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Autore: Drown    21/01/2019    1 recensioni
Quattro anni.
In quella stanza la me di allora ci abiterà per sempre.
Come può il tempo cancellare qualcosa che nel tempo non è?
Riflessioni sul mio ricovero in neuropsichiatria a Brescia.
Genere: Introspettivo, Malinconico, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate
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Quattro anni fa ero in ospedale.
Il capodanno lo avevo passato là, tra quelle finestre con le sbarre, le telecamere, gli altri pazienti e le medicine.
Vivevo in una dimensione atemporale, non ero in grado di avere una prospettiva, di immaginare un "oltre".
Vivevo in quella stanza enorme, io, così piccola, 16 anni e 37 kg addosso.
In quel letto... quanti giorni passati lì dentro, senza riuscire ad alzarmi, senza un motivo per farlo perché ormai il mio mondo era diventato quel reparto e non esistevano altro che quel corridoio e quelle tre stanze.
Ricordo la mia camera: così grande, con quel letto al centro da cui non mi alzavo neanche per mangiare, con il bagno chiuso a chiave,  la telecamera e la finestra sbarrata. Ricordo i disegni che avevo appeso per renderla mia. Chiunque fosse ricoverato da tanto lo riconoscevi dai disegni attaccati ai muri della propria stanza. Eravamo costretti a renderla casa nostra e a dimenticare quella reale: ne rimaneva solo il miraggio, un'immagine sbiadita e irreale.
Ricordo gli omogeneizzati che puntuamente ordinavo e che mai mi portavano - e mi sembrava tanto strano! Quanta rabbia mi provocavano -, ricordo il giorno del peso, la paura e il desiderio di quel sondino che avrebbe legittimato il mio dolore, la mia identità. Ricordo le medicine, la solitudine, la sensazione che non esistesse più nulla.
Quello era tutto il mio mondo, tutto ciò a cui potevo aspirare perché non ero semplicemente abbastanza per avere altro. Mi ricordo le crisi, le minacce di suicidio, le punture per calmarmi quando stavo così male da voler solo far esplodere tutto e poter uscire da là.
Ricordo le loro di minacce, la loro impotenza. "Se non mangi non puoi uscire né vedere o contattatare qualcuno". E a me cosa importava?  Era l'occasione perfetta per dimagrire: nessuna distrazione. I 34 erano un obbligo. Una psicosi che si materealizzava nei sogni, sul vetro della finestra quando facevo la doccia in quel bagno di metallo. Chissà chi c'e stato e chi c'è ora in quella stanza, chissà se avverte tutto il dolore che l'ha attraversata e che vi sarà sempre legato.
Ricordo tante cose e tante le ho rimosse, perché troppo dolorose o perché le medicine mi avevano bruciato il cervello.
Quante ne prendevo? Quanto male mi hanno fatto nell'inutile tentativo di curarmi togliendomi la possibilità di vivere, senza capire che l'unica cosa di cui avevo bisogno era proprio la vita, con tutti i suoi colori, con tutta la sua luce?
Ricordo la gioia di una visita, quelle due volte in cui mi è stato permesso.
Ricordo le uniche due uscite in quei sei mesi, il cinema, quella foto e quella gioia che mi esplodeva dentro nel poter finalmente respirare dell'aria vera, che è così meravigliosamente diversa da quella di quel luogo.
Chi non l'ha vissuto non può e non potrà mai capire il senso di tutto ciò. Non potrà mai comprendere lo squarcio che ti lascia dentro, la sensazione di aver perso nel nulla mesi e mesi della propria vita. Mesi che allora erano e sarebbero per sempre stati tutta la tua vita.
Gli altri non potranno mai capirlo, e io non potrò mai cancellarlo, cancellare la me che era ed è quel luogo e che per sempre vi abiterà, con i suoi disegni, la sua solitudine, il suo nulla.

Come può il tempo cancellare una cosa che nel tempo non è?

   
 
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