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Autore: Cioppys    25/01/2019    2 recensioni
[MitKo]
Era una strana costante la pioggia di quei giorni, tanto quanto il ritrovarsi bloccato sotto la stessa pensilina del pomeriggio precedente. La grossa differenza stava nella sua forma fisica: ieri quella di un normale essere umano, oggi quella di uno stupido gatto.
Genere: Introspettivo, Sentimentale, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Hisashi Mitsui, Kiminobu Kogure
Note: nessuna | Avvertimenti: Furry
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Disclaimer
Tutti i personaggi di Slam Dunk appartengono al grande, mitico e immenso Inoue-sensei.

Sproloqui di un’autrice
E’ da un po’ che non pubblico qualcosa – troppo – ma tra impegni vari, altri hobby e la riscrittura di questa fan fiction, che si è rivelata più ostica di quel che pensassi, siamo già arrivati al nuovo anno. Incredibile come il tempo voli e, senza accorgertene, ti ritrovi ad aver fatto un decimo di ciò che avresti voluto… ma che altro si può fare se non prenderla con filosofia? Comunque, complice il fatto di averci lavorato a lungo, stavolta ho deciso di godermi al meglio il frutto del mio sudato lavoro, facendo una cosa che, fino ad oggi, non avrei mai fatto, ovvero spezzare quella che originariamente era una one-shot in una short di tre capitoli… ma è giunta anche l’ora di smetterla di sbrodolare venti pagine di testo a botta, come se non ci fosse un domani!
Buona Lettura!

~ * ~ * ~ * ~

 

La Maledizione del Gatto
di Cioppys

 

Capitolo 1

Fu l’improvviso rombo di un tuono alle spalle a suggerirgli di allungare il passo. Ma anche se si fosse messo a correre, la pioggia lo avrebbe raggiunto lo stesso nell’arco di un centinaio di metri: camminando, infatti, non ne percorse dieci quando le prime gocce, grosse come biglie, colpirono l’asfalto scuro.
Mitsui fece appena in tempo a ripararsi sotto la pensilina della fermata dell’autobus che si scatenò il finimondo: una cascata d’acqua continua, come se qualcuno avesse aperto infiniti rubinetti poco sopra le nuvole. Osservò il cielo farsi più scuro man mano che i minuti passavano e, deluso dall’apparente mancanza di schiarite all’orizzonte, si sedette mesto sulla stretta panchina di metallo.
«Merda…».
Non aveva la benché minima voglia di attendere che il temporale finisse o, quantomeno, diminuisse abbastanza di intensità da consentirgli di correre a casa e non arrivarci fradicio dalla testa ai piedi. Tuttavia, senza un ombrello, non aveva alternativa. L’idea di ammalarsi non lo allettava per nulla, soprattutto ora che mancavano pochi giorni alla partenza per Hiroshima.
Appoggiò rassegnato i gomiti sulle ginocchia e chinò il capo. L’attesa si prospettava lunga e altrettanto noiosa.
«Serve un passaggio?».
Mitsui sollevò lo sguardo di colpo e fissò Kogure, fermo sotto l’ombrello trasparente, come se fosse il messia.
«Sono realmente qui, non stai sognando!» rise il compagno di squadra vedendo la sua espressione stralunata. «Allora, lo vuoi o no questo passaggio?».
Era un invito allettante che però Mitsui tentennava ad accettare.
«Tu non abiti dalle mie parti…» gli fece notare.
Lui sorrise tranquillo. «Non vedo quale sia il problema».
«Il problema è che allungherai la strada, e di parecchio».
«Beh, quello non è affatto un problema» Kogure fece spazio sotto l’ombrello e lo invitò a raggiungerlo. «Pensi che potrei abbandonare un amico nel momento del bisogno? E poi, stiamo parlando di uno o due chilometri in più…».
E tu ne parli come se fossero metri, pensò Mitsui alzandosi comunque. Sospettava che, pur di non lasciarlo solo, in caso di rifiuto, il compagno di squadra si sarebbe seduto con lui ad aspettare insieme che spiovesse. Tanto valeva quindi accettare l’offerta e farsi riaccompagnare a casa.
Durante il tragitto, si ritrovarono ovviamente a parlare di basket e di quanto gli allenamenti si fossero intensificati negli ultimi giorni, in vista dell’ormai imminente partenza per i campionati nazionali.
«Due settimane e saremo ad Hiroshima» commentò Kogure con un fiero sorriso sulle labbra.
Mitsui lo ricambiò, orgoglioso anche lui dell’importante traguardo che avevano raggiunto. Un traguardo che, tuttavia, era solo l’ennesimo punto di partenza per un'altra grande avventura: ad attenderli ad Hiroshima, c’era infatti la lunga scalata verso la vetta del campionato, sei scontri ad eliminazione diretta che si sarebbero consumati in altrettanti giorni. Un impresa non semplice, sia a livello fisico che mentale, eppure Mitsui era certo che fosse alla loro portata. La sconfitta risicata contro il Kainan – una delle migliori squadre a livello nazionale – era la dimostrazione che potevano farcela se si fossero impegnati.
Sistemò elettrizzato la tracolla del borsone sulla spalla sinistra e si stupì di trovarla perfettamente asciutta.
Strano: stava sotto la parte esterna dell’ombrello, ed essendo in due, era certo che si sarebbe bagnata. Fu però sufficiente un’occhiata a quella destra di Kogure, situata dalla parte opposta, per risolvere l’enigma.
«Ehi, non coprire solo me!» sbuffò raddrizzando l’ombrello in mano all’altro.
«Ma così ti bagnerai-».
«E quindi?» lo interruppe. «Perché dovresti bagnarti tu? Stringiamoci, allora!».
Mitsui afferrò deciso la spalla ormai fradicia di Kogure e lo attirò a sé. Non capì affatto il motivo per cui si ritrovò un attimo dopo sotto la pioggia scrosciante, spinto fuori dall’ombrello che ora giaceva rovesciato a terra. Completamente zuppo nel giro di pochi secondi, fissò esterrefatto Kogure che, a tre passi da lui, nascondeva il volto dietro una mano. Appena però questi si accorse di cosa aveva fatto, iniziò a prodigarsi in mille scuse. Mitsui dovette impedirgli con la forza di inginocchiarsi a terra e ripetergli, fino alla nausea, che non si sarebbe ammalato per così poco, non se fossero corsi a casa, seduta stante, ad asciugarsi.
«M-mi dispiace...» biascicò Kogure per l’ennesima volta prima di seguirlo.
Raggiunsero la loro destinazione in poco meno di dieci minuti. Affannati dalla leggera salita nell’ultimo tratto di strada, si fermarono a riprendere fiato, al riparo della tettoia del cancello pedonale che fungeva da ingresso all’abitazione, una moderna villa di un singolo piano, dal raro stile occidentale.
Era la prima volta che Kogure vedeva la casa del compagno di squadra. Osservò incuriosito la struttura mentre strizzava le maniche corte della propria maglietta, finché la sua attenzione non venne catturata dall’ampia targa, in acciaio lucido, appesa sul muro a lato del cancello.
«Non sapevo che fossi figlio di un architetto» commentò «ma ora capisco tante cose…».
Mitsui, che di quella parentela ne avrebbe fatto volentieri a meno, gli chiese cosa intendesse dire.
«Beh, ad esempio… come la tua famiglia possa permettersi di abitare in un quartiere considerato esclusivo, e non solo per la splendida vista che si gode dalla costa» Kogure volse lo sguardo verso il mare che si stagliava impetuoso sopra i tetti delle case, al di là della strada, ad appena un chilometro in linea d’aria. Nonostante il maltempo, il caratteristico profilo dell’isola di Enoshima era perfettamente visibile sulla destra. «O come potessi permetterti gli abiti di marca che indossi sempre agli allenamenti…». 
Quella considerazione infastidì un poco Mitsui, nonostante fosse vera. Non aveva mai lesinato sul vestiario per giocare a basket. Di recente, poi, aveva dovuto acquistarne parecchio: in due anni era cresciuto abbastanza da fargli andare stretto molto di quello che utilizzava prima dell’infortunio, e giocare col cavallo dei pantaloni che strizzava le parti basse, era tutto fuorché comodo.
Kogure parve leggergli nel pensiero. «Non penso che tu sia un ragazzo viziato, solo molto benestante».
Era l’ennesima considerazione che, agli occhi degli altri, avrebbe reso ancora più paradossale il fatto che, una promessa del basket come Mitsui, si fosse iscritto ad una scuola pubblica semi sconosciuta come lo Shohoku, poco importava se dietro quella scelta ci fosse esclusivamente il desiderio di giocare nella squadra allenata da Anzai. Un desiderio che Mitsui aveva dovuto difendere coi denti quando, in terza media, aveva reso partecipi i suoi genitori del percorso scolastico deciso in autonomia e solo pensando al basket.
«E’ un progetto di tuo padre?» Kogure non ebbe bisogno di specificare di cosa parlasse, l’occhiata lanciata alla casa rendeva chiaro il soggetto della domanda.
«No, è di mio nonno: fu il suo regalo di nozze ai miei».
«Quindi è una specie di tradizione di famiglia essere architetti…».
Prima di rendersene conto, a Mitsui sfuggì un: «Purtroppo sì…».
Si morse il labbro furente. Non voleva parlare di quell’argomento, poco importava se Kogure avrebbe o meno capito e appoggiato la sua posizione. Mitsui non dette il tempo al compagno di squadra di approfondire e gli propose di entrare a cambiarsi.
«Ti presto qualcosa» disse prendendo il mazzo di chiavi e aprendo il cancello.
La sorpresa negli occhi di Kogure venne presto rimpiazzata da uno strano imbarazzo, che gli colorò le guance di un rosso acceso. «T-ti ringrazio, ma n-non c’è bisogno di scomodarsi t-tanto…».
«Ma quale scomodarmi-» Mitsui vide Kogure lanciarsi sotto la pioggia senza neanche aprire l’ombrello. «Ehi! Ti prenderai un malanno a tornare a casa zuppo come sei!».
«Non ti preoccupare, non succederà!» gli urlò lui in risposta, mentre si allontanava di corsa.
«Ohi- Kogure!» ma chiamarlo era inutile, visto la distanza a cui ormai si trovava.
Mitsui sospirò e, sperando che l’indomani l’amico non fosse a casa con l’influenza, varcò la porta di casa.
Nonostante lo stile moderno e occidentale, l’ingresso ricalcava quello tipico giapponese, un ampia zona dal pavimento in pietra dove lasciare le scarpe prima di accedere alla casa. Mitsui però, oltre alle scarpe al borsone del club, avrebbe dovuto lasciarsi gran parte del vestiario che aveva addosso per evitare la lunga scia d’acqua che lo seguì fin nel bagno, dove si precipitò subito dopo essere entrato.
Si stava frizionando i capelli fradici quando una voce femminile fece tremare le pareti di casa.
«Hisashi!».
Conoscendo il soggetto, non ci pensò due volte a precipitarsi fuori dal bagno così com’era, con l’asciugamano in testa e le sole mutande addosso. Ad attenderlo all’ingresso, c’era l’epicentro di quel piccolo terremoto – sua madre – che fissava il parquet sporco con le mani ben piantate sui fianchi e uno sguardo di fuoco che non prometteva nulla di buono.
«Non devo dirti io cosa devi fare, vero?».
Ovviamente no, pensò Mitsui prendendo, senza fiatare, spazzolone e straccio dallo sgabuzzino.
Iniziò a pulire mentre il freddo pungente della pioggia gli penetrava fin nelle ossa, alimentando la voglia spasmodica che aveva di immergersi, quanto prima, nell’acqua calda della vasca. La fretta però è spesso “cattiva consigliera” e quando, con lo spazzolone, urtò la gamba dello stretto tavolo situato in corridoio, il vaso carico di lilium bianchi, posto sopra, si salvò solo grazie al provvidenziale intervento di suo fratello maggiore.
«Mamma deve volersi male per chiedere a un imbranato come te di pulire!» lo schernì con un sorriso storto mentre rimetteva a posto l’oggetto.
A Mitsui prudettero le mani al solo vederlo.
Hitonari – così si chiamava – era il cocco di casa, il figlio ideale nonché prediletto. Era quello educato, intelligente e rispettoso delle tradizioni che non faceva mai sfigurare i loro genitori, non cogli amici, non coi vicini di casa, non coi parenti alle frequenti riunioni di famiglia. Era quello che frequentava, con ottimi risultati, la stessa università in cui si erano laureati il padre e il nonno. Era quello che aveva sempre ragione, anche nel torto più marcio.
Eppure non era sempre stato così.
Un tempo, anche Mitsui riceveva elogi e complimenti, e l’affetto che ogni figlio meriterebbe solo per essere nato. Poi era arrivato l’infortunio che gli aveva portato via tutto: stima, sicurezza e fiducia in sé stesso; ma anche amici e l’unica vera passione che avesse mai avuto, il basket. Dopo quell’evento, tutto aveva perso di significato, dalle apparenze sociali ai risultati scolastici. A distanza di due anni, Mitsui si biasimava per essersi lasciato andare, per aver dato molte ragioni ai suoi genitori di non poter più credere in lui.
Ora però era diverso, era una persona nuova.. ma di ringraziare il fratello per averlo salvato dall’ennesima sfuriata della madre, non gli passò neanche per l’anticamera del cervello.
«Beh, a differenza tua,  io so farmi un piatto di ramen senza mandare a fuoco la casa…».
Il viso di Hitonari si incupì. Odiava che qualcuno gli rinfacciasse uno dei due grandi difetti che aveva: la completa incapacità di cucinare, anche la pietanza più semplice, e l’avere un senso dell’orientamento pari a zero, tanto da essersi perso persino nel quartiere in cui viveva da quando, ventun anni prima, era nato.
«Cerchi rogne fratellino?».
«Non è forse la mia specialità?» ribatté beffardo, prima di colpire volontariamente i piedi dell’altro con lo straccio. «E ora levati dai coglioni… mi stai intralciando!».
Quando però Hitonari si accorse che le calze appena indossate non erano più così bianche, spinse irritato il fratello che, colto di sorpresa, scivolò sul pavimento bagnato e perse l’equilibrio. Il rumore secco dei cocci infranti, di un vaso che forse era destino andasse in mille pezzi, si udì in ogni angolo della casa. L’attimo di silenzio successivo venne spezzato dalle accuse reciproche urlate dai due fratelli e l’arrivo della madre, in cerca di spiegazioni, non fece che accendere maggiormente la discussione.
«Finitela!» al capofamiglia, uscito furente dal proprio studio, bastò una parola per mettere a tacere quel baccano assordante. «Cosa avete? Cinque anni? Hitonari, mi meraviglio di te! E Hisashi: sistema questo macello prima di venire da me!».
Mitsui sentì un brivido corrergli lungo la schiena nuda. Una convocazione del padre non era mai qualcosa di positivo, figurarsi se nata da una situazione di tensione come quella.
«Posso almeno fare il bagno?» si azzardò a chiedere «Ho freddo e non voglio ammalarmi…».
L’uomo sospirò. «Hai venti minuti».
E venti minuti furono.
Mitsui entrò nello studio del padre dopo aver bussato tre volte. Lo trovò in piedi, dietro la scrivania, a parlare animatamente al telefono di questioni lavorative. Per non disturbarlo più di quanto non avesse già fatto, si spostò nell’angolo opposto della stanza, davanti alla porta finestra che dava sul giardino retrostante la casa. Non c’erano piante e nemmeno fiori, solo un’ampia distesa d’erba verde, delimitata da una siepe alta un metro e mezzo che circondava l’intero giardino. Contro ogni previsione, aveva già smesso di piovere.
Se solo avessi aspettato dieci minuti, avrei evitato un sacco di problemi, pensò con una certa amarezza.
Quando abbaiò, Mitsui si accorse della presenza di Yuki al di là del vetro. Seduto sulle zampe posteriori, lo shiba di suo fratello lo osservava con la lingua a penzoloni, in trepidante attesa di coccole. Sapendo bene di non poterlo far entrare nello studio – zona off-limits per l’intera famiglia anche se, quando erano piccoli, il padre permetteva a lui e Hitonari di giocare lì e fargli compagnia, a patto che non lo infastidissero – Mitsui si accovacciò e accarezzò il vetro, sorridendo divertito quanto il cane prese a leccarlo con foga dall’altra parte.
«Tua madre sarà felice di dover ripulire il casino che gli stai facendo fare…».
Mitsui tolse immediatamente la mano. Non si era accorto che avesse finito la telefonata.
«Non ti preoccupare, lo pulisco io».
«Così magari rompiamo anche questo?».
«Non è stata colpa mia! Hito-» al sopracciglio alzato dell’uomo, Mitsui si morse il labbro. Che senso aveva cercare di giustificarsi? Tanto quello nel torto sarebbe stato lui, a prescinderei dai fatti. «Lascia perdere».
Suo padre scosse il capo e lo invitò a prendere posto alla propria scrivania. Nel sentire Yuki guaire mentre si allontanava, Mitsui provò un tremendo senso di disagio, giudicando il lamento del cane un avvertimento più che la tristezza dell’animale per le mancate coccole.
«Ho saputo dalla mamma che, quando ero a Kobe, hai dovuto ripetere alcuni esami…».
Più che accomodarsi, Mitsui si lasciò cadere sulla sedia. Aveva tanto pregato che la donna tacesse su quel “piccolo” particolare…
«L’altro giorno sono quindi andato a scuola a parlare coi professori» continuò il padre. «Ammetto di essere rimasto sorpreso nel sapere che il tuo comportamento è migliorato parecchio. Lo stesso, però, non si può dire dei tuoi voti…».
Ed eccole qui le noti dolenti, pensò Mitsui deglutendo.
L’uomo non fece troppi giri di parole e andò dritto al punto: «Hisashi, la tua media è bassissima, la più bassa che si sia mai registrata da generazioni nell’intera famiglia. Le capacità le hai, per cui il problema è uno solo: non studi! Come pensi di passare gli esami di ammissione all’università? Giocando a basket?».
Fu il tono dispregiativo con cui lo disse che lo innervosì.
«Ne parli come se fosse un’eresia…» ringhiò.
«Perché è un’eresia!». Mitsui sobbalzò quando il padre picchiò il pugno sul tavolo. «Ti abbiamo permesso di iscriverti a una sconosciutissima scuola pubblica, chiudendo mille occhi, per assecondare il desiderio che avevi di giocare nella loro squadra, squadra che hai mollato dopo un mese-».
«Mi ero infortunato!» lo interruppe, indignato per come gli stesse rinfacciato ancora quella scelta.
«Non cambia il fatto che hai smesso di giocare per due anni!» lo rimbeccò il padre. «Hai praticamente gettato al vento la tua carriera scolastica per uno stupido hobby!».
Mitsui si alzò in piedi furioso. «Il basket non è uno stupido hobby!».
«Beh, lo diventerà» l’uomo prese dalla scrivania un foglio e glielo mostrò. «Hai impegni più importanti dei campionati nazionali…».
Quello che il padre stracciò davanti ai suoi occhi spalancati, altro non era che l’autorizzazione firmata dal genitore che Mitsui avrebbe dovuto consegnare l’indomani a scuola. Senza, non sarebbe potuto partire per Hiroshima col resto della squadra.
Con le lacrime agli occhi, Mitsui raccolse i brandelli di carta sparsi un po’ ovunque.
«Papà… no, ti prego… qualsiasi cosa, ma non i campionati…».
Non gli importava di apparire ridicolo mentre ricomponeva il foglio sul pavimento con mani tremanti, o di calpestare senza tregua il proprio orgoglio supplicando come un cane randagio farebbe per un tozzo di pane. Era del suo agognato sogno che stavano parlando, un sogno che si era appena trasformato in un incubo, a cui il padre non sembrava voler porre fine.
«In ottobre si terranno le prime simulazioni degli esami di ammissione alla Nanto» disse guardando fiero la propria laurea lì conseguita, appesa sul muro a fianco in una elegante cornice nera. «Mi aspetto che partecipi, Hisashi, e che tu ottenga il risultato che mi aspetto».
Mitsui guardò il padre con un groppo in gola. «P-papà, aspetta-».
«Ho del lavoro da sbrigare, ora» fu la secca replica, che pose fine alla discussione.
Quando uscì dallo studio, Mitsui era come intrappolato in una bolla, in un mondo a lui completamente estraneo. Non sentiva nulla, non provava nulla, finché d’un tratto non iniziò a mancargli l’aria.
Udendo dei rumori all’ingresso, sua madre si affacciò dalla porta della cucina.
«Hisashi, dove stai andando?» chiese quando vide il figlio indossare in fretta e furia le scarpe. «Guarda che è quasi pronta la cena…».
Mitsui non rispose. Peggio, non la degnò nemmeno di uno sguardo. Aprì la porta e corse fuori sotto la pioggia che aveva ripreso a cadere, incurante delle urla con cui la madre gli intimava di tornare subito indietro.
Raggiunse il parco giochi situato qualche isolato a nord. Lo conosceva bene: durante le elementari, si fermava spesso a giocare coi propri compagni di ritorno da scuola e, negli anni, non era cambiato di una virgola. Si rifugiò nella costruzione in cemento verde posta in un angolo, un tubo cavo abbastanza grande da poterlo ospitare seduto all’interno. Fu lì che, ginocchia al petto, lasciò libero sfogo a tutta la propria rabbia ed amarezza, lontano da occhi indiscreti e nascosto dal fitto rumore della pioggia.
Si chiese come avrebbe spiegato quel macello ai compagni di squadra, all’allenatore Anzai, domandandosi anche se un intervento, suo o della scuola, potesse sbloccare l’amara situazione.
«Si, come no…» mormorò ironico tra le lacrime. Suo padre non era il tipo da fare marcia indietro, non quando aveva preso una decisione che reputava definitiva.
Il pensiero dei compagni lo riportò indietro di un’ora, a quella chiacchierata sotto l’ombrello con Kogure. Il ricordo della gioia, con cui l’amico gli aveva parlato della qualificazione, fu un pugno in pieno stomaco: con che coraggio l’avrebbe guardato ancora in faccia se avesse tradito, una seconda volta, la promessa fatta in prima superiore?
Mitsui stava tremando quando qualcosa strusciò contro le sue gambe. Terrorizzato, si gettò all’esterno con un’irruenza tale da non guardare dove e finì per centrare una pozzanghera situata lì davanti.
«Merda!» esclamò irritato, togliendosi il fango che gli aveva imbrattato parte della faccia.
A farlo fuggire dal suo rifugio era stato un soriano rosso.
Quando lo vide sedersi all’imboccatura del tubo, Mitsui afferrò un sasso e, in preda alla rabbia, glielo tirò. L’animale schivò il colpo con l’agilità propria di un felino, per poi miagolare tutto il proprio disappunto per il gesto poco gentile. Sentendosi preso in giro, Mitsui si scagliò contro di lui e, complice il fattore sorpresa, riuscì ad afferrarlo per la coda prima che si allontanasse.
La reazione del gatto, tuttavia, non tardò ad arrivare.
«Maledetto bastardo!» urlò Mitsui stringendosi il dorso della mano, dove le unghie erano affondate in profondità nella pelle provocandogli un bruciore tremendo.  
Osservò le piccole gocce di sangue colargli tra le dita insieme alla pioggia e sebbene sapesse che tornare a casa a disinfettare la ferita, ad asciugarsi, fosse la soluzione migliore, la sola idea di incontrare il padre gli provocava ansia e un forte senso di nausea.
Mitsui riprese posto all’interno del tubo sotto l’occhio vigile dal gatto, fermo all’entrata opposta. Non sembrava voler abbandonare il fortino, ma finché si manteneva a distanza, non aveva obiezioni a condividere il riparo. Mentre lo guardava, la sua attenzione venne catturata dalla lunga coda che ondeggiava da destra a sinistra, un movimento ritmico che divenne presto ipnotico. Mitsui cercò di sbattere le palpebre, senza però riuscirci, e quando, qualche secondo dopo, la vista gli si annebbiò, perse completamente i sensi.
Riaprì gli occhi che il sole stava sorgendo sul mare, ad est, sbattendogli con prepotenza in faccia il fatto di non essere rientrato a casa per la notte. Si alzò in piedi trafelato e corse fuori dal tubo, accorgendosi che qualcosa non andava dopo pochissimi passi. Si sentiva fisicamente strano e quando guardò quelle che avrebbero dovuto essere le sue mani, non seppe cosa pensare, tanto fu lo shock.
Zampe.
Si, al posto delle mani aveva due piccole zampe, una bianca e una nera, coi morbidi cuscinetti sottostanti di un grigio pallido. E no, il problema non si fermava alle sole mani.
Mitsui fissò allibito dapprima la pancia coperta da una lucida pelliccia nera, poi la coda che si erigeva dritta sopra la sua schiena. Arricciò naso e quando lunghi baffi grigi ondeggiarono davanti ai suoi occhi, fu colto dal panico: cercò di urlare, ma tutto ciò che emise fu una serie di miagolii striduli.
– Sei ridicolo zampetta bianca, ma molto molto divertente! –.
Non fu una voce quella che Mitsui udì, perché non ci fu alcun suono, solo la traccia di un pensiero non suo che però proveniva direttamente dalla sua testa. Convinto di essere impazzito dopo la sconvolgente scoperta di essere diventato chissà come un gatto, si stava già disperando quando il suo reale interlocutore ebbe compassione di lui e gli rivelò dove cercarlo.
– Tu? – esclamò dopo aver incrociato lo sguardo del soriano, sdraiato sopra l’entrata del tubo.
– Oh, ti ricordi davvero di me? – ribatté lui sarcastico, continuando a leccarsi il pelo con noncuranza. – Quindi ti ricordi anche di quanto sei stato scortese nei miei confronti… –.
Mitsui grugnì. – Sei tu che mi hai graffiato! –.
– Vero, ma solo dopo che tu mi avevi tirato la coda – gli rammentò indispettito il gatto. – Pensavi forse che non facesse male? –.
Non era qualcosa che Mitsui si era chiesto, non prima almeno. Adesso, invece, che sentiva la presenza fisica della propria coda attaccata al sedere, dubitò che fosse piacevole se qualcuno gliel’avesse tirata.
– Mi hai spaventato, e fatto arrabbiare… – cercò di giustificarsi.
Il soriano sbadigliò annoiato da quelle patetiche scuse.
– Beh, ormai la tua punizione l’hai avuta – aggiunse allungando le zampe e stiracchiandosi la schiena.
– Punizione…? – sul momento, Mitsui non capì a cosa si stesse riferendo. – Aspetta, vuoi dire che… sei stato tu a farmi questo?! –.
Il muso di un gatto non poteva esprimere divertimento, ma Mitsui percepì chiaramente la maligna soddisfazione che il suo aguzzino provava nel vederlo conciato in quel modo e in palese difficoltà.
– Ti piace la mia “piccola” maledizione? – domandò sogghignando. – E’ il modo migliore per far capire a voi, stupidi umani, quanto sia dura la vita di un animale randagio… –.
– Cosa- – l’incredulità di Mitsui venne presto soppiantata dalla rabbia. – Maledetto! Fammi subito tornare normale! –.
– E perché dovrei? –.
– Mi prendi per il culo?! –.
– E comunque non posso – il soriano si alzò in piedi, mentre sotto le zampe di Mitsui si apriva un baratro. – Su, imparerai presto a cavartela- –.
– Finiscila coglione! – lo interruppe. Sarebbe davvero rimasto un gatto per il resto dei suoi giorni? Un brivido gli percorse la schiena. – Non è affatto divertente! –.
– Non ho mai detto che debba esserlo… –.
Con un elegante balzo, il soriano lo raggiunse sul terreno e iniziò a girargli intorno, esaminandolo con quell’aria soddisfatta che Mitsui avrebbe voluto cancellargli a suon di pugni… o di graffi, vista la situazione.
Fu allora che gli si accese una lampadina.
– Hai detto che è una maledizione… –.
Il soriano lo guardò circospetto. – E quindi? –.
– Per definizione, una maledizione può essere spezzata –.
– Chissà… – fece vago, ma a Mitsui non sfuggì il giallo dei suoi occhi farsi più scuro. – Ora però devo proprio andare – e, senza aggiungere altro, si allontanò a grandi passi, in direzione della strada.
– No! Aspetta! –.
Mitsui lo seguì, peccato che mancava completamente di coordinazione per correre con efficacia con quel corpo nuovo e sconosciuto. Il soriano lo seminò in breve tempo e a lui non restò che continuare a cercare, e cercare, e cercare, spinto dalla pura disperazione.
No, quella di rimanere un gatto non era un’opzione accettabile.

Continua

 

  
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