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Autore: Alyss Liebert    24/01/2019    3 recensioni
[ bromance!Taejin; AU; HYYH/Wings!era; What if? ]
"Mai una dimostrazione d'affetto, mai una promessa mantenuta: solo rabbia, codardia, invidia, menzogne, ferite corporee e psicologiche mai rimarginate.
Così era sempre stato il loro rapporto: malsano, fatale.
"
"Tutto era successo a causa di quel giorno, di quella dannata telefonata non risposta.
Come l’effetto farfalla, era bastato un piccolo sbaglio, una scelta, a scatenare un inferno di avvenimenti.
"
"Chiuse gli occhi e si coprì il viso con le mani, tentando di soffocare i singhiozzi.
«Non può essere», biascicò, «Tu sei morto».
"
{Questa storia partecipa alla "Challenge delle Parole Quasi Intraducibili" organizzata da Soly Dea sul forum di EFP}
Genere: Angst, Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Kim Seokjin/ Jin, Kim Taehyung/ V
Note: AU, OOC, What if? | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate
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Disclaimer
Questa storia è stata scritta senza alcuno scopo di lucro.
 
 
 
The Butterfly Effect
 
 
 
Realizzò di non trovarsi nel mondo reale, che il suo spirito stava vagando per molteplici aspetti del suo inconscio.
Un inconscio condiviso.
Seokjin si percepì trasparente, rarefatto, all’interno dell’ennesimo ricordo rievocato. Era in piedi, all’interno di una stanza avvolta nella penombra, dall’intonaco smunto; vi albergava il disordine.
Egli osservava il se stesso del passato e un'altra figura che discutevano. L’altro ragazzo era lievemente più basso; vestiva indumenti vecchi, strappati in alcuni punti. Il suo volto emanava odio nei confronti del mondo intero e di se stesso; la fronte era corrugata, gli occhi guizzanti di collera e disperazione, le labbra contratte in una smorfia di sdegno.
«Smettila di piangere!», proruppe quest'ultimo al Jin che aveva di fronte, «Dimmi come stanno veramente le cose!»
«Tae…», mormorò l’altro.
«Dimmi che sono nel torto! Dimmi che devo essere punito! Dimmi che mi aiuterai ad affrontare me stesso senza sparire dalla mia vita come hai fatto con me e nostra sorella in passato; o quando mi sentivo una merda, avevo voglia di morire, desideravo più di ogni altra cosa il tuo affetto, e mi hai ignorato proprio in quell’istante!», gridò Taehyung in preda allo sconforto, con i pugni serrati e il viso arrossato.
«Mi dispiace», fu l’unica cosa che sentì pronunciare a suo fratello.
«Ti dispiace? Ti dispiace?». Taehyung gli si avventò contro, afferrandolo per il colletto della camicia. «È davvero l’unica cosa che sai dire? Hai avuto il coraggio di cercarmi dopo anni, facendo finta che ti importasse qualcosa di me!»
«Tu sei mio fratello», parlò Jin carezzandogli una guancia, «Come potrebbe non importarmi di te?»
«Bugiardo!», urlò il più giovane, schiaffandogli via le mani, osservando il suo hyung esterrefatto, tentando di mantenere salde le sue ultime certezze, assieme alla sua vacillante integrità mentale, «Sei solo un codardo… come me, come quel bastardo di nostro padre. Siamo sangue del suo sangue».
«Credi che i tuoi insulti possano cambiare la situazione?», controbatté il più grande, asciugandosi gli occhi umidi con una manica della sua felpa, «Non posso essere di parte e condannarti, anche se sei nel torto, anche se hai commesso un delitto, anche se non sei stato punito».
Avanzò di un passo, portandosi una mano al petto. «Perché ti voglio bene».
Il fratello sgranò gli occhi, e subito la rabbia lo accecò di nuovo.
«Tsk, certo. Prima di separarci, per te la tua famiglia era formata solo da me e dai nostri genitori. Lei era ancora troppo piccola perché fosse degna di essere presa in considerazione, non è così?». Afferrò una bottiglia di birra vuota da un ripiano accanto a lui, e in un impeto di furia la scaraventò a terra, frantumandola in mille pezzi. «E allora tu cosa dovresti essere per me? Te lo dico io: un fottuto estraneo. Che senso ha raccontarti cosa sto passando in mezzo a questo squallore in cui vivo? Chi ti dà il diritto di dirmi cosa è bene o male fare? Per me puoi anche sparire dalla mia vita e dimenticarmi definitivamente!»
La voce di Jin spezzò il silenzio che ne seguì.
«Sono stato io a ridurti così. Perdonami».
 
L’anima di Jin, spettatrice passiva di quelle memorie dolorose, si ritrovò in un battito di ciglia ad assistere a sequenze di altri ricordi che proseguivano in maniera più celere, come vecchie pellicole cinematografiche dalle quali si erano riuscite a ripristinare solo alcune immagini.
Esse avevano in comune sempre la stessa tematica, lo stesso peccato martellante che necessitava di essere espiato: confronti irrisolti, diverbi, mancanza totale di dialogo e comprensione.
Per un istante egli si vide all’interno di uno scantinato, paradossalmente più illuminato. L’atmosfera e gli oggetti familiari stonavano con il turbine di emozioni nocive che stavano sfogando i due fratelli, l’uno sull’altro.
Il Jin di non molto tempo prima urlava, si passava le mani fra i capelli, gesticolava, vinto da violente emozioni che non poteva controllare. E quella volta respingeva Taehyung, il quale gli si avvicinava, con un misto di ostilità e preoccupazione, per poterlo calmare in qualche modo.
Arrivò d’un tratto ad abbracciarlo, dicendogli qualcosa. Jin, dopo aver chiuso gli occhi ed essersi beato di quel calore per qualche istante, riacquistò il suo impeto, spingendo brutalmente il fratello contro la superficie del muro limitrofo, piena di crepe.
Ed ecco che il suono stridente di un vetro in frantumi arrivò alle orecchie del Jin che sognava, facendolo poi riscoprire dentro la cucina di una casa. Il suo io di quella terribile giornata aveva alzato le mani a Taehyung, riverso a terra, bloccato dal più grande che lo sovrastava.
Un pugno, un altro, un altro ancora; tutti vibrati con una punta di esasperazione sulla guancia già esangue del fratello, come se gli volesse impedire di proferire parola.
«Perdonami», riecheggiava di nuovo la sua voce, fra un colpo e l’altro.
Quella parola fu benzina per il fuoco che avvampava nel petto di Taehyung, ed estinse l’ultimo zampillo di autocontrollo che gli rimaneva. Lacerato da nuovi sentimenti, sentendosi oltraggiato, fece ruzzolare Jin a terra con abile mossa, prima di balzargli sopra.
Aveva uno sguardo da forsennato. Sfoggiava un sorriso sinistro, diabolico; pregustava come una belva la sua preda prima di divorarla, con quegli occhi sciabordanti di follia, collera, desiderio di vendetta.
In quell’attimo, il Jin del passato e quello del futuro divennero la stessa persona, e l’ultima cosa che egli poté scorgere fu il pugno serrato di Taehyung scagliato contro il suo volto.
Sopraffatto dallo spavento, Jin si rese conto di trovarsi in piedi, dentro un’ampia vasca che lo bagnava fino ai polpacci; era vestito di tutto punto, con un completo di velluto marrone, dai riflessi aurei. Dietro di lui vi era un trono finemente decorato, d’oro pregiato, e la Pietà di Michelangelo che si stagliava più in là. Egli aveva in mano un arco e una freccia; quest’ultima era messa già in posizione per essere scoccata contro l’obiettivo che il suo occhio aperto individuava.
Taehyung attendeva immobile che la freccia facesse il suo corso, mentre osservava Jin con aria impassibile da dietro una tenda trasparente che lo avvolgeva e pareva volerlo preservare.
Infatti, nel momento in cui l’oggetto gli venne indirizzato, il tulle sembrò divenire marmoreo; lo parò frantumandolo, rendendo i suoi resti delle chiazze di pittura che si depositarono in corrispondenza del volto di Taehyung, come sangue fallace.
E presto tutto intorno a Jin perse consistenza, persino la nitida figura del fratello.
Gli si materializzò intorno una stanza molto grande. La riconobbe: era quella in cui aveva vissuto insieme alla madre. Stesso arredamento vintage dalle tonalità bluastre; stesso letto sul quale egli aveva sperimentato le più intime prese di coscienza, i pianti più disperati, dolori incommensurabili; stessa finestra dalle medesime tende chiare, che rifulgevano al delicato contatto con i raggi del sole.
Egli aveva in dosso la sua camicia bianca preferita e un paio di bermuda.
Era tutto così confortevole, naturale; ma Jin sapeva di non trovarsi, in realtà, lì. Lo capiva dalle anomale scalfitture presenti sulla maggior parte della mobilia, la porta compresa.
Era opera di lui, di quel ragazzo che tanto amava e tanto poco aveva tentato di salvare, che aveva trasformato in un mostro dal cuore di ghiaccio.
In cerca di un minimo di pace interiore, scoprendo di aver acquisito piena padronanza del corpo, andò a sdraiarsi sul letto; mentre osservava il soffitto cianotico, rifletteva, cercava di cogliere ogni messaggio, ogni perché.
I ricordi di poco prima avevano due fili conduttori: la presenza di suo fratello e una serie di confronti con quest’ultimo.
Mai una dimostrazione d'affetto, mai una promessa mantenuta: solo rabbia, codardia, invidia, menzogne, ferite corporee e psicologiche mai rimarginate.
Così era sempre stato il loro rapporto: malsano, fatale.
All’improvviso prese a girargli la testa. Le immagini della sua adorata camera si fecero distorte, persero la loro consueta forma, si mossero come impazzite fino a diventare quasi spirali.
Jin serrò le palpebre, cominciando a divincolarsi in cerca di una posizione che potesse attenuare quell’orribile sensazione.
Si sentiva come sopra una barca, sospinto in ogni dove, in procinto di rimettere o svenire.
«No…», parlò debolmente, stringendo il cuscino terrorizzato, appigliandosi a ciò che forse gli avrebbe impedito di finire in una nuova dimensione, «Voglio restare qui».
Tutto ridivenne statico.
Rossa, brillante, apparentemente deliziosa era la mela materializzatasi nella sua mano sinistra, che un attimo prima artigliava la federa.
Messosi seduto di scatto, la gettò impaurito a pochi metri di distanza, facendola urtare contro la porta graffiata. Chiuse gli occhi e si coprì il viso con le mani, tentando di soffocare i singhiozzi.
«Non può essere», biascicò, «Tu sei morto».
Appena tornò ad osservare davanti a sé, notò quella mela posizionata accanto ai suoi piedi, sopra un vassoio riposto a terra.
Jin deglutì e fece un respiro profondo per mitigare i nervi tesi. Afferrò con una certa esitazione il frutto, soppesandolo.
Sospirò. Senza voler indugiare troppo, ne addentò un lato.
Preda di un effetto subitaneo, fu investito da una serie di allucinazioni. Si sentì leggero, gli mancò il pavimento sotto i suoi piedi. Un universo surreale, dai mille colori, cominciò a vorticargli intorno, a fargli testare il brivido di avere l’immensità eterea ad un palmo dal naso.
Si lasciò trasportare da quella marea, sentendosi quasi come un viaggiatore spazio-temporale di certi film d’avventura.
I ricordi che ne susseguirono appartenevano ad una coscienza, una vita che non era la sua.
Vide Taehyung, vestito di bianco, in una stanza del medesimo colore, seduto su una sedia scricchiolante; sorrideva ad una videocamera puntata contro di lui che lo riprendeva, lo controllava. Lui le parlava dirimpetto, talvolta con espressione vacua, mentre mordeva di gusto la stessa mela.
In seguito, sotto forma di sequenze disordinate e moleste, Jin scorse suo fratello in un’altra camera più angusta, delimitata da tende di seta; seduto su un letto dalla struttura smilza, Taehyung si dimenava, si struggeva per qualcosa. Il suo corpo visibilmente scarno e disidratato emetteva spasimi, scatti nervosi; piangeva, urlava, affondava il viso fra le mani pallide, stringeva queste ultime a pugno fino a far sbiancare le nocche.
Tutto lontano da occhi estranei, senza qualcuno – o qualcosa – al quale mentire spudoratamente mentre mangiava il frutto del peccato.
Di colpo quel chiarore venne inglobato dalle tenebre. Fiamme dalle lingue danzanti e minacciose avvamparono, illuminando l’oggetto dal quale esse erano nate senza danneggiarlo: un pianoforte. I suoi tasti avevano vita propria, si muovevano come manovrati da un fantasma, producevano una melodia che Jin riconobbe dalle prime note.
“Clair de lune” di Claude Debussy.
Essa non anelava, però, ad alcun corpo celeste, a nessun tenue bagliore o ambiente che potesse darle un senso. Il luogo era più semplice, intimo, pieno di quadretti, strumenti musicali, spartiti.
Una luce al neon dalla varietà cromatica del rosso carminio lo vivacizzò lentamente. Vi era da un lato una vetrata all’apparenza poco resistente, che dava alla strada in cui Jin si trovava.
Entrò in scena una figura incappucciata, barcollante. Prese un sasso da terra e lo scagliò contro la lastra vitrea, lasciandovi un foro.
La melodia svanì subito dopo, sostituita da suoni caotici, confusi, ovattati. Jin udì rumori di sirene della polizia prima di vedere materializzato ancora una volta suo fratello in piedi nella sua personale stanza, ad un passo dal precedente letto, di fronte ad un dipinto che raffigurava il volto di Jin; era stato realizzato da Taehyung stesso con pennellate variopinte che faticavano ad asciugare nella tela, e colavano invece copiose su quello stesso volto, macchiandolo.
Taehyung piangeva mentre lo osservava, senza muovere un muscolo. Continuava a ripetere “hyung” con volto sofferente, provato.
Dietro di lui, oltre l’ingresso che dava ad un ambiente luminoso, si stagliava l’ombra di due ali imponenti, sciatte, dalle punte acuminate, in corrispondenza della sua schiena; preannunciavano un avvenire che si realizzò non appena il ragazzo voltò le spalle al dipinto e si addentrò in quel chiarore.
 
Di nuovo uno squarcio temporale.
Jin sgranò gli occhi. Taehyung non era più solo: sedeva insieme ad altri cinque ragazzi suoi coetanei a un tavolo rettangolare.
Uno di loro sembrava amministrare quell’incontro: un giovane alto e snello, dall’aria scaltra e misteriosa.
L’abitacolo in cui si trovavano risplendeva di luci al neon verdastro, le quali incorniciavano un’enorme finestra alle loro spalle che dava a una città all’apparenza popolosa, gremita di edifici e motel.
Forse anche loro si trovavano dentro una sorta di autostello.
Tutti gli altri ragazzi avevano il suo stesso stile d’abbigliamento, lo stesso portamento che rimandava ad un passato terribile, a traumi condivisibili, emarginazioni sociali. Colui che era capotavola reggeva un bicchiere di cristallo contenente un liquido verdognolo, simile all’assenzio, destinato ad essere bevuto da qualcuno. Difatti, quest’ultimo si alzò in piedi e si diresse verso Taehyung con la bevanda in mano.
Senza neanche porgergliela, gliela portò alle labbra, facendogli impregnare le narici dell’odore che emanava e tastare la durezza del materiale tra i denti. Taehyung non oppose resistenza: seguì i movimenti della mano del conoscente e ingerì il contenuto, come una sorta di rito d’iniziazione.
Il suo raziocinio divenne immediatamente offuscato. Dall’esterno, Jin scorse una serie di scene del fratello in compagnia di chi era probabilmente diventato la sua nuova famiglia.
Con quei ragazzi mangiava, dormiva, si ubriacava, fumava, viveva.
Uscivano soprattutto di notte; andavano a seminare il caos nei luoghi più malfamati, commettevano angherie e atti vandalici.
Molte volte alcuni di loro, Taehyung compreso, venivano arrestati e trascorrevano giornate intere confinati tra sbarre di ferro; ma erano sereni, ridevano lo stesso, si facevano beffa dei loro superiori. Sapevano che li avrebbero prima o poi liberati, che gli agenti non avrebbero potuto riferire alcunché ai loro familiari, poiché loro non ne avevano.
Erano belve sguinzagliate, indomabili, dalla vita vissuta alla giornata, senza avere come punto di riferimento alcun principio morale od obiettivo.
E di nuovo la droga e l’alcol diventavano i loro rifugi di certe serate; talvolta anche il sesso dissoluto.
Il sorriso malsano di Taehyung, che sfregiava con un taglierino una superficie imbrattata mentre saliva una rampa di scale, dominava la visione di quel ricordo. Uscì, poi, in una specie di terrazzo coperto da tende squarciate, che dava alla città; la ammirava dall’alto, come se ne fosse il padrone.
Tuttavia, ogni volta che scemava la sbronza, sfumavano anche le fasulle sensazioni di libertà e i piedistalli sopra i quali credeva di aver messo radici. Tutto tornava alla cruda e monotona realtà, perdeva i suoi colori vivaci; il dolore si ripresentava. Taehyung allucinava figure, forme surreali e falsate; era sopraffatto dal malessere e vomitava nel gabinetto del luogo nel quale si stava disintossicando.
Jin vi si riscoprì con suo enorme stupore. Ebbe improvvisamente pieno controllo del proprio corpo.
Di fronte a lui, di spalle, Taehyung era riverso a terra, accanto a dove stava rimettendo.
Jin non perse tempo: esclamato il nome del fratello, gli si appropinquò con scatto fulmineo. Chinatosi a fianco a lui, afferrò con una certa irruenza le sue spalle, scuotendole, tentando invano di risvegliarlo da quel torpore, quell’effetto estatico.
«Ti prego, torna in te!», urlava Jin, «Sei un incosciente! Ti stai ammazzando!»
Taehyung, rianimatosi dopo quelle parole, scrollò le spalle, scansando Jin con una gomitata allo sterno.
Il maggiore rovinò a terra. Non demorse. Nonostante il dolore si riassestò, pronto ad avvicinarsi di nuovo; ma nel farlo, il suo corpo urtò la fredda e sporca superficie di quella che scoprì essere una cabina telefonica.
Di Taehyung non vi era più traccia; Jin era solo in un prato esteso, incolto, nel bel mezzo della notte, insieme all’unica fonte d’illuminazione proveniente dal telefono all’interno della cabina.
Telefono che squillava, vibrava senza sosta.
Egli non poteva accedervi, poiché vi erano catene avviluppate intorno alla costruzione, serpeggianti in ogni direzione e terminanti in un lucchetto di ferro massiccio. Ci voleva probabilmente una chiave per sbloccarlo, ma Jin non ne era in possesso, e sapeva di non esserne il degno proprietario.
Riconobbe l’allegorica metafora che stava vivendo. Poggiò le mani sulla teca, scaricando il peso su quest’ultima; lasciò che il suo capo cedesse in avanti, che le meste emozioni lo travolgessero.
Tutto era successo a causa di quel giorno, di quella dannata telefonata non risposta.
Come l’effetto farfalla, era bastato un piccolo sbaglio, una scelta, a scatenare un inferno di avvenimenti.
«È colpa mia», mormorò sentendosi quasi soffocare da un nodo in gola, «Lo so bene».
Tornò ad osservare il telefono.
«So che sei qui, che la tua anima non riesce a trovare pace a causa mia… ma non c’è più niente che io possa fare per te», ammisero le sue labbra tremanti, «Sono stato un cattivo hyung».
Notò d’un tratto, in mezzo ai lunghi filamenti d’erba, un oggetto squadrato che emanava un flebile riflesso da un determinato punto. Giurò di non averlo visto prima.
Si abbassò per scrutarlo: era una polaroid rosata, impolverata ma apparentemente ancora funzionante. Il vetro del mirino era illuminato dalla luce della luna che filtrava la foschia.
I suoi occhi brillarono di stupore; la sollevò da terra, incredulo. L’ultima volta che aveva visto quella macchina fotografica era quando era molto piccolo e i suoi genitori gliel’avevano regalata per una promozione. Da quell’oggetto erano uscite tante fotografie di lui e del fratello nei loro periodi felici, prima della separazione; tanti paesaggi e momenti che Jin aveva tenuto sempre nel cuore.
Momenti, però, andati fisicamente perduti, relegati chissà dove.
«Se potessi…», sussurrò alla luna, «… tornare indietro».
Approssimò l’occhio destro al mirino per provare a scattare una foto a qualcosa. Individuato un punto qualsiasi dello scenario, premette il pulsante.
Il sole sorse subito dopo a velocità innaturale, imbevendo l’ambiente di luce quasi paradisiaca. Jin poté ammirare quel prato in tutta la sua sontuosità. Lo circondava un’immensa foresta, rigogliosa, dai mille colori e piccoli animali, come le farfalle.
Più egli si guardava intorno, più riconosceva che i suoi piedi avevano già percorso quei sentieri, anni prima, in compagnia di qualcuno che probabilmente era di nuovo lì ad attenderlo.
Non tardò a proseguire a passo lesto verso una determinata direzione, poiché conosceva a memoria quello spettacolo di vegetazione.
Sapeva di stare calpestando lo stesso terriccio umido, gli stessi tralci e fili d’erba; sapeva come schivare certi rami e arbusti rinsecchiti, dove mettere i piedi per mantenersi in equilibrio.
Era tutto un déjà-vu.
In prossimità dello sbocco della via, Jin cominciò a udire alcune voci. Ne figurò almeno quattro, o forse di più, ed erano maschili.
Gli si manifestò sotto i suoi occhi un enorme avvallamento del suolo, all’interno del quale era stata fabbricata una sorta di piscina agonistica, priva d’acqua e abbandonata da tempo. Ospitava sabbia e spazzatura ove le mattonelle acquamarina formavano gli angoli; era poi stata vandalizzata con macchie di spray e graffiti, e rovinata da piante rampicanti che incrinavano quel materiale.
Proprio all’interno di quell’enorme vasca, che stonava con la vergine natura circostante, vi era Taehyung, sdraiato su un vecchio materasso. Vestiva abiti più decorosi.
Intorno a lui, i suoi compagni d’avventure. Gli parlavano, gli sorridevano, gli facevano forza. Uno di loro, lo stesso che gli aveva fatto ingerire quella sostanza verde, gli diede un buffetto sulla guancia, porgendogli poi la mano per aiutarlo ad alzarsi.
Jin si trovava in un lasso di tempo posteriore alla telefonata mai risposta. Lo comprese per via della presenza degli altri ragazzi al suo fianco, ai quali Taehyung si era accodato per fuggire quell’infinita tristezza.
Grazie a loro il sorriso tornava a contornare le sue labbra rosee.
Proprio quella consapevolezza, che avrebbe dovuto far desistere Jin dal rivelarsi, gli infuse un coraggio fuori dal comune. Impugnata la sua cara polaroid, avanzò verso il bordo della vecchia piscina, accovacciandosi e portando la fotocamera agli occhi. Gli altri continuavano a chiacchierare, ignari della sua presenza.
Fu il quasi impercettibile click dello scatto ad ammutolirli. Tutti voltarono il capo in direzione di Jin, il quale si lasciò osservare con stupore mentre balzava dentro la vasca, diretto verso di loro.
Una volta giunto di fronte a Taehyung, che si era a sua volta fatto avanti, lo scrutò per dei secondi che parvero interminabili. I lineamenti del suo volto erano certamente più innocenti, puerili. Vi era ancora un barlume di curiosità fanciullesca riflessa nei suoi grandi occhi color nocciola; ancora una parvenza di perdono che le sue labbra potevano pronunciare per assolvere ogni colpa del fratello maggiore.
Perciò, sotto il suo sguardo incerto, Jin tirò fuori dalla polaroid la foto appena stampata, ancora offuscata, e gliela porse con mite sorriso.
«Volevi sempre vedere per primo com’erano venute», parlò poi. Deglutì per ricacciare la voglia di piangere. «Sapevo di trovarti qui: questo era il nostro luogo».
Ancora il silenzio.
Si grattò, dunque, la nuca.
«So di essere un irresponsabile, un ritardatario, ma… vorrei stare un po’ con voi. Posso? Mi… accettate?»
Taehyung ricambiò lentamente il sorriso; si gettò poi tra le sue braccia, quasi aggrappandosi, com’era solito fare da bambino.
«Ti stavo aspettando», rispose finalmente con la sua voce calda e rassicurante.
 
Tutto intorno ai due prese a risplendere.
Loro e anche gli altri ragazzi mangiavano insieme, dormivano, si svagavano; talvolta combinavano qualche bricconaggine, ma mai rischiosa e perniciosa.
In Taehyung e i suoi amici albergava più allegria. La presenza di Jin aveva mutato qualcosa nel loro modo di fare; il loro temperamento era differente rispetto a quello che adottavano nei precedenti ricordi.
La sua semplice manifestazione fisica era stata la causa della loro euforia.
Mentre osservava come Taehyung infilava due patatine fritte ai lati della bocca per sembrare un vampiro, come lanciava una lattina accartocciata dall’alto di un edificio per testare la sua forza e giocare a fare il cannoniere, come correva insieme agli altri per le strade, come distruggeva da perfetto stronzo vari castelli di carte, come si divertiva a gettare i suoi amici nella vasca della sua piccola casa e si faceva immergere a sua volta, Jin immortalava quegli attimi preziosi di felicità con la sua polaroid. Collezionava memorie, risanava ferite, percorreva pian piano un cammino di redenzione.
 
“Clair de lune”, la melodia che Jin amava, giunse di nuovo alle sue orecchie mentre lui e gli altri sedevano sulla banchina di un molo; la vasta spiaggia sottostante, dai granelli biancastri, dava ad un’immensa distesa d’acqua cobalto, dalle lievi creste d’onda cristalline.
Vi era un tiepido sole coperto da nuvole rarefatte.
Tutti stavano in silenzio, si godevano il suono che provocava l’infrangimento del mare sulla battigia e i versi degli uccelli in volo.
Sebbene quella giornata sembrasse appena iniziata, Jin comprese di essere probabilmente giunto alla fine della sua missione, del suo viaggio alla ricerca del fratello perduto. Lo intuì perché non aveva più alcuna parola da scambiare con quei ragazzi.
Taehyung, senza dire una parola, si mise dopo pochi attimi il cappuccio della sua felpa nera sopra la testa; s’incamminò poi verso un ponteggio costruito a pochi metri di distanza. Nessuno tranne Jin se ne rese conto.
Quest’ultimo non poté fare a meno di interpretare quel gesto come la conferma d’addio che tanto temeva arrivasse. Tuttavia, non urlò al fratello di fermarsi; nemmeno quando lo vide arrampicarsi sulla costruzione che in quella circostanza somigliava maggiormente ad un trampolino, un oggetto scenico usato da qualche stuntman. Si limitò a seguirlo con una certa apprensione.
Una volta sopra quella vetta, Taehyung si voltò, prima verso i suoi amici sorpresi, poi verso di lui. Il suo sguardo coscienzioso fece venire a Jin le vertigini, più di quanto non gliele procurasse quell’altezza.
Si osservarono intensamente negli occhi, si compresero senza bisogno di parlarsi. Taehyung gli sorrise, Jin ricambiò.
Qualcosa fra loro era stato risolto. Potevano essere liberi.
Liberi, rifletté Jin. In che modo?
Quella che stavano vivendo non era la realtà. Taehyung era vivo, così come Jin: impossibile.
Era una consapevolezza che si fece ancora più vivida, pressante, quando Taehyung gli afferrò con fermezza una mano.
«Non avere paura. Guarda l’orizzonte», gli disse.
Jin obbedì, sentendo i battiti del suo cuore accelerare.
«È ora di svegliarti», furono le ultime parole che udì da suo fratello minore prima di essere sospinto a compiere quel temibile salto insieme a lui.
Vi fu il mare sotto i suoi piedi, un senso di vuoto e leggerezza che lo pervase mentre balzava, la gravità che divenne quasi inesistente; e subito dopo, quest’ultima gli fece pressione verso il basso a gran velocità, l’aria briosa gli graffiò la pelle, il respiro gli mancò.
Sentì un fragore assordante, un impatto doloroso con la distesa d’acqua che lo avvolse fra le sue spire; gli si gelò il sangue, sentendosi inglobato e privo d’energie.
La mano di Taehyung non teneva più la sua; aveva perso suo fratello. Era solo in mezzo a quel colosso della natura.
Andava sempre più a fondo, nonostante si divincolasse per tornare a galla.
Quando però raggiunse il suo limite, sentì i sensi venire meno; un torpore, una pesantezza lo invase e lo costrinse a rilassarsi, farsi trascinare da ciò che in tutto e per tutto somigliava al sonno eterno.
 
 
*
 
 
Jin riaprì di nuovo gli occhi, lentamente. Percepì le palpebre intorpidite, insieme ai suoi arti, come se fossero stati immobili per diverso tempo.
Si riscoprì sdraiato sul letto di una stanzina prevalentemente bianca; gli parve quella di un ospedale.
Non aveva piena libertà di movimento: sentiva oggetti tenergli salde le braccia, corpi estranei bucargli la pelle. Realizzò di non stare nemmeno respirando l’aria esterna per via della maschera d’ossigeno che gli avvolgeva il naso e la bocca.
Fra tutti i rumori reiterati di macchinari che udì subito dopo, vi fu anche quello di passi lesti. Jin scorse una donna all’ingresso della camera, vestita con un camice e avente i capelli legati in una crocchia bassa. Non appena i loro sguardi si incrociarono, ella sgranò gli occhi.
«È sveglio!», la sentì esclamare prima di sparire, presumibilmente in cerca di qualcuno, «Si è svegliato!»
 
 
*
 
 
Dal diario personale di Kim Seokjin, 26 ottobre 2015, due settimane dopo il risveglio
 
Ci vollero giorni prima che comprendessi il significato di quelle visioni e cosa fosse successo al mio corpo.
Ricordai tutto: la morte di mio fratello, i problemi sorti prima e dopo quella disgrazia, la mia crescente depressione e la voglia inarrestabile di raggiungerlo, stargli di nuovo accanto e mettere fine alle mie sofferenze.
Non era passato molto tempo dal ritrovamento del corpo di Taehyung, suicidatosi nella sua vasca da bagno colma d’acqua; già mi era balenato in testa il malsano pensiero di fare overdose di farmaci e sperare di chiudere per sempre occhio.
Ci andai vicino. Una volta completamente sveglio, mi narrarono che la mia bravata mi aveva mandato in coma, e che avrei rischiato di rimetterci le penne se non fosse stato per il mio coinquilino che, rincasato tardi dall’università, mi aveva trovato in quel pericoloso stato di assuefazione, con la bava alla bocca.
Sono rimasto allettato in ospedale, immobile, per quasi un mese, e le speranze che io mi risvegliassi nonostante i tentativi di disintossicazione erano sempre più vane.
È stato proprio in quei giorni che la mia mente ha compiuto quel viaggio quasi mistico in tutti quei ricordi e rifacimenti di situazioni vissute.
Ripenso alla nostra “famiglia”… È sempre stata un tripudio di fallimenti, causati da ogni singolo membro, me compreso. Era come un fragile castello di carte, destinato a sgretolarsi, cedere.
Io, Taehyung e nostra sorella, quando eravamo piccoli, ci facevamo sempre forza a vicenda contro l’instabilità emotiva ed economica dei nostri genitori.
Taehyung condivideva con me la passione per la musica, specialmente per le melodie al pianoforte; infatti io, grazie ai pochi corsi che avevo potuto frequentare, tentavo di insegnargli a suonare qualcosa. Lui imparava al volo, era bravo. Era, inoltre, un artista nato: esprimeva perfettamente le sue emozioni servendosi di una tavolozza, un cavalletto e una tela per dipingere.
Purtroppo anche il nostro sogno di restare sempre uniti e di perseguire una carriera di quel tipo era andato in frantumi, poiché mia madre aveva deciso di tenermi con sé dopo il divorzio.
Nel periodo successivo seppi pochissimo dei miei adorati fratelli. Mia madre mi proibì di andare a trovare loro e mio padre, ed io non ne comprendevo ancora la ragione.
Quando anche lei morì per via di una malattia incurabile, lasciandomi solo a diciotto anni appena compiuti, si prospettò per me una vita in salita, fatta di sangue, sudore e lacrime, versati tutti negli innumerevoli lavori che ho intrapreso per mettere da parte qualche gruzzoletto e frequentare in futuro un'università economica .
In quel periodo di affanni e stress, non trovai mai il tempo per me stesso, per riscoprirmi con le mie passioni, per gli altri. O almeno, non volli trovarlo, perché in quel modo avevo sempre la testa satura di pensieri che nulla c’entravano con la mia famiglia e certe emozioni.
Temevo cosa avrei potuto trovare a casa di mio padre se ci avessi rimesso piede. Non volevo soffrire di nuovo.
Solo qualche anno dopo, quando ritrovai il coraggio di mostrarmi a Taehyung dopo tutte le sue chiamate da me evitate, seppi dell’inferno che avevano passato, dei ripetuti abusi di mio padre nei confronti suoi e di nostra sorella – poiché dopo il divorzio aveva perso la testa e si era dato all’alcol –, della frustrazione di Taehyung che l’aveva portato a massacrarlo di colpi e ucciderlo infilzandolo con i cocci acuminati di una bottiglia di vetro spezzata, di nostra sorella che aveva coperto il suo crimine e si era presa ogni responsabilità dell’azione.
Vi era astio, rancore nei suoi occhi colmi di lacrime mentre me lo narrava. Non rivelò ciò per rendermi partecipe di quella tragedia, essendo un membro della famiglia; bensì per rinfacciarmelo, scaricarmi addosso quel peso emozionale che mi ero sempre rifiutato di accogliere.
Da quelle stesse parole capii che mi aveva eluso dalla sua vita, che non gli importava più niente di se stesso e di me. Il suo sentirsi costantemente solo, snobbato, diverso, pericoloso, lo aveva portato a diventare un criminale e a frequentare certe persone.
Sono stato però io, col mio modo di fare, a portarlo all’autodistruzione.
Lui si fidava di me, io volevo dimenticarlo. Lui cercava comprensione, io ero sordo ed egoista.
Ti accorgi di quanto amavi una persona dopo che l’hai persa. Già. Pensavo a questo mentre osservavo le pasticche che tenevo in mano, pronte ad essere ingerite.
Credevo che quella sarebbe stata la soluzione ad ogni mio malessere, senza immaginarmi che, se Taehyung mi avesse visto agire così, avrebbe sofferto ulteriormente.
Quanto sarebbe stato più semplice se mi fossi comportato come un fratello maturo, dandogli l’affetto che gli mancava senza fuggire o cercare di coprire le sue malefatte… Lui non chiedeva neppure tanto: gli bastava la mia presenza, un mio sorriso.
Tu mi cercavi ancora, Tae. La tua anima era ancora inquieta; e sei venuto a trovarmi nei miei sogni per dirmi ciò che non hai mai potuto farmi comprendere quando eri in vita, per provare a fidarti di me un’ultima volta.
Spero di averti reso felice, orgoglioso.
Ti prometto che renderò giustizia a nostra sorella, e mi occuperò di tutto il resto che finora ho temuto di affrontare.
Intanto, ti chiedo di riposare in pace.
 
 
*
 
 
Distributore di carburante della periferia di Geochang, due mesi dopo
 
Il rumore di un’auto che passava per la strada limitrofa piena di pietrisco e si appropinquava a quella costruzione spezzò la quiete di quella serata invernale. Il buio aveva inglobato la cittadina già da diverse ore.
Kim Namjoon, uno dei giovani che lavoravano come benzinai nel distributore, si alzò con una certa svogliatezza dalla panca su cui era seduto appena i fari di quella macchina lo abbagliarono, sistemandosi il giaccone e la visiera del cappello. Si tolse dalla bocca il lecca-lecca che stava rosicchiando, più per sfogo che per passatempo, e lo gettò nella spazzatura più vicina.
Prima che l’auto si posizionasse parallela agli erogatori, egli si sistemò a fianco ad essi, pronto a servire la persona all’interno del veicolo.
Il finestrino venne abbassato dopo qualche istante. Al posto di guida vi era Jin, vestito in maniera particolarmente elegante che stonava con la pallida cera del suo viso.
«‘Sera», esordì Namjoon al suo cliente.
Jin non rispose; si limitò a scrutare attentamente le fattezze di Namjoon sotto lo sguardo perplesso di quest’ultimo.
Era lui; era il ragazzo che aveva visto nei suoi sogni, il leader di quella banda, colui che aveva fatto ingerire a Taehyung quella strana bevanda e che aveva strappato definitivamente le sue ali, portandolo a compiere atti di delinquenza insieme a lui e agli altri giovani.
L’aveva finalmente trovato.
«È da un po’ che non ci si vede», parlò curvando di poco le labbra in un riso enigmatico.
Namjoon sollevò un sopracciglio.
«Non ti conosco, e non ti ho mai visto», asserì stranito.
«Comprensibile», rispose Jin, «Potrai non conoscere me, ma avrai certamente conosciuto mio fratello».
Gli mostrò una foto di Taehyung estratta da una tasca, scattata con la sua polaroid.
Vide Namjoon sgranare gli occhi e schiudere lievemente le labbra.
«Sì, è mio fratello», ci tenne a rimarcare.
«Quindi tu sei quello che l’aveva abbandonato», commentò improvvisamente l’altro con aria di sfida.
«Perché non pensi anche alle tue infamie?», rimbeccò Jin aggrottando di poco la fronte.
«Infamie?», ripeté Namjoon sollevando la testa dal finestrino, «Non ho niente di cui pentirmi e niente da confessare. Se sei qui solo per questo, puoi levare le tende».
«Non me ne andrò finché non avremo chiarito alcune cose faccia a faccia».
«Non parlo con persone di diverso status sociale, che non comprendono le nostre condizioni».
«Penso che, per certi versi, io e te ci somigliamo. Abbiamo entrambi portato alla morte una persona, per esempio», assestò Jin, lasciando Namjoon visibilmente sorpreso, «A maggior ragione ritengo che dovremmo risolvere questa questione insieme, in un modo o nell’altro. Non qui, però».
Passarono diversi secondi, percepiti dai due ragazzi uno ad uno, nei quali lì investì una folata di vento gelido alquanto brusca e inaspettata.
 
«Tu mi odi, non è così?», domandò Namjoon, una volta sedutosi nel sedile anteriore, accanto a Jin, pronto ad essere condotto da lui in ogni dove e a fregarsene degli eventuali rimproveri dei suoi superiori.
«Mai quanto io odi me stesso», fu la risposta dell’interlocutore, che gli porse senza guardarlo una scatola aperta di gomme da masticare.
Namjoon si lasciò sfuggire un sorriso sornione mentre ne prendeva una.
«Siamo in due».
 
© Alyss Liebert
 
 
•••
 
 
{Note e curiosità}
… Sì, è un “debutto” un po’ particolare in questo fandom.
Ho deciso di iniziare a scrivere sui BTS soffermandomi prima di tutto sul loro universo fittizio, ancora in evoluzione. *pensa al webtoon e al libro con le “notes” e si dispera*
Essendo attualmente impossibile scrivere una storia che pretenda di fare luce su questo caos, mi sono lasciata ispirare da varie teorie, anche confermate inesatte perché comunque degne di nota per il duro lavoro di analisi. È il caso di quella da cui ho preso spunto per scrivere questa one-shot, che potete leggere cliccando qui. È una teoria praticamente smentita, poiché risale ai primi del 2017 e si basa su ciò che in quel periodo si sapeva fino alla saga di Wings. Tuttavia, mi ha molto colpita, e rimane tuttora una delle mie preferite.
La teoria sosteneva che Jin e Taehyung fossero fratelli, e che tutti gli altri membri fossero nientepopodimeno che le rappresentazioni dei loro comportamenti ed episodi di vita (visti negli MV che conosciamo) prima della tragica fine; eccetto Namjoon, personaggio particolare.
Non ho inserito proprio ogni cosa della teoria; mi ci sono solo ispirata.
L’ambientazione è prevalentemente onirica, imprevedibile (esattamente come le loro teorie); perciò il tutto è fatto per essere letto tutto d’un fiato e compreso nel suo significato d’insieme, senza soffermarsi per forza su certi particolari.
Spero vi sia piaciuta; se vi va, fatemelo sapere con un commento. ♥
Questa storia partecipa alla challenge citata nel prologo. La parola da me sviluppata è Mono no aware, ossia “la consapevolezza della precarietà delle cose, una sorta di nostalgia e sensibilità verso la natura transitoria della bellezza e della vita”.
Tornerò da queste parti (non so quando perché ho altri deadlines, aiut--) con qualcosa di più “realistico” e - perché no? - qualche ship~
Se volete seguirmi altrove, trovate i link di tutti i miei profili/fan accounts nella mia Bio. ♥
 
Jā ne,
Alyss  
  
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