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Autore: Claire DeLune    27/01/2019    1 recensioni
[Crossover DF-Eldarya-Howl's Moving Castle]
Il Q.G. aveva bisogno di cibo, le riserve iniziavano a scarseggiare e ancora ad Eldarya non si era trovato un modo per sostenere un'agricoltura stabile e autoctona. Per sopperire alle mancanze in fretta, Miiko decise di inviare nel nostro mondo due dei suoi migliori collaboratori, i capi della Guardia dell'Ombra, Nevra, e della Guardia dell'Assenzio, Ezarel. Ma in realtà era solo un pretesto, il vero motivo per cui li aveva mandati in avanscoperta sulla Terra era per ritrovare Valkyon e Leiftan, misteriosamente scomparsi durante l’ennesima missione di rifornimento.
Tuttavia, qualcosa è andato storto: il cerchio di funghi ha chiuso il passaggio da una dimensione a un'altra prima del previsto. I due, bloccati proprio in quel mondo da cui tempo addietro erano scappati, dovranno ora trovare il modo di tornare a casa, e per farlo dovranno affidarsi ad una giovane apprendista strega e a un mezzo-vampiro aberrante nei confronti della stirpe da cui discende, e dei vampiri stessi.
Non sarà affatto semplice, ma nella Boutique 'J' tutto è possibile, anche l'impossibile.
Genere: Avventura, Fantasy, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Castiel, Chani, Dolcetta, Nuovo personaggio, Sorpresa
Note: Cross-over, OOC, Otherverse | Avvertimenti: nessuno
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2.
In cui Nilsa entra in un castello volante
 
 Voci.
 Voci confuse e lontane si sovrapponevano animosamente l'una sull’altra. Ti erano familiari ma, incapace di riconoscerle, cercasti almeno di carpire il significato di ciò che dicevano, però, per quanto i toni sembrassero accesi e rabbiosi, non riuscivi a distinguere bene le parole, a causa del forte ronzio che ancora riempiva i tuoi timpani come se fossi precipitata in un nido di calabroni.
   «Non se ne parla, non è neanche consapevole di chi sia veramente», un timbro maschile sovrastò tutti gl’altri, non perché fosse particolarmente alto o adirato, bensì per la tonalità piena, voluminosa, calda e a tratti scura con cui si spingeva a note più drammatiche. Era la voce di Castiel.
   «Ci penserò io a formarla, come avrei fatto in ogni caso», rispose una donna.
   «Non c’è tempo!», eruppe una terza voce, «Ci dev’essere un altro modo».
   «Questo è l’unico modo, è il suo destino».
   «Che mucchio di boiate!», s’infiammo il chitarrista, «Mi avevate assicurato che non l’avreste coinvolta».
   «Ti avevo avvertito quando partì la prima volta, che si trovava a un bivio del suo cammino, e che la possibilità che imboccasse la via che strecciasse i vostri fati era assai remota. Di fatti lei è tornata e in breve tempo anche i tuoi poteri si sono incrementati. Non avete scelta, Castiel, è l’Universo a volerlo».
   Ma di cosa stanno parlando?
   «L’Universo…», rise amaro, «Lascia i tuoi discorsetti New Age fuori dalla questione, strega. Ci state privando della libertà, questo è l’unico dato di fatto. La state mettendo in pericolo».
   «È il tuo compito proteggerla, dovresti averlo capito ormai».
   «Non è questo il punto!», alzò il tono, «È… questo corpo».
   «Sei un vampiro, fratello», intervenne Nevra con voce spenta, spossata. Tra tutti era quello che risultava più lontano al tuo udito, ormai riacquistato quasi totalmente, cominciavi anche a sentire i loro movimenti sul parquet scricchiolante, il sibilo dei loro respiri, avvertivi la loro posizione rispetto alla tua. Sapevi di essere stesa non troppo distante da loro, su quello che doveva essere un divano.
   Sentisti il tuo ex aprire bocca, pronto a controbattere, e ti immaginasti alla perfezione anche quale posa avesse assunto, tante erano le volte in cui lo avevi visto perdere le staffe: pugno serrato a mezz’aria, busto protratto in avanti a far ombra sull’avversario per incutergli timore, palpebre spalancate, sopracciglia aggrottate e narici divaricate.
   Tuttavia, non fuoriuscì mai alcuna parola dalla sua bocca, perché fu proprio in quell’istante che apristi gl’occhi e, come essi si riempirono di luce, un bruciore pungente ti afflisse le cornee, obbligandoti a richiudere le palpebre immediatamente, a portarti due dita alla tempia e a premere con forza sul punto da dove scaturiva il dolore pulsante che, ad ogni battito del tuo cuore, si espandeva per tutta la testa tuttora pesante come un macigno, impedendoti di concentrarti a dovere sul senso di quel discorso, di cui ti convincesti esserne il fulcro.
«Si è svegliata», proferì un’altra voce, stavolta nuova, altisonante, rimbombava per tutta la stanza mascherando il punto preciso da cui si originava, interrompendo l’animata conversazione.
«Nilsa!», eruppe quella che doveva essere Madame. In quel momento non eri ancora del tutto lucida, ti accorgesti solo di un paio di braccia smilze, chiaramente femminili, che ti sostenevano per le scapole aiutandoti a metterti a sedere. Avevi avuto l’intuizione giusta, eri accoccolata su di un confortevole sofà in stile liberty, con lo scheletro in legno ziricote9 ricoperto da un’imbottitura verdone.
  L’ottomana era orientata ad est rispetto alla porta d’ingresso, abbastanza vicina al camino da avvertire il calore mite del fuoco accesso sulle guance. Perpendicolare al mobile c’era un minuscolo disimpegno che dava accesso a un salottino da tè, incastrato sotto ad un’areata finestra a doppia anta, e a uno stanzino chiuso, probabilmente un piccolo bagno o uno sgabuzzino.
  Dal lato opposto del salone rispetto al camino, campeggiava una grande tavola da pranzo con cucina a vista, rischiarate dalla luce lunare che penetrava dalla finestra a manca e da quella a mezzaluna sopra la porta. Alla loro destra prendeva vita la tromba delle scale e un’altra stanza.
   La carta da parati era di un tenue giallo a righe verticali che si alternavano tra spesse e sottili, quest’ultime avevano disegnato al centro un motivo floreale, dei fiori di pesco. Il colore chiaro si scontrava amabilmente con gl’infissi scuri del legno a vista, predominante in tutta la casa, e con le piastrelle splendidamente decorate del paraspruzzi del piano cottura.
   Era una casa in stile antico i cui mobili erano chiaramente autentici e tenuti con la massima cura.
   «Come ti senti?», ti domandò Madame, strofinandoti un palmo sulla schiena.
   Ancora ti tenevi il capo con una mano, quando chiedesti: «Cos’è successo?».
   «Sei svenuta, cara, sei rimasta priva di conoscenza per molto tempo».
   Ez ti si piazzò davanti, piegato sulle caviglie, sventolandoti le dita in faccia, «Quante sono queste?».
   Strizzassi un pelo le palpebre, la fitta alla testa non aveva ancora accennato ad attenuarsi, «Due».
   «Unisci i pollici alle altre dita contemporaneamente avanti e indietro un paio di volte».
   Eseguisti.
   «Come ti chiami?».
   «Dimmelo tu come ti chiami», sbuffasti stizzita. Non avevi dimenticato come ti si rivolse in negozio. La tua risposta piccata si guadagnò una sbuffata scherzosa che giungeva da dietro il divano. Castiel.
   «Ha un bel caratterino», gli sussurrò Nevra.
   «Non ne hai idea», ti sembrò di sentirlo sorridere.
   «Ti ho fatto una domanda. Non distrarti», affermò il tizio con i capelli azzurri.
   Sbuffasti, «Nilsa».
   «Dove sei nata?».
   «A Lille10 il 22 dicembre 1995».
   «Come si chiamano i tuoi genitori?».
   «Philip e Lucia».
   «Quanti anni hanno?».
   «Hai finito con questo interrogatorio? Mi stai innervosendo, mi scoppia la testa».
   «Per ora può bastare, Ezarel», Madame lo ringraziò, «Ti va un latte caldo?».
   Annuisti e la donna si alzò in direzione della cucina, ti accasciasti sulle ginocchia, con la fronte tra le mani, fissa a guardare il fuoco che scoppiettava nel camino.
   All’improvviso ebbe uno movimento innaturale e due occhietti vispi ti sorrisero sornioni, «Giornataccia, eh?».
   Raddrizzasti la posizione d’istinto, «Il fuoco ha parlato», la frase uscì in un sibilo così flebile che tu stessa faticasti a sentirlo.
   «E non è l’unica cosa che sappiamo fare».
   Ti alzasti in piedi di colpo, ancora barcollante per le vertigini, ti reggesti a fatica al bracciolo, ridacchiando come una squilibrata, «Tutto questo è assurdo, devo essere diventata pazza».
   «Nilsa…», Castiel ti sostenne per un braccio, ma tu proseguissi imperterrita il tuo soliloquio.
   «Il cosplayer, quello là ha preso fuoco da solo, i tuoi occhi che cambiano colore, e ora il fuoco che parla», elencasti tutto ciò che ti era capitato nell’arco di un pomeriggio indicando i vari soggetti uno ad uno incredula, «Sì, sì, sono impazzita, non c’è altra spiegazione».
   «Cos-cosplayer?!», strepitò il diretto interessato.
   «Guarda il lato positivo, Ezarel, non ha perso la memoria almeno», ridacchiò l’unica altra donna lì presente, porgendoti una tazza fumante, «Miele?».
   «Sì, grazie».
   «È il minimo dopo quello che mi hai fatto passare, lurido figlio di puttana», decretò il moro, seduto sul davanzale della finestra a scrutare la lontana e pallida luna piena, la cui luce gli schiariva maggiormente l’incarnato e le iridi di polvere. Sembrava una statua di cera.
   «Non sei pazza, Nilsa», dichiarò Madame, riaccompagnandoti a sedere sul divano, «Non è frutto della tua immaginazione. È tutto vero. Ezarel è un elfo, Nevra un vampiro, fratello maggiore di Castiel, Calcifer…», indicò il focolaio, «…è il demone del fuoco che si occupa di questa casa ed io sono una maga».
   La guardasti stralunata, «Ma che dice? Non ha senso».
   No, non ce l’aveva. Non aveva il minimo senso ciò che la donna stava confessando, eppure, glielo leggevi negl’occhi, in quegli occhi troppo particolari per essere naturali, che non stava mentendo, non si stava prendendo gioco di te, credeva in ciò che diceva. Erano stramaledettamente sinceri.
   Non facesti in tempo a recepire il messaggio che subito le tue sinapsi fecero un veloce ragionamento, rievocando le immagini di quel pomeriggio da manicomio.
   Castiel.
   I suoi occhi cremisi.
   I canini sporgenti.
   Nevra che lo chiamava fratello.
   Castiel, il tuo primo amore, il ragazzo a cui quattro anni prima avevi concesso la tua prima volta era…, «Un vampiro».
   Tutt’a un tratto ti voltasti nella sua direzione, tremante, e il suo sguardo, fattosi improvvisamente triste, ti freddò. Fece un passo verso di te, tendendo una mano ad accarezzarti la guancia, ma ciò che sentisti fu solo una debole oscillazione d’aria a sfiorarti la gota. Il tuo ex ritrasse la mano come se si fosse scottato e la strinse a pugno lungo il fianco, contrasse la mandibola che per poco non scattò e con un grugnito attraversò la stanza, agguantò un bicchierino di cartone da un ripiano della cucina e corse su per le scale. Se ne andò così, in silenzio, con un’espressione funerea dipinta in viso.
   Non lo avevi mai visto così sofferente, di solito portava una maschera di indifferenza. Una sofferenza che non era esclusivamente emotiva, ma anche fisica.
   Ti abbandonasti sullo schienale del sofà con la tazza di latte stretta al petto, persa, le iridi si smarrivano tra le fiamme nel camino, tra le fiamme di Calcifer, nei suoi occhietti intelligenti e, fissandoli, un’infausta realtà s’insinuò nel tuo animo.
   Mi ha mentito, Calcifer sorrise astuto leggendo i tuoi pensieri attraverso il colore dei tuoi occhi, diventati prima spenti, prosciugati, poi più scuri, duri come ametiste, una lastra di ostilità.
   «Per tutto questo tempo…», bofonchiasti poco prima di scattare in piedi come una furia, scaraventando la tazza sul pavimento, piangendo: «Mi ha ingannato!». La smorfia del demone non poté che allargarsi, era esattamente la reazione che desiderava – più o meno, avresti rischiato di spegnerlo se il latte si fosse rovesciato su di lui.
   T’accasciasti sul parquet carponi sopra ai pezzi di ceramica rotti e gridasti fuori tutta l’afflizione e il dolore che ti aveva cinto il cuore nei rovi, le cui spine tagliavano più di un coltello. Sanguinava, il sangue sgorgava copioso dagli squarci nel tuo cardio, proprio come dai palmi lesionati dai cocci di porcella. Ne sollevasti uno, sul panna freddo spiccava il rosso scarlatto del sangue che ancora fluiva fuori dalle mani.
   Madame urlò, prendendoti per le spalle e trascinandoti nel punto più lontano da Nevra, «Ezarel, trattienilo! È ancora debole, potrebbe non riuscire a resistere al richiamo del sangue».
   È così fu. Proprio com’era successo a Castiel per aver perso il controllo sulla sua emotività, anche le iridi del corvino diventarono dello stesso colore della papalina di un cardinale. Tuttavia, il bagliore che emettevano non era paragonabile a quello del fratello minore, in quelle di Nevra c’era un puro guizzo animalesco, predatore, famelico. Nevra aveva sete.
   I canini, già lievemente appunti di suo, crebbero ulteriormente fino a sporgere oltre il labbro inferiore, e il suo incarnato divenne ancora più terreo.
   Sebbene Nevra mantenesse un aspetto piacevole, con l’eclissi negl’occhi era spaventoso. Era un vampiro.
   Ezarel lo acciuffò da sotto le ascelle, facendo passare le lunghe braccia da dietro in avanti, in modo da portare gli avambracci all’altezza del collo del moro, bloccandogli le articolazioni delle spalle e tirandolo contro il proprio petto.
   «Portami via, Ez!», biascicò con voce cavernosa e roca, «Subito!».
   L’elfo lo trascinò fino allo stanzino accanto al salotto da tè, che come sospettavi si rivelò un bagno, lo spinse dentro e richiuse al volo la porta, che tenne ben salda dalla maniglia, mentre Nevra, schiavo dei suoi istinti, tentava con tutto se stesso di aprirla. Il legno della porta tremava fortissimamente e Ezarel con essa.
   «Calcifer, assicurati che non riesca a sfondarla», gli ordinò Madame.
   Il demone sbuffò, «Sempre tutto a noi il lavoro».
   Assumendo lo sguardo di chi la sa lunga, addolcì i toni, «Tu puoi riuscire a farlo, è straordinario il potere che hai».
   «Sophie…», lo sguardo arguto di Calcifer si fece improvvisamente languido, mentre il suo muso si colorava di un tenue fiordaliso e la sua espressione scocciata si tramutava in una corrucciata dalla concentrazione.
   La donna ti fece l’occhiolino scortandoti al comò tra le scale e la stanza chiusa, aprì un cassetto e ne estrasse un’ampolla dal liquido ambrato, la svitò, tolse il contagocce e te ne lasciò cadere qualcuna sui tagli. Bruciò appena a primo impatto, ma in men che non si dica le ferite scomparirono sotto alla tua occhiata stupefatta.
   «È una pozione curativa. La inventò un mio trisavolo mago per curare i taglietti sulle mani della moglie. Si pungeva continuamente mentre cuciva. Nonostante fosse la sua allieva, lei perseverava nel voler fare le faccende di casa senza ricorrere alla magia», emise una leggera e cristallina risata, alzando gl’occhi da gatto sul quadro appeso alla parete dinanzi a voi. Raffigurava una giovane coppia di innamorati che guardava dritto verso di voi. Lui era alto e snello, i capelli castani si posavano sinuosi sulle spalle, racchiudendo il volto asciutto ed esangue, su cui spiccavano due furbi occhi verde bottiglia, colore che si abbinava agli smeraldi che pendevano a goccia dai suoi orecchini. Indossava una semplice camicia bianca con le maniche a sbuffo e lo scollo ampio, dentro al quale si perdeva una sottile catenella dorata. La giacca sgargiante rosa a rombi lilla era solo appoggiata sui deltoidi.
   Teneva la mano sinistra piegata sul fianco, mentre con l’altra stringeva la vita sottile della donna minuta e all’apparenza molto più giovane di lui accanto a sé, avvolta in un elegante abito paglierino che ne vivacizzava l’austerità, su cui spiccava la lunga chioma di limato oro rosa. Notasti immediatamente una certa somiglianza tra lei e Madame, avevano lo stesso colore di capelli e gli stessi zigomi alti e imporporati, come se fossero perennemente in imbarazzo, anche il taglio degl’occhi era simile, sebbene l’iride fosse totalmente diversa. Lo sguardo di Madame era di un frizzante citrino con delle sfumature verdastre, allegri e arguti come quelli dell’uomo nel dipinto, mentre quelli dell’altra erano di un placido e rassicurante marrone.
   I due giovani portavano entrambi all’indice sinistro un anellino in oro bianco con incastonato un piccolo rubino a cabochon basso e rotondo.
   «Questo è il mio trisavolo, Howell…», indicò l’uomo, «… e questa è sua moglie, Sophie».
   Lo stesso nome pronunciato da Calcifer poco fa.
   «Sono miei lontani parenti da parte di padre. Howell era nativo del tuo mondo, mentre Sophie era di Ingary».
   Del mio mondo? Che significa “del mio mondo”?
   «Sophie era una maga di somma magnificenza, un vero talento naturale. Non studiò mai la magia fino ai diciotto anni, quando incontrò Howl, già un abile mago al tempo, ma lei era in grado di dar vita agli oggetti semplicemente parlandoci. Non se ne era mai resa conto, sinché uno sventurato giorno una famigerata strega non entrò nel negozio di cappelli della sua famiglia e, convinta fosse la nuova amante di Howl, la maledisse, tramutandola in una vecchietta. Non sapendo dove andare, Sophie fuggì nelle Lande Desolate, dove, lungo il cammino, si imbatté in questo castello mosso dal potere di Calcifer. Quest’ultimo la fece entrare per stringere un patto con lei e usare la sua magia per rompere il sortilegio che lo legava ad Howl. Il resto è storia».
   Non comprendesti molto del suo racconto, a parte che sembrasse parlare di un luogo che non esisteva, come di una realtà parallela a quella in cui vivevi tu e di un castello che si spostava in giro da qualche parte. Però, nello stato confusionale in cui ti trovavi, facesti ugualmente un breve calcolo mentale: stando alle parole di Madame, Calcifer aveva come minimo duecento anni.
   Stranamente non ti stupì più di tanto. Dopo tutto ciò che avevi appreso in quell’esigua manciata di ore, niente poteva sorprenderti, nonostante non fossi ancora riuscita a digerire la verità sulla natura di Castiel; e, forse, non era neanche quello il vero problema, anzi, adesso che ne eri a conoscenza cominciasti a dare una spiegazione ai suoi continui sbalzi d’umore, al suo distacco intrinseco, all’espressione fredda e spesso tormentata. Era un’anima in pena in senso letterale. Però, per l’appunto, il problema più grande non era la sua natura immortale, ma il fatto che ti avesse tenuto all’oscuro di essa, che non si sia fidato abbastanza di te da rivelartela, che non ti abbia dato la possibilità di scegliere di stare con lui nonostante i pericoli. Ti sentivi tradita dalla persona per te più importante, quella che in quattro anni di lontananza non avevi mai smesso di amare e di cercare negl’altri.
   Scuotesti un poco il capo per scacciare via i tristi pensieri, e una domanda sorse spontanea: «Cosa legava Calcifer ad Howl?».
   La donna sorrise sghemba, «Perché non lo chiedi al diretto interessato?».
   Il demone in questione schioccò la lingua, «Del segreto del contratto non possiamo parlare».
   A quella replica, Madame rise di gusto, «Il contratto è stato sciolto, Cal».
   «Non ha importanza, è comunque un vincolo di cui noi altri non possiamo parlare», incalzò compiaciuto da se stesso.
   «Sei libero, giusto?», ti rivolgesti direttamente a lui.
   Lui sorrise sagace, «Vuoi stringere un patto con noi?».
   «Perché presti servigio alla famiglia del tuo vecchio padrone? Sei un demone, no?».
   «Non vediamo motivo per spiegare le nostre ragioni».
   Madame ridacchiò di nuovo, «È rimasto per amore di Sophie, ma è troppo orgoglioso per ammettere che ha un cuore tenero».
   Calcifer mugugnò irritato, «Non abbiamo più un cuore da tanto tempo».
    Tutt’a un tratto Madame si fece scura in volto, «E mai lo avrai, non finché sarò in vita. Non ti è bastata la lezione?».
   La faccia del demone si fece fucsia in un misto di vergogna e sdegno, «Sempre tutti quanti a bistrattarci!», lagnò, «In particolare Howl, lui e la sua acqua calda. Passava ore in bagno. Per…».
   «Per essere un uomo coi capelli color fango, era terribilmente vanesio», gli fece il verso. Era una frase che il piccolo essere ripeteva spesso, apprendesti in seguito. Sparlava in continuazione dei maghi di cui si era occupato, specialmente del suo originale padrone, tirando fuori frecciatine, riferimenti e aneddoti sui loro punti deboli e difetti, nonostante trasparisse sempre un certo affetto nell’inflessione della sua voce. Doveva mantenere la facciata da demone malvagio.
   «Dovresti prendere in considerazione di trasformarti definitivamente in un pappagallo, dato che ti diverti a imitare. Anzi, in un merlo indiano, così saresti pendant con la tua anima nera».
   Di tutta risposta, lei roteò gl’occhi al cielo per poi tornare a sorriderti. «È stata una giornata lunga, sarai stanca».
   Annuisti, eri esausta, «Dovrei tornare al campus».
   «Non ce n’è bisogno, puoi passare qui la notte», tentasti di rifiutare, «Ti ho già preparato una stanza. Seguimi».
   Ella si avviò su per le scale senza darti la possibilità di rifiutare il suo invito, e ti portò al piano di sopra.
   La scalinata dava accesso a un lungo e stretto corridoio su cui si affacciavano diverse stanze, una parallela all’altra.
   Ti indicò una porta sulla sinistra della scalinata, «Qui c’è la mia camera, mentre là in fondo c’è quella di Castiel», puntò sulla porta in mogano più lontana da dove vi trovavate voi, «Mentre questa è la tua», concluse accompagnandoti sull’uscio a destra corrispondete proprio a quello del vampiro, «Questa stanza dà sul giardinetto interno al castello. Ho pensato potesse piacerti».
   Spalancò la porta e l’illuminazione della camera si accese in autonomia, facendo luce sull’interno.
   Al centro della stanza, sopra ad un tappeto a pelo lungo bianco, poggiato al muro occidentale, c'era il letto a una piazza e mezza con il copriletto ignifugo avorio a tinta unita, due paia di cuscini, due bianchi e due rosa caldo più piccoli, abbinati al plaid sul letto; il tutto protetto dalla cortina del baldacchino, appesa al soffitto da un gancio e allargata a mo' di tenda grazie ad asticelle sottili in legno. Accanto c'era il comodino a due cassetti in legno chiaro con una lampada di sale himalayano e una sveglia digitale, e dall'altro lato, contro la parete, un armadio a sei ante; su quello opposto ai piedi del letto v’era la toeletta candida con un organizer da trucco, la spazzola e due boccette di profumo che si riflettevano nello specchio.
   Non è possibile…, ponderasti sbalordita. I tuoi mobili non possono essersi spostati da soli e risistemati nello stesso modo in uno stabile differente. Eppure questa stanza era uguale identica a quella di casa tua.
   Totalmente stranita ti sedesti al bovindo orientato sul piccolo giardino di cui parlava Madame, che non era poi così piccolo. Era abbastanza capiente da contenere un altro focolare attaccato alla canna fumaria del camino al piano di sotto, delle sedie in vimini in veranda e un elegante tavolino in ferro battuto laccato di bianco con delle seggioline vicino al limitare dello spiazzo, immerso nel verde dell’erba e nei colori freschi delle aiuole. A destra v’era una piccola torretta, ombreggiata da piante da frutto e collegata alla veranda da un sentiero piastrellato, mentre dall’altro lato c’era un pontile che si sporgeva sul vuoto.
   Scuotendo la testa sommessamente, prendesti un libro dalle mensole che racchiudono il balcone finestrato a mo’ di libreria, – pure i libri erano gli stessi e disposti nel medesimo ordine – e lo apristi su una pagina a caso, trovandovi il segnalibro che da almeno un anno aveva preso residenza tra i fogli di quel romanzo.
   Mentre leggevi distrattamente le parole stampate, una melodia lieta e romantica, e per te nostalgica, s’infuse in tutto il tuo animo, ricolmandolo di una dolce malinconia, ma anche di una meditativa elegia per la familiarità di quelle note, strimpellate dalla chitarra acustica.
   Sollevasti gli occhi dal libro, che si persero a scrutare il paesaggio al di là della finestra, fino a posarsi sull’immagine di un ragazzo appoggiato alla ringhiera del pontile. Mentre suonava i suoi capelli cinabri venivano scompigliati dalla brezza notturna, ricchi di riflessi freddi e argentati che si mischiavano e sfumavano con le nuance innaturali borgogna e bordeaux dati dalla tinta, e il suo sguardo di Luna si perdeva nell’effige del corpo celeste che l0 colorava.
   Aveva le braccia quasi completamente tatuate adesso, la capigliatura più lunga che gli solleticava le spalle, i tratti del viso erano diventati più duri e si sposavano perfettamente con l’espressione severa, ma era rimasto bello come un tempo. Di una bellezza tutta sua e particolare che poteva non piacere, ma che non passava inosservata.
   D’istinto uscisti all’esterno, dove subito il venticello freddo ti fece rabbrividire costringendoti a stringerti nel morbido cardigan di maglia ocra, e t’incamminasti in direzione del chitarrista, il quale, senza voltarsi, cessò di suonare. Ti aveva sentita arrivare.
   Prendesti un respiro profondo e facesti un passo in avanti, Ora o mai più, ma inciampasti in un’asse sporgente, perdendo l’equilibrio e sporgendoti col busto sul parapetto.
   La voce t’uscì in un urlo strozzato, mentre ti sentivi cadere nel vuoto e il paesaggio circostante ruotava vorticosamente tutt’intorno. Cielo e terra si capovolsero, sotto i tuoi piedi c’era il firmamento e sopra la tua testa montagne innevate e vallate sconfinate, puntellate qua e là di laghi, poi nella tua visuale comparì qualcosa di metallico e arrugginito che emetteva un rombo assordante, mentre delle grandi pale, simili a quelle dei motori degli aerei, giravano e giravano, buttando fuori aria cocente.
   Stavi cascando giù da una sorta di marchingegno che volava a circa quindicimila piedi d’altezza senza paracadute, anche avendo la fortuna di tuffarti in acqua, saresti morta sul colpo per l’impatto. Era la tua fine: stramazzata e sfracellata al suolo.
    Percepivi già la vita scivolarti tra le dita, quando ti sentisti circondare l’addome da un braccio robusto ma più forzuto di quanto avrebbe dovuto essere, e tirarti indietro dalla balaustrata.
   «Stai bene?!», domandò Castiel ancora tenendoti stretta a sé.
   «S-sì», balbettasti sotto shock.
   «Non cambi proprio mai!», ti sgridò, ma eri ancora troppo sconvolta per controbattere.
   Il ragazzo esalò un respiro sollevato, «Questo è un castello volante, devi stare attenta a dove metti i piedi», accennò un sorriso, completando poi la frase, «Più del solito».
   «Volante?».
   «Merito di Calcifer».
   Tornasti a guardare il paesaggio, «Dove siamo?».
   «Nelle Lande».
   «In Guascogna11?», chiedesti con un sopracciglio aggrottato.
   «A Ingary».
   L’espressione allibita con cui lo fissasti era talmente sgomenta da non poter fare a meno di divertirlo.
   «Hai presente la manopola sulla porta del negozio, quella coi pannelli colorati?», annuisti, «Ognuno di essi porta in un posto diverso. Quello nero nel Nostro Mondo, quello verde nelle Lande Desolate di Ingary, quello blu alla capitale del regno e quello rosso a Market Chipping, la città natale di Madame».
   «Quindi questo castello crea portali magici?».
   «Non esattamente. Il castello vaga sempre nelle Lande, è questo il suo luogo fisico; è Calcifer a creare i portali da un luogo a un altro».
   «Che potere straordinario…».
   «Non mi aspetto nulla di meno da un demone primordiale. È il cuore pulsante del Castello Errante di Howl».
   Non aggiungesti altro, eri già fin troppo disorientata dalla situazione e ancora di più dalla calma con cui la stavi gestendo, per articolare una frase sensata.
   Improvvisamente lui sciolse l’abbraccio come se avesse preso la scossa, e si allontanò di qualche passo da te.
   «Non dovresti essere qui», decretò.
   «Non dovresti suonare quella canzone se non vuoi parlarmi».
   Sospirò affranto, «Nilsa, non sei al sicuro con me».
   «Può darsi…», concordasti guardandoti le punte delle scarpe, «Ma non è questo il problema».
   Si girò a studiarti accigliato, a metà tra il sorpreso e lo stizzito, «Che st–».
   «Non fraintendere», lo bloccasti, «Ce l’ho ancora con te. Come minimo mi devi delle spiegazioni».
   Sospirò di nuovo, più forte, «Chiedimi quello che vuoi».
 
[9] Anche conosciuta come Cordia dodecandra, è una pianta dell’America centrale, da cui si ricava un legno brunastro con venature chiare/scure, a volte in combinazione con il giallo. E’ un legno duro con particolari venature decorative, struttura molto vivace con forme molto simili al palissandro. Viene spesso utilizzato in ebanisteria, per costruire manici da coltelli e strumenti musicali
[10] Capoluogo dell’Alta Francia, regione a Nord confinante con il Belgio
[11] Regione naturale della Francia di circa 1.5km di ettari in prossimità dello sbocco del bacino aquitano sull’Oceano Atlantico.
   
 
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