gola.

Non potrò mai più leggerla. Non saprò mai cosa ci fosse scritto.

Senza parole.

È solo stata una costante di ogni mio viaggio verso il punto grigio scuro dall'altra parte del crepaccio.

Eppure, qualcosa si contorce.

La sensazione di soffocamento se n'è andata. Vorrei solo che questo peso sul petto sparisse. Mi chino sul pod, che si è avvicinato a me come in attesa, quasi come se avesse imparato il percorso. Forse la sua intelligenza artificiale, quei circuiti impossibili in cui scorre la sua corrente, ricordano l'azione da svolgere. Ricordano il percorso. Ricordano ogni dettaglio, anche questo cartello.

Qualche comando dallo schermo traballante della tuta, poco più che un paio di movimenti secchi, ed inizia a muoversi verso il bordo. Devo sganciare la corda che ci unisce, lasciandola penzolare sul terreno umido, per permettergli di avvicinarsi. Come ogni volta, lascia che la sua parte superiore si apra.

Non uno scatto, non uno schiocco. Si apre, silenziosa, e fa fuoriuscire una lunga protuberanza. Si allunga, un centimetro dopo l'altro, si dipana fino a toccare l'altro bordo del crepaccio. Il pod lampeggia, obbediente. L'altra parte è assicurata. Si salda al terreno, conficca i tiranti nella fanghiglia e nella roccia; ed ecco un ponte, uno stretto passaggio in bilico sul nulla assoluto.

Ancora una volta, non riesco ad asciugarmi la fronte. In questi momenti, essere malfermi è la cosa che porta più vicina alla morte. Ogni volta che delicatamente metto un piede davanti all'altro su questa delicata struttura d'acciaio, mi impongo di non guardare in basso.

Mi chiedo cosa ci sia, lì sotto.

La morte che dura istanti interi, sospeso; nei secondi prima dello schianto, forse sentirei quell'adrenalina che ti ricorda la vita intera.

E vedrei il fiume, ancora una volta, ed il cartello.

Tengo lo sguardo inchiodato sull'altra sponda, muovendo il corpo automaticamente.

Questa è una cosa facile. Se cadi, muori. E finisce così. Finisce che Hum954 viene portato via dal pod. Il corpo viene trascinato per il fango. O quel che ne resta. Hum74 prende il suo posto.

Niente più acqua putrescente che ti corrode e ti fa vomitare tutto.

Niente più voci lontane che ti chiamano e ti dicono dove andare.

Niente più notti passate ad ansimare e a cercare un motivo.

Niente più pod che ti si accoda, niente più strada di ciottoli neri.

Niente più se stesso che si chiede, e si domanda, e impazzisce, e si contorce.

Niente più essere piccoli, come polvere.

Niente più pelle.

Niente più carne.

Niente più figure.

Niente più niente.

Poggio il piede sull'altra sponda. Mi sembra di sciogliermi di colpo ed il filo di pensieri sconclusionati si sfilaccia. Dietro di me intravedo il pod che supera il crepaccio fluttuando maldestramente, rischiando per qualche istante di precipitare.

Si ferma accanto a me, come da programma. Il baratro rimane al suo posto, anche questa volta ignoto.

Un brivido lungo la schiena. Un brivido che conosco, familiare.

Andiamo, di nuovo in marcia, di nuovo legati. L'erba ormai mi raggiunge le caviglie e a volte scivola sulla tuta, come a volersi aggrovigliare. Il tempo passa ed il silenzio rimane la costante del mio viaggio.

Un fruscio ogni tanto, a ricordami che sto procedendo, o uno sbuffo d'aria che piega le erbacce all'indietro, portando con sé un sentore che conosco bene. La tuta conferma che l'umidità nell'aria aumenta pericolosamente. Se non faccio in fretta, si metterà a piovere, un temporale di quelli rabbiosi che non lascia scampo. L'erba mi dà speranza di riuscire a farcela. Il punto, fortunatamente, non è molto lontano. Un paio d'ore, secondo i miei calcoli, appena prima che il sole cali.

Accendo la torcia sul petto, proiettando un fascio di luce lattiginosa. L'aria è tersa, nonostante tutto, il cielo è appena scuro della notte. Il vento soffia più forte, cambiando direzione di colpo; una parte di me tira un sospiro di sollievo, consapevole di averla fatta franca. Niente pioggia, per oggi.

Le nuvole se ne vanno verso l'orizzonte, indugiano vicino alla luna. Forse domani, un altro giorno.

Le coordinate mi hanno portato su un rivolo fangoso. È un fiumiciattolo, nulla di più, lo vedo dalla roccia sulla quale mi sono appollaiato. Ho tutto il tempo di fare le cose con calma. Per rendere il tutto più sopportabile, meno duro.

Meno difficile per me stesso.

Mi prendo un secondo per sedermi su un masso squadrato, che spunta su questa parte della collinetta erbosa. Non ci sono alberi, qui vicino, ma posso vedere il punto in cui inizia la striscia di sempreverdi. Ci sono andato solo una volta. Ho vaghi ricordi, quasi alienanti.

Questo è l'istante in cui mi fermo a pensare a quello che sto per fare. Ci si fa il callo, in teoria, si forma la scorza. Si perde sensibilità per certe cose. Ma finché sono sano di mente, non riesco a farmene una ragione.

Perché?

Non lo so.

Tutto qui. Un semplice non lo so. È meglio non sapere. Mi permette di tirarmi in piedi, con la mente sgombra, piena di una sola immagine. Un lungo fiume che serpeggia in un altipiano. Un fiume che scorre tra le rocce, tra l'erba.

E poi cade in uno strapiombo, un crepaccio indefinito.

L'acqua del rigagnolo mi bagna gli stivali. È poco più che un solco nel quale scorre un liquame marrone, torbido e denso. La luce cerca nel primo buio. Allontana l'oscurità a pozze.

Risalta in modo tanto orribile che sento il bisogno di trattenere per un secondo l'istinto. Liquido aspro, caldo, sfiora la mia gola. Tossisco. Poi lo guardo di nuovo. Devo farlo, perché non ho scelta. Il sudore gocciola nei miei occhi. Il sapore in bocca è tanto amaro e pungente da darmi un capogiro.

Lui è lì, allungato e rigido, in una posizione tirata.

I suoi occhi sono spenti. La sua pelle è bianca, tanto bianca da fare male, e si mescola al marrone del fango che lo insudicia tutto.

Le labbra sono semiaperte, forse perché ha provato a bere. Forse perché stava urlando o chiamando qualcuno. Magari cercava solo un ultimo, profondo respiro.

I suoi occhi spalancati sono lucidi. Le gambe ricoperte di tagli, graffi e squarci. Deve aver strisciato e scalato fino a spezzarsi la destra, come contorta su se stessa in una posizione innaturale. La mano sta ancora toccando l'acqua. Immobilizzata, a coppa. Aveva sete. Voleva bere l'acqua di un ruscello. Del suo ruscello che scorre nel suo altipiano.

I suoi occhi sono bianchi. Mi fissano, mi scrutano, quando mi piego ad afferrarlo. Ho la vista annebbiata e non riesco a prendere abbastanza aria. La tuta aumenta il pompaggio, mi avverte di una anomalia nel mio comportamento corporeo.

Traduce quello che sento in messaggio, quando infilo il corpo morto di un uomo in un grosso sacco bianco. Il pod finisce di estrarlo dal suo contenitore interno e apre una tasca laterale per porgermi le cinture, i tiranti, gli anelli; tutto quello che serve per assicurarlo alla schiena.

Tutto il necessario per portare un uomo morto sulle spalle di un uomo ancora vivo.

La tuta mi dice che il numero dei miei battiti è troppo altro. Che i miei respiri sono frequenti ed affannosi.

Cammino sulle gambe di un estraneo, come se qualcun altro portasse questo cadavere sulle spalle. Occhi svuotati. Pelle bianca e tirata. Congelati nell'attimo finale.

Gli unici esseri umani che posso vedere sono morti. Cammino di nuovo sul baratro, meccanicamente, senza guardare verso il basso. Ormai è troppo buio per distinguere qualcosa, per cui la luce della mia torcia mi guida. L'unica fonte di illuminazione rimasta.

Ogni tanto, sento un gomito spingere contro la schiena. Una gamba muoversi spaccata ed accartocciata. Devo fermarmi quando scendo dall'altra parte. Devo fermarmi a respirare a fondo.

Non mi tolgo l'imbracatura, non deposito il mio carico. Non dovrei fermarmi, perché comprometterebbe le mie ore di sonno. Ma non posso farne a meno.

Non posso passarmi la mano sul viso. Rimango con le spalle all'oscurità dello strapiombo, seduto nel fango, a respirare faticosamente, una boccata d'aria finta alla volta.

Posso sentire il suo gelo. Lo avverto, e tutto il suo peso. Come se un cadavere pesasse molto di più. Come se scorresse in lui acqua gelida o cercasse di assorbire il mio calore.

Ho capito che è così orrido per un motivo ben preciso. È così rivoltante, così pulsante, perché è più vivido.

È la cosa più orribile, perché è la cosa più vera di ogni giornata.

Nel buio che scaccio con l'occhio di bue della torcia, riesco ad intravedere la sagoma d'acciaio del Ventre. Riuscirei a trovarla anche nell'oscurità, perché è come se silenziosamente chiedesse di essere scoperta, di essere aperta; ed è come se dal buio del fondo senza fine, mi osservasse in trepida attesa.

Mi avvicino all'enorme foro. Le quattro placche di metallo che lo coprono sono ben serrate, circondate da quattro pannelli luminosi; la luce rossastra, intermittente, come piccoli fuochi. Nella notte senza luce, mi chiede di avvicinarmi con il corpo sulle spalle.

La testa mi vibra, capisco a malapena quello che il mio corpo sta facendo, quando mi avvicino al pannello. C'è una leva. Nient'altro. La tiro, così che il Ventre si schiuda davanti a me.

Le quattro piastre di acciaio si ritirano, rivelando pareti di metallo che sprofondano nel nulla. L'occhio sul fondo, invisibile, mi fissa. Attende. Mi tolgo l'imbracatura dalle spalle. Non distolgo gli occhi, nell'estrarre il corpo. Non ho un fremito, nel sentirlo inerme contro il mio petto, le mie spalle.

Non esito, nel gettarlo all'interno del tubo, vederlo inghiottito dalle tenebre.

Il Ventre si chiude con uno scatto.

L'ultimo rumore della notte.

 

Hum954, rispondi. Hum954, rispondi. C'è una nuova locazione, nuove coordinate.”

 

La grossa radio rugginosa mastica lentamente qualche scarica di interferenza, come se stesse riflettendo. Forse l'antenna in cima alla lamiera si sta deteriorando, forse la scatola sta finalmente per esalare il suo ultimo ordine. Il pensiero mi mozza il fiato.

Allungo le dita a tastare l'apparecchio. Vedo le mani tremare impercettibilmente e quando sfiorano il metallo gelido non sembrano nemmeno le mie. Respirare è un gesto a cui devo improvvisamente prestare attenzione. Sembra che il diaframma non si riempia mai abbastanza. Non importa quanta aria ingerisca.

Tasto inutilmente la sagoma spigolosa, i polpastrelli avvertono le escrescenze, i graffi, le crepe, i cavi che vibrano leggermente al tocco.

Non può, non può farmi questo. Non può sparire nel nulla, non può smettere di funzionare. Se smettesse di funzionare, tutto sarebbe assolutamente silenzioso.

In un impeto di rabbia, la mia mano colpisce lo scatolone, facendolo vibrare d'incertezza per un secondo. L'esplosione di dolore si dipana lungo il braccio, inizia a formicolare violentemente.

Le gambe cedono. Sono sdraiato a terra con la testa sul pavimento sudicio e gelido, la mano che palpita come se dovesse spezzarsi. La bile minaccia di salire fino alla mia bocca, ma riesco a rimandarla giù. Sopra di me, un soffitto di lamiera incolore, proprio come le pareti ed ogni cosa intorno.

Socchiudo gli occhi. Ancora una volta, devo spalancare la bocca per ingurgitare l'aria che mi serve. Mi sembra che un pezzo in me stia smettendo di funzionare. Come quella scatola infernale.

Tutto è fermo. L'unica cosa che scandisce la mia esistenza è la voce della radio. Gli ordini di ogni giorno. Il trascinare i corpi fino al Ventre.

Muovo le estremità delle dita, per un istante mi sembra di non sentirle più, ma il formicolio lentamente si diffonde fino alle spalle. Risale lungo il collo, fino a sfiorare la testa.

Il pizzicore del gelo mi scuote leggermente. La voce incerta della radio riempie la stanza; la solita voce monotona, familiare. Riesco a contrarre il petto, socchiudo gli occhi, respiro.

Il bisbiglio elettronico indugia. C'è dell'interferenza che divora qualche parola, le coordinate sono un ronzio indistinguibile. Segue una lunga pausa, come se aspettasse, come se fosse consapevole del mio stordimento.

Le orecchie fischiano ancora. Mi metto a sedere, gli occhi fissi sul pavimento rugginoso, la testa bassa. Non voglio guardarla, come se temessi di romperla solo poggiandoci sopra gli occhi.

Il silenzio si protrae, lasciandomi incurvato, i pensieri sconnessi, il respiro soffocato, l'aria putrida; poi, con fatica, le casse gracchianti tornano a parlare.

...on ci saranno ulteriori comunicazioni fino a domani.”

Annuisco, le unghie che affondano nella carne delle gambe. Di fronte a me, il pavimento è sfocato, senza contorni, solo i suoni arrivano chiari alle orecchie, ogni minuscola, esitante scarica. La radio, imperterrita, ignorando la mia condizione, snocciola uno ad uno i numeri delle coordinate, li mette in fila, in una perfetta sequenza. Come ogni volta, senza sbagliare, senza singhiozzare.

Come se non fosse accaduto nulla. Quando il saluto rituale si conclude, e con esso la comunicazione, alzo gli occhi. La fisso a lungo. Non c'è nulla di diverso, nulla di nuovo. La solita, vecchia radio singhiozzante. Mi massaggio le tempie, cercando di calmarmi, cercando di tornare in me stesso. Sopratutto, di non pensare, di non guardare di nuovo la radio, di non pensare, di non osservarla, di non pensare.

Non pensando, arrivo al lavandino.

Apro l'acqua.

La tuta, il casco, i pod.

Il mondo al di fuori, la scarpata rocciosa.

Accendo Beta, aggancio il cavo. Preparazione automatica. Non posso permettermi di rifletterci.

Penso alle coordinate. Questa volta, mi hanno mandato un leggero brivido lungo la schiena. So benissimo dove sto andando. So alla perfezione perché mi sto dirigendo verso quel mucchio di rovine, che ho sempre visto dalla distanza. Una parte di me lo intuisce, ma non vuole dirlo.

È solo un altro giorno, con un altro corpo in spalla, con l'aria soffocante e il pod che fluttua dietro di me. Il fiumiciattolo oggi non brilla, non c'è un raggio di sole, solo una ampia e scura cappa di nubi. Le guardo e schiocco la lingua per riflesso, abituato come sono a preoccuparmi del tempo. Non si può uscire fuori dalla cascina a recuperare qualcosa con la pioggia. Rallenta le operazioni, devo aspettare che finisca, cercare un riparo; di solito attenderei, osserverei meglio le condizioni.

Guardo la radio, alle mie spalle. Di nuovo, fatico a respirare e ho un leggero mancamento.

Sto pensando troppo a quello che è successo o a quello che sarebbe potuto succedere, con la radio. Provo a sfiorarmi il viso, ma incontro solo il vetro asettico del casco ed i suoi valori si attivano di colpo; l'umidità dell'aria, mi comunica seccamente, preannunciano pioggia nelle prossime sette ore. Nessuna precisione? Impossibile avere una stima precisa con i dati attuali.

Tiro il pod per la corda, inizio la discesa, i sassi che rotolano nel vuoto. Arrivo sull'erba morbida, sull'altopiano scuro, appena visibile; la luce è abbastanza scarsa da spingere il pod ad attivare automaticamente la torcia. La tuta mi consiglia di fare lo stesso, per cui do un colpetto al proiettore di luce. Il fascio pallido e smunto illumina il sentiero fangoso, o quel che ne resta.

Il cadavere del cartello è lì che aspetta. Beta lo illumina rispondendo al mio comando. Non ricordo il nome, non ricordo esattamente i numeri, i chilometri. Ma stiamo andando lì. La consapevolezza è un colpo allo stomaco.

Da lontano, quando si supera il crepaccio, nelle giornate migliori, si vede il profilo. È difficile ignorarlo, non chiedersi cosa ci sia. Non mi sono mai avvicinato tanto a quel cimitero, non come oggi. Le coordinate sono proprio lì.

Ricalcolo.

Il segno luminoso non cambia. Le coordinate rimangono invariate.

Sto andando verso le figure all'orizzonte.

Mi siedo su una roccia liscia che sembra emerge da quest'erbaccia come se aspettasse. Mi dispiace che tocchi a me utilizzarla. Non c'è nessun altro, da queste parti, d'altronde. Si accontenta.

Beta si mette a riposo ai miei piedi; le piogge si potrebbero manifestare in un arco compreso tra le tre e le cinque ore, ormai. Dovrei arrivare a destinazione in quattro, se ricordo bene i punti di riferimento.

C'è la vecchia fattoria, lungo la strada di fango. Quel che ne rimane, almeno. Da lì, è un'ora e mezza. Ricordo com'era, quando ci sono arrivato la prima volta, non so come facesse ancora a stare in piedi; non so nemmeno se abbia retto, dopo l'ultimo temporale. Forse troverò solo un grosso spiazzo deserto e qualche rovina.

Guardo il pod, percepisce il mio sguardo, esce dalla modalità di riposo, in attesa. Apro la bocca, ma non esce nulla, se non un secco rantolo. Le corde vocali mi dolgono per altri cinque minuti, dopo questo tentativo.

Alla fattoria, tempo fa, ho trovato quel corpo. Anche quel giorno avevo portato Beta. In memoria, da qualche parte, potrebbe avere qualche ricordo dell'esperienza. Forse il tragitto.

Calcola il tragitto verso la fattoria.

Nome non valido. Fornire coordinate. Sospiro. Accontento il messaggio asettico, così che il pod si attivi, inviandomi una scarna e sommaria mappa.

Quello sono io, un puntino su una mappa digitale, e quella è stata la mia giornata. Una lunga striscia colorata.

Non c'è scritto delle assi di legno che si sono infrante sotto ai miei piedi. Né degli elettrodomestici abbandonati, ricoperti di polvere. Né dei mobili divorati dal tempo. Non dice niente sulla cornice.

Non c'è nulla sul corpo senza un braccio. Ferita cauterizzata. Moncone fasciato. Niente denti. Occhi vuoti. Barba bruciacchiata, cranio pieno di ustioni. Non aveva visto il temporale arrivare.

Mi sono chiesto se abitasse lì. Probabilmente no, non è così? Era un luogo troppo silenzioso, troppo abbandonato a se stesso.

Abbasso gli occhi sulle mie mani inerti.

Completamente abbandonato a se stesso.

Mi alzo in piedi, Beta si accoda quando do un cenno al cavo, e salto nuovamente tra l'erba alta, cercando di non perdere quello che resta della piccola strada sterrata, poco più che un solco appena visibile. L'erba è cresciuta di nuovo e lo ha nascosto, lo ha reclamato ancora una volta per sé.

Un tuono rimbomba violento, in lontananza, fa vibrare l'aria, ma giunge attutito attraverso il casco. I dati sul plexiglass cambiano nuovamente, l'umidità è in aumento, la pioggia potrebbe arrivare tra due ore e cinque. Non ho tempo per fermarmi. Sicuramente è meglio così, la marcia forzata mi tiene occupato, governare il pod mi aiuta a distrarmi.

Anche se camminare ad un'andatura sostenuta è ormai un'abitudine, a volte riesco a concentrarmi sui miei passi. Riesco a svuotarmi dai pensieri ed osservare solo gli stivali della tuta che affondano nel fango, vengono risucchiati, ne emergono.

Per quanto mi sforzi, non faccio che tornare al cartello. Battito cardiaco accelerato, frequenza inusualmente alta, lo so. Dannazione, lo so. Lo sento da me. Non c'è bisogno che me lo ricordi.

So dove stiamo andando. Dopo un po' succede, riesco a ricordare a memoria certi luoghi. Ho attraversato questi posti tante volte. Quella è l'unica zona da cui mi sono sempre tenuto alla larga. Non ho mai recuperato un corpo lì. Non so se si tratti di nervosismo, eccitazione, paura. Non so più nulla, di queste cose; l'unica certezza che ho, è che il pensiero torna lì, torna alle masse scure, all'orizzonte, ed il cuore aumenta i battiti.

Respiro più a fondo, l'aria è sempre stagnante e riciclata, filtrata dall'impurità che riempie tutt'attorno l'esterno.

La mappa lampeggia un istante, ad indicarmi una zona particolare, già percorsa in precedenza. Alzo gli occhi, la fattoria emerge all'improvviso, in mezzo ad uno spiazzo dove l'erba non sembra voler più crescere. Il terreno è secco, pieno di crepe. C'è ancora della spazzatura ferrosa ed il grosso corpo di un automobile, uno scheletro silenzioso e corroso.

Il vento che arriva dalle mie spalle è pieno di detriti e petali di qualche fiore strappato. Il casco segnala la brezza come velenosa all'ottantasette percento. Mi fermo un secondo, al limitare dell'ampio recinto che circonda questo luogo svuotato. Poggio i gomiti sullo steccato.

Mi sembra di riuscire a ricordare il rumore delle assi che scricchiolano sotto agli stivali. Il brivido lungo la schiena, quando ho spinto la porta ed i cardini hanno ceduto. La porta è rimasta al suo posto, a terra. Vedo la polvere che la ricopre, lo spesso strato nerastro di cenere ed aria mortifera.

Non c'è un motivo per avvicinarmi. Non potrei permettermi di tergiversare, non con il maltempo alle spalle.

Attraverso lo spiazzo sporco, colpisco una lattina, poco più che una massa di alluminio fuso, la vedo rotolare fino alle scale in muratura. Quattro gradini, crollati sul loro stesso peso, sciolti e consumati; ancora una volta, li scavalco, supero la veranda ridotta a tre tubi di acciaio contorti.

Ordino a Beta di controllare l'area, il pod esegue una rapida ricognizione, senza trovarvi fonti di calore. Aspetto pazientemente che mi dia ogni risultato, che le informazioni scorrano sul mio schermo, una ad una, caratteri e numeri.

I cardini sono ancora qui, la porta a terra è ancora qui, il buco nel pavimento è ancora qui, lo scricchiolare delle assi è ancora qui. Il frigorifero che ho aperto, il forno pieno di fuliggine, il tavolo spaccatosi sulle stesse gambe, i piatti a terra ridotti in pezzi.

È tutto rimasto fermo ed immutato. Come se fossi rientrato in questa casa dopo qualche minuto. Invece, da allora, ho raccolto centinaia di corpi. Forse migliaia.

Attraverso la cucina, non tocco nulla, non sfioro niente, come se temessi di rompere l'equilibrio, la sospensione. Nel salotto, il divano grigio rovesciato è al suo posto, ai suoi piedi l'enorme schermo infranto scricchiola sotto i miei piedi. Sobbalzo, guardo a terra, resti di cristalli liquidi sparsi sul pavimento.

L'unica cosa che è cambiata, l'unica cosa che non c'è più, è il corpo.

Era lì, sulla poltrona, nell'angolo della stanza. Sotto la finestra.

Ricordo la polvere su di lui. Chissà da quanto tempo era morto qui. Chissà come ci era arrivato, o se ci era vissuto.

Perché, di ogni cosa, riesco a ricordare alla perfezione solo lui? Ogni dettaglio del corpo bruciacchiato, della pelle screpolata. Le orbite fritte, la bocca come un buco nero, il suono scricchiolante delle sue ossa quando l'ho messo in spalla.

Devo sedermi e ricacciare un conato di vomito in fondo alla gola.

Allerta iperventilazione.

Vorrei passarmi la mano tra i capelli, sul viso, asciugarmi le labbra.

Posso solo rimanere ad osservare quello spazio tra i miei piedi, cercando di respirare.

Di non soffocare.

L'aria non è mai abbastanza. Non basta tutta l'aria di questa tuta, aria finta, artificiale.

Nello spazio tra le mie gambe, dove ricordavo, la cornice. Il vetro è rotto, la foto mangiata esce fuori, gli angoli arricciati sfuggono alla gabbia di plastica tutt'attorno.

Una famiglia, tre persone, un uomo, una donna, un ragazzo, sedici anni, forse diciassette, scattata chissà dove. Non riesco a riconoscere nessun luogo che sia è familiare. Persone che esistono, dentro ad un sottile foglio di carta.

Da quanto tempo non vedo degli occhi vivi, nelle orbite, o una bocca non mangiata dalla morte.

Un tempo doveva avere dei colori. Doveva sembrare palpitante. Più vera. Perché la stringeva, quell'uomo? Li conosceva? Forse vivevano qui. Forse questa era la loro casa. Forse cercava di aggrapparsi a qualcosa, prima di spegnersi.

Oppure era solo disperatamente solo?

Come lo sono io ora?

Un vago squillo mi fa sobbalzare, mi alzo di scatto dalla sedia. Beta si avvicina e mi annuncia i risultati. Non ci sono forme di vita, all'interno o all'esterno dell'abitazione.

Vuota com'era quel giorno.

Attraverso l'abitazione in religioso silenzio, le assi scricchiolano ancora una volta sotto ai miei piedi. Faccio scivolare la foto nel portaoggetti di Beta, il cassettino che scatta fuori dalla sua struttura si chiude con uno scatto; un attimo dopo, sono sull'uscio, attraverso il cortile desolato, la macchina sfasciata, abbandono la casa squarciata alle mie spalle, la fattoria nera.

I valori di calcolo mi annunciano che sono cinque minuti in ritardo sulla tabella di marcia.

Cinque minuti in più, cinque minuti in meno, non contano granché. Non quando si deve cercare un cadavere.

Cinque minuti in più, cinque minuti in meno… Il temporale sta arrivando in ogni caso.

Dovrei arrivare senza che la pioggia mi sorprenda. Ho ancora un buon margine. Non mi resta che proseguire fino alla destinazione.

È una lunga marcia forzata. Ho il fiato del vento sul collo. Ogni alito di brezza ha un vago odore di umidità che supera i filtri d'aria; un'umidità nauseante e citrica. Di quando in quando, alle mie spalle, sento il rombo di un tuono. Il fulmine illumina la campagna oscura poco dopo.

Sto procedendo nell'oscurità quasi più totale; devo aumentare l'intensità del fascio di luce di volta in volta, nel giro di mezz'ora non c'è più un raggio di luce solare. Niente più illuminazione malaticcia naturale. Solo luce malaticcia artificiale.

La torcia pesa sulla batteria; Beta ne ha una di scorta, ma le spie luminose rossastre mi sussurrano che l'autonomia della principale terrà solo per un'altra mezz'ora. Cambiare una batteria richiede altrettanto tempo e va fatto prima che si scarichi.

Non voglio soffocare, respirando l'aria lì fuori. L'erba inizia a farsi più rada, a scurirsi, fino a prendere un malsano colore nerastro. Quando la calpesto, scricchiola e si frantuma. Dopo qualche minuto di cammino, alzo solo cenere camminando.

Il terreno si ingrigisce, si macchia, si riempie di spaccature. Lentamente, ma gradualmente, il paesaggio attorno avvizzisce.

L'aria aumenta di tossicità, raggiunge il novantadue percento, e come a darne riprova, si forma una fitta, scura nebbia; il filtro d'aria riesce a malapena a depurarla, mi avverte il casco prontamente – sto respirando qualcosa di pulito solo al novantasette percento.

Tossisco automaticamente, di riflesso, a quella notizia. La gola brucia leggermente, ma non posso massaggiarla, la tuta mi blocca; in questo momento, questa prigione a forma d'uomo è il sottile divisorio tra me e qualunque cosa riempia l'aria al di fuori.

Un'ora di cammino dalla fattoria, un'ora e mezza circa, e non riesco più ad intravedere la strada. Procedo con i denti digrignati, la luce della torcia e del pod al massimo nel tentativo di trapassare queste polveri sottili. I frammenti che volano in aria e si schiantano contro il mio casco lo ricoprono di patina.

Non faccio allontanare Beta, nel disperato tentativo di seguire le coordinate, pregando mentalmente che sia la strada giusta.

Radar, macchine, attrezzatura, vi prego, non traditemi ora. Non in questo posto. Non in questa nebbia.

Mi viene in mente l'uomo, la pelle corrosa, secca e bruciata. Anche lui è passato di qua? Anche lui ha vagato in questo pulviscolo, ha calpestato quest'erba malata?

Perché aveva quella foto tra le mani?

Era importante, per lui, o no? Avrei dovuto chiederglielo. Forse il corpo mi avrebbe risposto.

L'attrezzatura segna dieci minuti di autonomia.

La nebbia si dirada leggermente, proprio quando il terreno si fa scosceso.

Forse era così importante per lui, che avrebbe avuto la forza di rispondermi perfino dall'altra parte. Alzati e cammina, avrei dovuto dirgli, e rispondi.

La terra frana sotto di me.

Alle mie spalle, mentre sbatto la schiena, la pancia, il casco, vedo il pod tentare di fluttuare e sbattersi a destra e sinistra, legato alla mia folle caduta. Il cavo si tende, lo trascina con me. Prima di atterrare con il petto sul terreno spaccato e secco, lo vedo fracassarsi contro la parete scoscesa.

L'allarme della tuta danneggiata e dell'autonomia che va finendo mi tengono cosciente. Il gel antidolorifico viene applicato sulla pelle, qualcosa mi viene sparato nelle vene. Nulla di rotto, dice l'equipaggiamento, nulla di fracassato. Solo un dolore lancinante.

Sono rotolato giù per un crinale.

Sgancio il cavo, che si trascina dietro la sfera di rottami tremolanti, agonizzanti di Beta. Mi avvicino a quanto resta di lui, cadendo in ginocchio. Non vedo cosa sto scavando. Non sento nulla, nessun avviso, l'allarme arriva da lontano, anche se è nel mio casco. È sopra l'orecchio sinistro, ed emette una luce blu. Ogni due secondi, la luce blu dell'autonomia mi dice che sto per morire.

Afferro la foto, stropicciata. La cornice è andata. La foto c'è ancora.

Tiro un sospiro di sollievo. Crollo a terra. L'aria inizia a farsi amara, pungente da respirare.

La batteria di riserva è integra?

Dieci minuti di riserva. Mezz'ora per montare la batteria nuova. Venti, se sono veloce. Dieci minuti di aria mortifera.

L'operazione è meccanica. L'ho fatta milioni di volte.

La conosco a memoria.

Non penso.

Non posso permettermelo.

Dieci minuti di aria… dieci minuti di aria mortifera.

Di aria vera.

I polmoni bruciano ad ogni boccata.

La gola si è fatta secca di colpo.

Gli occhi bruciano e lacrimano.

Trattengo il fiato.

Le mani tremano.

Rimetto il casco. L'aria filtrata torna a circolare. Inizia la scansione del mio corpo. Avrà fine tra mezz'ora.

Vorrei caracollare e svenire. Ma il temporale, la pioggia…

Le coordinate sono all'interno di una zona circondata da un ampio quadrato grigio, sulla piccola mappa indicativa.

L'ho sempre vista da lontano. Figure nere, all'orizzonte che si alzano verso l'alto, a brandelli.

Scheletri di un cadavere di acciaio e cemento.

Le rovine della città mi accolgono. Torreggiano su di me. Riesco a vederne appena le sagome, nel buio rischiarato solo dalla mia torcia. Non ci sono luci, non c'è movimento. Solo enormi rovine vuote sotto al cielo buio ed umido.

Ho cinque ore di autonomia, sufficienti a terminare la missione in fretta, a tornare indietro. Il corpo che cerco è a quindici minuti. Non è estremamente lontano, appena alla periferia dei resti cittadini.

La terra spaccata lascia il posto ad una lunga strada bucherellata. L'asfalto è ridotto a poco più che blocchi sparsi, sul terreno scoperto; ogni tanto, sono costretto a fermarmi, a riprendere fiato, poggiandomi ai margini della strada, a qualche sformato di acciaio scuro che era una macchina.

Il mio respiro è divenuto asmatico. La tuta segnala un problema respiratorio ed una febbre estremamente alta. Se non sono svenuto, è solo per le iniezioni. Le gambe sono molli, difficili da trascinare. Il corpo è pesante, un macigno che non vuole muoversi in avanti.

La tosse mi scuote all'improvviso, facendomi crollare sulle ginocchia e minacciando di farmi sputare bava dalla bocca. C'è sapore di sangue, indugia sulla lingua, sulle labbra. Dieci minuti alla fine della scansione.

Il risultato mi sembra prevedibile. Dieci minuti per distruggere il mio corpo.

La strada si apre di colpo, circondandosi di grandi edifici squadrati. I loro muri sono crepati, le ampie finestre sono vuote, ma sono tutti miracolosamente in piedi.

Mi sembra di vedere dei fantasmi, camminare tra la nebbia e le polveri. Per qualche ragione, ho come la sensazione che qualcuno mi guardi, qualche occhio mi scruti attraverso la nebbia.

Beta, fai una ricognizione. Fonti di calore.

Nessuna attività da Beta.

Beta, fai una—

Beta si è schiantato qualche minuto fa. O è stato un'ora fa? Non lo ricordo più. Forse la stanchezza mi sta divorando, forse è l'aria che mi è scivolata dentro, insieme a questa cenere scura, allo zolfo, ai detriti di questa città che mi guardano.

Sono sicuro, qualcosa si muove dentro agli appartamenti. Enormi edifici di dieci piani, troncati di colpo, come se fossero stati strappati, crollati su loro stessi; e lì dentro, dalle stanze oscure, ricolme di spazzatura, io sento qualcosa che si muove con me.

Perché non posso sentirli, perché non posso avvertirli? Il pod si è schiantato. Ecco perché.

L'attrezzatura mi ricorda che la temperatura corporea si aggira intorno ai quarantasei gradi e che sono a rischio di svenimento per disidratazione, stanchezza, che il mio respiro è irregolare, il mio battito stanco.

Un altro messaggio mi picchietta sulla spalla per dirmi che le scorte di medicinali e siero inserite all'interno della tuta sono terminate.

La tempesta, la pioggia, stanno arrivando, aggiunge, e il vento si fa più forte. La nebbia polverosa mi vortica attorno, spinta dal soffio del temporale. Di nuovo l'odore di pioggia, nauseabondo, mi spinge a correre sulle gambe scricchiolanti.

Messaggi di avvertimento, di pericolo, di attenzione, si accavallano l'uno sull'altro.

Finché tutto si interrompe di colpo. Finché non compare un ultimo avviso.

Ho raggiunto le coordinate.

Alzo gli occhi, batto le palpebre, cercando di capire dove sono attraverso il pulviscolo che si sta diradando. Lentamente, si apre a rivelare una piccola, anonima strada. Uno stretto vicolo, come gli altri che ho attraversato fino ad ora. C'è spazzatura ovunque.

Mi avvicino ai quattro grandi secchi, ricolmi di sporcizia di tempi andati, e quasi sommersi dall'accumulo di polvere, di detriti, tegole di un tetto, pezzi di metallo, sacchi neri, una mano umana.

Il cadavere è venuto a riposarsi sui sacchi. Il cadavere si è seduto ed è morto in un vicolo.

Lo osservo un secondo. Non c'è nulla in lui che mi dica qualcosa. È un sacco di carne avvizzita dagli occhi secchi e le labbra screpolate. Un corpo, abbandonato nel mezzo del nulla.

Nelle rovine di una città fantasma, mi carico un corpo in spalla, lo sistemo nell'imbragatura, il sacco aderisce contro di lui, le sue gambe ballonzolano contro la mia schiena. Il collo si piega, la testa ricade sul petto. Stringo i denti. Una parte di me vorrebbe solo lasciarlo qui.

Una parte di me, invece, vorrebbe sedersi al suo posto.

Una goccia cade ai miei piedi.

Il casco mi consiglia di ripararmi da qualche parte.

Una panchina coperta da un tettuccio di lamiera, una piccola bacheca distrutta, in cui riesco ad intravedere dei fogli stracciati, dei numeri, degli orari.

Poggio il morto nel suo sacco accanto a me e mi lascio crollare contro lo schienale, gli occhi socchiusi, verso l'alto.

Un tuono, un lampo, poi il cielo vomita pioggia acida su tutta la città.

Il tanfo riempie il casco, il filtro in piena azione, sto ingollando aria pura al novantadue percento.

In poco tempo, la fine pioggerellina diventa un'acquazzone.

La batteria riuscirà a funzionare abbastanza per permettermi di tornare indietro, se la pioggia non durerà più di due ore e a patto di viaggiare senza luce.

Non posso fare altro, no?

La scansione è terminata. Non l'avevo intravista, in mezzo a tutti i messaggi critici.

Febbre alta, infezione dilagante nell'organismo.

Guardo una stima della diffusione del veleno nel corpo. Guardo una stima del danno. Guardo una stima del tempo rimasto da vivere.

Non sembra così male, questo poco tempo, in questo momento.

La pioggia scroscia sempre più forte. La polvere se n'è andata. L'aria, lì fuori, è contaminata al cinquantasei percento.

La stanchezza piomba di colpo su di me. Forse dovrei riposarmi un po', riposarmi il tempo necessario a ripartire.

Dormire con questo casco addosso è davvero difficile. Inizio a cercare l'imbragatura, la stacco, rimuovo il casco con un giro secco. Una pletora di messaggi di avviso, che scompaiono in un secondo, quando lo lascio cadere a terra.

Lo guardo rotolare lentamente in mezzo alla strada, sotto la pioggia che lo corrode, lo mangia, scava nella placca metallica.

Un rumore di metallo rimbalza per la città fantasma di ruderi e cadaveri.

Come se le avesse richiamate—ne sono sicuro—delle figure si affacciano un momento dalle finestre, dalle porte distrutte e socchiuse, dai vicoli.

La pioggia sfoca le loro immagini. La febbre sfoca le loro immagini. La testa mi gira e non riesco più a respirare bene, ma ogni boccata di aria umida ha un sapore mai sentito prima, in bocca.

Sono stanco, devo riposare, assolutamente.

Le figure sono ancora lì, e mi guardano.

Io afferro la foto, la guardo un'ultima volta.

Avrei voluto portarla al Ventre. Lasciarla cadere sul fondo.

Perché la aveva in mano?

La guardo per qualche secondo di più.

La ripiego con cura, la stringo nella mano.

Poggio la testa sulla spalla.

“Hum954...” sussurro “...non svegliatemi domani.”

 

954

End.

 

 

 

 

 

   
 
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