Storie originali > Storico
Segui la storia  |       
Autore: Adeia Di Elferas    16/01/2019    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
Capitoli:
 <<    >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
 

 

Il dottore guardò di traverso la Contessa, inclinando un po' la testa: “Piuttosto, io vi dico di nuovo che dovreste dormire di più, mangiare in modo più regolare ed evitare, per quanto possibile, certi motivi di agitazione e ansia.”

Caterina si morse l'unghia, scuotendo il capo: “Ditemi quello che pensate in merito a quel che vi ho detto e basta.”

“Non so dire se siate incinta o meno.” sospirò allora l'uomo: “Ritengo sia troppo presto per dirlo, ma non escluderei che anche questa volta si risolverà tutto. Vi state solo lasciando impressionare.”

La Tigre si massaggiò la fronte. La stanza era illuminata dalla luce tenue del sole. Quel 22 aprile sembrava che finalmente la primavera avesse deciso di palesarsi.

“Sapete come me, però, che potrebbe essere. E se fossi incinta, questo figlio sarebbe di Manfredi, e io un figlio da lui non lo voglio.” disse la donna, lasciando il letto su cui si era seduta e mettendosi nervosamente a girare per la camera: “Un altro orfano di padre, io non lo metto al mondo.”

“Ebbene...” concluse il medico, non sapendo che altro dirle per calmarla: “In tal caso non ci resta che aspettare. Se la siete, e questo figlio proprio non lo volete, so molto bene che nel vostro ricettario c'è più di un rimedio, per questi casi.”

“Non ucciderei mai uno dei miei figli.” ribatté la Sforza, la schiena percorsa da un brivido nel ricordare come, tanti anni prima, fosse stata tentata di provare ad abortire, quando aspettava Sforzino.

“E allora non vi resta che pregare di non essere gravida, mia signora. Più di questo, io non posso né fare, né dire.” sollevò le mani l'uomo, che era seduto alla scrivania, gli occhi ormai anziani che inseguivano la Contessa da un angolo all'altro della stanza.

Caterina non fece commenti alle ultime parole del medico e lo ringraziò comunque, chiedendogli se le fosse concesso di disturbarlo ancora, nei giorni a venire, se ne avesse avuto bisogno.

“Sono al vostro servizio, mia signora.” confermò lui, posandole una mano sulla spalla: “Ma sopra ogni cosa, io vi imploro: cercate di stare tranquilla. Gli sforzi a cui vi sottoponente non possono non farvi del male.”

Terminata la visita medica, colta da un pensiero improvviso – involontariamente suggerito proprio dal dottore – la Leonessa lasciò la sua camera e si avviò al piano di sotto, per uscire dalla rocca.

Voleva andare in chiesa, magari in quella di San Girolamo, e tentare il tutto e per tutto. Non era certa di aspettare un figlio, anche se il sospetto era abbastanza forte, e forse pregare era l'unica arma che le era rimasta, non volendo prendere in considerazione nemmeno di striscio la possibilità di perdere volontariamente l'eventuale bambino.

Quasi al portone, incrociò Tommaso Feo, che cercò di bloccarla, dicendo: “Vorrei scambiare due parole con voi...”

“Adesso non ho tempo.” lo liquidò lei, quasi senza fermarsi: “Ma vi riceverò appena avrà qualche momento calmo.”

L'uomo incassò, senza lasciar trasparire quanto lo infastidisse quel posticipare il suo discorso, e, le mani allacciate dietro la schiena, si mise a vagare senza meta, allo scopo di tirar tardi, nella speranza che la Contessa riuscisse a trovare tempo per lui prima che scendesse la sera.

Arrivata a San Girolamo, Caterina indugiò per qualche istante all'ingresso. C'erano un paio di preti che camminavano lungo la navata laterale, parlottando tra loro. A parte loro, un paio di donne con il velo scuro in testa pregavano vicino all'altare.

La Tigre non voleva dare nell'occhio, così camminò rasente al muro, evitando sia i religiosi sia le pie fedeli che stavano borbottando a bassa voce le loro implorazioni.

Passò accanto alla tomba di Giacomo, ma preferì non fermarsi, andando filata alla cappella di San Bernardino, dove riposavano i resti di Manfredi.

Davanti al sepolcro, che portava ancora fresco il nome del suo amante, chiuse gli occhi e tentò di pregare. Invece che le parole di una pater noster o di un ave Maria, tutto quello che la sua mente sapeva produrre erano immagini apocalittiche di quello che sarebbe accaduto se davvero fosse stata incinta.

Con la liberalità che si concedeva, per quanto cercasse di stare attenta e per quanto assumesse regolarmente la sua pozione, non poteva dirsi scevra da quel genere di rischio, tanto meno quella volta, dato che gli ultimi giorni di permanenza a Forlì di Manfredi erano stati più che movimentati, da quel punto di vista.

Quindi, in altre circostanze, avrebbe preso in modo meno tragico, quell'eventualità. Certo, sarebbe sempre stata una complicazione, ma non impossibile da gestire. Però, pensare di partorire un figlio il cui padre era già morto, sarebbe stato troppo.

Le era bastato vedere orfani di padre i suoi primi sei figli – e in quel caso, almeno, non c'era come aggravante il dolore per la morte del marito – e poi era toccato anche a Bernardino, che aveva appena cinque anni quando era morto Giacomo, e poi Giovanni, che non avrebbe mai serbato alcun ricordo diretto del genitore.

Quasi senza volerlo, la Sforza si trovò a scendere a patti con la Madonna, chiedendola, come madre lei stessa, di concederle la grazia di non essere incinta, almeno quella volta, evitando a lei una tribolazione indicibile e al piccolo nascituro un'esistenza infelice.

Si fece il segno della croce e poi, sussurrando appena, promise: “Se esaudirai la mia richiesta, farò in modo che arrivi il mio ex voto a Loreto, al santuario.”

 

Il Pandolfaccio si tirò su il bavero del giaccone, mentre un'altra folata di vento che arrivava dalla costa gli scompigliava i lunghi capelli neri.

All'inizio non era stato contento, di quella forma di pagamento, ma poi Violante l'aveva fatto ragionare. Dimostrandosi straordinariamente affabile, con lui, la sera prima l'aveva lasciato restare nella sua camera, e, dopo esserglisi concessa, si era messa a ragionare con lui.

Secondo lei si stava avvicinando una guerra, e quindi il cibo era fondamentale per la preservazione dello Stato. Quando il marito le aveva chiesto che guerra potesse mai scoppiare, la donna aveva risposto in modo molto secco, dicendogli che la Sforza di Forlì si stava visibilmente preparando a una guerra e che quella Tigre difficilmente sbagliava, su quelle cose.

Pandolfo aveva provato a controbattere, dicendo che, in caso di guerra, i soldi sarebbero serviti ancora di più, per comprare armi, ma la Bentivoglio aveva spento in una frase tutto il suo ardire.

“Che te ne fai dei soldi – gli aveva domandato – se non si trova grano da nessuna parte?”

Lui aveva provato a ribattere, con poca convinzione, dicendole che coi soldi, oltre alle armi, avrebbe potuto comprarlo da chi gli pareva. La donna, però, si era indurita e gli aveva fatto notare che quell'anno ci si aspettava una grande penuria di grano e che se, soldi alla mano, si fosse rivolto a Venezia, il Doge avrebbe fatto di tutto, pur di truffarlo, rivendendogli un sacco al prezzo di cento.

E così, quella mattina si era presentato ai messi veneziani con uno spirito molto diverso da quello che lo aveva reso intrattabile per giorni.

Improvvisamente, mille staia di frumento gli parevano un pagamento da re. Ciò che temeva più di ogni altra cosa, era una ribellione popolare.

“Avete controllato che la quantità sia giusta?” chiese a uno dei suoi, tenendo gli occhi scuri puntati sul grano che gli era appena stato consegnato.

L'altro annuì e confermò: “Mille staia.”

Il Malatesta annuì e poi camminò verso il messo veneziano che aveva fatto ufficialmente da scorta a quel carico. Il porto era un brulicare di vita e tra le onde del mare – che quel giorno era tutt'altro che calmo – e il vociare della varia umanità che popolava quella zona, dovette quasi gridare, per farsi sentire dall'uomo del Doge.

“La prossima volta – gli disse, stringendo gli occhi contro il vento – non mi basterà più il grano, ma vorrò i soldi!”

“I soldi...” soppesò il veneziano, fissandolo con un sorrisetto insinuante.

“Devo... Devo pagare il papa. Il mio stipendio, il prossimo mese lo voglio in soldi. Mi servono mille ducati, o il papa mi scomunicherà!” si espose Pandolfo, benché sua moglie gli avesse detto in tutti i modi di non mostrare mai i suoi punti deboli, nemmeno ai Serenissimi, per quanto li ritenesse suoi alleati.

Gli occhi del messo del Doge brillarono, nel sentire quelle parole. Sapeva che erano vere solo in parte. Il papa, per quel che si diceva a Venezia, aveva emesso una bolla con cui sollevava tutti i signori di Romagna, ufficialmente per dei debiti mai saldati, ma, di fatto, Rodrigo Borja non aveva chiesto a nessuno di sanarli, tanto meno aveva lanciato minacce di scomunica.

La sua era stata una semplice notifica, una sorta di sfratto. Per il momento, però, nessuno, esattamente come il signore di Rimini, stava levando il disturbo, e quindi, non era difficile pensarlo, alla fine Alessandro VI avrebbe reso attuativo il suo decreto con la forza.

“Non dovete parlarne con me.” fece il veneziano, allargando un po' le braccia: “Io dovevo solo portarvi il grano. Se volete discutere di queste cose, così alte e a me estranee, chiedete un incontro formale con un inviato del Doge.”

Il Malatesta deglutì e, mentre stava per soggiungere qualcosa, l'altro sollevò una mano e si congedò, dicendo che il suo compito era finito.

Arrabbiato per la sufficienza con cui era stato trattato e, ancor di più, per la propria ingenuità, che l'aveva portato a parlare quando avrebbe dovuto omettere, il Pandolfaccio riversò la propria frustrazione sui suoi manovali, mettendosi a urlare con loro: “Muovetevi! Vi pago per lavorare, non per perdere tempo! Questo grano va messo al riparo, prima che piova!”

 

Caterina lanciò sulla scrivania del castellano la lettera di Fortunati che le era arrivata quella mattina: “Adesso Firenze vuole anche decidere per me!”

Nello studiolo, oltre a lei e Cesare Feo, c'erano anche l'Oliva e Simone Ridolfi. Fu quest'ultimo a recuperare la missiva e rileggerla per conto suo.

“Praticamente vorrebbero sostituire me.” riassunse: “Loro parlano di un Podestà della città, ma è come se vi chiedessero di sollevare me dalla carica di Governatore...”

“No, è molto peggio – spiegò la donna, scuotendo il capo e andandosi a mettere in poltrona, le mani strette in grembo – è come dire che considerano Forlì un loro protettorato. Loro scelgono il Podestà dei paesi che hanno sotto il loro dominio, non certo dei loro alleati. Questo è un tentativo di prevaricare il mio potere.”

Tanto il castellano, quanto l'Oliva si dissero d'accordo, al che Ridolfi non poté che lasciarsi convincere e commentare, a bassa voce: “Allora c'è di mezzo la mano di Lorenzo...”

I quattro discussero ancora un po' su come rispondere a quella lettera, e convennero nel dire che la cosa meno pericolosa, per il momento, era non rispondere nulla. Di certo la Tigre non voleva mettere un Podestà in casa propria, tanto meno uno scelto dalla Signoria, e quindi poteva solo prendere tempo.

Conclusa quella breve riunione, la Contessa lasciò lo studiolo, ancora più tesa di quando vi era entrata. Sentiva il fiato del papa sul collo, i denti di Firenze conficcati nel collo e la mano di Milano che la tirava per le sottane. Senza contare la preoccupazione costante e continua di poter essere davvero incinta.

Andò, senza pensarci, nella sala delle armi. Era quasi sera, iniziava a far buio e per quel giorno le esercitazioni dei soldati erano già finite. Non c'era nemmeno il maestro d'armi e quindi la sala era tutta per lei.

Con lentezza fece una sorta di inventario mentale di quello che c'era sul tavolo, negli armari e nelle rastrelliere e poi, assorta, prese il cesto delle frecce da risanare e cominciò a darsi da fare.

Quel genere di lavori manuali la calmavano, di solito, e le permettevano di non pensare troppo. Ma quella volta nemmeno le cocche da rifinire, le punte da sostituire o le penne da innestare riuscivano a distrarla.

Si chiedeva se Baldraccani, richiamato da Milano e subito rispedito a Ferrara per parlamentare con gli Este e capire i termini esatti della pace tra Firenze e Venezia – termini che nessuno, nemmeno l'ambasciatore Pazzi, tornato da poco a Forlì, si era preso la briga di riferirle – e poi ripensava a Galeotto Bosi, ancora a piede libero, e alla sorte dei dodici prigionieri lasciati alla Signoria.

Sapeva che Faenza aveva impiccato il congiurato che lei aveva fatto consegnare agli uomini di Astorre, ma su cosa Firenze avesse fatto dei suoi era sceso un significativo silenzio.

Assorta nei suoi pensieri, mentre valutava silenziosamente le proprie forze militari, cercando di immaginare quanti uomini potesse dispiegare eventualmente il papa, con tutti i soldi che la cristianità gli metteva a disposizione, la donna ebbe un momento di disattenzione e si tagliò un po' l'indice con la punta di una freccia.

Si portò la falange infortunata alle labbra e succhiò via il sangue, sperando che smettesse subito di sanguinare. Il sapore metallico le riportò alla mente l'odore opprimente della cella in cui aveva fatto a pezzi Corbizzi e così, per qualche istante, si trovò immersa nei ricordi di quella giornata da infernale che, appena si assopiva, aveva già cominciato a tormentarla.

Aveva ripreso già l'insana abitudine di cercarsi un amante diverso a notte, in parte, credeva, anche per esorcizzare la paura di aspettare un figlio. Si illudeva quasi che facendo così, potesse negare la realtà. Quando poi restava sola, a notte fonda, e provava a dormire, doveva fare i conti con gli incubi del passato che si mescolavano a quelli più recenti. Anche se il suo medico le aveva detto di cercare di stare tranquilla, di fare una vita più regolare, in realtà tutto quello che stava riuscendo a fare era sregolarsi sempre di più.

Era una sorta di valvola di sfogo per riuscire a tenere testa a tutti i problemi che la opprimevano di giorno. Se riusciva a ritagliarsi quelle ore di libertà pressoché assoluta – per quanto dolente – allora poi riusciva anche a gestire il peso della sua vita pubblica.

“Madre...” Galeazzo la stava osservando, sulla porta della sala delle armi, con la sua solita posa marziale, paziente, ma un po' preoccupato.

Aveva visto la Tigre ferirsi e poi l'aveva guardata mentre si perdeva nei suoi pensieri. Aveva deciso di palesarsi solo quando l'aveva scorta prendersi la testa tra le mani, abbattuta.

“Dimmi, Galeazzo.” fece lei, riprendendosi un po' e lasciando di lato la cesta di frecce.

Il ragazzo si avvicinò un po'. I suoi occhi verdi si posarono un istante sul dito ferito della madre, ma la sua espressione si tranquillizzò un po', nel vedere che era appena un graffio.

“Volevo chiedervi una cosa...” disse piano lui.

Erano giorni che si tormentava e aveva trovato il coraggio solo quella sera di cercare la madre e porgerle quella domanda. Vedendola sola, nella sala delle armi, aveva deciso di provare ad avvicinarla.

“Tutto quello che vuoi.” lo invitò lei, facendogli un cenno per incoraggiarlo.

“Il documento che avete fatto firmare a me e ai miei fratelli...” iniziò lui, un po' guardingo, temendo di essere frainteso: “A cosa serve? Voglio solo capire. Tutto qui.”

L'espressione della donna si fece dura, mentre si alzava dallo sgabello e si parava davanti al figlio.

Gli posò entrambe le mani sulle spalle e, fissandolo negli occhi, iniziò dicendo: “Sei sempre il mio erede, Galeazzo. Non ho cambiato idea. Se potrò, un giorno ti lascerò tutto quanto. Sei l'unico, tra i tuoi fratelli, ad avere le capacità di tenere in piedi uno Stato.”

Il Riario pareva quasi intimidito da quella dichiarazione, ma quando la madre tacque, il suo sguardo era illuminato da un orgoglio difficile da celare.

“Se ho fatto preparare quel documento – proseguì lei, con una breve smorfia – è per mettere tutti voi al sicuro. Io ho deciso di restare qui fino alla fine, ma voi non dovete. Vi sto cercando un posto sicuro dove scappare, in caso di necessità. Senza più alcun diritto sulla mia eredità, non avrà alcun senso, per il papa o per chiunque altro, fare del male a voi. Così potrò combattere con la mente più libera. E se per caso dovessi resistere abbastanza da vedere la fine della guerra, allora vi restituirò ogni cosa.”

Il ragazzino ascoltava rapito, cercando di capire ogni sfumatura di quel discorso e quando fu certo che la madre non avesse altro da dire, propose: “Io resto a combattere con voi, se ci sarà una guerra.”

Caterina sorrise. Le piaceva il tono con cui suo figlio le aveva parlato. Le ricordava un po' lei stessa da bambina, quando diceva, con la sicurezza di chi sa il fatto suo, che avrebbe accompagnato suo padre in battaglia.

Nel ripensarci, un velo di tristezza le scese sul viso. Era passato troppo tempo, una vita intera, quasi.

“Sei troppo giovane, Galeazzo.” fece la Contessa, dandogli un buffetto sulla guancia, ancora liscia, da bambino: “Preferisco saperti al sicuro.”

Il Riario distolse lo sguardo. Da un lato la capiva, ma dall'altro si sentiva sminuito. Era il migliore, quando si addestrava coi soldati, e sapeva battere perfino il maestro d'armi, con la spada. Forse non sarebbe stato l'eroe della battaglia, ma avrebbe potuto comunque aiutare sua madre, se solo lei l'avesse voluto.

“Hai capito, comunque, perché ho fatto stilare quel documento di rinuncia?” chiese la Sforza, tornando seria.

Il ragazzino annuì: “Sì, madre, ho capito.”

Seguì un momento di silenzio, durante il quale la Leonessa rimirò il suo figlio prediletto che, invece, stava guardando di sfuggita le armi sparse sul tavolo.

“I due prigionieri, quelli che hanno ucciso messer Manfredi...” chiese dopo un po' Galeazzo: “Li avete uccisi voi?”

“Solo uno dei due.” rispose, sinteticamente Caterina.

“Se aveste voluto, io vi avrei aiutata... Se dovevate interrogarlo e giustiziarlo... Io potevo esservi d'aiuto. Non ho paura.” cominciò Galeazzo, tornando a guardarla, di soppiatto, cercando, forse, di capire cosa pensasse davvero.

La Tigre, a quel punto, sospirò e, dandogli una carezza in testa, con una dolcezza che un po' fece trasecolare il figlio, disse: “Verrà anche per te quel giorno, ma spero che sia il più tardi possibile.”

Il Riario si lasciò abbracciare, e poi, quando la madre finalmente si staccò da lui, riuscì a dirle, con un sussurro appena udibile: “Non voglio separarmi da voi.”

La Sforza sentiva uno strano nodo alla gola, come se quel momento tra loro fosse il preludio a un distacco più netto e irrimediabile. Sapeva che prima o poi avrebbe dovuto dirgli addio, ma non voleva pensarci.

“Avanti...” gli disse, tirando su con il naso e guardando altrove: “Andiamo a mangiare qualcosa... E se vuoi, un giorno di questi, appena ci sarà un po' più di calma e sarò sicura che non ci sono pericoli imminenti, potremmo andare a caccia insieme.”

Il ragazzino era già in visibilio, all'idea di una battuta di caccia con la madre, ma cercò di contenere la propria gioia. Annuì e poi la seguì fuori dalla sala delle armi, improvvisamente affamato quanto lei.

Mentre raggiungevano la sala dei banchetti, però, la donna venne fermata dal Capitano Mongardini che, parlando a bassa voce, le disse: “Mia signora, non riusciamo a trovare Achille Tiberti da nessuna parte. Però pare che abbia detto a qualcuno, in paese, che stava per partire per Roma...”

“Per Roma?” chiese Caterina, accigliandosi, non capendone il motivo.

Il Capitano annuì e poi chiese: “Non l'avete mandato voi dal papa?”

“No, non l'ho mandato io... Forse è meglio se ci riuniamo e...” soffiò lei, lanciando uno sguardo al figlio, che sembrava sulle spine, come se temesse di vedersela strappare da sotto al naso.

Aveva già fatto quell'errore troppe volte, soprattutto con i suoi figli maggiori, e quindi cercò di conciliare come possibile gli affari di Stato e quelli di famiglia.

Mordendosi il labbro, decise in fretta: “Fate radunare il mio consiglio ristretto tra un'ora. Non prima. Adesso devo andare a mangiare.”

Mongardini chinò il capo e lasciò la Contessa libera di andare a rifocillarsi, seguita da Galeazzo che pareva contento come se avesse appena vinto un premio.

Dopo aver mangiato, tentando di non dar a vedere al figlio la preoccupazione e la fretta che stava accompagnando ogni suo gesto, la donna lo osservò per un istante e poi gli disse: “Vieni anche tu, al Consiglio.”

Doppiamente soddisfatto per la considerazione che la madre gli stava dando, il ragazzino la seguì fino alla Sala della Guerra.

Appena prima di entrare, Tommaso Feo intercettò la Contessa e le fece notare: “Sono passati giorni, da quando vi ho domandato udienza...”

“E allora vedrete di attendere ancora un po'. Stasera non ho tempo.” tagliò corto lei.

“Chiedete al vostro consiglio di parlarvi anche di Sassatelli, di Imola. Credo che stiano sottovalutando la cosa.” fece il Feo, come in un inciso, prima di congedarsi.

La Leonessa si schiarì la voce e, sapendo come sempre che Tommaso le era profondamente fedele, pur non avendo idea di cosa c'entrasse Sassatelli in quel momento, annuì e ribatté: “Lo farò, grazie.”

L'uomo guardò la Tigre e il piccolo Riario sparire nella Sala della Guerra. Avrebbe pagato oro, pur di poter partecipare anche lui a quella riunione. Gli mancava, la vita della rocca, ma più restava lì più si rendeva conto di quanto gli facesse male essere così vicino alla Sforza senza poterla nemmeno sfiorare.

Allacciandosi le mani dietro la schiena, sospirò e si allontanò, pensando che anche per quella sera la sua unica consolazione sarebbe stata la tisana di erbe preparata dalla giovane Riario che, premurosa com'era stata la sua omonima zia, sembrava l'unica, lì dentro, a non considerarlo una sorta di fantasma.

 
 
   
 
Leggi le 1 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Storico / Vai alla pagina dell'autore: Adeia Di Elferas