NE’ER
LOOKED BACK,
NEVER FEARED, NEVER CRIED:
Rockfield Farm, 1975
Credo
di essere sull’orlo di un collasso mentale, anzi,
ne sono piuttosto certo: la produzione del disco è in
ritardo di settimane, le
idee scarseggiano e ci mancano almeno altre quattro tracce da
scrivere e
comporre. Non riesco più nemmeno a dormire, dal tanto che
sono stressato.
Oramai
la situazione va avanti così da un po’ di tempo:
mi alzo la mattina, lavoro con i ragazzi fino a tarda sera e quando
è il
momento di lasciarmi portare via dalle braccia di Morfeo, tutti i miei
dubbi e
le paranoie decidono di dare una festa nel mio subconscio.
Guardo
la sveglia appoggiata sul comodino della mia
minuscola stanza: i numeri sgranati e rossi indicano che sono le 5:00.
Non
riuscirò mai ad addormentarmi di nuovo, così mi
alzo dal letto e afferro uno
dei libri che mi sono portato da casa, giusto per far passare
più in fretta i
momenti morti: “Einstein e la
teoria
della relatività”.
Sfoglio
le prime pagine del libro fino ad arrivare al
punto in cui mi ero interrotto qualche sera fa, sempre a causa di un
attacco di
insonnia. Il capitolo inizia con una grande scritta nera, stampata in
carattere
cubitale: “La dilatazione
temporale”.
Einstein
spiega che il tempo, così come noi lo
intendiamo, a volte può subire delle variazioni, soprattutto
se un corpo si
ritrova a viaggiare ad una velocità simile a quella della
luce. Allora, in
quelle condizioni, il punto di partenza e quello d’arrivo
della luce
percepiranno la durata del viaggio in maniera differente: per la prima
sembrerà
esser passato un secondo, per la seconda, un secolo o viceversa.
“A
quanto pare non succede solo alla velocità della
luce”
Ripenso
a tutto quello che mi sta succedendo: siamo
chiusi in questo stramaledetto studio di registrazione da
più di un mese, ma a
me sembra che siano passati anni. Non ho contatti con il mondo esterno
da
quando siamo partiti, le uniche facce che continuo a vedere sono quelle
di
John, Freddie, Roger, Roy e quel maledetto Prenter. E’ come
se fossi finito in
un loop temporale: le giornate passano uguali, senza mai cambiare, tra
sessioni
di registrazione, litigate e ore ed ore trascorse chiuso in stanza a
provare a
scrivere un testo decente.
Chissà
come sta la mia Chrissie? La mia neo-mogliettina
abbandonata a sé stessa da un marito egoista e megalomane
che continua ad
inseguire il suo sogno di gloria nel mondo della musica.
Chissà se ogni tanto
mi pensa a me? In tutta onestà, spero proprio di
sì. Mi manca sentire il suo
profumo, scrutare i suoi occhi blu, profondi come oceani inesplorati,
assaporare le sue dolci labbra rosate. Mi manca il suo tocco leggero,
la sera,
quando si accoccola sul mio petto prima di dormire, la sua risata
cristallina
nel sentirmi dire qualcosa di buffo. Mi manca lei.
Mi
passo una mano sugli occhi con aria stanca. E se
quando tornassi, la mia amata Chrissie fosse un’anziana
decrepita, senza figli,
diventata matta a causa della mia scomparsa? O peggio ancora: e se
fosse morta?
Magari il tempo trascorre diversamente a Londra, magari lì
sono passati anni,
mentre tra queste quattro mura non sembra mai scorrere. Mi sto
lasciando
suggestionare troppo da quel libro, me ne rendo conto.
Scuoto
la testa, cercando di scacciare via questi
pensieri. Chiudo il libro di Einstein e inizio a fissare il soffitto
lattiginoso della mia stanza. All’improvviso, un fulmine
attraversa la mia
mente, mandando in cortocircuito tutti i miei sensi.
“E
se ciò che spiega Einstein diventasse una canzone? E se le
mie paranoie
diventassero un testo?”
Non
ci penso per più di un secondo e con la mente ancora
in subbuglio e il corpo in preda all’estasi inizio a cercare
un foglio di carta
e una matita. Con mano tremante, prendo un piccolo bloc notes dalla mia
valigia
e inizio a mettere nero su bianco ogni parola che mi pare abbia un
senso
logico.
“Spazio”
“Astronauti” “Navicella”
“Chrissie”
“Amore” “Viaggio”
“Passato”
“Futuro” “Tempo”
“Einstein”
“Relatività”
“Dilatazione”
Mi
sembra quasi di essere in un sogno: davanti ai miei
occhi vedo innumerevoli immagini nebulose vorticare
all’impazzata in una sorta
di folle danza. Si accartocciano e scorrono via, fermandosi solo
qualche
istante.
Vedo
un uomo che somiglia a mio padre da giovane con
indosso una tuta da astronauta. Non è solo, con lui ci sono
altre persone. Ci
sono anche io con lui. Saliamo su un’astronave e in un
secondo ci ritroviamo
nell’eterno buio cosmico. Stiamo viaggiando nello spazio.
“In
the year of '39
Assembled
here the volunteers
In
the days when lands were few
Here
the ship sailed out
Into
the blue and sunny morn
The
sweetest sight ever seen”
La
visione cambia
repentinamente: questa volta vedo una grande spiaggia. Chrissie
è seduta sulla
sabbia e guarda il mare con aria malinconica. Anche se mi trovo nello
spazio
riesco a vederla perfettamente. Provo a chiamarla, ma lei non sente
nulla, è
come se fosse sorda. Scrive il mio nome sulla sabbia, lasciando poi che
il mare
lo cancelli, inghiottendo ogni lettera con i suoi flutti.
“Don't
you hear my call
Though
you're many years away
Don't
you hear me calling you
Write
your letters in the sand
For
the day I take your hand
In
the land that our grandchildren knew”
Un’altra
immagine si para
dinnanzi ai miei occhi: io, mio padre e gli altri uomini stiamo
ritornando a
casa. La navicella atterra, ma il paesaggio intorno a noi è
completamente
cambiato. La città sembra un’altra. Non vedo
Chrissie ad attenderci, né mia
madre. Chissà dove sono finite? Guardo un grande orologio
che segna la data di quel
giorno: 12 Marzo 2039. Sono passati 100 anni dalla nostra partenza,
anche se a
noi è sembrato poco più di un anno. Tutti i
nostri cari sono morti e io mi
abbandono alla disperazione e ai ricordi.
“For
the earth is old and grey
Little
darling went away
But
my love this cannot be
For
so many years have gone
Though
I'm older but a year
Your
mother's eyes
From
your eyes
Cry
to me”
Sento questa
canzone prendere lentamente forma nella mia
mente. Un mucchio di parole sconnesse tra di loro che trovano nel mio
subconscio una perfetta armonia. Inizio compulsivamente a scriverla,
calcando
la punta della matita più del dovuto e lasciando dei piccoli
solchi sulla carta
ingiallita. Chissà cosa ne penseranno i ragazzi? Spero
proprio che la possano
apprezzare.
Mi alzo dal
letto e mi dirigo verso il cucinotto, ben
sapendo che i miei amici non si sveglieranno prima di un paio
d’ore, ma non
m’importa: sono troppo emozionato. Mi siedo su uno degli
sgabelli di fronte al
tavolo e attendo in silenzio.
“Dannazione,
non le ho dato un titolo…”
Inizio a pensare
a qualche nome ad effetto, a qualcosa di
complicato in stile Freddie, in stile Queen. Poi però mi
ricordo che quella
canzone è mia, di Brian May, non di Freddie Mercury. Io sono
una persona
piuttosto tranquilla, pacata, non stravagante come il cantante del mio
gruppo,
perciò il titolo di questa canzone dovrà essere
qualcosa di molto semplice.
“Ho deciso: ti chiamerò ’39 “
Spazio Autrice:
Buon pomeriggio a tutti!
Eccomi tornata con una One Shot, completamente dedicata ad una delle
persone che stimo di più: Brian May. L'altra sera stavo
ascoltando '39 e mi sono chiesta: chissà come è
nata questa canzone? Inutile dire che non sono stata molto fortunata
nella ricerca in rete: tutto ciò che ho scoperto
è che questa meravigliosa canzone presentava dei riferimenti
alla teoria della dilatazione del tempo proposta da Albert Einstein.
Insoddisfatta, ho deciso di dare una mia versione dei fatti, prendendo
spunto da queste piccole info trovate in internet.
Ringrazio in anticipo tutti coloro che leggeranno e lasceranno un
commento a questa piccola opera senza pretese, alla quale allego una
bellissima fan art che ho trovato su Tumblr.
Tornerò presto su questo fandom ad aggiornare la mia long
"My Sun and Stars", nel frattempo, se avete voglia, seguitemi anche
lì!
Un bacio,
Jenny