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Autore: Bethan__    17/01/2019    0 recensioni
Nell’Islanda settentrionale, situata tra alti e ripidi monti, si trova Öxnadalur: una valle costellata di piccole ma popolose fattorie. Era risaputo che la vigilia di Natale fosse la sera preferita dagli spiriti maligni per tendere agguati ai viaggiatori che si avventuravano nella neve. Ástvar non era una persona superstiziosa, non lo era mai stato, ma anche in caso contrario quella sera avrebbe sfidato spettri e demoni pur di giungere a Bægisá.
Genere: Introspettivo, Malinconico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Nell’Islanda settentrionale, situata tra alti e ripidi monti, si trova Öxnadalur: una valle costellata di piccole ma popolose fattorie. Le tiepide primavere annunciano sempre estati relativamente miti, ma gli inverni sono contraddistinti da pesanti nevicate che costringono gli abitanti della vallata a intensi periodi di reclusione forzata. A Myrká abitava Ástvar, un contadino che aveva vissuto gran parte della sua vita apprezzando la solitudine, affidandosi a una routine abitudinaria e lavorando sodo per tenere in piedi la sua amata fattoria, la stessa dove era nato e dove aveva vissuto con i suoi genitori fino al giorno in cui erano morti. Ástvar si svegliava ogni mattina alle cinque e mezza in punto e si metteva subito all’opera perché c’era sempre tanto da fare: controllare il gregge, aspettare l’arrivo degli agricoltori e dei pescatori dei villaggi vicini per rifornirsi di provviste e, allo stesso tempo, tentare di vendere i propri prodotti; era assolutamente necessario dedicarsi alla mungitura delle pecore almeno due volte al giorno, portarle al pascolo, mettere da parte una significativa quantità di latte per preparare burro, formaggio, o anche solo latte scremato cagliato. Inoltre non poteva certo dimenticarsi di Kæja, una piccola ma eccezionalmente vivace gatta striata che era stata la sua unica e fidata compagnia per anni, finchè un avvenimento fuori dal comune aveva stravolto il meticoloso e rigido ordine al quale aveva piegato la sua esistenza.

Qualche mese prima, e più precisamente il terzo venerdì di ottobre, Ástvar aveva ricevuto la visita di un falegname proveniente dal villaggio di Bægisá: l’inverno incombeva ed era essenziale fare ingenti scorte di legna. Aveva fatto affari con lo stesso uomo per diversi anni su consiglio di Benedikt, che abitava tre fattorie più a sud e poteva vantare l’appartenenza a un’antica famiglia di carpentieri. Quel terzo venerdì di ottobre, comunque, per la prima volta l’uomo si era presentato alla fattoria accompagnato da sua figlia, Guðrún. Era una giovane graziosa, dai capelli ramati e un sorriso amichevole che non si era risparmiata neanche quando le pecore avevano fatto un gran baccano e Kæja aveva soffiato, diffidente. Contro ogni sua previsione, Ástvar ne era rimasto folgorato. Per qualche assurdo, inspiegabile motivo, anche lei sembrò trovarlo gradevole. Quel giorno si scambiarono poche parole e, ad affare concluso,  lui la guardò a lungo mentre si affrettava dietro al padre per raggiungere Bægisá prima che scendesse il freddo del tardo pomeriggio.

Ci vollero due giorni prima che si decidesse ad andare al villaggio, senza scuse o giustificazioni pronte. Guðrún non ne fu affatto sorpresa, anzi, era come se quella visita fosse tra gli avvenimenti più naturali della sua giornata. Suo padre era andato a vendere legna in un villaggio a qualche ora di distanza e avrebbe fatto ritorno solo la sera tardi. Ástvar apprezzò la tazza di tè che gli fu offerta, e quando Guðrún gliene propose una seconda, non rifiutò. Era strano per lui parlare con qualcuno, figurarsi parlare con una donna. Lei però non sembrava avere particolari problemi, anzi, era una gran chiacchierona. Non di quelle fastidiose, anzi: era un piacere starla a sentire mentre parlava di cose che prima di allora non avevano mai, neanche per sbaglio, solleticato il suo interesse. Nei mesi successivi, infatti, Guðrún gli parlò di letteratura, di scrittori provenienti da continenti così lontani da sembrare irraggiungibili ma anche degli autori della loro terra, una terra spesso giudicata troppo fredda e inospitale ma con un’anima non del tutto impenetrabile. Quando con tono insicuro borbottò che gli sembrava di ricordare che non troppo lontano dai loro villaggi fosse nato Jón Þorláksson, poeta e traduttore a cui si deve la versione islandese del Paradiso perduto di Milton, Guðrún si aprì in un sorriso così radioso e appagato che Ástvar sentì l’impulso di nascondere il viso dietro la sua tazza di tè, inspiegabilmente piena per la terza volta.
Quello che davvero lo lusingava era l’attenzione e l’interesse con cui anche lei lo stava a sentire mentre si dilungava in appassionate spiegazioni su tecniche di mungitura e trucchi che utilizzava per preparare burro e formaggio. Lo imbarazzava parlare di cose tanto noiose, intrise di una banalità atrofizzante, ma non era un uomo istruito e aveva molto poco da offrirle. Ma a Guðrún non interessava, perché erano altre le cose su cui si concentrava. Le piaceva la sua voce, era dotata di un timbro profondo che tendeva al roco ogni volta che era imbarazzato, quindi praticamente sempre. Le piacevano i suoi occhi, scuri come il cielo a cui erano abituati nei mesi più freddi dell’anno, e adorava i suoi capelli corvini, inaspettatamente soffici al tatto, come scoprì una sera di inizio dicembre, la prima volta che le permise di accarezzargli il viso. Con gli occhi chiusi per concentrarsi su quel contatto a cui era decisamente poco abituato, le aveva spiegato che gli antenati di suo padre contavano degli spagnoli al loro interno: nessun altro nella sua famiglia aveva dei capelli tanto scuri. Guðrún sorrideva anche ogni volta che lo guardava accarezzare Kæja. I primi tempi le sussurrava con dolcezza che fosse ora di imparare a trattare bene gli ospiti, avvertendola del fatto che non fosse per niente educato soffiare dal naso con tanta sfacciataggine ogni volta che qualcuno si presentava alla fattoria. Ma, più di tutto, lei apprezzava il fatto che non la reputasse una sciocca. Ástvar non era condizionato da alcun pregiudizio, mai, e non gli importava del fatto che lei non sapesse cucinare, dell’insistenza con cui si fosse sempre dedicata ai libri invece di imparare a cucire. Gli piaceva ascoltarla e gli piaceva che lo ascoltasse, e questo a lei era bastato per innamorarsene.

Nevicava già da due giorni quando si recò a Bægisá il 22 dicembre, per invitarla a passare il Natale con lui. Suo padre aveva capito da tempo cosa stesse accadendo e, con una certa arrendevolezza, aveva dato ai due la sua benedizione. Era sempre stato un uomo affabile e bendisposto, la vecchiaia si era posata su di lui con la stessa dolcezza di un drappo di seta. L’unica cosa che lo perseguitava era la paura della solitudine, la terrificante prospettiva di rimanere solo. Guðrún era tutto ciò che gli restava ma non per questo le avrebbe impedito di costruirsi finalmente una vita sua. I genitori, si sa, a un certo punto smettono di essere la priorità dei figli. Sua moglie glielo ripeteva spesso, quando discutevano di cosa sarebbe successo una volta che la loro bambina avesse abbandonato quella casa per sempre.
Avendo ricevuto risposta affermativa da entrambi, Ástvar si concesse finalmente di sperare, di provare una gioia spiazzante che si vietò di oscurare con preoccupazioni o insicurezze inutili. Forse era arrivato il momento: finalmente avrebbe avuto qualcuno che gli rendesse l’alzarsi al mattino una consuetudine significativa piuttosto che meramente abitudinaria. Le sue giornate avrebbero acquistato un senso. Ogni cosa, ogni gesto, ogni pensiero, avrebbero potuto finalmente essere condivisi, dedicati, sussurrati o pronunciati a voce alta. Forse avrebbe nuovamente avuto una famiglia (si ricordava a malapena di cosa significasse possederne una) e se Guðrún non avesse voluto figli, poco male, avrebbero imparato a bastarsi. Suo padre sarebbe andato a vivere con loro, si sarebbero presi cura di lui con affetto e dedizione. Avrebbe imparato a cucinare, forse anche a cucire se fosse stato necessario. All’improvviso, la vita gli sembrò qualcosa di più simile a un sentiero rischiarato da un bagliore caldo e avvolgente, piuttosto che un passo di montagna innevato e costantemente sferzato da un vento gelido e tagliente.
Quel giorno tornò alla sua fattoria col cuore talmente leggero che, per cena, a Kæja fu concessa una doppia razione di pollo.

Quando il 24 dicembre lo videro prepararsi per il viaggio, nel tardo pomeriggio, furono in molti a sconsigliargli di cavalcare con quel tempo. Da quasi una settimana, infatti, la neve aveva continuato a cadere ininterottamente e il sentiero che molti utilizzavano per spostarsi da un villaggio all’altro era completamente ghiacciato. Inoltre, era risaputo che la vigilia di Natale fosse la sera preferita dagli spiriti maligni per tendere agguati ai viaggiatori che si avventuravano nella neve. Ástvar non era una persona superstiziosa, non lo era mai stato, ma anche in caso contrario quella sera avrebbe comunque sfidato spettri e demoni pur di giungere a Bægisá. Così preparò il suo unico cavallo, un bel Clydesdale che suo padre aveva comperato a una fiera più di dieci anni prima, e partì lanciando un’ultima occhiata alla sua fattoria dalla facciata rosso scuro e il tetto bianco latte. Mentre galoppava alla volta del villaggio, l’infaticabile nevicata si trasformò in una vera e propria bufera che lo costrinse a rallentare e a procedere al passo con estrema cautela. Il cappuccio che si era tirato sulla testa non bastava a proteggerlo e ben presto il sentiero diventò quasi invisibile a causa del ghiaccio. Il cavallo iniziò a fare le bizze, rifiutandosi di proseguire in condizioni tanto sfavorevoli, ma Ástvar ebbe un’idea: invece di proseguire lungo il sentiero e attraversare il fiume ghiacciato, avrebbe continuato costeggiando entrambi, passando per i boschi. Per un po’ la strategia si rivelò vincente, tanto che ormai gli parve di riuscire a distinguere le luci di Bægisá in lontananza, ma ben presto anche il bosco diventò impraticabile a causa della bufera. Ciononostante, Ástvar continuò a spingere il cavallo in direzione del villaggio. Non gli importava delle mani ghiacciate, dell’intorpidimento ai piedi, del freddo pungente che ormai era penetrato in ogni centimetro del suo corpo. Mancava poco e lei lo stava aspettando, lo sapeva, lo sentiva: arrendersi era fuori questione. Se il tempo avesse reso impossibile tornare indietro, avrebbero festeggiato il  Natale a Bægisá, insieme, per la prima volta. Come una famiglia. Avrebbero apparecchiato la tavola, si sarebbero inventati qualcosa per la cena (chissà che il padre non fosse in grado di cucinare?), infine sarebbero rimasti svegli a bere caffè bollente in attesa del momento in cui, tutti insieme, si sarebbero recati in chiesa per la messa di Natale. Ástvar era ancora impegnato con dolci fantasticherie, decisamente troppo impegnato per fare attenzione a dove stesse andando. Per una volta, troppo felice per stare con i piedi ben saldi per terra. Il sorriso di Guðrún e la coda di un gatto striato furono le ultime cose a cui pensò, dopo che una lastra di ghiaccio gli perforò la schiena.

Guðrún e suo padre sedevano accanto al fuoco. Lei, trepidante, continuava a lanciare sguardi alla finestra e poi alla porta: la bufera sembrava essere davvero peggiorata. Ástvar era in ritardo, ma non era preoccupata. Nessuno sapeva orientarsi nella neve meglio di lui. Pochi minuti dopo, infatti, sentì tre colpi secchi e forti alla porta. Si alzò e, con un gran sorriso, corse ad aprire. Non c’era nessuno.

 

 

 

 

 Questo piccolo racconto è liberamente ispirato
alla leggenda islandese del diacono di Myrká.

          

  
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