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Autore: _shesfearless_    22/01/2019    1 recensioni
Mi accorgo di aver trattenuto il respiro tutto il tempo solo quando anche noi indietreggiamo, la Mini non è che un punto lontano all’orizzonte, e ho una nuova, dolorosa prima volta da aggiungere alla lista.
Genere: Romantico, Sentimentale, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
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I sabato pomeriggio, in casa nostra, sono fatti per una cosa sola: la spesa. Una spola interminabile tra centri commerciali e supermercati per acquistare tutto il necessario a sopravvivere una vita intera, nonostante il sabato prima si sia comprato altrettanto, anche se quello dopo le scorte saranno giudicate già insufficienti a fronteggiare i sette interminabili giorni che lo separano dal sabato successivo.
“Papà, almeno oggi una cosa rapida, che stasera siamo a cena fuori…” ricordo a mio padre, mentre saliamo in macchina. Non guido, ho la testa tra le nuvole, assorta in pensieri che annebbiano la mente quanto le condizioni atmosferiche di quell’umido pomeriggio invernale. Stiamo percorrendo, in auto, lo stesso percorso che di solito faccio in autobus, tutti i giorni, per andare a lavoro, sguardo sognante e cuffiette alle orecchie, e penso distrattamente a quanto possono essere diversi gli stessi alberi quando a colorare le loro fronde sono i raggi del sole e quando invece le nuvole tolgono loro vita con il loro grigiore, come in quel momento. Che pensiero strano, mi dico, e lo scaccio lontano ondeggiando la mano davanti agli occhi, come quando a disturbarti è un insetto, convinta che basti, ad allontanare un’immagine dalla mente.

Sono le 14 quando arriviamo alla prima delle numerose destinazioni di quel pomeriggio, la lista di negozi da visitare è interminabile: prima si fa benzina, poi si passano in rassegna tutti o quasi i 250 punti vendita stipati all’interno del centro commerciale. Mezz’ora in lavanderia, un’ora tra gli scaffali dei surgelati, un’ora e mezza in libreria, tra pagine d’inchiostro che per un po’ colorano la mia vita di sogni e mi portano in universi lontani dove la nebbia che ho tra i pensieri si dirada e l’incertezza che mi tormenta lascia spazio alla quiete. Mi piacerebbe, penso tra me e me, saper scrivere; poter regalare al mondo una storia che lo renda migliore, e donare l’immobilità a tutta questa confusione che il mio cuore continua a vivere.

Un “Andiamo?” scocciato di mio padre mi riporta alla realtà.
“Ci sono!” rispondo, richiudendo in tutta fretta il romanzo che, sognante, stringo tra le mani.
“Cosa manca?” mi chiede, mentre avanza verso l’uscita. Controllo distrattamente le note del cellulare, dove ormai quattro ore prima ho abbozzato una Lista delle cose che mancano.
“Vestiti ritirati, latte preso, pane preso, shampoo e balsamo anche, agenda cercata ma non trovata, regalo di Natale per la mamma preso, amore perso…”
“Che?”
“Niente, scusami, ero soprappensiero. Con le crocchette per gatti dovremmo essere a posto!”

Apro la portiera della Kia e mi lascio sprofondare nel sedile. Guardo distrattamente fuori dal finestrino: famiglie, ragazzi, ragazze, anziani, tutti camminano freneticamente in questo grigio pomeriggio di metà dicembre, chi verso, chi lontano dall’ingresso del centro commerciale. Tutti indaffarati e stretti nei loro cappotti. Tutti con il sorriso dipinto sulle labbra. Mi sento come un pezzo di un puzzle sbagliato con cui il destino cerca di completare un quadro giusto. Incompatibile, con ogni incastro possibile, nonostante di opzioni ce ne siano tante, in quel groviglio senza soluzione che è la vita. Solo che non riesco a trovare quella che si adatta a me. Lo scenario in cui mi possa incastrare senza fatica, io. Sospiro mentre il centro si allontana all’orizzonte, e mi chiedo se sia possibile far così anche con i pensieri: lasciarli indietro mentre noi andiamo avanti, finché non diventano un punto lontano, dove spesso fai ritorno ma che impari a lasciarti alle spalle quando è tempo di andare. Vorrei esserne capace. A pensare meno. A lasciar andare. Ma ho letto da qualche parte che chi pensa troppo ama anche troppo, e credo che questi fardelli siano parte integrante di me ormai e che forse, in un angolo remoto del mio essere me, possa anche andar bene così.

“Stanca?”
“Un po’, sì…”

Fuori ormai si è fatto scuro, e un tramonto mozzafiato, dove le sfumature della terra si scontrano con quelle del cielo, mi riempie sguardo e cuore. Li ho sempre amati, i tramonti e i loro incredibili colori. Mi rassicurano, in un modo che non so spiegare a parole. Forse perché portano via le preoccupazioni del giorno, o forse perché lasciano spazio al nero della notte, dove le ferite non si vedono e le vite non scivolano via tra le dita. Perché dopo il tramonto, a riempire il cielo ci sono le stelle, e nel soffitto del mio mondo costellazioni di persone riempiono ogni angolo di buio dei ricordi che mi legano a loro. E l’universo mi fa un po’ meno paura.

“Una cosa rapida eh, le crocchette e via!” mi ricorda papà.
“Sì, che voglio tornare a casa anche io, sono ore che siamo in giro…” ribatto, chiudendo la portiera.

Fa freddo, ora che la notte ha preso il posto del giorno, così, per entrare nel negozio, camminiamo frettolosamente. Non appena varchiamo la soglia, veniamo accolti dal sussurrato “Buona sera” del commesso, esausto quanto noi, e dal più allegro risuonare del campanello posto sulla porta, vigile sentinella di ogni nuovo ingresso in negozio.
“C’è il pienone stasera…” bisbiglio, ironicamente. La radio gracchia qualche vecchia canzone, ma non riconosco la voce dell’uomo che, con quell’unica combinazione di suoni e parole, racconta di un amore passato e ormai perso. Tutto il resto è silenzio.
Ci aggiriamo tra le poche corsie senza fretta; nonostante la stanchezza e l’ambiente asettico, che ricorda più un obitorio che un punto vendita, con le sue luci a neon e la quiete che lo popola, l’ultima meta di un viaggio merita sempre di essere assaporata con tranquillità.

“Quindi, quali prendiamo?” chiedo distrattamente, una volta giunta alla corsia del cibo per gatti.
“Quali mangiano di solito?” Mi chiede mio padre, e di fronte alla mia faccia perplessa si risponde “Vabbè, ho capito, chiamo la mamma!” e non posso evitare di pensare che, nonostante tutto, senza di lei saremmo entrambi persi. Mentre lui si allontana verso un punto dove la connessione non cada, continuo a guardare con superficialità le confezioni che popolano gli scaffali di quel triste negozio. Fanno un po’ a pugni col contesto, mi dico, e gli voglio un po’ più bene, a quel posto.

Il campanello non ha ancora finito di risuonare tra le strofe di High Hopes quando nuove voci riempiono le corsie fino al mio timpano.
“Mamma, mamma, i pesci! I pesci!” esclama un bimbo, correndo verso il fondo della struttura. Non lo vedo, ma ne percepisco i passi frettolosi e leggeri qualche metro più a destra. Sorrido di fronte alla sua spontaneità: che meraviglia, quando la più grande preoccupazione che puoi avere è quella di sfrecciare veloce come un lampo verso l’unica cosa di cui t’importa, senza paura di non trovarla, senza timore che ti rifiuti, con la consapevolezza che è lì, ad aspettarti, e lì ti aspetterà sempre, perché è questo che i sogni fanno coi bambini, li aspettano finché non li realizzano. E li sorprendono. E quella sera, in quel freddo negozio di animali dove niente pensavo potesse succedere, il destino decise di sorprendere me.

Ad un primo sguardo non li riconosco, anche se i loro volti mi sembrano in qualche modo familiari. Un ragazzo qualsiasi, un bambino qualsiasi, una famiglia qualsiasi. Girati di spalle, gli occhi fissi sui pesci che malinconici nuotano in tondo dentro ai grandi acquari, sono tre sconosciuti qualunque. Una famiglia normale, persa nelle compere del fine settimana come mio padre e me, due genitori abbastanza giovani così innamorati del loro bambino da portarlo senza esitazioni in un triste negozio di animali pur di avverare il suo desiderio di poter osservare l’Oceano, prima o poi.
“A piccoli passi, Leo. Oggi i pesci qui, un domani, chissà…”
“Ritorneremo a vedere il mare? E i granchi? E Nemo?”
Il ragazzo si accovaccia accanto al figlio, e in un sussurro lo rassicura: “Te lo prometto!”
E Leo rivolge nuovamente i suoi occhi castani carichi di riconquistata speranza verso i piccoli animaletti, sognando il giorno in cui ne potrà ammirare la bellezza tra le limpide acque del Pacifico.
Si assomigliano molto, quei due. Entrambi capelli corti, entrambi lineamenti delicati, entrambi occhi scuri. Ma è proprio in quegli occhi che si scorge la loro più grande differenza: pieni di sogni e speranze quelli di Leo, così traboccanti di realtà e rassegnazione da sembrare vuoti quelli del padre. Un passo più indietro, la madre osserva i due senza dire una parola: il sorriso stampato sulle sue labbra urla da sé. Orgoglio, amore e tenerezza: ecco cosa scorgo osservando da lontano il modo in cui resta in disparte in quel momento padre-figlio dove sembra non esserci spazio per lei. È che non ha bisogno di conquistarlo, quello spazio: è già suo. Lo si vede nel modo in cui Leo rivolge i suoi occhietti curiosi verso di lei dopo la promessa del padre, e dal modo in cui lui le sorride mentre si rialza in piedi, pur non parlandole, perché in quella promessa appena fatta al figlio c’è un accordo implicito che la coinvolge. Nonostante lo sguardo spento che non riesce a togliersi di dosso.

Non appena si voltano nella mia direzione, ecco che i ricordi cominciano pian piano ad affiorare. Sono passati ormai anni, dall’ultima volta che i miei occhi hanno incrociato i suoi, i loro. Leo non credo possa ricordare, Erica nemmeno, ma Federico… Federico sì.

L’ultima volta che lo vidi era il 2014, studiavo alla triennale e durante l’estate racimolavo qualche soldo facendo la cameriera alla sagra del paese, proprio nello stand della sua famiglia. Ma lui, quel ragazzo sempre sorridente e con una parola buona per tutti, lui lo conoscevo da sempre. Viveva di fronte a casa mia, e sin da quando ne ho memoria, avevo provato nei suoi confronti un amore che le parole non saranno mai capaci di spiegare: perché fu il primo, anche se platonico, così dannatamente sincero; perché le farfalle che sentivo allo stomaco non appena lo incrociavo per strada, o il sangue che ribolliva sulle mie guance ad ogni suo gesto, perché il colpo al cuore che provavo al solo sentir pronunciare il suo nome da qualcuno… no, non ho mai più vissuto niente di così forte in vita mia.
Sembra talmente stupido, a ripensarci: come può qualcuno che conosci solo di vista avere un effetto tanto intenso su di te? Pur essendo consapevole del fatto che tra noi non ci sarebbe mai potuto essere niente, e senza neanche aver mai provato ad andare oltre a quel “Ciao” sussurrato da entrambi quando richiudevamo le rispettive porte di casa alle spalle dopo aver percorso i duecento metri dalla fermata dell’autobus alla nostra via sui due lati opposti della carreggiata. Eppure.

Eppure ricordo perfettamente la prima volta in cui ti ho incontrato, e i miei occhi azzurri si sono persi nel tuo sorriso; la prima volta che abbiamo camminato fianco a fianco, così vicini ma allo stesso tempo così lontani, che la vita non perde occasione per sottolineare come due strade parallele non si incrocino mai, se non forse all’infinito; la prima volta che ci siamo parlati, e il tempo che ci ho messo a riprendermi, mentre mia sorella se la rideva perché “Ste, è soltanto un ragazzo!”; la prima volta che mi hai detto grazie; la prima volta che ti ho dedicato una canzone; la prima volta che ti ho visto con Erica, e ho pensato che non potessi scegliere ragazza migliore, perfetta com’era lei quando io ancora ero un disastro dentro; la prima volta che ho visto una vostra foto ad annunciare che vi sposavate, e sì, la felicità, perché a te ho sempre augurato di avere tutto il meglio, ma anche uno stupido filo d’invidia, perché bisognava accettarlo il fatto che non sarei stata io quella al tuo fianco finché morte non ci separi, ma speravo di averci a che fare un po’ più in là, con quell’amara consapevolezza; la prima volta che ho visto 21, e maledetto Jim Sturgess per assomigliarti tanto; la prima volta che mi hanno detto che avresti avuto un figlio, e come nei miei pensieri ero già certa del fatto che saresti stato il papà migliore del mondo; la prima volta che vi ho visto tutti e tre insieme, e sono stata sinceramente contenta per voi; la prima volta che mi sono imbattuta per caso in un vostro scatto su Facebook, a casa di amici, dopo tanti anni, e ho quasi fatto fatica a riconoscerti; la prima volta che mi hanno detto che ti eri trasferito, e il buio che ha fatto la luce spenta della tua stanza quella sera. E adesso, una nuova prima volta, dopo cinque lunghissimi anni: la prima volta che i miei occhi sono ripiombati a picco nei tuoi, e non ho sentito più niente.

“Sono €15,62 signore!”
“Ste, qualche spicciolo?” chiede mio padre mentre estrae dal portafoglio una banconota azzurra stropicciata.
“Controllo”, sussurro, recuperando dallo zaino il mio taccuino: e ci vorrei affondare, in quella sacca nera, con tutti i miei pensieri, mentre voi mi passate di fianco, dall’Uscita senza acquisti.
“Sessanta?”
“Sessantadue!”
“Ecco, tenga!” e consegno al commesso le monetine richieste.
“Grazie, e buona serata!”
“Altrettanto a te”, dico, e raggiungo mio padre mentre si avvicina all’uscita, seguendo la famiglia che non ha ancora riconosciuto e che, casualità, ha parcheggiato proprio a fianco a noi.

“È Fede, papà!” dico, richiudendo la portiera.
“Fede chi?”
“Federico, quel Federico…”
“Ah davvero?” mi chiede incredulo, voltandosi verso la Mini parcheggiata alla nostra destra. “Eh sì, è proprio lui! Ma è… cambiato, non so, non lo ricordavo così, mi sembra tanto invecchiato, tanto diverso…”

Mi volto per afferrare la cintura, e mi ritrovo faccia a faccia con il suo sguardo. Con quegli occhi così spenti che ci vedo tutto il deserto, dentro. E mi spaventa. Vorrei urlargli Che ti è successo? Dove sei finito? Dove hai nascosto quella vita che da sempre ti ribolliva dentro?, a quello spettro del ragazzo che amavo. Quel suo aspetto, così affranto e vacuo, mi annienta. Lo pensavo felice, con la sua bella famiglia, con un bimbo da cui re-imparare a conoscere il mondo e una moglie piena d’amore e di premure nei suoi confronti. L’avevo sempre pensato felice, in tutti quegli anni dove di lui non avevo più avuto notizie, durante i quali non mi era mai passato per la mente se non il 29 giugno, giorno del suo compleanno, che Facebook di anno in anno mi ricordava. Per quel che ne sapevo, aveva avuto tutto il meglio che sempre mi ero augurata per lui, non c’era motivo di crederlo un corpo così disperatamente svuotato dalla gioia di vivere.

Appoggio le dita al finestrino, mentre lui mette la retro. Chissà se mi ha riconosciuta, mi chiedo, se qualcosa di me anche a lui è rimasto. Lo so. Non avrò mai risposta.

Mi accorgo di aver trattenuto il respiro tutto il tempo solo quando anche noi indietreggiamo, la Mini non è che un punto lontano all’orizzonte, e ho una nuova, dolorosa prima volta da aggiungere alla lista: la prima volta che i miei occhi sono ripiombati a picco nei suoi, e non sono riuscita a vederci più niente.

   
 
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