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Autore: Fenice e Dregova    21/01/2019    0 recensioni
All'alba dei tempi, la terra era abitata da moltissime creature. Le più potenti erano i draghi che offrivano protezione alle altre razze che stavano crescendo sviluppando la loro propria magia. In un tempo in cui la pace sembrava prosperare, i draghi commisero un errore che risvegliò un male rimasto imprigionato nel baratro del nulla per secoli: donarono la magia agli uomini. I maghi cominciarono a scavare nei segreti cui potevano ora accedere e, spinti dal desiderio di un potere sempre maggiore, finirono col seguire il canto seduttore dei demoni. Li liberarono e cominciò la guerra che terminò, secondo una leggenda, col sacrificio di alcuni rappresentanti dei popoli che abitavano il pianeta. I maghi divennero i nuovi custodi della pace, mentre i draghi si estinsero. Ma c'era qualcosa che si stava muovendo, l'ombra di un'antica minaccia che era riuscita a fare capolino dal buco oscuro in cui era stata richiusa. Cosa ne sarà della giovane Hel, riuscirà a destreggiarsi tra i problemi legati alla sua famiglia e quelli nati dall'avere la magia nelle vene?
Genere: Avventura, Azione, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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3:

 

Fu colta di sorpresa dal rumore della chiave che entrava nella toppa, dal suo scattare metallico e cigolante che le ricordava i denti di un mostro di latta di cui aveva letto da qualche parte. Ogni volta che era da sola a casa e sentiva quel rumore, il suo corpo rispondeva con la pelle d’oca e tutta se stessa si aspettava di posare gli occhi sul pericolo che avrebbe salito le scale per poi entrare nella sua camera minacciandola di tagliarla fuori dal mondo. Come se il suo isolamento non fosse abbastanza.

Sentì dei rumori attutiti dalla distanza giungere dal piano di sotto, voci concitate che parlavano e ridevano, voci senza volti che le mettevano ansia. Camilla e suo padre erano tornati e da come sembravano allegri dovevano essersi divertiti molto a Venezia.

Si chiese quali bellezze architettoniche avessero visitato, quali prelibatezze il loro palato avesse assaporato e su quali colori i loro occhi si erano posati. Mise tutti i pensieri da parte e si concentrò sul libro che stava leggendo. I suoi compagni di classe avrebbero sgranato gli occhi per la sorpresa nel vedere di che genere di libro lei stava sfogliando le pagine. I libri di scuola le piacevano, le permettevano di conoscere il mondo e le leggi che lo governavano, ma anche lei ogni tanto aveva bisogno di staccare, e per farlo non c’era niente di meglio che un bel romanzo. Non aveva un genere preferito, leggeva tutto ciò che le capitava a tiro, ma se la storia possedeva romanticismo, azione, magia e una piccola tragedia, il suo cuore era perduto per sempre fra le parole, capitolo dopo capitolo, sino alla fine del libro.

Fuori dalla finestra della sua camera, una domenica nuvolosa si muoveva tra scrosciate di pioggia e pigri fasci di luce che sembravano deboli al punto di morire pochi secondi dopo essere spuntati. Non le dispiaceva la giornata, era una buona scusa per rimanere in camera sua a leggere o fare qualsiasi altra cosa che non le permettesse di incontrare i suoi parenti. Non aveva voglia di vedere i loro sorrisi spegnersi sui volti e il suono delle loro risate perdersi nel silenzio della casa. Era una cosa che le spezzava il cuore. Preferiva far finta di non esistere e di lasciare che loro continuassero a vivere, senza avere il costante pensiero di non essere da soli.

Hel non voleva essere un peso per nessuno, e odiava quando leggeva nei loro sguardi quanto invece lo fosse.

Si coprì le mani con le maniche della maglia rossa di caldo cotone e tirò su le coperte morbide e profumate di arancio. Girò un’altra pagina e si perse nel capitolo sedici della storia appassionante che stava leggendo. Le punte dei polpastrelli accarezzarono le pagine ruvide, un po’ incartapecorite e ingiallite di quel libro che sicuramente aveva visto giorni e proprietari migliori. Forse, pensò Hel, un tempo aveva avuto la fortuna di incontrare due persone che si amassero come i protagonisti. Pronti a tutto per stare insieme, anche a costo di sfidare l’ira degli dei.

Qualcuno stava salendo le scale e lei trattenne il fiato, gli occhi fissi sulla stessa parola incapaci di scorrere in avanti, il cuore che sobbalzava rapido e fremete mentre le orecchie si tendevano per cogliere ogni minimo rumore.

I passi si fermarono a metà scala, ci fu un breve silenzio che a Hel parve infinito, poi le scarpe tornarono sui loro passi scendendo.

Non aveva bisogno di vedere a chi appartenessero i piedi per riconoscere chi era tornato indietro. Camilla doveva essersi accorta della luce che trapelava da sotto la porta della camera, oppure non aveva fatto silenzio abbastanza, o magari le erano spuntati i poteri a aveva percepito che era in camera. Non che Hel avesse altri luoghi dove andare, soprattutto di domenica. Almeno, non come i suoi compagni di classe. Aveva ascoltato con avarizia di particolari i loro racconti sui pranzi trascorsi in famiglia, in cui si andavano a trovare i nonni, con cui si giocava a carte e da cui si veniva viziati sotto lo sguardo vigile e rimproveratore dei genitori. Magari Hel avesse avuto dei nonni, si sarebbe recata da loro per trovare una briciola di pace in quella vita che sembrava non averne nemmeno un granello per lei.

A Hel non era stato possibile conoscere i nonni, né quelli materni, né quelli paterni.

Eracle era orfano, i suoi genitori erano morti quando era ancora piccolo. Un incidente con una maga. Suo padre non aveva voluto raccontare niente a Camilla ed Hel aveva rispettato il silenzio del padre assieme alla sorella, ma la sua curiosità aveva preso il sopravvento sulla paura di infastidire il padre. Svolse delle ricerche sui giornali dell’epoca e scoprì che i genitori di Eracle erano morti in un incidente in cui era coinvolta una maga. C’era stato un incidente, una fuga di gas che aveva dato origine a un’esplosione e poi a un incendio che nessuno riusciva a domare, né i pompieri né i maghi intervenuti sul luogo del sinistro. Cinque persone morirono nell’incendio, un numero minuscolo rispetto ai feriti. Vennero svolte delle indagini, si ascoltarono testimoni e tra di essi ce ne fu uno che raccontò di una giovane donna che vestiva un abito verde dalla gonna lunga fino a metà polpaccio, con i capelli rossi e ricci raccolti in una voluminosa coda, con due occhi azzurri che sembrava quasi che l’acqua dell’oceano avesse deciso di cambiare luogo dove trovare dimora. Questa donna era una maga che improvvisamente si era come pietrificata e poi aveva iniziato a formulare incantesimi che le si erano ritorti contro.

Fu impossibile risalire all’identità della maga, di lei non rimaneva che cenere, persino le ossa erano state consumate, ma si pensò si trattasse di Rodmilla Selvina, un’esperta di artefatti magici che permettevano ai maghi di controllare la magia del fuoco. Era conosciuta nel mondo magico come la creatrice di oggetti capaci di incanalare il potere del fuoco rendendo il mago che possedeva l’oggetto capace di creare persino delle creature quasi viventi grazie all’immenso potere delle sue opere. Erano queste le più richieste dai maghi di un certo livello. Peccato che lei avesse provato a dominare tale magia senza l’ausilio di oggetti che catalizzassero il suo potere, impedendo che si facesse esplodere e limitando la dose di magia che era richiesta nell’esperimento magico.

Tre gli altri morti c’erano anche i genitori di Eracle.

In alcuni momenti Hel si domandava come fossero i suoi nonni paterni. Non li aveva mai visti, nemmeno in una foto. Di loro non conosceva i nomi. Ogni tanto le veniva da chiedersi se la situazione che viveva sarebbe stata differente se loro fossero stati ancora vivi. Magari avrebbero fatto ragionare il figlio, magari non l’avrebbero odiata come invece faceva il resto della sua famiglia. Non che si trattasse di una famiglia enorme. Eracle era figlio unico, quindi nemmeno l’ombra misera di uno zio a cui chiedere aiuto, nessun cugino con cui confidarsi.

Erano loro tre. Camilla, Eracle e Hel. Nessun altro.

Di tanto in tanto, quando si sentiva particolarmente demoralizzata, si chiedeva se i nonni paterni avrebbero mai acconsentito alle nozze tra Eracle e Marialuce. Magari, se si fossero opposti, loro due non si sarebbero mai sposati e Hel non sarebbe nata lasciando la madre ancora libera di vivere tutta la sua vita.

Si perdeva in questa fantasia dove lei non esisteva. In cui forse sarebbe stata solo un fantasma di cui non si sarebbe mai conosciuto il nome. Un nome che odiava e che le ricordava il male che aveva fatto alle persone che la circondavano. Odiava se stessa.

Magari era un bene non aver avuto la possibilità di conoscere i suoi nonni, persone in meno di cui sopportare gli sguardi accusatori. Meno pesi sulla coscienza. Meno sensi di colpa.

La curiosità c’era, era impossibile non averla, e tra foto rubate in attimi di solitudine in casa, Hel si costruì immagini che appartenevano ai nonni. Non conosceva i loro nomi, ma i loro visi li aveva imparati a menadito, tanto che di notte le andavano qualche volta a fare visita e le raccontavano storie di mondi impossibili in cui la magia non esisteva e le persone non avevano alcun modo per dimenticare, o meglio, per nascondere gli avvenimenti brutti nella vita, se non facendo finta che non esistessero, andando avanti lentamente e senza la luce negli occhi. Non poteva veramente esistere un universo in cui non si potesse assistere alle grandi opere di magia, in un universo in cui la maggior parte delle persone che lei conosceva non esistevano. Ma nel sonno lei restava ad ascoltarli affascinati, e al risveglio si chiedeva se nella vita vera avessero avuto quelle stesse voci che la sua fantasia aveva dato loro e se le espressioni dei loro visi fossero naturali o meno.

Ma se le era stato relativamente semplice ricostruire la parentela da parte del padre, a Hel era praticamente impossibile scoprire chi fossero i genitori della madre.

Camilla una volta le disse di aver sentito loro padre parlare al telefono. Non poteva sapere cosa l’altra persona stesse dicendo, ma le parole di Eracle erano chiare: voleva che prendessero Hel e la portassero via.

Per giorni Hel si era divisa tra il desiderio spasmodico di essere presa da uno sconosciuto e allontanata con la forza dalla famiglia che la odiava. Quante probabilità c’erano che la trattassero peggio. Ma una vocina nella testolina le ricordava che per quanto la vita con Eracle e Camilla potesse essere difficile, erano pur sempre la sua famiglia e non poteva abbandonarla come se niente fosse. Una parte di loro sarebbe per sempre rimasta in lei.

Era un pensiero che ripudiava per la maggior parte del tempo. Ma se si soffermava a pensare, sarebbe stato veramente così semplice lasciare tutto e cambiare vita? Sperava proprio di sì, di non avere la sfortuna di sentire la nostalgia delle persone che la ignoravano o deridevano.

Ci fu un periodo in cui le chiamate che Eracle faceva alle misteriose persone divennero più frequenti, per poi smettere di botto. Sempre secondo Camilla, si trattava dei loro nonni materni. Non ne volevano sapere niente di loro, soprattutto di lei, Hel, che aveva ucciso la loro bambina.

Spinta dalla curiosità, Hel cominciò a origliare le chiamate che il padre effettuava. Una volta lo sentì pregare la persona all’altro capo del telefono. Voleva che prendesse Hel, che la portasse lontano da lui perché non sopportava di vederla in viso, assomigliava troppo a Marialuce e sapere l’amore della sua vita aveva sacrificato la propria vita per lei gli provocava troppo dolore. Dovevano venire a prenderla, solo così le cose sarebbero migliorate. Avrebbero potuto prendersi cura di una loro parente, e se l’avessero presa, lui non l’avrebbe mai più cercata. I rapporti sarebbero stati come al solito. Freddi. Inesistenti.

Ma la persona sconosciuta, senza volto e senza nome, non parve voler dare ascolto alle parole di Eracle. Ogni chiamata finiva con un rifiuto.

Quindi nemmeno il ramo materno della famiglia voleva saperne di lei. Cosa sapeva di quelle persone che si erano sempre tenute nell’ombra? Si trattava sicuramente di una famiglia di maghi, questo era più che ovvio, ma per il resto? Per il resto, nulla. Non sapeva altro, e sarebbe stato inutile chiedere a Eracle delle informazioni al riguardo, sapeva già cosa avrebbe ricevuto: uno guardo freddo e tagliente come una lama, una smorfia di disgusto e una risposta breve e fugace. Il canovaccio delle loro conversazioni era sempre questo. Battuta più o battuta meno. Dipendeva molto da ciò che animava le loro parole.

In genere, Eracle non faceva mai domande. Non si interessava dove la figlia andasse, e firmava rapidamente, senza leggere, i permessi per le gite scolastiche. Gli unici momenti in cui fingeva di tenere a Hel era quando il preside della scuola lo chiamava per congratularsi con lui, non poteva avere una figlia migliore. Eracle annuiva e stringeva mani, ma una volta uscito dalla scuola, tutto tornava come sempre.

Meglio il silenzio che parole con un peso.

Da piccola, l’indifferenza del padre e della sorella, anche se di quest’ultima erano frequenti gli sgarbi, era stata difficile da gestire. Era difficile restare sempre da sola, non poter contare su una figura di attaccamento pronta a correre in suo soccorso, non avere nessuno con cui parlare liberamente, o quasi. Solo crescendo capì quando la situazione che l’aveva soffocata per tanto tempo, fosse in realtà una sorta di liberazione.

Loro non la volevano. Lei non doveva fare altro che fingere, restare per i fatti propri, e sarebbe stata libera. Ogni tanto doveva fare attenzione a Camilla, alle sue parole piene di acido e veleno. Ma cos’era una frecciatina di tanto in tanto in confronto alle giornate passate senza qualcuno che le chiedesse in continuazione cosa stesse facendo o che si impicciasse dei suoi affari?

La particolare situazione famigliare in cui viveva le permise di allenarsi indisturbata con la magia, imparare a controllarla per non farla emergere erroneamente quando era spaventata o mentre dormiva. Aveva ancora molto da imparare, visto gli ultimi risvegli, ma doveva ammettere a se stessa che se la stava cavando egregiamente per una che non aveva avuto ancora alcuna istruzione nell’uso del potere che le scorreva nelle vene.

Le orecchie di Hel erano ancora tese a sentire i rumori provenienti dal piano di sotto. Qualcuno si stava muovendo rapido, e a piedi scalzi. Camilla.

Trasalì quando dei colpi fecero tremare la porta.

Si era talmente persa nei propri pensieri che non si era accorta che Eracle avesse salito le scale.

Deglutì chiudendo il libro e riponendolo accanto a lei nel letto, si mise a sedere meglio e lanciò una rapida occhiata alla stanza. Cosa stava cercando? Segni che facessero capire a suo padre della magia che aveva praticato.

Era un pensiero stupido. Il massimo che poteva fare era animare pupazzi, levitare e creare delle scintille di luce, niente che fosse permanente, ma la prudenza non era mai troppa.

Non era un buon segno quando il padre bussava alla sua porta, meglio non peggiorare la situazione con qualcosa che avrebbe potuto far preoccupare lui e inacidire la sorella.

Tutto al proprio posto, niente scintille che svolazzava, nessun oggetto che volteggiava in aria. Lei era apposto, niente da segnalare nel proprio riflesso.

Eracle bussò un’altra volta. Meglio non farlo aspettare.

-Avanti.- disse Hel con la voce che tradì l’esitazione.

La porta di aprì cigolando sui cardini, con una lentezza che fece ricordare a Hel il momento nel flm dell’orrore in cui il mostro entrava nella stanza per prendersi la vita dell’indifesa ragazza. Anche se lei aveva un potere, anche se immaturo, su cui contare, non si sentiva diversa dalla poveretta che avrebbe prodotto l’ultimo urlo.

La testa di Eracle entrò nella stanza, prima circospetta e guardinga, con gli occhietti dietro le lenti degli occhiali che guizzavano da una parte dall’altra della stanza come se si aspettassero di incontrare qualcosa di strano, e poi entrò con tutto il corpo.

Eracle era molto cambiato dalle foto che lo ritraevano come un uomo dall’aspetto distinto e austero. Di austero aveva ancora lo sguardo e i modi di fare, ma questi contrastavano il suo modo di vestire sciatto e i capelli unti tirati indietro in una coda di cavallo. Ma era ancora bello, nonostante qualche chilo in più rispetto al passato.

-Vi siete divertiti?- chiese Hel con la bocca improvvisamente asciutta.

Eracle la fissò come se avesse parlato in un’altra lingua. Fece schioccare le labbra e si tirò su gli occhiali.

-È stata troppo breve. Tu stai bene.-

Non era una domanda. L’inflessione era dura, come se fosse deluso nel constatare che la figlia se l’era cavata anche senza di loro. Oppure deluso del fatto che lei fosse ancora dentro casa e non fuggita da qualche parte, magari persa in una foresta. Hel dubitava persino che denunciasse la sua scomparsa.

-Prima di venire siamo passati al supermercato e abbiamo fatto un po’ di spesa. Se vuoi, puoi scendere a decidere cosa vuoi da mangiare.-

Era la loro routine. Non mangiavano mai assieme. Hel cucinava per sé, aveva incominciato a farlo appena fu in grado di sollevare una pentola piena d’acqua. Camilla e il padre mangiavano o prima o dopo di lei. Non stavano insieme mai più del tempo dovuto. Come Hel, anche loro volevano risparmiarsi i lunghi silenzi imbarazzanti e scomodi.

Hel gli sorrise, non seppe nemmeno lei perché lo fece. Forse per sembrargli più accondiscendente? O per non irritarlo? Possibile che quello che sentiva fosse nostalgia?

-Non ti preoccupare.- gli rispose -Credo che leggerò un altro po’ e poi mi metterò a dormire.- cosa che avrebbe fatto fino all’ora di cena.

Era una giornata piovosa, niente di meglio per stare da soli e lasciarsi cullare dalle fantasie.

-Come ti pare.-

Eracle non parve dispiaciuto per la risposta della figlia, tutt’al più era sollevato. Non avrebbe dovuto fingere che tutto andasse come aveva sempre desiderato.

Dal piano di sotto si sentì Camilla chiamare Eracle.

Papà. Era da un sacco di tempo che Hel non usava quella parola. In genere non si chiamavano mai per nome o con altri appellativi. Quando si scambiavano due parole, lo facevano sempre da soli, a bassa voce, proprio come ora.

-Ti serve qualcosa per domani?-

-No.- mormorò Hel accarezzando la copertina del libro.

Già. Domani. L’ennesimo giorno di scuola. Il fine settimana trascorso senza l’ombra di Camilla a perseguitarla per i corridoi era stato una manna dal cielo, ma ora tutto sarebbe tornato alla solita normalità. Non sarebbe stato difficile ricominciare a evitare di trascorrere la pausa pranzo insieme agli altri suoi compagni di classe nel giardino, avrebbe persino evitato di andare in biblioteca, che si trovava nella parte di scuola frequentata da Camilla. Fortunatamente avrebbe dovuto trascorrere metà giornata a passeggiare in un museo di animali. Almeno quello avrebbe stemperato la noia. Inoltre, era più che certa che sarebbero tornati a casa più tardi rispetto al solito, e questo non era che un bene. All’ora del suo rientro, Camilla si sarebbe trovata nella propria camera per finire i compiti, così lei avrebbe potuto pranzare senza sentire lo sguardo pieno di astio della sorella.

L’indomani non sarebbe stato così male.

 

   
 
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