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Autore: Marty Andry    23/01/2019    0 recensioni
Tutto sembra già stabilito, percorsi obbligati, più o meno indotti, sentieri così lineari che basta un nonnulla per farci deviare. In quel momento torniamo a vivere, rimessi al centro della nostra esistenza, mondi che ne incontrano altri, in un prendersi cura a vicenda delle proprie esistenza.
[Tratto dal primo capitolo: "forse attraverso quel filtro vermiglio, la presenza di Giulia poteva essere più sopportabile. Mentre riversava il contenuto dei calici nel lavandino, sospirò, consapevole del fatto che aveva bisogno del suo amico fegato per tirare avanti."]
Genere: Commedia, Generale, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
Capitoli:
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Capitolo 1 

 
Un azzurro scalzo in cielo
il cielo matto di marzo 
e di quel nostro incontro


 
 

Un'altra giornata come tutte le altre.
La città si era appena svegliata, salutando il nuovo giorno con un'alba color indaco, dipingendo le sue secolari architetture di tinte tenui. Ma Rebecca, nella sua stanza ben lontana dal centro, aveva iniziato il suo venerdì molto prima che glielo dicessero i raggi del sole che facevano capolino dalle persiane della finestra. Aveva tirato a lucido la sua stanza, temeva che sua sorella le tendesse un'imboscata e non aveva voglia di sentirsi dire che era la solita disordinata, ritardataria e giù di lì. 
Si coprì per bene, considerati i tre gradi esterni, afferrò la borsa coi libri e scese giù nel cortile del condominio, dove la aspettava la sua bicicletta, pronta per condurla in biblioteca.
 
Aveva disattivato la sveglia prima che suonasse, per fortuna soffriva d'insonnia, così Giulia, accanto a lui, non si sarebbe svegliata e magari non l'avrebbe seguito per tutto il giorno, impedendogli di progredire nella stesura del suo articolo. Si mise a sedere e si vestì prestando attenzione a non fare rumore, ma lei non si sarebbe svegliata nemmeno se avesse intonato l'inno nazionale francese a due centimetri dal suo orecchio. Si diresse nel soggiorno, dove tenui raggi del sole oltre le serrande abbassate annunciavano timidamente l'arrivo del giorno. Fece un giro attorno al tavolino di fronte al divano, raccolse due calici con ancora qualche dito di vino rosso e opaco: forse attraverso quel filtro vermiglio, la presenza di Giulia poteva essere più sopportabile. Mentre riversava il contenuto dei calici nel lavandino, sospirò, consapevole del fatto che aveva bisogno del suo amico fegato per tirare avanti. 
Sentì Giulia muoversi e grugnire nella stanza, quindi decise di abbandonare la caffettiera appena messa sul fornello e correre fuori, ritrovandosi come un estraneo nel suo appartamento. Afferrò il cappotto e le chiavi, guardò l'orologio, erano le 8 e mezza di un venerdì di metà marzo. Diede uno sguardo al calendario che troneggiava accanto allo svuota tasche (ricordo di una comunione...): venerdì 17. Provò a non farci caso, in fondo iniziò a convincersi che la fortuna e la sfortuna fossero congetture mentali dell'uomo e, nel suo caso, una delle tante...  
Chiamò l'ascensore, sperando che quella mattina non gli facesse scendere quelle sette rampe di scale, e almeno quel suo desiderio venne esaudito. Si sistemò guardandosi nello specchio all'interno, diede una riavviata ai capelli, forse troppo vigorosa visti i fili castani che gli restarono tra le dita. Due piani dopo, salì un bambino pronto per la scuola, con tanto di grembiulino blu e sua mamma, tutta intenta a chiudergli il più possibile il cappotto. All'improvviso, tutte le righe del legno giallo dell'ascensore acquistarono un certo fascino, finché il bambino non gli tirò la giacca. Quel metro e trenta di uomo con gli occhioni neri e il cappello di lana calato fin sopra le sopracciglia lo guardava fisso, finché non gli parlò. << Quanti anni hai? >> 
La madre lo rimproverò subito, ma rispose sorridendo << Sicuramente più dei tuoi. E tu, quanti anni hai? >>
<< Nove! >> affermò orgoglioso. << Mi chiamo Claudio. Tu come ti chiami? >>
La mamma di Claudio si scusò, imbarazzata, poco prima di uscire dell'ascensore. 
<< Non si preoccupi. Io mi chiamo Alessandro>> 
<< Mamma, hai sentito? Come lo zio! >> esclamò con gli occhi lucidi. << Domani vuoi venire alla mia festa di compleanno? >>
Alessandro lo guardò spiazzato, mentre scendevano gli ultimi gradini fuori dal condominio. La madre si girò e lo trascinò forte, recitando altre sentite scuse. Alessandro sorrise e gli urlò una conferma.
 
Ovviamente a quell'ora il parcheggio delle biciclette era più che vuoto, considerato che la biblioteca iniziava a popolarsi solo verso le dieci. Rebecca alzò gli occhi al cielo, scuro e prometteva pioggia. Non vedeva l'ora che arrivasse la primavera, la sua stagione preferita. Incatenò per bene la bicicletta ed entrò nella biblioteca, gustandone l'aria calda. Salutò il ragazzo del banco informazioni all'entrata e spinse con forza la pesante porta di vetro che già lasciava intravedere le decine di posti vuoti. I pochi che erano già lì a quell'ora erano dottorandi, ricercatori, studenti disperati che scrivevano la tesi. Si sistemò nel suo posto preferito, in cui dava le spalle a tutti e non aveva distrazioni. Il tempo di uscire i libri dalla borsa e sentì il cellulare vibrare. 
"Alle 19 da Ken? Ho buone notizie da Sidney"
Sorrise al messaggio di Giorgio, il suo migliore amico prima ancora che ragazzo e, in tutta risposta, gli inviò una faccina sorridente. Dopo di ciò, si mise a fare un rapido inventario di ciò che le serviva per scrivere l'articolo per il suo professore che sperava chiedesse di portarla con sé nei prossimi convegni. Il lavoro era a buon punto, mancava solo qualche correzione qua e là e la revisione di uno stralcio in tedesco. Lo aveva tradotto con la sua conoscenza quinquennale del tedesco moderno, ma questo era senza dubbio ben diverso dalla lingua scritta dell'anno Mille. Rebecca batté violentemente e ripetutamente il palmo della mano sulla fronte, ecco cosa aveva dimenticato a casa, il dizionario! Sbuffò e decise di dedicarsi al resto prima di partire per una spedizione di ricerca.
 
Alessandro valutò la possibilità di essere investito da una pioggia violenta, ma decise di non importarsene. Prese il cellulare è chiamò sua madre, come ogni mattina da quando si era trasferito. Dopo pochi squilli, una voce ancora assonnata rispose dall'altro capo.
<< Buongiorno mamma. Dormivi? >>
<< No no, lo sai che dormo poco. >> mentì. << Come stai? Dormito bene? >>
Scansò un vecchietto in bicicletta con un pastrano arancione. << Sì, tutto bene, ora sto andando in Dipartimento per vedere se ci sono delle novità riguardo allo scambio dei tutor, stanotte Giulia ha dormito da me ma stasera credo di essere solo, forse vado a correre un po'. >>
Al nome di Giulia sua madre rise sonoramente. << Chissà se un giorno riuscirai... >>
<< Mamma, >> la rimproverò <<  le voglio comunque bene, stiamo insieme da più di cinque anni. Non sarebbe opportuno, proprio ora che le hanno finalmente dato il posto qui all'università. >> 
Chiacchierò qualche altro minuto con sua madre, poi intravide le porte del Dipartimento di Archeologia e attaccò. A passi svelti superò il giardino e la porta della biblioteca per salire le scale di marmo verde che portavano agli uffici dei docenti. Cercò il numero 73, quello da cui era entrato e uscito almeno duecento volte. Bussò forte e la voce del professore dall'altra parte lo invitò ad entrare. Come sempre era sommerso tra libri, libroni, carta di ogni sorta. 
<< Buongiorno, >> disse stringendogli la mano e sedendosi, << ho delle novità. >>
Il professore Fiorenzi tolse gli occhiali squadrati e si rilassò sulla sua sedia. << Io purtroppo nessuna per te, caro mio. >>
Alessandro sistemò la cravatta, eccitato. << Le volevo parlare dei risultati dell'ultimo scavo. Per quanto mi riguarda, volevo proporle un articolo a cui sto lavorando. Durante la campagna sul basso corso del Reno, personalmente, ho ritrovato un piccolo breviario, apparentemente in buone condizioni e che il direttore dello scavo ha provveduto a... >>
<< Alessandro. >> lo bloccò grave Fiorenzi, << Già il fatto che tu sia stato preso ad uno scavo del mio poco stimato collega mi dà da pensare, ma preferisco sorvolare visto il tuo interesse per quelle zone, ma credo che tu debba rimandare il tuo assegno di tutorato e la pubblicazione del tuo articolo. >> 
Il cuore iniziò a battere veloce e la collera stava per farsi strada. << Per quale motivo, mi scusi? Io e altri archeologi abbiamo il diritto di divulgare scoperte, soprattutto perché il nostro scavo, insieme a quello in Spagna, è stato uno dei pochi ad aver raggiunto delle conclusioni. >> 
<< Alessandro, calma. La commissione ha deciso che sarebbe più opportuno dare spazio allo scavo in Anatolia, ed il parere di uno, lo sai, non può niente contro quello di altre trenta persone. >> concluse mortificato Fiorenzi.
Alessandro fece due più due e scattò in piedi. << Sa qual è il problema? >> fece alterato. << Lei e la sua collega Riponi non avete coraggio! Non per mancarle di rispetto, ma io a quell'articolo per quel convegno continuo a lavorarci, e continuerò anche a fare richiesta per il tutorato, >> quasi urlò, ma abbassò il tono subito << anche se sappiamo bene entrambi che il posto per i prossimi tre anni è della Giacinti! >>. 
<< Io non le ho fatto nessun nome. >> replicò calmo il professore.
Alessandro coprì velocemente la distanza tra la porta e la scrivania e rispose << Non per forza certe cose devono esser dette esplicitamente, ormai. >> e sbatté violentemente la porta di legno. Corse giù dalle scale, sotto gli occhi straniti di chi aveva sentito strani rumori provenienti dallo studio e si andò buttare su una delle panchine del giardino. Accavallò nervoso le gambe, respirò un po' d'aria fresca. Scrutò le matricole del primo anno, così entusiaste del nuovo percorso, e ricordò l'unico 28 ad uno degli esami più difficili del corso di laurea, che non era il suo. Si alzò risoluto ed entrò nella biblioteca, certo di trovarla lì, ipotesi che fu subito confermata. La sua rivale era seduta in fondo dall'aula, con il suo bel portatile bianco intenta a scrivere. Aprì la porta di vetro e si appoggiò ad uno dei pilastri a braccia conserte. 
<< Giacinti, esci un attimo. >> disse ad alta voce.
Una ragazza delle prime file coi capelli biondi scuro e gli occhiali si girò e lo guardò male, ma lui fece finta di niente. La collega si alzò con calma dalla sua sedia e a mano a mano il rumore dei suoi tacchi diventava sempre più vicino.
Si chiusero la porta alle loro spalle e lei tolse la matita con cui aveva fermato i capelli neri. Dischiuse le labbra piene in un tenue sorriso. << Che piacere, Alessandro. Cosa ti serve? >> 
<< Sono un galantuomo, vieni con me così ti offro un caffè e ne parliamo al caldo. >> risponde apparentemente calmo.
<< Prima sembravi tutt'altro che calmo. >> lo stuzzicò una volta seduti al tavolo della caffetteria del dipartimento.
<< Elena, devi smetterla. Smettila di prenderti meriti che non sono tuoi, smettila di non dare spazio agli altri. >> 
Elena si accese una sigaretta con disinvoltura ed accavallò le gambe divertita. << Io prendo ciò che mi merito. >> rispose secca.
Ad Alessandro quel poco era bastato, si alzò e la lasciò da sola al tavolo con due caffè da pagare. Entrò in biblioteca e si sedette alla sua postazione del pc, dove nessuno aveva osato spostare le pile di libri. Rileggendo l'articolo, si accorse di un punto di non ritorno, una scrittura troppo lacunosa in alcuni punti perché la filologia non era ambito di sua competenza, ma era un aspetto che necessitava un approfondimento. Si alzò per cercare un dizionario di tedesco e lo avvistò proprio accanto a quello di russo, in una teca vicina al suo tavolo. Ma la ragazza dai capelli biondi che prima lo aveva guardato male aveva avuto la sua stessa idea, poiché si era fiondata sul tomo.
<< Scusami, >> le sussurrò, << ma potrei prenderlo prima io? Devo portarlo via. >> 
La ragazza si tirò sul naso gli occhiali tondi e rispose, ancora più piano. << A me serve giusto una mezz'ora, se sa aspettare glielo riporto appena finito. >> 
Alessandro annuì e tornò alla sua postazione. Da oltre lo schermo del computer osservò la ragazza china sui libri e si iniziò a chiedere se l'avesse vista a lezione, quando era ancora studente, ma niente. Eppure, avrebbe dovuto avere all'incirca la sua età, se non qualcosa in meno, forse erano gli occhiali a tradire i suoi anni. Riprese ad analizzare testi vari e atti, finché poco dopo non gli arrivò la chiamata di Giulia. Uscendo dalla biblioteca, controllò l'orario, le dieci e mezza, forse si era appena svegliata. Effettivamente, quando rispose, Giulia gli disse di aspettarla alla pasticceria dell'angolo, dove sapeva facevano la sua crostata preferita. Constatò che Elena non era più rientrata e aveva lasciato sul tavolo tutte le sue cose, ma non se ne curò. Piuttosto, mentre usciva, chiese ad un ragazzo che stava entrando carico di libri, di avvisare la ragazza e di aggiornarla, in un certo senso, sulla sua posizione. Si sentì ridicolo a fare tante cerimonie per un dizionario, ma quella giornata era iniziata male e aveva deciso di non rispondere delle sue azioni.
 
Aveva quasi finito la traduzione, le mancava l'ultima frase ma una comunicazione le aveva fatto perdere il filo. Seccata, ritornò alla ricerca dei significati, chiedendosi se fosse davvero necessario fare tanto trambusto per un dizionario tra l'altro mediocre. Terminò il suo lavoro ed uscì per dirigersi alla caffetteria del dipartimento, dove il tipo misterioso le aveva dato appuntamento. Effettivamente era lì, appoggiato ad una colonna del giardino.
Il cielo non si era ancora del tutto rischiarato, il sole era solamente una sfera luminosa lontana e coperta. Con quel tempo, la luce scarsa rendeva le mura del dipartimento ancora più rossastre, più che marzo, sembrava essere una perlacea giornata di inizio inverno.
Alessandro le alzò la mano, convinto che non l'avesse riconosciuto.
<< Sono quello del dizionario. >> disse lui.

<< La mia memoria dura molto più di quella dei pesci rossi, sa? >> rispose  ridendo.


<< Ma io non volevo offenderla. >> replicò imbarazzato.


<< Nessuna offesa, questo è suo. >> 

Rebecca gli porse il dizionario con entrambe le mani e Alessandro lo prese, constatando che poteva benissimo usato al posto dei pesi da 5 chili in palestra, un luogo a lui del tutto sconosciuto.
<< È sicura che non le serva più? >> chiese cauto.
<< Certo, >> gli rispose << oggi ho dimenticato il mio. >> 
Lì nel chioschetto li raggiunse un soffio freddo, segno che era forse meglio tornare dentro. Alessandro la precedette di qualche passo e le aprì la porta della biblioteca. Rebecca sorrise, imbarazzata, e lo ringraziò sottovoce. Alessandro rispose, forse anche un poco a
se stesso, << Io sono un galantuomo. >>
 
Giorgio la stava già aspettando, seduto al tavolino di ferro nero. Si riavviò i capelli rossicci che, ogni tanto, amava colorare con delle ciocche variopinte. Quello, come diceva Rebecca, era il suo periodo blu, intonato perfettamente con i suoi occhi chiarissimi e quasi cerulei. Giorgio le alzò una mano non appena la vide per farsi notare e Rebecca avanzò facendo ondeggiare i pantaloni larghi verdi. Allegra, gli stampò un bacio sulle labbra, sapevano di vaniglia.
<< Ma tu odi la vaniglia! >> esclamò sorpresa.
<< Ho usato lo shampoo di Dario, faceva schifo! >> rise. << Mi sono preso la libertà di ordinarti un chinotto artigianale, a me la scorsa volta è piaciuto molto. >> 
<< Quindi, >> fece tra un sorso e l'altro, << che novità ci sono? >> 
Giorgio posò il bicchiere pieno a metà di prosecco. << Mi hanno preso, come fisioterapista ufficiale! >> 
Rebecca gli batté il cinque. << E per quanto tempo? >> 
<< Ancora non lo hanno deciso, ma due anni sono certi. >> 
Rebecca lo guardò smarrita, ma poi si rasserenò. << Se è ciò che volevi, prendilo! Non lasciarti sfuggire Sidney. >>. Alzò in alto il bicchiere. << A Sidney e a noi! >> 
<< A Sidney! >> rispose felice Giorgio.
Il cuore di Rebecca aveva tremato, ma non troppo. Conosceva fin troppo bene se stessa, Giorgio e tutto quello che avevano costruito in quei dieci anni, di certo non avrebbero vacillato per un cambio di rotta, sapeva che in un modo o nell'altro la casualità degli eventi li avrebbe aiutati, ancora una volta. 
Due enormi gocce d'acqua caddero sugli occhiali tondi di Rebecca, segno di un altro temporale imminente. A lei la pioggia piaceva, e anche molto. La considerava una buona opportunità, d’inverno, per restare in qualche posto a studiare, leggere, invece d’estate era l’occasione per godere di una breve tregua dall’arsura. Quindi non vedeva l’ora di tornare a casa e di buttarsi sotto una bella doccia calda, mentre aspettava la sua migliore amica ed una bella pizza. Pedalando più veloce che poté, cercando di battere in velocità la meteorologia, notò come la gente impazzisse per un po’ d’acqua: ombrelli che sbattevano gli uni contro gli altri, troppe auto, quindi un traffico assurdo. Dopo aver macinato quasi un chilometro, lasciò la bicicletta nel parcheggio del condominio e aprì veloce il portone dell’atrio, palese testimonianza di architettura anni ’70. Ascensore guasto, come sempre, ma si trattava di dover salire solo tre piani, accettò lo sforzo senza molte proteste.
<< Becca, sei tu? >> urlò la sua coinquilina dalla cucina.
<< Sì, >> gridò l’altra << è arrivata la bolletta della luce. La lascio qua. >>
Dopo aver appeso il cappotto nell’ingresso, si avvicinò alla cucina. Claudia era china a pigiare violentemente i tasti del suo computer con una mano, mentre con l’altra sgranocchiava una specie di cracker.
<< Fai piano oppure la tastiera ti si ribellerà! >> scherzò, appoggiata allo stipite della porta.
<< Macché, >> rispose l’altra con la bocca piena. << il suono mi rilassa. >>
Rebecca alzò gli occhi al cielo. << Ti va bene se stasera Sara cena da noi? >>
Claudia, in tutta risposta, alzò il pollice in su. Rebecca si accostò al tavolo e prese il pacchetto di cracker. << Ma basta mangiare, altrimenti non ti resta più spazio per la pizza. >>
Claudia sbuffò un << Va bene, mamma. >> senza staccare gli occhi dallo schermo, immersa nella penombra. Rebecca la lasciò scrivere in pace le sue 20000 parole per la relazione del suo tirocinio all’estero e si lasciò cadere sul letto. Guardò il soffitto e pensò a Sidney. Per un attimo le si strinse il cuore, pensando che il periodo più lungo trascorso senza Giorgio era stato per poco più di sei mesi, e due anni erano sicuramente di più. Però era la sua grande occasione e lo avrebbe sostenuto in questa grande avventura che però sperava lo avrebbe portato di nuovo più vicino. Forse, ammise a se stessa, di non aver tenuto fede alla promessa che si erano fatti da ragazzi: leggerezza. Si erano promessi di non avere la pretesa che quella sarebbe stata la storia della loro vita, perché a soli quattordici anni non sapevano dove sarebbero finiti e soprattutto quali scelte avrebbero fatto. Con il passare degli anni, si rese conto Rebecca, che ne aveva fatto un pilastro della sua vita, il suo appoggio principale, e ora l’idea di perderlo la destabilizzava un poco, ma in cuor suo sapeva che in un modo o nell’altro i due anni sarebbero passati e Giorgio- il suo Giorgio- sarebbe tornato da lei.
 
Ormai era troppo tardi, il temporale lo aveva sopraffatto e non restava altro da fare se non camminare con l’ombrello in una mano e il dizionario nell’altra. Detestava la pioggia, non esisteva niente di più seccante, Giulia a parte. Percorse al contrario il tragitto battuto una decina d’ore prima, con un cielo decisamente meno rassicurante. Quel brutto tempo sicuramente avrebbe cancellato il suo appuntamento con i suoi amici, colleghi, archeologi, con cui aveva costruito e mantenuto un buon rapporto nel corso delle varie campagne seguite da studente e ora da ricercatore, o pseudo tale. Dubbio confermato di lì a poco, e si compiacque dell’avere la serata tutta per sé. Erano le otto e la fame iniziava a farsi sentire. Slacciò la cravatta e la lasciò cadere sulla sedia della cucina, insieme alla giacca. Nel tragitto, si liberò anche delle scarpe e accese il riscaldamento, per un paio d’ore sarebbe stato al caldo. Contemplò il frigorifero particolarmente vuoto, allora optò per il congelatore. Previdente quale era, aveva congelato il pollo al curry cucinato una settimana prima. Mentre scaldava la porzione, accese le radio, chiedendosi chissà quale CD vi fosse rimasto chiuso dall’ultima volta. La voce di Claudio Baglioni, con la sua Fotografie riecheggiò per la stanza, e Alessandro constatò che mai stile musicale fu più adatto per concludere quella giornata uggiosa. Divorò il pollo che notò navigare in una brodaglia giallognola, il curry, ma aveva troppa fame per fare lo schizzinoso. Sentì la necessità di rilassarsi del tutto, allora si alzò dalla sedia e dal frigorifero tirò fuori una bottiglia piccola di birra, rossa e amara come piaceva a lui.  Anche mentre cenava, non si dava pace, quella giornata era stata troppo intensa e non riusciva a non pensare e quel posto che, nonostante fosse ancora tutto da decidere, a quanto pare non sarebbe stato suo. Baglioni nel frattempo andava avanti, con la sua solite voce straziata. Era arrivato il turno di Mille giorni di te e di me, ma cambiò subito, e la seguì Poster. Alessandro alzò le sopracciglia e sbuffò per il salto di qualità. Pensava a Giulia, a quello che avevano messo su in quegli anni e il perché. Lui sapeva che lei si aspettava, almeno entro i prossimi due anni, una proposta per la costruzione di qualcosa di serio, ma non se la sentiva. All’inizio, quando quattro anni prima si erano conosciuti, molte cose erano diverse. Lei aveva fin da subito chiaro il suo progetto di vita, come una sorta di diagramma che era impossibile far saltare, lui invece brancolava ancora nel dubbio, era sopraffatto dalla paura di aver sbagliato percorso e di non essere in grado di fare niente se non studiare e interrogarsi. Lei lo aveva sorpreso perché lui, poco più che ventenne, aveva un carattere abbastanza schivo che contrastava di netto con quello di lei, brioso ed esuberante. Lei lo aveva subito notato perché, non poteva negarlo, era un bel ragazzo, e aveva idealizzato fino all’inverosimile lui e la loro storia. Alessandro, invece, dopo l’ebrezza del primo anno insieme, si era come risvegliato e aveva capito che in fondo tra di loro poteva funzionare finché uno dei due non sarebbe andato via oppure avrebbe avuto il coraggio di lasciare l’altro. Alessandro per il momento aveva solo l’ultima opzione da prendere in considerazione, ma non sapeva come fare. Ora si ritrovava a fissare il vuoto, mentre Baglioni continuava a cantare senza che nessuno lo ascoltasse.
Cambiò CD, passò al suo surreale Battiato e si abbandonò alle strane melodie. Preso dal tedio e dalla noia, accese il computer e diede uno sguardo al sito web dell’università. L’Università premia i 100 bravissimi, recitava uno dei titoli in bacheca. Aprì il link, per curiosità, pronto a vedere i cento studenti più meritevoli dell’Ateneo, futuri luminari delle più disparate discipline e di cui non aveva mai fatto parte. Lesse il breve articolo sulla cerimonia, seguito da una foto di gruppo di cento volti sorridenti e toghe nere. La foto, a sua volta, era seguita dall’elenco dei vincitori e il rispettivo corso di laurea. Premette F3 per la ricerca intertesto e scrisse arch nella barra di ricerca. Apparve subito il volto tondo e schiacciato di Elena Giacinti, ovviamente, sorridente, con in testa un tocco con la nappa bianca, simbolo della loro Scuola e la toga nera bordata con gli stessi colori. Alessandro fece una smorfia di disgusto e si spostò sul divano dell’ingresso-soggiorno, decisamente più comodo. Incrociò le gambe e vi poggio sopra il computer bollente, mentre continuava la sua ricerca. In ordine alfabetico, l’articolo proponeva Riccardo Cecconi, una delle prime persone che aveva conosciuto otto anni prima e di cui nutriva una profondissima stima. Nella foto, anche Riccardo portava il tocco, che però manteneva sulla testa con una mano a causa della sua folta e indomabile capigliatura riccia. Sorrise e diede uno sguardo alla barra di ricerca, notando che il numero di risultati visti era 2/2, segno che nessun altro archeologo aveva una media compresa tra il 29 e il 30. Andando con lo sguardo in alto, l’occhio cadde su un volto già visto prima. A sorridere, quella volta, era una ragazza dai capelli biondo scuro e gli occhiali tondi dalla montatura forse marrone. La sua toga era bordata di blu elettrico, ma Alessandro non riusciva a ricordare a quale facoltà corrispondesse. Si ricordò della ragazza a cui aveva chiesto il dizionario la mattina, quella che non era riuscita a collocare. La curiosità vinse: Rebecca Assise, iscritta alla Magistrale in Germanistica. Una filologa! Alessandro all’improvviso s’illuminò, aveva trovato chi poteva sciogliere alcuni nodi del suo articolo. Spense il computer e decise, rasserenato, di farsi una doccia. Forse, in quella giornata, non era andato tutto storto.
 
Dopo la cena, Rebecca e Sara si rintanarono in camera, facendo il resoconto dell’ultima settimana. Sara si buttò sul letto di Rebecca e prese a lanciare in aria il cuscino. Rebecca spense la luce e accese le lucine tonde e colorate appese al muro accanto al letto. Le pareti bianche si colorarono di sfumature gialle e rossastre, illuminando appena la zona vicina. Rebecca si sedette con le spalle poggiate al muro, freddissimo, e Sara poggiò i piedi coperti dai soli calzini sulle gambe dell'altra.
<< Massaggio? >> chiese Rebecca. Sara, in tutta risposta, grugnì. Rebecca iniziò a massaggiare piano la pianta del piede e l’amica rise per il solletico.
<< Cosa racconti di bello? >> chiese di nuovo.
Sara si coprì la testa con il cuscino e poi sbuffò.
<< Non posso credere che dopo l’esame della prossima settimana, sarà tutto finito. O meglio, c’è ancora un mare di roba, tesi e giù di lì, ma dopo? >>
Rebecca alzò le spalle. << Forse dovresti provare a fare domanda qui, come maestra in qualche asilo privato, e poi al massimo spostarti. >>
Sara si mise a sedere, ansiosa. << E se non fosse la mia strada? Se non riesco a concludere nulla? E se… >>
<< Se non fosse stata la tua strada, non avresti resistito per tutto questo tempo. Sono passati cinque anni e ciò che hai fatto ti è sempre piaciuto. >>
Sara sorrise e si guardò intorno. Notò il comodino accanto al letto vuoto, stranamente. In genere lì erano poggiati due o tre libri, quelli che Rebecca leggeva, spesso contemporaneamente.
<< Non leggi nulla? >> domandò sorpresa.
<< Onestamente no. Non ne ho il tempo, tra due mesi devo consegnare tesi e diversi articoli, poi credo che il mio relatore mi voglia portare con sé in un convegno, ma non si sa ancora dove e su cosa, nulla di certo. >>
<< E Giorgio? A che punto sta? Ha trovato qualcosa? >>
Gli occhi castani di Rebecca si rabbuiarono. << Sì, lo hanno chiamato a Sidney, dovrebbe rimanere lì per minimo due anni. >>
Sara alzò le sopracciglia ed imprecò. << E cosa avete intenzione di fare? >>
Rebecca finse di non capire. << Intendo voi due, che programmi avete? >>
L’altra scrollò le spalle e si tolse gli occhiali, la vista era affaticata. << Non ne abbiamo parlato, e non credo che ne parleremo. >>
Sara si buttò di nuovo a letto e sospirò. Rebecca si alzò e si stese accanto a lei, entrambe con gli occhi sul soffitto.
<< Dai, >> cercò di incoraggiarla, << forse è stato meglio così. >>
<< è incredibile. >> si limitò a dire.
<< Incredibile cosa? Che siano passati tre anni e non c’è verso di fartelo dimenticare? >>
Sara annuì. << E la cosa peggiore non è stata l’avermi mollata perché non aveva il coraggio di mantenere una relazione a distanza, che poi non era nemmeno molta, ma… >>
<< Ma l’essersi sposato dopo due anni. >> continuò Rebecca. << Lo so, lo so. >>
Sara diede uno sguardo alla sveglia sul comodino, erano le dieci.
<< Credo che sia ora di andare. >>
Sara recuperò rapida le sue cose, salutò le due ragazze e si tuffò nella sera fredda di fine marzo.
  
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