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Autore: Old Fashioned    27/01/2019    20 recensioni
Una favolosa tenuta ai Caraibi smerciata per pochi soldi: per James Donovan, imprenditore non troppo fortunato, sembra l'affare della vita. Peccato che in quel luogo ci sia qualcosa che spinge chiunque vi si avventuri a scappare dopo poco in preda al terrore.
Toccherà al meticoloso uomo di fiducia del signor Donovan, Roderick Austin, occuparsi della faccenda. Egli indagherà sul passato della tenuta scoprendo verità scomode, che qualcuno vorrebbe assolutamente tenere nascoste.
Seconda classificata al contest “Terapia d'urto” indetto da molang sul forum di EFP.
Prima classificata al contest "I Doni della Medicina” Indetto da Dollarbaby sul forum di EFP e giudicato da Shilyss, a pari merito con "Di ghiaccio e di oscurità" di Yonoi
Genere: Mistero, Suspence | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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LA VERITÀ SU INGEBORG BARROW





Capitolo 1

Il telefono emise uno squillo. Senza abbandonare la contemplazione delle immagini che stavano scorrendo sul monitor, meccanicamente James Donovan, della Donovan Enterprises, allungò la mano, premette il pulsante del viva voce e scandì il proprio cognome.
Buona sera,” giunse dall’altra parte del filo. Era una voce maschile profonda e ruvida, che faceva pensare a un uomo corpulento, probabilmente con una folta barba e la salopette di jeans. “Sono Nielsen.”
Ah, Nielsen,” lo interruppe l’altro, “volevo proprio chiamarla. Come stanno andando i lavori?”
Alla domanda seguirono alcuni secondi di silenzio, poi l’uomo, in tono vagamente esitante, rispose: “È proprio di questo che volevo parlarle, signor Donovan.”
L’imprenditore aggrottò le sopracciglia. “C’è qualche problema? Eppure mi aveva detto che il materiale andava bene.”
Certo, signor Donovan,” giunse l’imbarazzata risposta, “il materiale è di prima qualità, non si potrebbe dire male di quella roba neppure volendo, ma...”
Ma?”
Ma vede… uno dei ragazzi è in malattia, un altro deve sposarsi...” L’uomo tacque, quasi aspettandosi che Donovan traesse le conclusioni al posto suo.
L’imprenditore rimase in silenzio.
Dopo qualche secondo, l’altro riprese: “E quindi, lei capisce che con così pochi uomini non posso certo proseguire il lavoro.”
Mi pare che avessimo un accordo,” fu la risposta, pronunciata in tono tagliente.
Sì, ma vede… le malattie sono imprevedibili, no?”
Assuma qualcun altro. Con i soldi che le sto dando, non dovrebbe avere problemi.”
Glieli restituirò,” gli assicurò subito l’uomo. “Del resto, col poco che siamo riusciti a fare finora, non mi sentirei a posto con me stesso se le chiedessi qualcosa.” Fece una pausa, poi in tono accorato aggiunse: “Davvero, signor Donovan, lei mi dica solo dove devo farle arrivare il bonifico e siamo a posto.”
L’altro aggrottò le sopracciglia e replicò: “Senta, Nielsen, io non ho tempo, capisce? Ho soldi, ma non ho tempo e ho scelto lei proprio perché in tutta St. John i suoi ragazzi sono famosi per come si danno da fare. Ho bisogno che quei lavori vengano portati a termine entro una certa data, altrimenti avrò un sacco di problemi.”
Ci fu un lungo silenzio, poi l’uomo rispose: “Ecco, signor Donovan, credo che proprio non sia possibile.”
L’imprenditore abbatté il pugno sulla scrivania come se l’altro fosse stato seduto di fronte a lui, quindi in tono sempre più duro replicò: “Come sarebbe a dire che non è possibile? Io l’ho pagata in anticipo, ho comprato tutto il materiale. Mi sta piantando in asso perché ha trovato qualcuno che la paga di più, per caso?”
Ci fu di nuovo una sofferta pausa, infine Nielsen si limitò a rispondere: “Mi dispiace davvero tanto, signore, ma temo di non poter finire quel lavoro. Mi faccia sapere dove devo mandarle i soldi.” Aveva uno strano tono cauto, come se ci fosse qualcosa che in qualche modo lo impensieriva.
Ehi, aspetti un momento...” cominciò Donovan, ma gli rispose solo il segnale di linea libera.
Imprecando, chiuse la comunicazione. “Tenuta del cazzo,” ringhiò fra i denti, “solo problemi. E la fottuta banca non ci metterà un attimo a riprendersi indietro tutto, se non sarà pronta in tempo.”
Tornò al monitor, sul quale stavano ancora scorrendo le immagini di una monumentale villa antica, immersa in una vegetazione lussureggiante in cui si distinguevano palme, buganvillee ed enormi frangipani coperti di fiori bianchi e gialli. Il cielo era di un azzurro perfetto, punteggiato qua e là di esili nubi candide. All’orizzonte, dietro le alture coperte di vegetazione, correva la striscia verde e turchese del mare.
Emise un sospiro a metà tra lo sconsolato e l’infastidito. Una tenuta magnifica, in un posto da sogno, comprata praticamente per quattro soldi. Acri e acri di terreno, su cui il progetto prevedeva la realizzazione di due piscine, campi da tennis e anche un bel campo da golf. Una villa immensa, a due piani, tutta in pietra, risalente all’epoca della colonizzazione danese. Varie costruzioni satelliti, nelle quali avrebbero trovato la loro collocazione bungalow, sale da cerimonia, palestre e addirittura una spa.
Tutto questo, naturalmente, a patto che un’impresa edile portasse a termine i primi fondamentali lavori.
Lanciò un’occhiata velenosa al telefono, come se dall’altra parte del filo il signor Nielsen avesse potuto vederla e sentirsi in colpa: arredatori d’interni, garden designer, camerieri, animatori, istruttori, un maître di sala, due chef e persino un sommelier parigino erano in attesa di mettersi in moto, come ruote di un grande ingranaggio, ma se non partiva la prima delle rotelle, ovvero i lavori in muratura, tutte le altre erano destinate a rimanere desolatamente ferme.
Si alzò dalla scrivania con un gesto brusco, spingendo indietro la sedia con tale forza che essa sbatté contro lo schedario, producendo il rimbombo cavernoso di un contenitore desolatamente vuoto. Le fottute rotelle dovevano cominciare a girare, e in fretta anche, perché se no la banca si sarebbe ripresa tutto il finanziamento che gli aveva mollato, con tanto di interessi.

Dalla terrazza panoramica del ristorante, James Donovan lanciò uno sguardo all’oceano, che a quell’ora cominciava a farsi di un blu-grigio scuro sotto un cielo color cobalto, quindi tolse l’orchidea ornamentale dal suo Mai Tai e la lasciò cadere nel portacenere, dove si trovavano già tre mozziconi di Lucky Strike senza filtro. Fatto questo, imboccò la cannuccia e sorbì una buona metà del drink.
Lo riappoggiò sul tavolo con una smorfia di disgusto. “Troppa mandorla,” sentenziò, “sembra di bere l’orzata di mia nonna.”
L’uomo che sedeva di fronte a lui bevve un sorso del proprio drink, un Blue Angel che sembrava uscito dal laboratorio di uno scienziato pazzo, quindi rispose: “Avresti dovuto fare il barman, invece dell’imprenditore.”
Donovan aggrottò le sopracciglia e rivolse all’amico uno sguardo torvo. “Che cosa vorresti dire?”
L’altro alzò le spalle. “Non è che ultimamente ti sia andata molto bene, no?”
Il primo fece un sorrisetto di superiorità. “Le cose stanno cambiando.”
Davvero?”
E se ti dicessi che ho messo le mani su una tenuta ai Caraibi?”
Coi prezzi che hanno? È un investimento che non consiglierei nemmeno a un petroliere arabo.”
Donovan alzò le spalle come se avesse già sentito quelle obiezioni decine di volte e le considerasse dalla prima all’ultima prive di valore. Tirò fuori il telefonino e aprì la galleria delle foto, quindi girò l’apparecchio con lo schermo verso l’amico. “Guarda qui.”
L’altro emise un fischio di meraviglia.
Pagata meno della villetta di mia zia a Fort Lauderdale.”
Stai scherzando?”
Donovan scosse la testa e rispose: “Praticamente regalata. Potevo lasciarmela scappare? Adesso la sistemo, ci faccio un resort da ricchi e sto ad aspettare che i soldi mi piovano in mano.” Fece una pausa, poi precisò: “Bevendo Mai Tai decenti, finalmente.” Rivolse uno sguardo di disapprovazione al proprio drink e lo finì quasi con l’aria di fargli un favore, poi spinse lontano il bicchiere vuoto e si accese una sigaretta.
Si voltò di nuovo verso l’oceano, che a quel punto era diventato una nera distesa d’ossidiana, rischiarata qua e là dai riflessi delle luci dei ristoranti, ed emise un sospiro di soddisfazione. “Basta con le casette da ristrutturare e gli all you can eat finti giapponesi,” disse con aria sognante, “questa volta faccio il colpo grosso, questa volta mi sistemo.”
Beh, amico, sono contento per te,” rispose l’altro. Finì a sua volta il drink e alzò il braccio per chiamare la cameriera. “Spero che mi inviterai a fare le vacanze là, qualche volta.”
Puoi scommetterci.”
Gratis?”
Certo.” Fece una risatina. “Dovrai pagarti solo le donne. Quelle non te le passo io, altrimenti vado in bancarotta.”
A quel punto, squillò il telefono di Donovan. Ancora immerso in immagini di sogno, questi accettò la chiamata senza nemmeno preoccuparsi di sapere da chi provenisse.
Pronto?” disse in tono professionale.
Dall’altra parte una profonda voce maschile, sicuramente di un nero, con l’accento delle isole chiese: “Il signor James Donovan?”
Sono io.”
Ecco… sono Franklin, della Franklin and Brown. Telefonavo per quella proposta che mi ha fatto l’altro giorno.”
Donovan annuì. “Certo. Quando potete cominciare? Non ho molto tempo.”
Ci fu un lungo silenzio, quindi la voce disse: “Ecco, signor Donovan, veramente chiamavo per dirle che non possiamo accettare.”
L’imprenditore aggrottò le sopracciglia. “Cosa? Ma siete l’impresa edile più grande di St. John o no?”
Sì, beh… è che ultimamente abbiamo qualche problema con un lavoro per cui siamo in ritardo. Pagato in anticipo, capisce? Dobbiamo assolutamente finirlo in tempo e tutti gli uomini mi servono lì.”
Donovan si guardò intorno furente, come per sorprendere il responsabile di tutto quanto seduto a un tavolo del ristorante intento a godersi lo spettacolo. Alla fine rivolse un’occhiata truce anche sull’amico, che si limitò a stringersi nelle spalle.
Egli rivolse allora nuovamente l’attenzione al telefono e in tono inquisitorio minacciò: “Devo far venire una squadra dal Continente, è questo che vuole?”
Lapidaria, giunse la risposta: “Le consiglio di farlo, se ha intenzione di fare dei lavori a Christineberg.”
Cosa? Ma perché? Io la pago una volta e mezzo il pattuito, se necessario, la pago il doppio!”
Ci fu una pausa che accese nel cuore di Donovan una fiammella di speranza, ma subito dopo arrivò una doccia fredda a estinguerla brutalmente: “No, mi dispiace. Temo di non poter proprio accettare.”
Mi può dire il perché, almeno?”
Gliel’ho già detto: dobbiamo portare a termine un lavoro e tutti gli uomini mi servono in quel cantiere.”
Ma il lavoro sapeva di doverlo portare a termine anche quando l’ho chiamata due giorni fa, o se n’è accorto ieri?”
Seguì un silenzio imbarazzato.
Allora?”
Mi dispiace, signor Donovan, proprio non possiamo.”
La comunicazione si interruppe.
Ma vaffanculo!” imprecò l’imprenditore con sentimento, facendo girare qualcuno degli avventori. “Vaffanculo, mi capita il colpo grosso, le banche mi mollano i soldi e rischio di perdere tutto perché non trovo degli stronzi che vogliano andare a fare i lavori là dentro. Li pago il doppio, gli scarrozzo là tutto il materiale, a momenti gli faccio anche i pompini, e loro niente! E non si capisce per quale cazzo di motivo.”
Qualche tuo concorrente può averli pagati per metterti i bastoni fra le ruote?” propose l’amico.
E che ne so. La tenuta era in vendita, se qualcuno la voleva poteva anche farsi avanti prima di me.”
Magari aspetta che tu te lo prenda in quel posto per comprarla da te a un prezzo ancora più basso.”
Donovan strinse i denti e incupì ulteriormente lo sguardo, quindi ringhiò: “Lo stronzo che mi sta addosso non potrà mica essersi pagato tutte le imprese edili della Florida, dico bene?”

La prima cosa che Donovan fece il mattino dopo fu farsi dare la lista di tutte le ditte di costruzioni di Miami e scorrerla attentamente. Ne trovò una che apparteneva a un certo Borowicz e subito visualizzò un tizio grande, grosso e corpulento, con il casco giallo da cantiere e il doppiometro che gli spuntava dalla tasca posteriore dei pantaloni.
Compose il numero di telefono associato al nome.
Borowicz Costruzioni,” annunciò semplicemente una voce dall’altra parte del filo.
Senta, qui è Donovan, della Donovan Enterprises. Lavorate anche in trasferta?”
Anche al Polo Nord, basta che ci mettiamo d’accordo sulla tariffa.”
Proprio quello che volevo sentire. Possiamo incontrarci?”
Venga in cantiere.” Seguì l’indirizzo.
Va bene fra un’ora, signor Borowicz?”
Mi chiami Len. E ora scusi, ma ho da fare.”
Donovan chiuse la comunicazione ed emise un sospiro di sollievo: finalmente un tipo come piaceva a lui, pragmatico, spiccio e di poche parole. Era stato perfettamente esplicito: il problema della trasferta era solo il prezzo, niente giri di parole, niente allusioni, niente silenzi lasciati a penzolare come calzini stesi per far sì che fosse l’interlocutore a dire le cose come stavano.
Niente stronzate, per riassumere.
Controllò la posta sul computer e vide che c’era una mail della banca. Con modalità decisamente opposte a quelle del signore con cui aveva appena conferito, il direttore gli chiedeva come stessero procedendo i lavori.
Giusto alla fine, quasi tra un convenevole e l’altro, saltava fuori la storia del tempo che stava per scadere. Qualcosa del tipo: nel malaugurato caso che… ci vedremo costretti a…
Il tutto naturalmente spacciato come l’Ineluttabile, al quale la banca si sarebbe giocoforza dovuta piegare.
A mezza voce, Donovan ghignò: “Stavolta i miei soldi non te li becchi, stronzo.”
Che poi erano i suoi, di soldi, o per meglio dire della banca, ma in ogni caso adesso servivano a lui e non aveva la minima intenzione di restituirli.
Si allungò sullo schienale della sedia malandata, incrociò le braccia dietro la testa e meditò se nel lasso di tempo che mancava al colloquio con Borowicz avrebbe fatto in tempo a mandare a prendere caffè e ciambelle dal negozio all’angolo.
Prima il dovere,” si impose, e compose il numero dell’architetto, per portarlo con sé al cantiere.

Borowicz era un po’ meno peloso di un orso, ma probabilmente aveva le braccia più grosse e quando strinse la mano a Donovan gli fece scrocchiare tutte le ossa.
Di che lavoro si tratta?” chiese senza preamboli. Si tolse il casco giallo, rivelando capelli brizzolati rasati quasi a zero.
L’imprenditore si guardò intorno: erano nel mezzo di un cantiere in piena attività, con escavatori che rombavano a poca distanza, betoniere che impastavano cemento, martelli pneumatici che sgretolavano muri e uomini che si urlavano l’uno con l’altro ordini e indicazioni. “Non c’è un posto più tranquillo?” chiese.
L’altro lo fissò come se messo di fronte a un mucchio di neve gli avesse chiesto se per caso non c’era qualcosa di più bianco, tuttavia disse: “Andiamo nel mio ufficio.” Senza attendere risposta si incamminò verso una baracca di prefabbricato collocata un po’ in disparte, accanto a una fila di cessi chimici di plastica blu e gialla.
Una volta che furono dentro, Borowicz ripeté: “Allora, di che si tratta?”
Donovan scambiò un’occhiata con l’architetto, poi rispose: “Ristrutturazioni. Consolidamento di una costruzione antica, alcune modifiche della planimetria.” Gli porse il tablet che l’architetto si era portato dietro. “Le immagini sono tutte qui.”
L’uomo ignorò lo strumento e chiese: “Antica, quanto?”
Seconda metà del settecento.”
Borowicz emise una specie di grugnito di disappunto, poi prese a brontolare: “Muri in sasso, malta che non tiene più, travi tarlate. Un casino.” Si passò la mano sulla testa con fare pensoso, quindi chiese: “Dove sarebbe, questo posto?”
St. John.”
Mai sentito. Sarebbe una specie di convento?”
No, veramente parlavo dell’isola di St. John.”
L’uomo aggrottò le sopracciglia e per qualche secondo sogguardò sia lui che l’architetto, come temendo uno scherzo di cattivo gusto. Infine in tono asciutto rispose: “Mai sentita.”
Isole vergini americane. Caraibi.”
Borowicz si rimise in testa il casco e raddrizzò le spalle, quindi incrociò le braccia poderose sul petto. Si vedeva che era assorto in calcoli. “Le verrà a costare qualcosa,” sentenziò infine.
Donovan annuì. “Lo so, ma ho bisogno che il lavoro sia finito prima possibile.”
E perché non ha contattato una ditta locale?” Il tono aveva una vaga nota di diffidenza.
L’imprenditore, già ben disposto dopo la telefonata e ancora più positivamente colpito dai modi determinati e rudi dell’uomo, aveva pensato sulle prime di dirgli tutta la verità, ovvero che la sua era la terza impresa che interpellavano e che le altre due si erano praticamente volatilizzate senza dare spiegazioni, ma un’occhiata dell’architetto lo convinse a rispondere: “Vogliamo che il lavoro sia fatto come si deve, signor Borowicz, lei mi capisce.”
Le ho già detto che può chiamarmi Len.”
Solo che lei mi promette di chiamarmi James. Allora, accetta?”
Fammi fare due conti, James.”
Donovan appoggiò premurosamente il tablet sul piano di una scrivania ingombra di carte e cominciò a far scorrere le immagini. “Questa è la villa principale, vede?” disse mostrandogli un enorme edificio nello stile del tardo settecento, circondato da vegetazione. Seguirono poi foto di edifici più modesti, alcuni lunghi e stretti, altri a pianta quadrata, infine uno grande, a più piani. “Questa era la distilleria del rum,” intervenne l’architetto.
Borowicz lo fissò aggrottando le sopracciglia.
Il distillatore a piatti c’è ancora,” proseguì l’altro, “vorremmo valorizzarlo, capisce?”
Per tutta risposta, Len si rivolse all’imprenditore e disse: “James, io sono all’antica. Fammi avere i progetti su carta e poi torna qui domani, così possiamo discutere i particolari della faccenda.”
Pensi di accettare?”
Se ti andrà bene il prezzo che ti proporrò, non vedo perché non dovrei. Uomini ne ho a sufficienza.”
Senza riuscire a trattenere un sorriso, Donovan rispose: “Senza esagerazione, Len, mi salvi la vita. Saremo sempre in contatto via videochiamata, se avrai bisogno, e in ogni caso io verrò a vedere come stanno andando le cose una volta alla settimana.”
Ne parliamo domani, James.”

Donovan si allontanò dal cantiere praticamente fluttuando a mezz’aria. Si accese subito una sigaretta e per un po’ si limitò a passeggiare con l’aria di chi ha appena saputo che la risonanza con cui gli avevano diagnosticato una grave malattia apparteneva in realtà a qualcun altro.
Stasera andiamo a cena,” disse all’architetto, in un impeto di amore universale.
Questi lo fissò serio. “Non preferisci andarci con la tua donna?”
Donovan finì la sigaretta e fece un gesto sprezzante, che utilizzò per buttare anche il mozzicone, quindi rispose: “No, macché donna. Abbiamo un sacco di faccende da discutere, tu ed io.”
Del tipo?”
L’altro si accese la seconda sigaretta, aspirò una lunga boccata ed esalando il fumo rispose: “Faccende di lavoro. La ristrutturazione partirà a breve, dobbiamo andare sul posto, avviare tutto quanto. Accertarci che il tuo distillatore non finisca in una discarica come ferro vecchio.”
Veramente sarebbe di rame.”
Allora che non finisca rivenduto a peso.”
Nel frattempo erano arrivati alla macchina. Donovan fece scattare la sicura, quindi si sedette al posto di guida e chiese: “Dove ti va di andare? Non giapponese, però, ormai mi dà la nausea.”
L’architetto alzò le spalle. “Il pesce crudo va bene per le foche. Devo chiamare anche Austin?”
Al pensiero del gelido collaboratore, Donovan si rabbuiò. Scosse appena la testa e rispose: “No, lascia stare. Non penso che darebbe chissà che contributo alla serata. Lasciamolo a occuparsi dei casini che abbiamo scoperto nella contabilità della Steakhouse di Rodriguez.” Aspirò di nuovo dalla sigaretta e mise in moto, quindi, quasi in tono di giustificazione, soggiunse: “È come il signor Wolf di Pulp Fiction: risolve problemi, ma con quella sua fottuta mania della precisione, mi sembrerebbe di essere a cena con un professore che alla fine mi deve dare il voto.”
Ok, lasciamolo perdere, allora.”

§

Il caldo umido dei Caraibi faceva appiccicare i vestiti alla pelle, il sole scottava. Il cancello di Christineberg si aprì cigolando sui cardini e rivelò un giardino ormai incolto, ma ricco di piante cariche di fiori. Vi era uno spiazzo lastricato un po’ sconnesso, con fili d’erba che spuntavano tra le pietre, al centro del quale si trovava una fontana secca, che un rampicante stava pian piano inglobando. Alberi solenni crescevano tutt’intorno.
Oltre la pavimentazione si ergeva la monumentale dimora padronale. La facciata bianca, che l’umidità aveva spruzzato nelle zone più ombrose di muffa grigiastra, era chiazzata qua e là del porpora acceso delle buganvillee. Gli infissi conservavano ancora qualcosa della vecchia vernice azzurra.
Vialetti parzialmente invasi dalle erbacce scomparivano nella vegetazione.
Vi era un silenzio assorto, rotto soltanto da un vago cinguettare d’uccelli lontano.
Che te ne pare?” esclamò Donovan. “È o non è una bellezza?”
Come sua abitudine, Borowicz incrociò le braccia sul petto e dedicò alla costruzione una lunga occhiata dal basso verso l’alto. “Sembra solida,” proferì alla fine.
Fino a qualche anno fa era un museo.”
Un museo? Qui?” L’uomo si guardò intorno lasciando significativamente scorrere lo sguardo sulla natura apparentemente incontaminata che li circondava.
Sì, roba sulle antiche piantagioni. Sembra di essere in culo al mondo, ma hai visto anche tu quant’è vicina Cruz Bay: i turisti delle navi da crociera ci venivano a frotte, qualcuno addirittura anche a piedi, facendo trekking.”
Perché adesso non ci vengono più?”
Donovan alzò le spalle con noncuranza, quindi rispose: “Il museo ha chiuso.”
Borowicz di nuovo si guardò intorno, poi si terse con un fazzoletto il sudore che gli stava già rigando la faccia e domandò: “Perché ha chiuso?”
E che ne so? Si vede che nonostante tutto non rendeva.”
Perché l’hanno svenduta per due soldi, invece di farci il resort che vuoi fare tu?”
Donovan, che cominciava a spazientirsi di fronte a tutte quelle domande, in tono sbrigativo rispose: “Che ti frega, Len? Adesso è mia, e tra sei mesi si trasformerà in un’autentica miniera d’oro.”
Non che siano fatti miei,” proseguì comunque l’uomo, “perlomeno finché mi paghi quanto abbiamo concordato, ma non è che su questo posto c’è un’ipoteca?”
L’imprenditore fece un sorrisetto di superiorità e rispose: “Di muratura potrò anche non sapere niente, ma sono anni che mi occupo di affari. Ho un avvocato, qui, che ha curato tutta la faccenda per me. La proprietà è a posto.”
Hai fatto fare dei rilevamenti geologici? Magari scopri che te l’hanno praticamente regalata perché è su un terreno instabile.”
È tutto a posto, Len. Ho avuto una botta di culo, tutto qui. Potrò avere una botta di culo anch’io nella vita, o no?”
Senza attendere risposta, Donovan si incamminò verso il portone d’ingresso della villa, quindi trasse di tasca un mazzo di chiavi, ne scelse una e la infilò nella toppa. La serratura scattò docilmente e l’anta si schiuse. Nello stesso momento, Borowicz si girò di scatto e disse: “Chi c’è?”
Dove?” chiese Donovan guardandosi intorno. “Di chi stai parlando?” Lanciò un’occhiata ai due furgoni che aspettavano al cancello, ma nessuno degli uomini di Len sembrava intenzionato ad abbandonare l’aria condizionata in favore dei cento e passa gradi[1] dell’esterno.
Nel frattempo, l’altro continuava a gettare tutt’intorno sguardi diffidenti. Dopo un po’, una specie di pappagallo colorato si levò in volo con uno strido, facendo sobbalzare i due. “Ah, è quello,” brontolò l’uomo, seguendo con lo sguardo l’uccello che si allontanava. “Per un momento mi era quasi sembrato di sentire un canto. Sai, tipo casalinga che rassetta: hmmm-hmm-hmmm...”
Donovan fece un gesto noncurante e rispose: “Quei pappagalli del cazzo imitano tutto. Una volta in un ristorante ce n’era uno che riusciva a fare l’imitazione del motorino d’avviamento così bene che regolarmente i clienti si fiondavano fuori convinti che qualcuno gli stesse rubando la macchina.”
Entrarono nella villa.
Li accolse un atrio ombroso, fresco rispetto alla calura esterna, illuminato da alti finestroni velati da lunghe tende chiare. Tutti i mobili erano coperti da teli bianchi, nell’aria stagnava un odore di chiuso dietro il quale si coglieva un vago sentore di muffa. Sul pavimento impolverato si vedevano chiaramente file di impronte che percorrevano in tutti i sensi il salone.
Sono le mie, di quando sono stato qui con l’architetto,” chiarì Donovan, notando lo sguardo diffidente di Len.
L’uomo si avvicinò a una parete, la percosse con le nocche, traendone un suono sordo. Si spostò di qualche passo e ripeté l’operazione: di nuovo un suono smorzato, che sembrava uscire quasi con fatica.
Tutti muri pieni,” constatò Borowicz, “di pietra, spessi almeno due piedi[2]. Non c’è una crepa.”
Che vuol dire?”
Beh, James, che questo posto è più solido di Fort Knox. Com’è il piano di sopra?”
Stessa cosa.”
La bella notizia è che i lavori di consolidamento si potranno ridurre al minimo, quella brutta è che con muri del genere, per fare le modifiche alla planimetria che mi chiedi dovremo cagare lamette da barba di traverso.”

§

Donovan si sedette soddisfatto davanti al computer e attivò la videochiamata. Sul monitor comparve la faccia di Borowicz, rigata di sudore e dall’espressione stranamente cupa.
Tutto bene, Len?” s’informò cauto.
L’altro rispose con un grugnito inintelligibile.
Qualche problema?” chiese allora Donovan, augurandosi che la risposta fosse ‘no’, ma certo in cuor suo che sarebbe stata un desolato ‘sì’.
Diciamo che i lavori non sono cominciati nel migliore dei modi,” brontolò Borowicz. “Il martello pneumatico è andato in corto e ha preso fuoco.”
L’imprenditore rifletté velocemente: che cosa significava quella frase? Stava cercando di farsene pagare uno nuovo? Era un modo per alzare la cifra che avevano concordato? Qualcosa del tipo: guarda in che condizioni ci fai lavorare, queste cose non erano previste, ci devi dare di più.
Significa che i lavori sono fermi?” s’informò cauto.
Significa che era un martello pneumatico nuovo, che mi era costato più di duemila dollari, e adesso è da buttare.”
Non si può aggiustare?”
No.”
I due rimasero a guardarsi attraverso il monitor.
Alla fine, Donovan si risolse a chiedere: “E quindi?”
Borowicz alzò le spalle. “E quindi niente, volevo solo farti sapere che ci è capitato questo incidente, per cui i lavori andranno un po’ a rilento, perlomeno finché non mi faccio arrivare un altro martello pneumatico.”
L’imprenditore fece un gesto come per dire che non importava, quindi rispose: “Ok, dai, non preoccuparti. L’importante è che i lavori sono partiti, poi se hai bisogno di un paio di giorni in più non mi metterò certo a starti col fiato sul collo.”
Ho visto che il frigo funziona, James, ti scoccia se aggiungiamo al totale qualche birra?”
Assolutamente no.”

§

La suoneria del cellulare fece quasi sussultare Donovan e suscitò una smorfia di disappunto sul volto della sua accompagnatrice.
L’imprenditore, che finalmente era riuscito nell’impresa di accaparrarsi un tavolo per due in uno dei ristoranti più esclusivi della costa e portarci la sua amante, fu tentato di prendere il telefonino e buttarlo a mare, poi si accorse che quella in arrivo era una videochiamata di Borowicz.
Scusa cara,” disse sbrigativo, quindi sgattaiolò via dalla terrazza panoramica.
Quando fu a distanza di sicurezza, accettò la chiamata. Len aveva la faccia di chi si è appena visto arrivare in ditta un’ispezione del fisco. Alle sue spalle c’era una parete di mattonelle bianche, dall’alto proveniva il chiarore freddo di luci al neon. Passò un tizio vestito di verde, con una mascherina che gli copriva la metà inferiore della faccia.
Ma dove cazzo sei?” chiese Donovan.
All’ospedale. Bobby si è fatto un brutto taglio. Per fortuna che è successo al di fuori dell’orario di lavoro, altrimenti sarebbe stato un casino.”
Come ha fatto?”
L’altro scosse la testa. “Hai presente le birre? Ecco, una lattina è praticamente esplosa e l’ha tagliato fino all’osso.”
Esplosa? Che cazzo significa che è esplosa?”
Borowicz aggrottò le sopracciglia e in tono duro replicò: “Senti, è scoppiata, ok? Si è aperta in due come una fottuta anguria e visto che Bobby ce l’aveva in mano, gli si è praticamente piantata nel braccio.”
Non è che l’aveva messa in freezer, per caso?”
Macché freezer! I miei ragazzi non sono mica dei cretini. Io dico che...”
In quel momento, alle spalle di Len una voce chiese: “Il signore del cantiere?”
L’uomo si girò. “Qui!” Poi, rivolto al telefonino: “Scusa, James, devo lasciarti. Ti terrò informato.”
Lo schermo si fece nero.
Donovan rimase a guardare il telefonino inerte per qualche secondo, poi se lo rimise in tasca e tornò al tavolo. “Scusami, cara,” disse, assorto in pensieri tutt’altro che piacevoli.
Oh, non fa niente,” rispose lei, con il tipico tono che significava esattamente l’opposto.

§

La terza telefonata arrivò nel cuore della notte. “James, qui è un casino!” esordì Borowicz. Donovan notò che aveva una voce concitata, tesa, decisamente diversa da quella profonda e sicura che ricordava. Il suo atteggiamento, che normalmente gli conferiva la pacatezza di chi è consapevole di avere ogni situazione saldamente in mano, era stranamente guardingo.
L’uomo si trovava davanti alla casa padronale, nel cerchio di luce di un lampione. In sottofondo si udivano il rumore dei furgoni in moto e il tramestio di attrezzature buttate alla rinfusa nei cassoni. L’alogeno sotto il quale sostava Borowicz ebbe un’oscillazione ed egli alzò gli occhi in quella direzione, fissando il faro come se da un momento all’altro avesse potuto staccarsi e cadergli in testa.
È un casino,” ripeté, tergendosi la fronte madida “Qui c’è qualcosa, James.”
Donovan aggrottò le sopracciglia. “In che senso, qualcosa?”
Non lo so,” rispose rapido Borowicz. “Qualcosa, qualcuno. Qui succedono cose che non hanno spiegazione.” Si voltò da una parte e a voce più alta disse: “Forza con quella roba, voialtri!”
L’imprenditore si sentì come un condannato all’impiccagione che vede il boia afferrare la leva della botola. “Aspetta!” boccheggiò. “Aspetta un attimo, almeno. Noi avevamo un accordo, se te ne vai adesso mi rovini!”
Len scosse la testa. “Niente di personale, amico, ma qui dentro non ci rimango un minuto in più del necessario. Per quello che siamo riusciti a fare puoi farmi avere il bonifico direttamente sul mio conto, io di questa roba non voglio più sapere niente.”
Da fuori campo provenne una voce: “Capo, siamo pronti!”
Donovan strinse il telefonino così forte che la mano gli rimandò una fitta di dolore, quindi, parlando più in fretta che poteva, disse: “Aspetta un attimo, cazzo. Un fottuto attimo me lo potrai concedere, no?” Fissò negli occhi Len, poi più lentamente, aggiunse: “Mi stai rovinando, per colpa tua la banca mi ritirerà il finanziamento. Direi che quel cazzo di attimo me lo devi, no?”
Sputa il rospo,” brontolò Borowicz.
Beh, almeno dimmi cosa sono queste cose che non si spiegano, no? Fammi capire che cazzo sta succedendo.”
L’altro gli rivolse un ghigno che avrebbe voluto essere sarcastico, ma sembrava piuttosto un rictus tetanico. Per tutta risposta disse: “Io te l’avevo detto che in questo posto c’era qualcosa che non andava. Te l’avevo detto, ma tu niente: è l’affare della vita, mi sistemo. Ti sistemi al cimitero, se non lasci perdere questa baracca maledetta prima di subito.”
Sullo stesso tono, Donovan replicò: “Puoi essere più chiaro? Così saprò cosa dire ai miei avvocati, quando li manderò a strapparti la pelle del culo.”
L’altro scosse la testa. “Non provarci, amico. Tu non mi hai detto che già due imprese avevano rifiutato il lavoro, quindi al massimo saranno i miei avvocati che ti si inculeranno con dei cactus.”
L’imprenditore abbassò immediatamente la cresta che aveva con tanto vigore alzato: data la situazione, una rogna legale era l’ultima cosa che gli serviva. In tono decisamente più conciliante ripeté: “Dimmi cos’è successo.”
Una voce di donna che canta, porte che si aprono da sole, oggetti spostati all’interno di stanze chiuse a chiave. In certi punti viene così freddo che i vetri si ghiacciano e agli uomini vengono i brividi come se avessero la febbre, luci che si accendono e si spengono da sole, incidenti inspiegabili, pareti che il giorno prima sono intatte e il giorno dopo sono coperte di graffiti dal pavimento al soffitto. Ti faccio notare che parliamo di muri alti dodici piedi, senza nemmeno una sedia a disposizione.”
Che genere di graffiti?”
Che ne so? Sembrano dei graffi.” Borowicz si voltò verso il portone della villa, come se esso fosse sul punto di spalancarsi e lasciar uscire qualcosa di terribile, quindi frettolosamente disse: “Io e i ragazzi non restiamo qui un minuto di più, James, e se sei intelligente non ci metti mai più piede neanche tu.”
Aspetta! Saranno dei balordi, della gente in vena di scherzi! Ti fai spaventare da un branco di idioti che vogliono divertirsi alle tue spalle?”
Len scosse la testa. “Questi non sono scherzi,” asserì categorico. “Queste sono cose che non hanno spiegazione logica. In vent’anni di lavoro io non ho mai visto niente del genere, e non voglio mai più rivederlo.”
Len, aspetta! Aspetta, ti pago il doppio, ti...”
La comunicazione si interruppe.
Merda!” imprecò Donovan con sentimento. Si trattenne dal buttare il telefonino contro un muro solo perché l’aveva appena comprato e gli era costato una fortuna. “Merda,” ripeté a voce più bassa.
Dalla stanza attigua provenne una voce femminile: “Hai detto qualcosa, caro?”
Meccanicamente, l’uomo rispose: “No, tesoro, torna pure a dormire.” Si alzò e si infilò la vestaglia di seta col drago sulla schiena, poi aprì la porta finestra della camera e si spostò sul terrazzo. Spirava una brezza leggera, che faceva ondeggiare appena il bucato che sua moglie aveva steso in un angolo. Se aguzzava la vista, riusciva a scorgere in fondo alla strada l’ultimo ristorante finto giapponese che aveva avviato. L’insegna gialla e rossa, con ideogrammi scelti a caso, era inconfondibile.
Emise un sospiro. Gli all you can eat pseudo-giapponesi erano facili, praticamente bastava assumere due o tre tizi con gli occhi a mandorla, decorare una sala con dei bambù e della roba vagamente minimal chic, tagliare a fette del pesce crudo e il gioco era fatto. Chiaramente rendevano in proporzione alla fatica fatta per avviarli, ovvero quasi niente, e la concorrenza dei cinesi era spietata.
Poi gli era capitata sottomano quella tenuta alle Isole Vergini. Praticamente si era sentito come se Dio avesse voluto ripagarlo di tutti gli anni che aveva passato a contendersi ventagli fiorati e filetti di salmone con frotte di musi gialli inveleniti.
Quello era il colpo grosso, era il jackpot nel più grande casinò di Las Vegas. Era il miracolo: una tenuta da divo di Hollywood costata poco più di una villetta a schiera, potenzialmente in grado di decuplicare, anzi centuplicare il suo valore nell’arco di cinque anni.
E poi, miracolo sul miracolo, la banca gli aveva concesso un finanziamento per avviare l’attività. A tempo, certo, ma non era il caso di andare troppo per il sottile. Il mucchio di soldi comunque era arrivato.
Peccato che ormai il tempo stesse per scadere, e il mucchio di soldi rischiasse di volatilizzarsi con la stessa facilità con cui era arrivato.
Si appoggiò al parapetto, di nuovo cercò con lo sguardo l’all you can eat con l’insegna gialla e rossa. Dopo che l’ebbe individuata restò per un po’ a contemplarla, poi tornò sui suoi passi e raggiunse nuovamente il letto.

Con una sorta di perfido sesto senso, il mattino dopo lo chiamò la banca, nella persona di una stretta collaboratrice del direttore.
Fu un formale scambio di convenevoli, più che altro, ma quando la comunicazione si chiuse, l’uomo fu certo di una cosa: il suo tempo stava per scadere.
Fece un rapido calcolo: i suoi soldi li aveva spesi tutti per comprare la tenuta. Di quelli che gli aveva dato la banca, una parte se n’era già andata per pagare il materiale, gli arredi e il lavoro di Borowicz. Il che significava che per restituire il prestito alla banca avrebbe dovuto chiedere un altro prestito a una seconda banca, ammesso che qualcuna glielo concedesse, oppure vendersi la casa.
O magari anche rivendersi la tenuta, se trovava qualcuno più allocco di lui a cui rifilarla.
Gli venne in mente un vecchio film in cui un tizio comprava un demonio chiuso in una bottiglia e poteva disfarsene solo rivendendolo a un prezzo minore di quello a cui l’aveva comprato, solo che ormai la bottiglia era già stata comprata e venduta così tante volte che la moneta più piccola in corso nel suo paese era già troppo…
Emise un sospiro, quindi scorse la rubrica del suo telefono e si fermò su un nominativo che recitava: ‘Austin – Problemi.’
Fece partire la chiamata.







[1] Gradi Fahrenheit, visto che stiamo parlando di americani. Corrispondono a circa 37,5 gradi Celsius.
[2] Un piede corrisponde a circa 30 cm.

   
 
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